Storie Minime

Collezione di Racconti, Serie di Racconti, e di Novelle (Copyleft) 

di Bruno Magnolfi

Cose già successe

        

 

 

 

Uffici consolari

 

         Non ho voglia di niente. Inutile che qualcuno prosegua a dire che devo sforzarmi di sollevare il mio morale, non posso farcela, questo è il punto, e non vedo proprio alcun motivo per compiere uno sforzo di questo genere. Ci sono degli sprazzi di memoria che a volte mi aiutano a tirare avanti, perciò mi trovo ancora a sorridere di qualcosa accaduto anche parecchio tempo addietro se solo ci penso, ma oltre questo non trovo niente di buono nel mio presente.

C'è stata una volta in cui ho incontrato una persona, una ragazza straniera, che mi ha detto fermandomi per strada di conoscermi, ed io naturalmente ci ho subito creduto, anche se per essere sincero al momento non ricordavo niente di lei. Dopo un po’ mi ha detto di provare un certo disagio, e che non stava bene in quel periodo, per questo mi sono offerto di accompagnarla lungo la strada, per parlarne un po’ e magari instaurare meglio la nostra amicizia.

Le ho spiegato che avevo un lavoro precario, ma che soprattutto stavo cercando una nuova sistemazione perché al momento c’erano dei dissidi con i miei coabitanti di un piccolo appartamento del centro. Lei ha detto che potevo tranquillamente trasferirmi nella casa sua, che era molto spaziosa e dove al momento abitava da sola, anche se soltanto per un periodo di qualche mese. Va bene, ho detto subito quasi d’istinto, senza però informarmi su altri particolari, e ci siamo salutati dandoci appuntamento alla sua abitazione per quella sera stessa.

La casa era davvero favolosa, sistemata lungo la strada praticamente più significativa di tutta quanta la città; lei mi ha fatto vedere una stanza enorme della quale potevo prendere possesso anche immediatamente, poi mi ha comunicato senza dettagliarle troppo le sue attività ed anche i suoi orari, ed alla fine mi ha spiegato che utilizzava una camera-studio anch’essa molto vasta sistemata dall’altro lato del corridoio. Così mi ha consegnato le chiavi per entrare quando volevo nell’appartamento, e mi ha consigliato di portare subito la mia roba, senza soffermarsi sulle mie decisioni che naturalmente erano quelle da lei previste.

Nella serata ho caricato tutto sulla mia vecchia macchina, ho parcheggiato con due ruote sopra al marciapiede, ed ho iniziato a scaricare i miei bagagli. In casa lei non c’era, e tutto sommato me la sono cavata abbastanza in fretta a sistemare le mie cose. Poi sono andato a parcheggiare la mia auto poco lontano e quindi sono tornato. Ho visto che alcune stanze erano chiuse a chiave, ed ho immaginato fossero anche le più belle dell’immenso appartamento. Poi mi sono sdraiato sopra al letto, ho ringraziato il cielo della mia buona fortuna ed ho respirato a pieni polmoni l’aria dolce che passava dal finestrone socchiuso di quella stanza. Quindi sono uscito.

Quando sono tornato ormai era tardi ed ho immaginato che la ragazza fosse dentro la sua stanza. Difatti è uscita dopo un po’, mi ha salutato pur senza enfasi, mostrando dei buffi occhiali sopra al naso, e mi spiegato che quella sera aveva semplicemente da lavorare su un progetto. Io ho preso pieno possesso con calma della mia stanza, sistemando le cose poco per volta e studiando caso per caso le migliori soluzioni. Poi sono andato a letto, ho scorso qualche articolo di una rivista che avevo con me acclimatandomi lentamente con ogni novità della mia sistemazione, ed infine ho dormito magnificamente fino a metà della mattina. Quando sono andato in cucina per la colazione lei era già uscita di casa. Tutto è durato qualche mese, così come previsto. Adesso in quell’appartamento, passati tanti anni, ci sono gli uffici consolari di una importante nazione straniera, anche se a me pare impossibile.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Perfetta comprensione

 

Lei certe volte è sfuggente. Ti guarda, abbozza un timido sorriso, poi torna ad avere la sua espressione di sempre. Tu non riesci a comprendere che cosa le sia passato nella mente in quel preciso momento, perciò tenti una piccola provocazione, una frase impersonale buttata lì, che non significa un bel niente, ma che forse potrebbe anche aprire nuovi argomenti. Lei torna a guardarti, adesso con espressione più pungente, quasi irritata: non ha importanza, rifletti; hai vissuto già almeno cento volte questo stesso momento, si tratta di adottare l’atteggiamento migliore che ti sia riuscito in tutti questi casi, e poi mostrarti docile, incredibilmente capace di una grande comprensione.

Una volta lei ti ha raccontato la sua storia, ma a te è sembrata strana, quasi inventata. Che significato ha, rifletti adesso, che ci sia stato un passato insolito, pieno di imprevisti, se poi tutto ti serve soltanto per fare delle facce strane, delle espressioni che appaiono persino poco comprensibili. Però le chiedi ancora di suo padre, non per una tua semplice curiosità, quanto perché vorresti cercare di mettere in relazione i suoi attuali comportamenti con qualcosa che magari giunge chissà, da parecchio lontano. Lei sorride, poi inizia a dirti che lui lo hai visto generalmente poco quando eri più piccola, perché era sempre in giro per lavoro.

Forse già questo è sufficiente pensi; essersi raccontati che certi malesseri non possono che derivare da qualcun altro, dalle scelte di quello, dai suoi comportamenti, da quella dose di cattiveria innata che hanno sempre avuto nei tuoi confronti tutti coloro che davvero contavano per te. Ma lei invece prosegue, dice che avvertiva da subito tutta la sofferenza della mamma, sempre da sola a prendere le piccole decisioni di ogni giorno. Non è facile crescere in un clima di questo genere, spiega poi con voce morbida, perché qualcosa alla fine ti porti dietro anche in seguito, diventa inevitabile.

Volti lo sguardo da qualche altra parte, perché ti sembra una strategia inventata chissà quando soltanto per darsi un tono, per difendere la propria personalità da una realtà che appare ostile ed a cui si cerca di opporre una grande fragilità neppure desiderata proprio da chi parla. Lei appartiene ad una casistica abbastanza consueta, se non fosse che sembra credere davvero a quanto prosegue ad affermare. La guardi, è tutto chiaro, mostri che hai capito, anche se è del tutto un’altra cosa rispetto a quello che lei sta immaginando.

Naturalmente è impossibile impostare un minimo di sensualità in simili frangenti, tanto vale, se un minimo ne ha voglia, lasciarla andare avanti così per conto proprio, limitandomi ogni tanto ad accennare un elemento affermativo con la testa, fingendo di seguire tutto quello che da lei continua a venir fuori, oppure improvvisamente portando ogni problematica su argomenti del tutto secondari, quasi anticipatori della noia e della stanchezza dilagante.

Lei ad un tratto si rianima, dice che abbiamo parlato anche troppo di se stessa, adesso è il caso di colloquiare con maggiore leggerezza, di stare più tranquilli, dimenticare i problemi forti e pressanti che talvolta ci sovrastano. Sono stanco, dico con sincerità. Affrontiamo questa seconda categoria di pensiero in un’altra occasione: per adesso va bene così, ci siamo capiti.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Via dell’Oriuolo

Antonio, avevo detto sottovoce rivolgendomi a lui timidamente nell’ambiente polveroso di quella sala da cinema-teatro minore che peraltro da lì a poco sarebbe rimasta definitivamente chiusa; ho portato qualche pagina, qualche foglio, insomma dei piccoli racconti e qualche appunto scritto proprio da me, che forse potresti anche leggere se vuoi. Ero andato da solo lì dentro in quel pomeriggio letterario, proprio come adesso, durante questa serata tiepida di trent’anni dopo, in quest’altra sala dove improvvisamente si riparla di lui, ora che è morto e che si dice sia stato il più grande di tutti da tanto tempo a questa parte. Ma in quel pomeriggio lui sembrava quasi uno qualsiasi, uno senza grandi pretese, a portata di mano, tanto da farsi venire dietro tutte quelle insegnanti in pensione senza molto altro da fare di sabato se non spingersi fino là dentro, forse perché avevano letto o anche solo sentito parlare dei piccoli equivoci, e magari ne erano rimaste persino colpite, proprio come me, che mi sembrava quasi di aver prestato a lui in quel libro alcuni dei miei tanti pensieri.

Antonio si era girato, visto che stava parlando con altri due o tre come di prammatica che lo avevano bloccato immancabilmente dopo la sua lezione meravigliosa da solo sul palco, dietro ad un tavolo semplice, con qualche appunto davanti e proprio nient’altro. Mi aveva guardato per un attimo dietro ai suoi occhiali, forse riconoscendomi, così come si riconosce qualcuno che in qualche modo ti rassomiglia, che ha qualcosa di te, porta all’interno nel proprio intimo una maniera di vedere le cose che non ti è pienamente del tutto estranea. E forse ne aveva avuto improvvisamente paura, nella stessa maniera in cui ci si ritira vedendo un’immagine insolita passarci vicino, magari nella penombra estiva del proprio appartamento, riflessa attraverso il vetro di una finestra rimasta aperta o di uno specchio che non ci si ricordava neppure di aver posizionato proprio in quella posizione, provando quasi ridicolmente timore di sé. Aveva sorriso, e poi risposto qualcosa a quelle persone, ed io ero rimasto impietrito, fermandomi immobile nell’attesa forzata di aspettare di nuovo da lui l’incoraggiamento di cui avevo bisogno, da quel suo sguardo acuto e penetrante, ma che sapeva essere anche umano e mansueto.

Antonio sono qui, avevo pensato con voce forte, e forse tutto lo sgomitare che ho avuto da sempre intorno a queste frasi che in seguito hanno come proseguito ad inseguirmi, come una musica che sembra non voglia mai uscirti di mente, e che probabilmente non dice un bel niente a nessuno, ma che sembra sempre più ricca di sostanza, densa di cose da dire, di sciocchezze da urlare, o anche da riflettere, e che non può passare per sempre come un inutile esercizio di stile, ecco, queste stupide frasi adesso sono qui, volevo dirgli, dentro ai miei piedi, proiettate verso di te che forse sei l’unico che può concedere loro la comprensione che si meritano, se mai di comprensione si sia sentito davvero tutto il bisogno. Ma tu non riuscisti ad udire quel grido, per colpa mia certamente, e ti offristi come era ovvio a qualche officiante in cerca di una dedica su piazza d’Italia. Questo è tutto ciò che ricordo e che adesso mi mette di nuovo in relazione con te, Antonio: praticamente niente, soltanto un sospiro, uno sguardo, un’immagine, un nulla di quanto avrei avuto davvero la necessità. Anche se forse non c’era proprio stato, almeno in queste due sere stupende, neppure bisogno d’altro.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Piazza, bella piazza

 

         Lui è là, bello e immobile sul marciapiede mentre continua a guardarmi, ed io che dentro di me vorrei tanto muovere subito questi miei passi incatenati ed andargli proprio incontro, mostrargli il mio entusiasmo, la mia assoluta voglia di stare assieme a lui, mentre però al contempo sono così sicura di essere sotto osservazione da parte di certa gente a cui non mi va per niente di far sapere le mie cose, in questa piccola piazza di paese dove nessuno pensa mai solo agli affari propri, che tutto questo mi appare adesso già più che sufficiente per togliermi qualsiasi volontà di muovermi da questo opposto angolo della piazza.  Mi volto di tre quarti allora, mi rivolgo ad una persona che conosco e lascio che mi ponga una domanda qualsiasi, senza nessuna importanza, giusto per farmi trascinare a parlare di qualcosa e togliermi così da questa situazione ambigua. Giro la testa per un attimo però, prima di rispondere, e lo guardo ancora mentre rido di qualcosa come per conto mio, perché lui sta ancora là, immobile, con le sue mani sprofondate nelle tasche.

Non c'è stato molto tra di noi sinceramente, o almeno niente di così importante da ricordare adesso, eppure ognuna di quelle piccole cose che sono successe sembrano come rimaste tutte in aria, praticamente non risolte, tutte cose che a me sono sembrate da subito piuttosto forti, faccende che ancora devono essere affrontate nel dettaglio, e che prima o dopo dovremo prendere in considerazione insomma, naturalmente nel caso in cui a nessuno venga a mente di interporsi tra di noi. Potrebbe essere considerata la nostra come una smania che ci prende ad ambedue in certe occasioni, oppure anche un improvviso colpo di testa che non si riesce proprio a controllare, ma in ogni caso sappiamo sia io sia lui che tutto o quasi potrebbe accadere sempre, anche in questo preciso momento, senza che nessuno tra coloro che provano a tenerci sempre distanti possa riuscire ad influenzare i nostri rispettivi comportamenti.

Mi muovo di qualche passo di lato assieme alla mia amica che prosegue a dirmi delle sciocchezze che neppure mi interessano per nulla. Lei vorrebbe sicuramente chiedermi qualcosa di noi due, sapere come si stiano evolvendo le nostre cose, conoscere magari qualche particolare, ma si trattiene al massimo perché sa come io sia una ragazza che se viene punta nel vivo può anche reagire molto male. Lui adesso mi guarda con minore intensità, mi rendo conto, parla con qualcuno che gli è accanto, sembra quasi che questo tardo pomeriggio gli serva soltanto per mostrare a tutti quanti che può fare a meno anche di me, nonostante io sappia bene che è soltanto una sua spudorata strategia. Non farà mai il primo passo verso la mia persona, ne sono certa, eppure eccolo lì, con le sue occhiate fiammeggianti nella mia direzione, bello come nessuno e soprattutto inavvicinabile.

Potrei fingere uno svenimento penso, tanto per farlo muovere verso di me; ma verrebbero anche gli altri, curiosi come sono. Potrei allora entrare nel caffè della piazza insieme alla mia amica, ma potrebbe essere preso come un invito a seguirmi, e questo non deve mai accadere. Resto ferma perciò, ed attendo che qualcosa accada, anche se non sembra proprio possa succedere stasera. Poi lui invece scende dal marciapiede, flemmatico attraversa la strada con il suo passo lento, si avvicina a noi due senza guardarmi, ed alla fine si rivolge alla mia amica, giusto per chiederle se sa dove possa trovarsi suo fratello. Mi sento struggere, mi volto da ogni parte, sono sicura che la mia faccia abbia assunto già colori accesi, ma resisto e non lo guardo, anche se lui sembra tranquillo.

Poi se ne va, lasciando in aria giusto un cenno di saluto, ed a quel punto anch’io con la mia amica ci muoviamo per andarcene lungo qualche altro marciapiede. Mi sento svenire, non vorrei neppure andare via, ma adesso devo, non posso fare altro. Mi allontano dalla piazza, resto in silenzio, non so cosa pensare: poi mi rendo conto all’improvviso che nelle sere prossime non ci devo andare più a passare il tempo in quella piazza.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Uguale agli altri

Ho sbagliato penso, anche se già lo avevo immaginato che le cose sarebbero andate a finire in questa maniera. Lui si muove in mezzo ai propri fragili punti di riferimento, anche se è consapevole che sarebbe stato necessario cambiare molti aspetti di tutto il suo ordinario tirare avanti. Ci sono forse gli affetti che formano una pietra miliare in ogni caso. Ma per il resto tutto o quasi sembra spesso senza fondamenta. Non c’è poi nemmeno un errore vero e proprio, se si guardano bene i fatti, eppure diventano basilari nelle sue giornate le piccole dimenticanze, i vacillamenti, le mancate decisioni. Questo è il mio errore più importante, dice adesso a se stesso. 

Certe volte mi pare che qualcosa possa finalmente cambiare, ed allora cerco di mettere tutto l’impegno che posso in quello che faccio. Ma a lui non giunge mai quella piccola spinta fortuita di cui avrebbe tanto necessità, e tutti i suoi tentativi sono destinati a ricadere praticamente nel niente, a lasciare i suoi sforzi privi di qualsiasi risultato. Questo il punto saliente: non riuscire mai ad essere sufficientemente credibile agli occhi degli altri, anche se il suo impegno garantirebbe già molto del suo perseguire alcune strade.

L’errore principale sta tutto dentro di me, dice a volte in modo quasi consolatorio. Lui osserva gli altri, si muove all’interno di perimetri già definiti, e poi improvvisamente cerca il punto di vista che lo porti a vedere le cose in altro modo. Si reca al lavoro, si incontra con i suoi colleghi, cerca di avere insieme a loro un comportamento il più possibile sociale, normalizzante, colmo di cose poco impegnative che lo portino a galleggiare come gli altri.

Sono stufo, dice però all’improvviso. Gli altri lo guardano, pensano tutti che stia scherzando, che non abbia da intavolare cose particolarmente sfuggenti alla comprensione generale, che non sia davvero un altro caso umano da cui iniziare poco per volta a prendere le distanze. Ma lui insiste, dice di essere stanco di questo insulso essere sempre d’accordo su problematiche sostanzialmente insulse, superficiali, prive di significato.

C’è bisogno di allontanarsi per un momento dai luoghi comuni, e guardare le cose con maggiore obiettività. Tutti fanno un passo indietro, non ci si può continuare a confondere con qualcuno che mette in discussione gli stessi fondamentali del nostro stare assieme. Si guardano tra loro, nessuno pensa abbia un piccolo briciolo di ragione, così l’unica strada è tentare di evitarlo, scansare le sue supposizioni, isolarlo con le sue idee strane e malsane, che non porterebbero certo da alcuna parte se mai ci si trovasse a prenderle veramente in considerazione.

Così lui sa di avere sbagliato nuovamente, non c’è alcun dubbio. Dovrà cercare poco per volta di recuperare nei prossimi tempi la credibilità perduta se mai sarà possibile, e sperare che i suoi colleghi, per propria natura simili a lui, siano anche magnanimi nei suoi confronti, tanto da riuscire a comprendere le sue buone ragioni, se non il senso delle sue strane e incomprensibili uscite. Mi impegnerò, studierò, dice lui, fino a diventare proprio come loro, senza più polemiche, senza mai affrontare nel futuro degli argomenti scomodi. Sarò come tutti, una di queste volte, e nessuno avrà più niente da ridire.

 

 

 

 

 

 

 

         Collina di cipressi

 

         Sinceramente molto spesso non riuscivi ad essere davvero critico su quanto poteva giungere d’improvviso alle tue orecchie, forse per dei tuoi semplici tempi di reazione troppo allentati; così quando l’ingegnere in mezzo a molti giri di parole che ti avevano confuso aveva poi spiegato in fretta quanto all’incirca ti avrebbe elargito per ogni ora lascandoti svolgere quei lavoretti che ti chiedeva in cambio, tu non riuscisti proprio ad essere adeguatamente pronto per una risposta forte e negativa, come probabilmente avresti voluto, quella che in fondo sarebbe forse stata giusta, anche se in seguito continuasti senza sosta come ad elaborare incessantemente dentro di te, prendendone coscienza con vaga rabbia poco per volta, che per tua sfortuna su quell’argomento che a te stava tanto a cuore non c’era oramai assolutamente più niente da discutere.

Gli tenevi pulite le automobili ogni giorno, tutt’e nove, mentre pensavi che erano assolutamente troppe per una famiglia sola, recandoti col tuo maggiolino da studente fuori sede fin dentro al suo parco che circondava, abbracciando la collina, un castello medievale perfettamente ristrutturato, frequentandone soltanto gli ampi scantinati per approvvigionamento d'acqua, e delle spugne, ed anche per le pelli di daino, dei pennelli e delle spazzole, con quanto altro serviva, e rimuovere in quel paio d’ore o tre qualsiasi parvenza di polvere residua da tutte le carrozzerie di quelle macchine costose ed eleganti. La moglie, alla mano ma con accento straniero indecifrabile, si affacciava svogliatamente certe volte da una finestra del castello che dava esattamente sull’elegante cortile di ghiaia dalla pietra tonda adibito a parco auto, ma  lo faceva soltanto per darti, senza aggiungere nulla di personale o per incoraggiarti nel tuo semplice lavoro, qualche indicazione ulteriore su ciò in cui dovevi occupare in maggiore misura tutto il tuo tempo, indicazioni a sua volta avute forse telefonicamente, visto che suo marito durante l’intera settimana non c’era quasi mai, preso da importanti affari internazionali chissà dove.

Lavoravi da solo per tutto il pomeriggio, ma ti ritenevi alla fine fortunato, perché certo nessuno privo di giuste conoscenze che ne certificassero la moralità sarebbe giunto fino là dentro al posto tuo. Coincidenze le tue, con ogni probabilità, anche se portavi avanti la tua occupazione senza ribattere mai niente. C’erano i tre figli che ogni tanto incrociavi da qualche parte nell’ampio cortile, di cui soltanto due fortunatamente avevano patente, e che a te veniva quasi spontaneo chiamare signorini, non conoscendo neppure i loro nomi, senza alcuna facile ironia, ma solo per un senso di rispetto che avevi mutuato in qualche modo da qualche pellicola vista al cinema oppure chissà dove.

La distanza era tangibile, incolmabile, come quando un giorno ti venne incontro l’ingegnere parlando in lingua inglese dentro un telefono senza alcun filo, di cui tu fino ad allora non avevi mai neppure sospettato l’esistenza, e poi ti disse con la mano sopra il ricevitore, che dovevi preparargli al meglio la Ferrari, perché aveva un appuntamento di una certa rilevanza, tanto che immediatamente ti dedicasti subito proprio a quella macchina, con tutti i prodotti lucidanti e profumanti che avevi disponibili.  

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Atomismo di Democrito

 

         Spesso la ragazza si annoiava, seduta ogni giorno al bar del bagno Orchidea, uno stabilimento come alcuni altri appollaiato sulla riva sabbiosa di quel mare calmo e piacevole come sembrava spesso mostrarsi durante quell’estate. Quando al pomeriggio arrivavano diversi ragazzi a ridere e a scherzare forse le cose andavano un po’ meglio anche per lei, che comunque si limitava a guardarli e a sorridere ogni tanto, anche se alla fine tutto quanto durava sempre poco per riuscire davvero nell’impresa disperata di innalzarle quel morale sempre troppo basso, tanto che la sua voglia di divertirsi così sopita nelle sue espressioni, pur manifestata in ognuno di quegli attimi apparenti, sembrava poi svanire presto, come in un lampo. Lei dopo poco tornava difatti come a cercare con lo sguardo qualcosa su quell’orizzonte proprio di fronte, sempre incantata da quel chiarore immobile del sole e anche di quell’aria tersa di brezza semplice e leggera. Lui l’aveva notata già in altre occasioni, anche se non la conosceva, e guardandola ogni volta in gran segreto comprendeva che c’era un magnetismo nei suoi modi che non poteva certo riuscire a disconoscere, anche se la sua timidezza non lo portava assolutamente a farsi avanti.

         Poi lui parve disinteressarsi dei comportamenti di quella enigmatica e ombrosa ragazza per un periodo di tempo lungo forse più di qualche giorno, come se lo stallo verificato già nelle poche volte che loro due si erano incontrati da lontano, gli desse la sicurezza che qualsiasi avvicinamento non potesse portare mai da alcuna parte. Così si sedette quasi svogliatamente, appoggiando il mento quasi imberbe sopra le mani dalle dita ben intrecciate tra di loro, e senza mai guardarla, complice il locale quasi vuoto, disse ad alta voce che avrebbe voluto tanto andarsene via da quelle giornate senza alcun significato, ma lo fece come parlasse praticamente da sé solo. Lei allora sottovoce gli chiese qualcosa, forse soltanto per educazione, e lui tardò tantissimo nella risposta, quasi per mostrare che se parlava lo faceva come attivando una sorta di monologo, non certo per tentare uno stupido abbordaggio nei confronti di una ragazza pur della sua apparente stessa età.

         Si incamminarono insieme, poco dopo, lungo la battigia, scorrendo lentamente a piedi scalzi le bave d’acqua che giungevano da chissà dove sulla sabbia, lasciandosi concedere ad ogni onda pur debole e piccola, quella piacevole sensazione di risacca data dai frammenti di pietra levigata che si muovevano con l’acqua per conto proprio sotto ai loro corpi, come rispondendo alla spiegazione di una filosofia lontana che denotava il mondo fatto tutto di atomi, di particelle minute e tutte identiche. Lui perlopiù parlava di se stesso, evitando di porre a lei delle domande dirette che sarebbero potute risultare anche antipatiche, e lei si agganciava a quei suoi insoliti argomenti elaborando i medesimi pensieri con delle riflessioni adatte, o giustapposte, spesso vicine. 

I loro corpi andavano evidentemente l’uno verso l’altro, era innegabile, anche se i loro differenti pensieri restavano spesso agganciati alla mestizia del perseguire giorni inutili, vuoti di interessi veri, forse troppo lusinghieri soltanto agli innamoramenti usuali e monotoni di qualsiasi estate. Andarono avanti per parecchio tempo comunque, anche oltre la stagione calda, anche parlandosi per lettera, fino a rendersi conto d’improvviso che quei granelli di sabbia così effimeri apprezzati tra le dita dei loro piedi nudi durante quei brevi giorni di vacanza al mare, sarebbero probabilmente rimasti sempre identici, inamovibili davvero, del tutto indifferenti a qualsiasi loro scelta di futuro. Si persero, come era inevitabile, ma soltanto perché incapaci di produrre una colla tale da far tenere i loro pensieri ancora assieme, come la stessa sabbia, primordiale e sciolta.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Soluzioni efficaci

 

         Sono fermo, mentalmente intendo. Non riesco più minimamente neanche a pensare a delle faccende vagamente diverse da quelle consuete, perciò continuo a dibattermi nelle stesse semplici riflessioni che mi hanno accompagnato costantemente per tutti questi ultimi tempi, limando e scartando ogni poco soprattutto quelle che mi hanno procurato maggiore fastidio, finendo però col concentrarmi quasi sempre soltanto su appena due o tre minime cose, praticamente quasi sempre le stesse. Non so per quale motivo mi venga spontaneo comportarmi così, forse lo faccio soltanto nel tentativo volto alla ricerca di una autonoma e rapida nausea, in modo cioè da trovarmi costretto prima o dopo ad indirizzare la mia testa verso qualcosa d’altro tipo, qualcosa che magari sia assolutamente l’esatto opposto di ciò che mi sta appagando in queste giornate senza alcun significato. O forse anche perché dietro ogni mia scelta non c’è mai stato un ragionamento particolarmente profondo, soltanto qualcosa dettato da qualche capriccio, perlopiù momentaneo.

         Incontro un amico di vecchia data, lo guardo senza interesse, lui mi dice con poche parole che le cose per noi si stanno mettendo piuttosto male, come se non me ne fossi già accorto da solo, però lo assecondo, annuisco, dico a mia volta che non credo comunque ad un improvviso recupero dei valori che ci hanno portato fino a questo momento, ma lui dice che c’è persino dell’altro, e che ognuno di noi ormai sta pensando soltanto a se stesso. Lo squadro con maggiore interesse: mi pare sensata questa cosa che dice; ciascuno di noi è completamente scisso dagli altri, non c’è alcuna possibilità oramai di costruire un’intesa tra tutti quelli che siamo, l’individuo nella logica quotidiana è ormai al centro di tutto, ed è in guerra dichiarata con quanto sembra costituire il resto del mondo.

         Mi sento perduto, praticamente abbandonato nella corrente generale che indica come le idee siano frutto di qualcosa a noi superiore, come se tutte le scelte possibili fossero già state fatte da altri che volevano fin dall’inizio questo andamento di cose; così torno a guardare il mio amico ancora per qualche momento, quasi cercando una parola finale, ma improvvisamente però lo saluto, gli dico che ho bisogno di andarmene, di trovare in qualche luogo una forma che mi dia maggiore serenità, verso la ricerca di qualcosa di cui adesso non saprei proprio dire, ma che sento come un elemento fondamentale per le giornate a venire. Lui mi chiama da dietro quando gli ho già voltato le spalle, grida che forse ha la soluzione di tutto, che devo fermarmi, ascoltarlo, perché probabilmente la salvezza delle nostre giornate sta tutta racchiusa dentro poche parole, che sono poi esattamente le stesse che abbiamo sempre saputo, quelle alle quali adesso basta soltanto invertire la logica. 

Torno a fermarmi, mi volto, mi sento scettico verso un argomento del genere, però magari potrebbe avere ragione il mio amico rifletto: è sufficiente con grande semplicità rovesciare le cose, rendere tutto contrario, e lasciare poi che il resto vada avanti da solo, producendo improvvisamente una scia di soluzioni che non saremmo mai riusciti a mettere insieme andando avanti senza questa intuizione. Gli lancio da dove mi trovo un cenno di assenso, lo vedo sorridere mentre comunque sono già piuttosto lontano da lui, poi mi volto definitivamente verso la contemplazione dei miei fatti più personali, ed alla fine però mi sento leggero, come se con un gesto soltanto avessi davvero a portata di mano ciò che avevo sempre cercato.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Fine della storia

 

         Ho perso. Forse non è stata una vera colpa la mia e neppure credo si sia trattato di un madornale errore di valutazione; difficile difatti persino comprendere qualcosa capace di causare effettivamente tutto quello che è accaduto. Magari si sono anche verificate delle situazioni singolari per cui mi sono trovato praticamente preso in mezzo ad una serie di sciocchezze a cui non avrei mai dovuto dare importanza. Però di fatto sono caduto in uno stupido trabocchetto teso nient’altro che dagli eventi. E in ogni caso proprio non c’è appello per quanto riguarda la mia condizione attuale. Le cose stanno così e bisogna soltanto farsene al più presto una ragione. Non tanto perché penso di riparare tutto in qualche modo: non ne ho neanche la voglia, e poi sinceramente non ce ne sarebbe neppure il tempo. Quanto perché in questo momento cerco soltanto la possibilità di tirare ancora avanti alla meno peggio, e dopo basta.

         Ho avuto degli abbagli quasi in tutte le cose in cui in qualche modo potevo prendere delle decisioni che si sarebbero dimostrate fondamentali. Forse perché ho sempre pensato ottimisticamente che in seguito ci sarebbe stato tutto il tempo per modificare le mie scelte del momento, una volta eventualmente trascorsi i tempi delle necessarie piccole esperienze. Invece i fatti conseguenti si sono solidificati rapidamente mostrandosi ormai come dati di fatto, ed anche soltanto la possibilità di guardarmi ancora indietro per un’altra volta giusto per verificare quanto accaduto è presto venuta meno. Adesso sono da solo, senza alcuna nuova possibilità.

Non ha importanza mi dico, devo soltanto non pensarci più ed affrontare tutto quanto mi trovo ad avere di fronte elencando le cose una per una, senza cercare più nessun disegno di massima e soprattutto senza scopi. Mi accosto al bancone del bar mentre penso questo e sorrido a Giorgio che in fretta mi serve la mia solita birra. Lo conosco da sempre, lui sa che oramai sono fuori da tutti i giri, per questo mi dice qualcosa di leggero, quasi amichevolmente, senza chiedermi alcunché delle mie cose. Forse non dovrei neanche farmi vedere ancora qui dentro penso, probabilmente dovrei cercare dei posti dove nessuno mi conosce e magari costruirmi attorno poco per volta un personaggio diverso da quello che sono e che sono stato. Ma è tutto difficile.

Ho sbagliato, questo è il punto, anche se non so farmene ancora una ragione. Se chiudo gli occhi sonnecchiando mi pare quasi di aver ancora da definire una quantità discreta di passaggi, come se tutto dovesse ancora succedere, ma poi mi guardo attorno e vedo che la realtà mi è quasi ostile, probabilmente avrebbe voluto da me delle scelte differenti, delle convinzioni diverse e così forti da non avere mai permesso di far vacillare tutto l’impianto come invece è accaduto. Lascio i soldi della birra sul bancone e me ne vado. Non resta per me che ripercorrere a ritroso e con calma le strade che conosco; girare in lungo e in largo tutti i vicoli in cui ho lasciato qualcosa delle mie speranze; e poi alla fine dimenticarmi di me stesso, sciogliendomi in qualcosa di diverso da ciò che ero, impersonando qualcuno che non guarda più all’individuo come fosse lui davanti a tutti, ma che si sente soltanto una piccola parte di quella folla di persone che tirano avanti ogni giorno nella completa indifferenza.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Normalmente

In giornate come quella di oggi mi sento confusa. Anche se cerco di svolgere normalmente le solite cose di sempre le mie attività per loro natura mi appaiono in questo momento piuttosto strane, sfuggenti, come se avessero improvvisamente perso di senso e non mi procurassero in questi frangenti alcun piacere. Potrei forse telefonare per esempio alla mia amica di sempre per chiederle se le vada di uscire con me, ma evito persino di pensare una cosa del genere, così quando prendo la borsa per andarmene in giro, anche se non so neanche io verso dove, mi assicuro giusto di averci messo dentro le chiavi del mio appartamento, e poi basta.

Già mentre scendo le scale dapprima rallento, osservo qualcosa lungo il corrimano metallico e infine mi fermo proprio sul pianerottolo del piano inferiore, indecisa se sia il caso di uscire davvero o magari tornarmene verso la mia poltrona per accendere con tranquillità la televisione. Alla fine mi faccio coraggio ed esco risoluta dal portone condominiale, anche se non ho ancora deciso se andarmene a destra oppure a sinistra lungo la strada. Sto lì che fingo di cercare qualcosa nella borsetta tanto per prendere tempo, quando mi ferma un mio conoscente che abita da queste parti. Ci sono giornate in cui tutto va storto, mi dice, ed io gli sorrido come a conferma di quelle sue parole giustissime, così lui si ferma, mi chiede se può accompagnarmi per un tratto di marciapiede, ed io incoraggiata da quella specie di acquisita solidarietà gli rispondo con un altro sorriso consenziente che si può fare.

Lui si sente sostenuto dal mio comportamento, e così inizia a raccontarmi diverse cose che lo riguardano, anche se a me sembrano molto normali e prive di qualsiasi interesse. Lo ascolto, ma vorrei dirgli che i suoi argomenti in definitiva sono insulsi, e che forse sarebbe meglio che stesse in silenzio piuttosto che raccontare cose del genere. Lui ad un tratto dice che vuole offrirmi un caffè, ed io lo accontento entrando con lui dentro un locale lì accanto. Poi però chiedo del bagno, sparisco in un piccolo corridoio su un lato di quella sala e dopo un bel pezzo senza farmi vedere guadagno l’uscita e torno lungo la strada.

Rido da sola come una pazza del mio innocuo trucchetto, cammino subito a passo svelto per allontanarmi da quella zona, infine mi fermo per guardare qualche vetrina. Tutti si aspettano qualcosa da me, questo è quello che mi fa più impazzire, e che io mi comporti come le abitudini vorrebbero, decidendo cioè al posto mio, e che magari assuma un atteggiamento normale come chiunque altro che gira qua attorno. Ed invece è proprio questo che non mi va giù: sentirmi ordinaria, soggetta ad una logica stabilita da sempre, costretta a comportarmi come tutti questi altri. Non che mi senta particolarmente diversa da loro, soltanto vorrei decidere per conto mio tutto ciò che è meglio per me. Rientro in casa, getto la borsa sulla poltrona e accendo la televisione, proprio mentre suona il telefono: è la mia amica, dice che oggi non ha voglia di uscire, e che forse potremo vederci domani. Va bene le dico; infine riaggancio.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Strade diverse

Il primo appare stanco, forse svogliato, e trascina leggermente una gamba quasi come se quella autonomamente si rifiutasse di muoversi. Guardandolo con attenzione si vede che il suo è un atteggiamento annoiato, di chi forse farebbe qualsiasi cosa pur di ritrovare un briciolo di quell’entusiasmo che ha di fatto perduto, ma in mancanza di questo non è proprio disposto a preoccuparsi di nulla. Gli altri, chi più chi meno, somigliano a lui in questi suoi atteggiamenti,  anche se a ben guardare si notano delle sottili differenze. Tutto il gruppo nel suo insieme sembra composto da individui tranquilli, soggetti che forse non farebbero del male a una mosca, ma si tratta di trovare come sempre la giusta occasione per vedere come in realtà potrebbero davvero comportarsi.

La prima avvisaglia di una situazione sfuggente si ha quando tutti si fermano in una stradina come per scambiarsi delle opinioni su qualcosa. Qualcuno di loro alza la voce, ma soltanto per dare maggiore importanza a quanto vuol dire, e dopo pochi secondi si apre qualche finestra dai silenziosi caseggiati vicini. Alcuni condomini si limitano semplicemente ad osservarli, invece qualcuno tra questi dice qualcosa per farsi sentire da quel gruppo di perdigiorno, ed altri due o tre si danno appuntamento al portone, tanto per farsi riconoscere come gente che non ha certo paura di qualche stupido vagabondo.

Il gruppo in strada si muove con indolenza, percorre la piccola via normalmente deserta con la medesima lentezza di prima, e quando arriva all’incrocio avverte il richiamo di qualche soggetto che si è spinto fino ad arrivare alle loro spalle, ed adesso senza problemi osserva gli altri quasi con espressione di sfida. Il primo fa cenno a tutti di proseguire senza fermarsi, conservando il suo atteggiamento distaccato e menefreghista, ma qualcuno del gruppo si volta quasi per fronteggiare il gruppo dei nuovi arrivati.

I primi cazzotti arrivano subito, qualcuno tira anche qualche pedata, ma in tutto questo non sembra ci sia la volontà da parte di nessuno di farsi del male. Uno cade a terra ma soltanto perché è scivolato, ed un altro si mette a correre per distogliere l’attenzione di tutti, ma infine si sente nell’aria un po’ chiusa dalle facciate di quelle case, un colpo secco di arma da fuoco.

Ognuno si immobilizza, si osservano reciprocamente le mani di tutti, ma nessuno sembra abbia niente a che fare con quello sparo inquietante, sempre che invece non sia stato un semplice petardo lanciato da una finestra per l’iniziativa di un buontempone. Ognuno riprende lentamente ad occuparsi dei propri interessi, quello che era malamente caduto si rialza in fretta e riguadagna l’appartenenza al suo gruppo, i residenti di quella via tornano verso le proprie abitazioni. Ma proprio in questo momento un nuovo sparo sembra trafiggere l’aria, ed uno del gruppo lancia un urlo reggendosi un braccio. E’ stato colpito, dicono gli altri, così in un momento si disperdono tutti andandosi a rannicchiare nei luoghi più nascosti che trovano attorno. Frettolosamente si nascondono ognuno in un luogo diverso, e sentendosi ancora un po’ sotto tiro ciascuno di loro cerca soltanto di salvare la propria pelle, fino a quando il ferito semplicemente chiarisce che nel brusco movimento fatto per la paura del colpo un muscolo gli ha provocato un crampo ad un braccio, dolorosissimo. Si scopre in questo modo che gli spari erano davvero petardi, e quando qualcuno inizia a ridere di tutta questa situazione creatasi, gli altri subito lo seguono, iniziando ad andarsene con una certa cautela e  poco alla volta, ognuno comunque per la sua strada.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Appuntamento difficile

Devo muovermi, sono già in ritardo. Non capisco neppure come possa essere capitato, forse mi sono trastullato un po’ troppo nella convinzione di avere davanti tutto il tempo di cui avevo voglia, ed invece le lancette dell’orologio sono andate avanti velocemente quasi per conto loro, in un modo del tutto inesorabile, tanto che adesso mi trovo nella situazione imbarazzante di chi non ha più alcuna possibilità neanche di riflettere meglio su quello che mi attende.

Prendo la giacca ed esco di corsa, pur sapendo perfettamente che il mio presunto successo in ciò che ogni giorno mi trovo a dover affrontare è semplicemente determinato dal dettaglio, dalle piccole cose, da quei particolari minimi e sottili per i quali soltanto dedicando loro la giusta attenzione si può ottenere i risultati in qualche modo sperati, lasciando alle spalle la superficialità risultante quasi sempre dalla fretta eccessiva. Forse ho i capelli poco pettinati, la mia camicia non è del colore che avrei voluto indossare, le mie scarpe non sono neppure perfettamente pulite. Però mi rassegno: certe volte le cose non possono essere altro che così.

Sul portone trafelato incontro la mia vicina di pianerottolo mentre sta rientrando, una persona comprensiva e sempre cortese con me, capace di prendermi la posta quando non ci sono, o anche di passarmi qualcosa da mangiare in certe serate in cui il mio frigorifero e la mia dispensa dimostrano di essere vuoti. Mi saluta vistosamente e con una certa determinazione, perciò mi fermo, le dico subito che ho fretta, ma lei inizia col raccontarmi qualcosa di importante dell’amministratore di condominio e delle sue strane trovate, così capisco subito che devo per forza interromperla, anche se in maniera garbata, se voglio occuparmi ancora della mie cose. Le dico che passerò più tardi da lei, ed a quel punto mi potrà raccontare tutto con calma, poi volo alla fermata del bus, che naturalmente transita proprio in quel momento senza di me.

Decido di andare a piedi, perciò attraverso subito la strada in un punto peraltro dove non è permesso, tanto che le auto di passaggio mi strombazzano come per farmela pagare. Sono già in un bagno di sudore per l’agitazione, e mi sento inadeguato sempre di più ad affrontare quanto il mio dovere richiede. Sono sicuro che qualcuno dirà immediatamente che sono in ritardo come è mio solito essere, e le mie scuse non verranno neppure prese in considerazione. Arranco, alla fine arrivo in una piazza e vedo un bus, così ci salgo insieme ad altre mille persone che mi stringono in una morsa incredibile. Non riesco neppure a vedere verso dove si vada, ma alla fine mi rendo conto che la direzione del mezzo pubblico non è quella giusta per me. Impiego due fermate prima di riuscire a scendere da lì, e mi sento sempre più disperato.

Alla fine decido di entrare in un bar per cercare di calmarmi, così mi siedo ad un tavolo libero e mi faccio servire dell’acqua e anche un caffè. Non sto bene, questo è il punto essenziale: non posso andare da alcuna parte, non posso presentarmi a nessuno, devo lasciare che le cose restino così come sono se non voglio riuscire a peggiorarle. Alla fine telefono: non importa, mi dicono all’apparecchio; non c’è affatto bisogno che lei si presenti; così, mi spiegano, può restare tranquillo e beato nella sua casa. Va bene, rispondo, ringrazio il vostro pensiero, magari prenderò nei prossimi giorni un nuovo appuntamento.

 

 

 

 

 

 

 

 

Superamento di tutto

Lei adesso siede al suo tavolo cercando di conservare una certa tranquillità, ed almeno in apparenza sembra non avere al momento dei grandi pensieri dentro la testa, anche se tra qualche minuto dovrà per forza rimettersi in moto per le cose ordinarie di cui deve assolutamente occuparsi, ed affrontare tutti quei piccoli problemi che oramai costituiscono la maggior parte di tutto il suo tempo. Suo figlio alla fine si è addormentato nel proprio lettino dopo la giornata trascorsa come sempre nella scuola materna. A volte il bambino sembra nervoso, dice di avere male alla testa, in qualche caso si comporta con gli altri compagni in maniera leggermente aggressiva, così le hanno spiegato in fretta le sue maestre quando è andato a prenderlo la scorsa settimana. Il pediatra non ha poi dato molta importanza alla cosa, ma lei si, anche se adesso vorrebbe proprio non avere anche questa preoccupazione.

Deve controllarsi al massimo, questo è il punto, ed almeno in casa riuscire a non dare mai alcuna possibilità al suo bambino di respirare un’atmosfera tesa, nervosa, priva di quella calma fondamentale alla sua crescita sana, e che in questo momento soprattutto deve avvenire in maniera il più possibile naturale, senza alcuno strappo possibile. Che suo padre se ne sia andato da qualche tempo sembra adesso un dettaglio quasi lasciato alle spalle, ma se fino a poco fa lei credeva di essere riuscita a tenere assolutamente sotto controllo anche questo, negli ultimi giorni non le sembra più un elemento di cui essere così tanto sicura.

Poi c’è il suo lavoro, e con tutti i permessi che ha dovuto prendere ultimamente per stare proprio dietro a suo figlio, non sa spiegarsi neppure lei come i dirigenti della sua azienda riescono ancora a conservarla al suo posto. Continua a ripetersi come per convincersi che le cose uno di questi giorni miglioreranno, e che tutto andrà bene, che ci sarà dietro l’angolo una notizia positiva anche per lei. Perché deve tenere alto il morale, guardare in avanti, cercare di cogliere tutti gli aspetti migliori che ogni giornata le può presentare, e poi posare sempre i piedi per terra, farsi aiutare da tutti coloro che le ruotano intorno, essere sempre cortese con le poche amiche rimaste, con i colleghi sul posto di lavoro, con la sua vicina di casa che a volte le tiene anche il bambino, quando lei magari deve uscire anche solo per comperare qualcosa.

Non è facile, lei lo sa bene, ed è consapevole di tutto, perciò si alza improvvisamente da quel tavolo, va ad osservare ancora una volta suo figlio che in questo momento sembra proprio tranquillo, che crescerà bene nonostante tutte le difficoltà, lei ne è più che sicura, e che non ricorderà mai l’apprensione sprecata dalla sua mamma durante questi suoi anni d’infanzia. Vorrebbe quasi con un colpo di spugna allontanare da sé ogni brutto pensiero, tutte le preoccupazioni che spesso sembrano attanagliarla, il senso di disperazione che a volte la prende, ma non sempre riesce a mostrare al bambino quella serenità che lei vorrebbe e che sente utile, necessaria, quasi un ingrediente fondamentale per tutti questi giorni difficili.

Poi lui però si sveglia, si guarda attorno come fa sempre, muove la manine per cercare l’appiglio di cui forse sente profonda necessità; così lei lo prende, lo stringe a sé come la cosa più preziosa che ha, ed il bambino sorride: va tutto bene, è tutto già superato.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Futuro impossibile

In giornate come questa vorrei fermarmi, dice con voce pacata l’uomo a sua moglie. Non essere stupido, fa lei, non ce lo possiamo certo permettere. Non dicevo questo, cerca di spiegarsi meglio lui, è solo che d’improvviso mi sembra quasi tutto inutile, un’assurda e continua corsa in avanti senza alcun significato e nessuno scopo da raggiungere. Va bene, fa lei, hai prodotto anche oggi il tuo solito ed inevitabile grido di dolore, adesso però torna con i piedi per terra e deciditi a fare quello che devi.

Il marito prende la giacca, saluta, esce di casa, cammina lentamente fino alla fermata del bus, poi si siede presso la panchina sotto una tettoia di plexiglas ed infine resta lì, come non avesse alcuna decisione da prendere. Quando transita il primo mezzo pubblico lui sale con indifferenza insieme agli altri che gli stanno accanto, anche se questa evidentemente non è la sua linea, ed una volta a bordo si sistema in piedi accanto ad un finestrino, tanto per guardare fuori le facciate delle case che se ne fuggono per conto proprio. Scorrono così davanti ai suoi occhi anche parecchie fermate dove la gente variegata scende e sale, infine l’autobus affronta alcune strade periferiche dove si notano con evidenza degli spiazzi d’erba incolta tra le case, ed anche qualche piccolo canneto spontaneo al bordo di certi piccoli fossati di acqua ferma lasciati perlopiù al loro destino.

L'uomo scende ad un certo punto, anche se non sa con precisione neppure dove si stia trovando, perché in fondo non gli importa molto sapere di essere in un posto preciso, gli basta come di perdersi in un luogo qualsiasi, e di affrontare qualcosa che non vuole neppure immaginare in questo momento. Cammina per un po’ da quelle parti, osserva le poche cose degne di nota di quel quartiere, infine incontra un ragazzo che lo guarda con curiosità, come fosse un alieno caduto sulla terra non per propria decisione. Infine lui si ferma, immagina di osservarsi da un punto distante da  sé, come se tutto fosse una specie di disegno panoramico in cui rimane immobile un semplice uomo piccolo che non riesce neppure ad uscire del tutto dall’immagine, limitandosi a scorrere soltanto lungo i bordi, e cercando dentro di sé la soluzione dell’enigma in cui si sente immerso. Poi torna sui suoi passi, ritrova la fermata dell’autobus e percorre a ritroso quasi senza pensarci tutta la strada.

Più tardi sua moglie gli chiede cosa mai gli sia successo in tutto il giorno, ma l’uomo non le sa spiegare niente, e l’unica cosa che riesce a dirle è che c’era un ragazzo davanti a lui, forse abbandonato a se stesso, da qualche parte lungo una strada qualsiasi, ed a lui è sembrato all’improvviso che tutto potesse essere soltanto in quel modo, senza più nient’altro a cui potersi riferire, nessun tema forte che guidasse il suo cammino, nessuna persona vera a cui credere ancora per sapere cosa fosse meglio per il futuro di tutti quanti.

 

 

 

 

 

 

 

 

Urlo inadeguato

Durante alcuni pomeriggi particolarmente luminosi, nelle ore che normalmente dedico alla riflessione attenta della realtà in tutte le sue particolari manifestazioni, mi capita di provare il desiderio di uscire con una certa tranquillità sopra al terrazzino del mio appartamento al terzo piano, come per dare un’occhiata alla strada piena di sole che passa proprio qui sotto; e forse per la stessa meraviglia che subito mi prende, ma anche per la voglia di farmi sentire da tutti coloro che transitano a piedi lungo il marciapiede, lancio un urlo con tutta la voce che mi riesce di avere in gola. Qualcuno si volta e ride divertito, altri fermandosi si sentono quasi offesi per le mie manifestazioni, in ogni caso ormai da un po’ di tempo chiunque si trovi a passare da queste parti, non manca mai di gettare un’occhiata verso le mie finestre.

Nel negozio all’angolo dove mi fermo quasi sempre ad acquistare le mie sigarette, mi dicono complimentandosi che il mio è proprio un urlo esistenziale, perciò apprezzato, altri però mi fermano lungo il tragitto accanto a casa anche per dirmi che dentro alla mia espressione c’è il senso di sofferenza esatto del nostro quartiere, stritolato in modo speciale lungo alcune vie, dal traffico e dall’inquinamento. Sorrido, non mostro mai alcuna certezza da condividere, mi basta sapere che in giro si stanno formando delle manifestazioni di apprezzamento e di curiosità nei confronti di quello che faccio. Così torno a casa con i pacchetti delle mie sigarette preferite, poi mi siedo, mi rilasso accendendomene subito una, ed a seguito anche un’altra, e penso alle piccole cose che spesso torturano i miei giorni soltanto con il loro semplice mostrarsi in modo negativo, contrastando il fluire lento e piacevole delle ore che si dipanano fuori e dentro la mia mente.

Infine torno ad uscire sopra al terrazzino, qualcuno già mi guarda, altri forse dietro alle tende delle loro case aspettano con ansia la mia espressione naturale, il mio mostrarmi al mondo, la mia piccola e inconsueta forma d’arte che così tanto fa parlare di sé almeno lungo questa strada. Ma forse per effetto di tutte le sigarette delle quali ultimamente sto un poco abusando, mi esce un grido che invece di distendersi come tutte le altre volte, verso la fine pare come strozzarsi, degradandosi a rantolo rauco prossimo ad un attacco di tosse, che fortunatamente riesco comunque ad evitare. Avverto una risata da qualche parte, e subito rientro.

Non mi aspettavo proprio un epilogo del genere, non ero preparato al tradimento improvviso della mia stessa voce, tanto che vorrei fosse possibile cancellare tutto, magari preparando meglio la mia gola a sostenere quello sforzo che le imprimo. Ma la frittata ormai è fatta, ed il senso di ridicolo che mi è calato addosso inesorabilmente non mi permetterà più, almeno in tempi brevi, di esprimermi ancora nel mio urlo di sempre. Me ne farò una ragione penso, attenderò con infinita pazienza l’occasione buona per tornare a cimentarmi nel mio grido verso gli altri, e questa volta comunque saprò mostrarmi maggiormente preparato, conscio come mi sento delle mie formidabili potenzialità, perfettamente all’altezza di ciò che tutti quanti inevitabilmente si attendono da me.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Falsità bonarie

Io non sono quello che sembro. Certe volte per esempio fingo di tenere fortemente ad un qualcosa di generico che magari tutti conoscono e sul quale hanno anche probabilmente delle idee piuttosto precise, nonostante nella realtà più profonda a me non me ne importi proprio un bel niente. In questo modo però riesco ad incuriosire con facilità i soliti frequentatori del circolo presso questa associazione umanitaria dove trascorro quasi tutti i miei pomeriggi, lasciando all’ interesse che manifestano alcuni tra loro di formulare delle domande piuttosto circostanziate, alle quali naturalmente trovo la maniera per non rispondere mai, lasciando immaginare in questo modo che ciò che avevo da dire fin dall’inizio su quell’argomento sia stato in grado precedentemente già di averlo debitamente spiegato.

Spesso mi contraddico mentre faccio queste tirate, è del tutto inevitabile, e ci stanno poi sempre i soliti che subito si sentono pronti a sottolineare ciò che al contrario avevo sostenuto appena l’altro ieri oppure qualche settimana addietro, ma col mio sistema basato su di un sorrisetto che lascia supporre tranquillamente qualsiasi cosa, riesco quasi sempre ad uscirne piuttosto bene da queste situazioni piuttosto imbarazzanti. Naturalmente ci sono delle persone che in base alle mie prese di posizione mi scansano subito, indipendentemente anche dall’argomento di cui provo a parlare, ma questo in fondo mi pare perfino piuttosto normale.

Certe volte sono quasi contento che le mie parole portino in giro sulla faccia degli altri che mi trovo attorno un po’ di irritazione. In fondo credo non ci sia niente di male in questo, non si può essere sempre tutti d’accordo su qualunque faccenda, ognuno di noi avrà pur diritto di avere una propria opinione, anche se questa è soltanto il frutto del momento in cui viene espressa, o anche dell’umore con cui si cerca di spiegarla a chi ci circonda. Mi ascoltano con attenzione quasi tutti comunque, forse proprio perché gli aggettivi più importanti, quelli che caratterizzano le mie frasi salienti, cerco sempre di metterli verso la fine, annidando lì in poche parole la vera opinione che cerco di esprimere.

Qualcuno non manca di arrabbiarsi ma io lo lascio perdere. Non sono proprio io stesso in queste cose che dico e che sostengo, vorrei quasi spiegare a tutti. Non è colpa mia penso mentre li guardo se ci cascate regolarmente come dei tonti; non me ne importa un bel niente di una faccenda o di quell’altra, ve lo lascio credere soltanto per darvi un poco di brio, per farvi riflettere, per tentare di spostare anche la vostra opinione se mai ne avete una. Se ci pensate bene è soltanto un piccolo scherzo, una specie di recita in cui io mi identifico in qualcuno che pensa delle cose diverse dagli altri, ed in questo poi non c’è niente di male. 

Uno di questi giorni mi farò vedere per la prima volta come quello che sono davvero, e mi mostrerò profondamente dispiaciuto per quello che ho fatto a loro in tutti questi anni. Mi scuseranno e comprenderanno senz’altro questi poveri creduloni che sono quasi sempre cascati nelle mie prese di giro; di questo ne sono già più che sicuro.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Senza senso

 

Mi dispiace, dice quello che maggiormente se ne intende di medicina, ma la donna non può proprio camminare. Gli altri si guardano con espressioni perse, a nessuno viene voglia neppure di chiedere ulteriori spiegazioni, ed uno o due di loro tornano a sedersi lasciandosi sprofondare sopra le sedie impagliate che stanno attorno al tavolo di legno, quasi senza un’altra precisa volontà. Potremmo approntare una barella però, dice dopo qualche minuto di silenzio lo stesso tizio che ha parlato poco prima: si possono usare alcuni pali di legno che ho intravisto là fuori, e poi stendere su quelli un lenzuolo ben legato.

Certo, dice un altro, lo possiamo fare; in considerazione però di tutta la strada disagevole che ci sarà da affrontare, un fardello del genere diventa un rallentamento notevole della nostra già stretta tabella di marcia. Può darsi che in questo modo non si riesca neppure ad arrivare a destinazione per l’orario che abbiamo pattuito, e questo fatto ci metterebbe nella condizione di essere un semplice bersaglio per chiunque voglia disfarsi di gruppi come il nostro.

Dobbiamo correre il rischio, dice un altro che è rimasto in piedi; non abbiamo alternative. Ci daremo il turno ad esempio ogni dieci minuti per sostenere la barella, e per il resto affronteremo tutto quanto come avevamo già previsto. Nessuno degli altri trova alla fine niente da ridire rispetto a questo progetto, e due di loro subito escono come per dar seguito a quanto stabilito ed approntare quindi la lettiga. Ma al momento in cui le cose sembrano già essere impostate, esce la donna leggermente zoppicando, e fermandosi sulla soglia della porta dice agli altri: lasciatemi qui; ci sono maggiori probabilità che ritorniate in fretta a prendermi una volta raggiunta la vostra destinazione, piuttosto che rischiare tutti di arrivare in ritardo e compromettere l’operazione.

Gli altri si guardano, probabilmente ha ragione in pieno pensano tutti, così con due parole quello che sa di medicina si offre di rimanere insieme a lei, e gli altri raccolgono velocemente le loro borse e se ne vanno dopo poco, senza ulteriori indugi. Loro due rientrano nella baracca, la donna si siede, lui cerca di sistemare al meglio le cose utili che sono rimaste a disposizione là dentro. Ce la possiamo fare, le dice con un mezzo sorriso sulle labbra: in fondo abbiamo molto tempo prima che ci scoprano, possiamo starcene tranquilli almeno per un po’.

Ma un forte boato irrompe nell’aria tiepida e tranquilla lasciando loro due senza parole. E’ soltanto il tuono, dice lei dopo un momento: un temporale si sta facendo avanti, non c’è niente d’altro per il momento che ci sta minacciando. La pioggia dopo un attimo arriva copiosa, il tetto della baracca suona come un tamburo sotto alle grosse gocce, i due guardano fuori il paesaggio fradicio ed aspettano con calma ancora pieni di speranza.  

Sono stufo di tutto questo, dice lui di colpo; mi sembra persino impossibile che si possa essere finiti in questo modo. Certo, ce la caveremo in un modo o nell’altro, ma tutto questo non avrà avuto alcun senso una volta giunti al termine. Hai ragione, fa lei, forse non avremmo mai dovuto imbarcarci in questa situazione, sarebbe stato sufficiente pensarci meglio, riflettere di più, calcolare meglio i rischi, anche se adesso è del tutto stupido tentare dei ripensamenti.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Minoranza

C'è spesso una specie di sibilo dentro le mie orecchie, generalmente un suono indeterminato che comunque appare fine, aggraziato, quasi piacevole, e che emerge soltanto a tratti sopra ai soliti rumori infernali della mia giornata. Mi ritrovo  a seguirlo mentalmente qualche volta, e sento mentre lo ascolto che lui evolve rapidamente e in modo autonomo verso alcuni accordi, a volte giungendo a dipanarsi brevemente in un’armonia dolce, squisita, quasi come una carezza. La maggior parte delle persone che mi capita di incontrare durante i miei spostamenti quotidiani non si accorge assolutamente di un bel niente, anche perché forse non ha la minima idea di quanta ricchezza riesca a possedere anche una sola persona, e se solo cercassi di spiegarlo, chiunque di loro mi prenderebbe semplicemente per un matto. In sostanza i più non riuscirebbero neppure a farsene una ragione vera, perché quasi tutti ormai ritengono che il mondo in generale si esaurisca in loro oppure accanto a loro. Solo alcuni, persone forse più attente, individui da ritenere probabilmente più sensibili, comprendono e mettono in conto che ci possa essere qualcosa del quale, pur non sapendone quasi nulla, risultano senz’altro incuriositi, e si dimostrano persino attratti da elementi che purtroppo a loro sono sfuggiti fino adesso.

Il mio sibilo interno prosegue mentre parlo del più o del meno con qualcuno, ed io cerco di esprimere come posso tutte le mie opinioni, e mi viene anche da sorridere ogni volta che uno di questi con cui scambio dei pensieri cerca di convincermi che non c’è proprio nient’altro alla fine di quello che lui riesce a tratteggiare, non c’è niente alla fine delle sue idee e delle semplici parole che è capace di utilizzare intorno ad ogni argomento. I miei accordi musicali li sovrastano mentre continuo comunque ad ascoltarli, e tutto nasce proprio dalla semplicità di quanto gira dentro la mia testa, anche se poi sembra tentare come di ammutolirli, pur restando un’altra cosa, un’altra realtà, un diverso modo di intendere ogni cosa proprio per le motivazioni che la mia musica interna sembra porti avanti. Mi accorgo subito, quando incontro una persona che, al contrario di questa maggioranza di soggetti, riconosce subito l’armonia che tra noi potrebbe essere in comune ed è consapevole come me che la realtà sta proprio in altro modo, cioè non così determinata e definita come si vorrebbe, ma piena di infinite sfumature, che qualcosa inizia subito a legare in qualche maniera i nostri pensieri, lasciandoli più liberi, meno terreni, capaci di evoluzioni senz’altro positive e interessanti.

Poi saluto tutti e me ne vado verso le cose che normalmente più mi attraggono, e quando mi ritrovo ormai da solo, ripenso subito a quanto sono stato capace di essere me stesso con chi ho incontrato: non lo so per certo, questa è la verità, ma penso che chiunque abbia avuto qualcosa per cui esprimere in piena libertà il proprio pensiero, si possa adesso ritenere soddisfatto, anche se alla fine c’è sempre stato il mio sibilo ad indicare una diversa appartenenza di tutte le mie idee, che anche se non sono state condivise dalla maggior parte delle persone con cui ho avuto la fortuna di parlare, comunque hanno indicato una precisa direzione di cui adesso essere orgogliosi, fino a comprendere che non poteva proprio essere in nessun’altra maniera.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Saluti superflui

La madre senza guardarla dice qualcosa a voce bassa, mentre si sposta lentamente intorno al tavolo della cucina, ma lei finge di non aver neppure sentito quelle poche parole che le paiono dettate soltanto dalle abitudini e dai modi di sempre. Segue un piccolo silenzio piuttosto teso durante il quale la figlia si aspetta di ascoltare la ripetizione dello stesso discorso, ed infine difatti l’anziana donna conferma con voce appena meno tollerante di prima, quanto aveva già chiesto alla figlia: sei sicura di dover uscire proprio in questo momento? le fa, come se intendesse mettere in dubbio l’importanza o la legittimità di ciò che lei abbia da fare. Ma certo, dice la figlia, tanto non ci metterò neanche molto tempo, tra un’ora o poco più sarò di ritorno.

La mamma allora si siede, mostrando l’atteggiamento rassegnato di chi ancora una volta deve subire la realtà non potendola gestire come vorrebbe. Osserva qualcosa di un vecchio giornaletto sul piano del tavolo mentre la figlia si prepara, poi quando lei apre la porta in fondo al corridoio prima di salutarla, chiede se può acquistarle delle sigarette. Lo sai mamma che ti fa male fumare, dice la figlia, forse te ne porterò una, ma deve bastarti per tutta la giornata. Poi torna indietro con l’espressione corrucciata di chi sta dimenticando qualcosa di veramente importante, entra per qualche attimo nella sua stanza, ed infine torna in cucina guardando sui mobili, mentre richiude la sua borsetta dopo averci guardato dentro.

Avevi dimenticato le chiavi di casa? le chiede l’anziana donna guardandola con occhi piuttosto spenti. No, fa lei, avevo soltanto preparato un elenco delle cose da fare e da comprare, ma adesso chissà dove l’ho messo. In ogni caso, fa l’altra, se non hai le chiavi non preoccuparti: tanto ci sono io in casa per aprirti. Va bene mamma, ho capito, d’altronde dove vorresti andare; è solo che non capisco come abbia fatto a perdere il mio foglietto. Lo ritroverai, fa l’altra, in questa casa non si è mai perso niente. Certo, dice la figlia spazientita, però si dà il caso che mi serva in questo momento, e non più tardi o magari domani. Come vuoi tu, fa la madre con l’aria rassegnata di chi si sente brontolare anche per un nonnulla.

Poi si alza dalla sua sedia e con lentezza studiata apre un cassetto della credenza: forse hai messo qualcosa qui dentro, dice mentre la figlia ha già ripreso a guardare dentro alla borsa. No, non preoccuparti, è soltanto una cosa che riguarda la mia distrazione, la mia memoria, però se adesso non trovo quel benedetto foglietto sto male, dice sbuffando e rovistando un po’ dappertutto. Intanto la mamma ha già aperto con indifferenza un altro cassetto e sembra voler passare in rassegna tutto quello che le capita davanti agli occhi, ma giusto per dimostrare alla figlia il suo impegno, perché per il resto non osserva neanche le cose che vede.

Va bene, dice la figlia alla fine; più o meno mi ricordo quello che vi avevo scritto, in fondo posso anche andarmene senza il mio elenco. Ma in quel momento sopra al mobiletto vicino alla porta rimasta socchiusa il suo foglietto eccolo lì, in bella vista. La mamma lo vede mentre lei va diretta per prenderlo per non farsene accorgere, così le dice soltanto: certe volte le cose stanno nei posti più abituali. Ma questo non lo dice per farsi ascoltare da sua figlia, quanto per dare alle sue parole un sapore superiore ad un dialogo qualsiasi, quasi come un monito di ordine generale, ed è per questo che l’altra apre la porta ed esce senza neppure un saluto.

 

 

 

 

 

 

 

 

Basta così

 

Resto quasi imbambolato, quando a volte rifletto su quello che davvero vorrei fare. Occuparmi di persone deboli, dedicarmi agli anziani, a chi soffre, a tutti coloro che hanno bisogno di un po’ d’aiuto. Ecco, questa sarebbe la mia missione, il mio proposito di fondo, anche se poi ci sono intorno a me tante variabili che tentano continuamente di distogliermi da questi miei proponimenti.

Hai sempre la testa tra le nuvole, mi dicono ridendo certi amici qualche volta. Li lascio perdere, in fondo è vero quello che dicono: sono un tipo riflessivo, uno che cerca in ogni occasione la cosa migliore da fare, indipendentemente da quello che possono pensare tutti gli altri. Mi perdo spesso quando penso a ciò di cui potrei davvero occuparmi, ritrovandomi generalmente a non fare quasi nulla rispetto a tutto quello che ho cercato di mettere a punto.

Invidio profondamente chi riesce in un momento ad applicare alla realtà i propri pensieri; a me sfugge tutto di mano, anche se sono sicuro che le mie idee siano migliori di tante altre. Mi guardo attorno, medito la cosa più giusta da fare, poi mi richiudo quasi sempre nella mia intimità. Vieni con noi a divertirti un po’, dicono gli amici. Ed io vado con loro anche se continuano per tutto il tempo a prendermi in giro pur bonariamente. Loro hanno le ragazze, io invece no, non mi sento fatto per queste cose, preferisco sentir ridere gli altri attorno a me, e magari starmene tranquillo in un angolo, in perfetta solitudine.

Quando rientro a casa mia madre mi chiede sempre dove sia andato. A trovare gli ammalati in ospedale, le dico in certi casi anche se non è vero. Qualche volta ci sono andato sul serio, ma qualcuno di loro mentre mi avvicinavo ai letti mi chiedeva se per caso fossi un prete o qualcosa di quel genere, e questo a me un po’ dispiaceva. Perché non riesco a capire come non si possa lasciare che una persona qualsiasi si occupi degli altri, cerchi di portare compagnia, di dire a tutti una parola di incoraggiamento. Si può parlare, confidarsi, sentirsi meglio quando abbiamo intorno un po’ di compagnia.

Mia madre annuisce, lei è contenta che io faccia queste cose, e qualche volta andiamo insieme ad un centro anziani qua vicino. Si gioca a carte con loro, si parla del più e del meno, e tutti dicono a mia madre che ha proprio un bel ragazzo, ma che non dovrebbe portarlo in un posto come quello. Io li lascio dire, tanto so bene che sono discorsi fatti tanto per riempire i vuoti, perché a me piace stare al centro insieme a tutti quegli anziani. Quando veniamo via mia madre dice che dovrei pensare un poco a me, magari al mio futuro. Lo so, le dico, ci penso continuamente. Però in fondo sono contento: mi dedico agli altri qualche volta, non quanto vorrei fare, ma almeno un pochino, così nessuno può dire che non ho fatto niente. Perché la cosa peggiore, penso, è fregarsene di tutti, e ancora peggio incitare gli altri ad adottare il medesimo comportamento. Lo so che il mondo gira in questo modo oggigiorno, ma per me non ha alcuna importanza: non voglio certo cambiare il mio modo di essere, specialmente se per farlo devo allinearmi a quanto dicono sempre tutti gli altri. Sono fatto così, e dopo basta.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Presente irrispettoso

 

Ricordo che una volta, durante un giorno qualsiasi, io ed il mio amico andammo a far visita ad una ragazza, una tizia di nostra conoscenza che sapevamo abitare una strana casa che peraltro non avevamo mai visto, qualcosa che a suo dire stava a cavallo tra una baracca abusiva sul mare ed un appartamento studentesco situato nel vecchio centro storico della città. Lei naturalmente si mostrò estremamente felice del nostro arrivo, ma essendo del tutto inaspettato dovette spiegarci in due parole che purtroppo per quel giorno aveva un impegno accademico piuttosto importante in qualità di assistente universitaria nella facoltà dove lavorava, lasciandoci comunque padroni del suo appartamento per tutto il tempo che volevamo, con l’impegno da parte sua di tornare al più presto, forse addirittura nella stessa serata. Più tardi poi ci avrebbe spiegato al telefono che sarebbe rientrata soltanto il giorno seguente.

Cosi io ed il mio amico da soli iniziammo subito con l’accendere la televisione senza darle volume, ad ascoltare la musica di una buona collezione di dischi sistemati in bella mostra sopra una stuoia, e dandoci da fare soprattutto a rovistare nel frigo, aprire qualche bottiglia di vino buono trovata nella dispensa costituita da mensole e scatole, e divertirci di qualche altra sciocchezza. Ridevamo sdraiati sulle poltrone e sopra il divano, e quando decidemmo di guardarci un po’ in giro per inventare qualcosa, si andò subito a bussare ad una vicina di casa che avevamo intravisto da una finestra.

Decidemmo di improvvisare una specie di festa, io ed il mio amico, e in poco tempo la vicina riuscì a trovare quattro o cinque persone disposte a venire da noi a fare baldoria. Piazzata la musica a tutto volume, cucinammo qualcosa di semplice e poco dopo finimmo naturalmente quasi tutti sbronzi a ridere e ballare. Più tardi gli altri andarono via, ed io con il mio amico ci addormentammo stanchissimi sul divano tenendoci aggrovigliati con la vicina di casa, tanto che tutto parve andare benissimo almeno fino a quando, ormai nella tarda mattinata seguente, tornò la ragazza proprietaria dell’appartamento.

Disse che eravamo degli sciagurati, che non era possibile fare affidamento su gente come dimostravamo di essere, che al momento dovevamo rimettere in ordine ed in fretta tutta la casa, e che comunque non sarebbe bastato semplicemente ripristinare le cose, perché c’era un discrimine che ci divideva, il nostro vivere tutto al presente così contrario al rispetto sensibile e generoso degli altri e del futuro da parte di persone proprio come lei si sentiva di essere.

Restammo in silenzio, io ed il mio amico, e senza aggiungere niente dopo poco uscimmo a testa bassa da quella casa. Non avevamo un programma preciso, così dopo un lento giro nei dintorni provammo a bussare alla porta della vicina di casa con cui avevamo trascorso la notte. Ma anche lei ebbe parole di fuoco, dicendo con voce alta che eravamo degli sciagurati a cui non si poteva affidare un bel niente, e mentre continuava a parlare con una certa irritazione, noi ce ne andammo da lì e da quella zona, senza trovare commenti da fare. Che importa, si diceva tranquilli: in fondo è anche giusto spassarsela un po’.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Memoria persa

 

         Lucio confida al medico di provare un forte senso di oppressione ogni volta che si corica nel letto e chiude gli occhi per addormentarsi, come se il suo corpo cercasse quasi di sfuggire in qualche modo a quel necessario stato di riposo.  Si tratta di alcune sensazioni un po’ particolari, spiega meglio, come se tutte le preoccupazioni della giornata ed anche del periodo si concentrassero nella mia mente proprio in quegli attimi, spaventandomi e rendendomi spesso irrigidito. In pochi minuti però la stanchezza e l’abitudine prendono naturalmente il sopravvento, ed infine riesco come tutti ad addormentarmi, tanto che alla fine sono in grado in genere di riposare bene per tutta la notte senza dover affrontare altri problemi, conservando pur tuttavia una parte di quel forte turbamento provato subito prima del sonno, restandomi impresso nella mente come una brutta esperienza, al punto che riesco a sentirne ancora il sapore amaro per tutto il mattino seguente dopo il risveglio.

Il medico chiede allora a Lucio se questa sua presunta oppressione non sia data per esempio dalla monotonia o dalla pesantezza del suo lavoro, oppure da alcuni comportamenti assunti da qualche suo collega o da qualche conoscente, o anche dai rapporti che intrattiene con i suoi affetti più vicini magari, che in certi casi forse riescono a deluderlo; o magari semplicemente da qualcosa che lui stesso vorrebbe fare e che invece proprio non affronta, ma mentre lo ascolta Lucio comunque si limita a disegnare un gesto in aria con la mano, presentando un mezzo sorriso sopra la sua faccia, come a mostrare l’infondatezza di tutte quelle ipotesi. No, dice subito dopo. Non è questo. Si tratta di una parte di me, di un elemento della mia personalità che sento nel profondo, dove nessun altro ha un ruolo, se non solamente me stesso e la mia sensibilità.

Forse è soltanto un ricordo, prosegue Lucio, qualcosa che senza averne precisa coscienza cerco di far riaffiorare ogni volta alla mia mente, qualcosa che con ogni probabilità adesso non ho più dentro di me, forse perché semplicemente l’ho rimosso: praticamente ci sono certe zone del mio passato di cui sono sicuro una volta essere stato custode geloso dentro di me, ma che poco per volta sono uscite dalla mia memoria. Non so, magari tra un po’ di tempo probabilmente riuscirò a mettere a fuoco nuovamente quel particolare ricordo o tutti quegli altri di chissà quanto tempo fa, però sono sicuro che la mia mente ne ripescherà soltanto la parte che maggiormente sceglie di desiderare, tralasciando furbamente tutte le altre. Sarà così semplicemente un’altra cosa, anche se sono sicuro fingerò che siano stati proprio quelli i miei ricordi che avevo come perduto, ed in questo modo tutto verrà brutalmente riplasmato, come fosse un materiale duttile a cui si può cambiare la forma ogni volta che si vuole. L’oppressione che provo insomma è data forse proprio da questa debolezza che sento nel mio animo, da questa mancanza sistematica di qualche elemento nella mia memoria, e dalla incapacità che provo alla fine di avere in me dei ricordi veri, concreti, obiettivi.

Tutti siamo fatti più o meno così, dice il medico, la nostra memoria produce un continuo lavorio di miglioramento e di sostituzione dei particolari di ogni ricordo, fino a rendere la memoria di ogni fatto del passato spesso quasi un’altra cosa, forse più piacevole, più congeniale alla nostra voglia di tenerne a mente fedelmente dei dettagli. Va bene, dice Lucio, in ogni caso l’oppressione che provo non è certo qualcosa di così comune, e non può essere curata banalmente con qualche pillola o degli ordinari ritrovati medici. Ci vorrebbe un cambio di programma nella mia mentalità, qualcosa che mi provocasse una certa indifferenza verso tutto il mio passato, piuttosto che cercare di ricostruirlo. Come se improvvisamente mi ritrovassi a vivere soltanto di presente, senza bisogno alcuno di avere ancora dei ricordi.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Monotonia

 

Non c’è niente da fare, penso; ormai devo proseguire lungo la strada che ho intrapreso, che mi piaccia o meno. Forse qualche tempo addietro avrei ancora potuto tentare di fare qualcos’altro, invece di occuparmi soltanto di queste emerite sciocchezze. Certe volte mi sono anche giustificato in qualche modo, dicendomi che qualcuno doveva pur fare le cose che stavo facendo in quel momento, però alla lunga un’interpretazione del genere non regge, me ne rendo conto, e tutti i nodi che sono riuscito ad elaborare poco per volta alla fine vengono al pettine.

Quindi eccomi qui, sospeso tra tutte le mie abitudini ed una solenne incapacità ad affrontare nuove situazioni.  Cammino per strada con le mani sprofondate dentro le tasche e guardo ciò che c’è attorno a me come un viaggiatore stanco e svogliato che cerca di memorizzare ancora qualcosa di quello che riesce a intravedere. Mi ferma un tizio che conosco facendomi già da lontano un gran saluto, così gli dico subito che ho fretta per cercare di non perdere troppo tempo, ma quello mi chiede se mi vada di mettermi con lui per affrontare una faccenda nella quale c’è da mettersi in tasca un  po’ di soldi.

Lo guardo subito con interesse, lui dice che non si può parlare in mezzo ad una strada, e quindi mi trascina in un caffè poco lontano dove individuiamo un tavolo libero in un angolo.  Mi mette a parte, con poche parole e molti gesti, di una combinazione per cui fingendo di acquistare una certa cosa potremo rivenderla velocemente guadagnandoci una somma, e a me sembra tutto liscio e lineare: lui è conosciuto nell’ambiente, ma essendo io una faccia nuova posso presentarmi senza problemi e portare in fondo senza difficoltà la trattativa. Non ho molto da perdere, penso, così accetto con riserva, anche perché vorrei pensarci almeno un giorno intero prima di dedicarmi davvero a questo lavoretto.

Ci rivediamo il giorno seguente e lui mi porta delle carte; sembra tutto a posto, io devo soltanto presentarmi ad un certo indirizzo e spiegare in breve che mi interessa acquistare un determinato immobile. Appena firmati i primi documenti non resta che rivendere tutto quanto ad una terza persona che lui conosce e a cui interessa molto l’acquisto di un edificio di quel genere, tanto che con pochi passaggi a noi resta soltanto trattenere una bella fetta di questa piccola torta. I soldi da parte nostra non ci sono, è evidente, ma tirando fuori alcune carte che il mio conoscente ha messo a punto, ci vorrà diverso tempo prima che si scopra che il conto su cui sono depositati è assolutamente vuoto, ed a quel punto con una semplice transazione potremo sistemare ogni particolare.

Mandiamo avanti velocemente questa trattativa, e le cose filano subito per il verso giusto, tanto che al momento giusto il mio conoscente fa saltare fuori il compratore subito entusiasta della cosa, e tutto in breve si sistema. Ci dividiamo i soldi qualche tempo dopo infilandoci dentro al solito caffè, e poi ci salutiamo come se non ci fossimo mai neppure conosciuti. Adesso posso davvero intraprendere qualcosa, penso camminando per la strada, ma non mi viene a mente niente, se non tornare velocemente alle solite cose di ogni giorno.

 

Bruno Magnolfi

 


Donne sole

 

 

 

         Benvenuta

 

 

         Aveva camminato a passi svelti verso la fermata dell’autobus distante appena poche centinaia di metri da casa sua, ma avvicinandosi a quel tratto di strada aveva leggermente rallentato l’andatura, come se volesse far trascorrere qualche altro momento prima di salire su quel mezzo pubblico. In fondo era presto, c’erano ancora più di due ore prima dell’inizio della sua prima lezione come insegnante di scienze. Era una supplenza di soli quindici giorni, quella per cui era stata chiamata, ma lei, laureata nemmeno da un anno, si sentiva già persa, le sembrava di non essere assolutamente all’altezza per affrontare gli alunni di quel benedetto liceo, era sicura, una volta che fosse entrata dentro a quell’aula, di non ricordarsi più niente. L’autobus era il solito, quello che aveva sempre preso per andarsene alle lezioni dell’università durante tutti quegli anni volati in un attimo, ma adesso le pareva che tutti là sopra guardassero lei, che le strutture di metallo per reggersi fossero come surriscaldate, che quel tratto di strada non finisse in nessuna maniera e contemporaneamente fosse persino troppo breve. Non si sentiva esattamente come quando aveva dovuto sostenere i suoi esami alla facoltà di biologia, era diverso, era come se una parte cospicua del problema non dipendesse da lei, dalla sua preparazione; come se delle incognite di genere vario fossero di fronte alla sua cultura scolastica a tenderle tranelli in cui inevitabilmente, già lo sapeva, sarebbe caduta come una sciocca.

         Pensava ai suoi anni di scuola, quando era lei a studiare al liceo, e a quegli insegnanti supplenti che erano passati, in ogni genere e grado, dalla sua classe. Figure anonime, alle quali non si era dato alcun credito, che probabilmente, come lei adesso, avrebbero voluto intavolare lezioni ben fatte, professionali, all’altezza dei tanti anni di studio alle spalle, ma non avevano avuto alcuna possibilità, erano state osteggiate, denigrate, sminuite, proprio come sospettava sarebbe accaduto anche a lei. Aveva paura di quei ragazzi che tra poco avrebbe avuto di fronte, inutile nasconderlo, proprio quegli stessi dei quali aveva fatto parte anche lei: le sembrava impossibile adesso, che anche lei fosse stata crudele, miope, stupida, senza minimamente rendersi conto che tra le cose possibili ci sarebbe stato anche quel rovesciarsi di parti tra l’aguzzino e la vittima.

         Avrebbero riso della sua timidezza, si sarebbero fatti beffe di lei, della sua goffaggine innata, di quei suoi modi poco pregnanti, di tutti i suoi anni di studio che all’improvviso erano lì e non servivano a niente, se non a farle fare quella figura da stupida, di una che non riusciva neppure a far fronte ad un branco di adolescenti che avevano tutto da apprendere, da ascoltare, conoscere, invece di gettare discredito su ogni cosa passasse da lì. Infine anche l’autobus era arrivato davanti alla scuola, lei ne era scesa, era entrata dentro al grande portone di legno del liceo “Galilei”, aveva scambiato qualche veloce parola con la segretaria, era passata in aula insegnanti, aveva preso il registro, inforcato gli occhiali, salutato un custode, entrata senza respiro dentro alla classe che grondava del sangue di tutti i supplenti che erano passati da lì prima di lei; e all’improvviso: silenzio; i ragazzi erano in piedi, la salutavano, la loro supplente di scienze era là dentro la benvenuta.

 

        

 

 

 

 

         La sognatrice

 

 

         Aveva passeggiato a lungo nei vialetti del parco della città, godendosi il sole di quel pomeriggio e rincorrendo i pensieri leggeri che le sfioravano ogni poco la mente. Poi era uscita, attraversando l’ingresso con l’enorme cancello di ferro, e si era soffermata davanti ad alcune vetrine di quel quartiere ad osservare borsette e tailleur, soltanto per una normale curiosità, senza un effettivo interesse; infine era salita sull’autobus per tornarsene a casa. Non c’era niente che le piacesse di più di quel lasciar scorrere il suo giorno libero camminando da sola senza una meta precisa. Le piaceva soprattutto quel tempo indolente, quel perdersi in sguardi verso realtà per lei più inconsuete. Tanto, lo sapeva benissimo, rientrando dentro al suo piccolo appartamento, tutto avrebbe ripreso velocemente il suo corso.

Già aprendo la porta le sarebbero venuti incontro i suoi doveri verso se stessa: riassettare tutto l’appartamento sempre in disordine, togliere i vestiti sparsi sopra le sedie sistemandoli dentro l’armadio, spolverare e pulire un po’ dappertutto; e poi pensare soprattutto al suo lavoro: la relazione mensile da fare, preparare le lezioni dei giorni seguenti, migliorare poco per volta il suo ruolo di insegnante di scuola elementare. Sua madre l’avrebbe chiamata al telefono, poco più tardi, quella sera come tutte le sere, più o meno alla solita ora; solo per dirle le cose di sempre, per chiederle ancora: “…ma non c’è proprio nessuno che ti interessi? E’ mai possibile, eppure ti manca ben poco al compimento dei quarant’anni…”, e lei avrebbe risposto nella maniera di sempre, che stava bene da sola, che non sentiva necessità di conoscere proprio nessuno, e di legarsi ad un rapporto sentimentale meno che mai, ma erano tutti discorsi che la spossavano ancor più che riassettare la casa, specialmente in quelle ultime sere.

Era incinta, al primo mese, e aveva deciso di tenersi il bambino. Solo lei lo sapeva, e non aveva certo intenzione di rivelarlo a nessuno. Conoscere l’insegnante supplente che l’aveva invitata a cena una sera, e aver finito per lasciarlo dormire con lei, a casa sua, era stato un fatto così naturale, che quando lui aveva terminato quella supplenza di due o tre settimane, lei lo aveva salutato come un collega, un amico qualsiasi, senza chiedergli niente per un futuro impossibile, e facendo in modo che lui non se ne uscisse con le solite frasi fasulle, volte a dar seguito a un rapporto che di fatto non era neppure iniziato.

Così adesso solo lei lo sapeva di portare dentro di sé quel grande segreto. L’avrebbe coltivata con tutto il suo amore quella sua gravidanza, era questo il pensiero leggero e costante che più di ogni altro accompagnava adesso i suoi giorni, e quando si fosse vista la pancia lo avrebbe detto a sua mamma, e forse sua mamma sarebbe stata ancora più disperata di adesso, ma che cosa importava, non ci sarebbe stato mai niente di maggiormente importante della sua decisione, sarebbe andata avanti con chiunque avesse voluto aiutarla, e il suo amore sarebbe nato dentro di lei, poco per volta, a cambiarle dolcemente la vita.

 

 

 

        

 

 

         Una donna estroversa.

 

 

         La donna allo specchio si osservava i piccoli difetti del viso. Avrebbe dovuto uscire di casa tra non molto, ma siccome si doveva incontrare con alcune persone tra cui un uomo che lei reputava bello, tutto questo la metteva in forte disagio. I loro rapporti erano soltanto di lavoro, non sussistevano dubbi su questo, però ciò non significava affatto che lei dovesse sfigurare al suo fianco, recandosi a quella colazione tra colleghi d’ufficio. Così, dopo molte incertezze, aveva infine deciso quale vestito indossare tra i tanti possibili, un abito che si adattasse meglio al suo spirito, al suo essere, alla sua interpretazione del momento, e in conseguenza, aveva anche deciso con quale colore ombreggiare gli occhi e le labbra. Aveva passato mezza mattina ad osservare le stoffe, i colori, le sfumature, a definire come voleva che fosse la giornata che aveva di fronte. Ma adesso, dopo che si era osservata a fondo nei particolari che vedeva riflessi dentro allo specchio, aveva capito che c’era qualcosa che non tornava sulla sua faccia.

Improvvisamente, guardandosi dentro a quel rettangolo senza segreti, si era come resa conto di sentirsi diversa da come effettivamente lei era. La sensazione provata era del tutto particolare: si trattava del fatto che lei, dentro di sé, era un’altra persona rispetto a come era fuori. Non se ne era mai resa conto fino a quel giorno, ma la sua faccia, la sua espressione, il suo viso, non corrispondevano affatto a ciò che lei pensava di sé. Era come se la persona che la stava guardando allo specchio fosse un’estranea, un’altra donna, e questo era spiacevole, una sensazione senz’altro antipatica.

Cercò di conservare la calma, sistemò alcune cose del tutto marginali, tanto per prendere tempo, cercò di pensare a degli argomenti di cui avrebbe voluto discutere durante quel pranzo, ma poi, inevitabilmente, tornò di nuovo a guardarsi dentro allo specchio. C’era poco da farsi illusioni, lei non era se stessa, era inutile cercare scusanti con il rossetto o il periodo di stanchezza. Era difficile spiegarsi una cosa del genere, e soprattutto diventava complicato presentarsi ad altre persone con un interrogativo del genere dentro alla testa. Si concentrò su alcune piccole rughe che potevano essere coperte con del fondo tinta. Accese lo sguardo con un ombretto deciso sopra le palpebre. Disegnò le sue labbra con del rossetto perfetto per ciò che desiderava mostrare. Infine era pronta, ma la sua messinscena non corrispondeva a se stessa.

Cercò di pensare qualcosa di diverso, ma la sua mente andava verso quel suo sentirsi una persona diversa da come effettivamente lei era. Uscì di casa ed il suo taxi arrivò dopo un minuto. Cercò di osservare il suo sguardo nello specchietto della vettura mentre dettava l’indirizzo del ristorante, poi, come vinta dalla situazione, si rannicchiò in un angolo del sedile posteriore. Arrivò che tutti ormai erano in sua attesa. Si fermò in una posizione qualsiasi, aspettò che gli altri, anche quel bello che si mostrava in splendida forma, si voltassero verso di lei, e infine disse, attirando l’attenzione di tutti: “Scusate, forse non dovevo neppure venire, ma oggi per me non è proprio la giornata più adatta. Sto male, ma non è questa la cosa importante; il problema è che non so cosa mi stia succedendo, cosa stia attraversando la mia povera testa…”. Gli altri l’applaudirono, era bello che qualcuno fosse più estroverso di tutti.

 

                

 

 

         Pomeriggio sospeso.

 

 

         Lei aveva indossato una vestaglia da camera, si era seduta al tavolo, aveva aperto il suo piccolo diario. Doveva spingersi in avanti, lo sapeva: avrebbe dovuto riordinare la casa, farsi una doccia, vestirsi per uscire, ma era rimasto in aria il passaggio quasi impalpabile di lui, forse il suo odore, la sua ombra, quel suo esser stato lì in silenzio fino a poco prima, e questo bastava a paralizzale dolcemente qualsiasi movimento. Aveva scritto la data sopra al foglio bianco, poi aveva iniziato il suo pensiero con: “Dovrei…”, interrompendosi subito. A che serviva annotare cosa sarebbe stato giusto fare, pensava, la realtà era diversa. Ogni sua intenzione veniva ogni volta vanificata, lo sapeva, non poteva farci niente.

Sentiva giungere un rumore leggero dalla strada, qualcosa che la riportava vagamente alla realtà, ed era un oscillare appena percettibile, quasi un leggero moto altalenante, tra la vita della strada e quel suo starsene lì, immersa in riflessioni dolci, rese ovattate e morbide dalla cipria che ricopriva ogni pensiero. Poi scrisse: “Farmi desiderare…”, senza essere convinta di quelle semplici parole. Le venne da sorridere: come sarebbe mai stato possibile tenere un comportamento freddo, stabilito a priori, un percorso meditato volto al raggiungimento di un fine certo? Cosa poteva mai escogitare per cambiare anche solo qualcosa in quella realtà incondizionata? “Niente…”, scrisse; “non è possibile”.

Poi si mosse, andò nell’altra stanza, alzò il telefono: aveva voglia di sentire la sua voce, di sapere che era vero, che esisteva, che sapeva dirle cose dolci, belle, sfiorarla delicatamente con quelle sue parole, ma adesso era solo egoismo il suo, capriccio da bambina, non doveva cedere a comportamenti così stupidi. Forse aveva voglia di piangere, ma non sapeva più se era per se stessa o se era per lui, per quanto le mancava. In ogni caso doveva sforzarsi di essere più razionale, definire qualcosa dentro di sé e poi tenere fede a quella scelta.

Giunse di nuovo il rumore dalla strada, e la luce obliqua del pomeriggio filtrava dalle tende indicando qualcosa a terra, sopra al pavimento. Continuava a sentirsi imbambolata, nonostante i suoi deboli sforzi, e adesso le pareva che la testa le girasse, come se una piccola ubriacatura fosse scesa dentro di lei. Era rimasta la bottiglia di vino rosso sopra al tavolo, e i due calici da cui avevano bevuto. Versò ancora qualche goccia, giusto per sentire quel profumo, poi andò decisa verso la finestra e l’aprì, con un gesto deciso. L’aria era immobile, ma i rumori della strada entravano nell’appartamento come a volergli dare vita. Lei spinse il suo sguardo sopra i tetti vicini, fino ad un campanile immerso dentro alla città. Poi tornò al tavolo, prese di nuovo la penna che aveva abbandonato sopra al foglio, e scrisse in fretta: “Sono felice…”; poi chiuse il diario ed iniziò ad occuparsi di altre cose.

 

 

 

 

 

 

 

         Una sera colma di pianto.

 

 

    La donna era uscita di casa dopo aver saggiato a lungo il comportamento migliore da tenere. Ormai era stufa di quei sotterfugi a cui doveva dar seguito e anche di quegli appuntamenti giocati sul filo di pochi momenti, la sua vita aveva bisogno di altro, se ci pensava non capiva neppure come fosse finita in quella relazione adulterina con lui, lui che era solo un vicino di casa, incontrato per caso da solo una sera dentro a un caffè, e che spesso andava da lei solo per rovesciarle addosso le difficoltà con la moglie, i problemi con il lavoro e altre cose del genere. Se ci pensava per bene non sentiva neanche un affetto particolare per lui; certo, c’era stato un primo periodo in cui le era apparso come il miglior uomo del mondo, ma poi le cose lentamente erano andate cambiando, ed adesso tutta quella faccenda le era soltanto di peso.

A lei piaceva sognare, e c’erano stati momenti, questo era vero, in cui lui le aveva permesso di farlo, donandole piccoli pensieri e delicate attenzioni meravigliose. Ma questo non significava un bel niente, ormai i tempi erano diversi, doveva prendere delle decisioni concrete che mostrassero lo spirito differente di cui lei adesso si sentiva pervasa. Per questo aveva atteso per tutta la settimana che lui desse segno di sé, ma come se avesse compreso che qualcosa di negativo stava nell’aria, lui non si era fatto assolutamente vedere, ed aveva evitato di lasciarle anche solo uno dei suoi soliti bigliettini sotto alla porta, come al contrario altre volte aveva fatto.

Si sentiva nervosa, inutile dirlo, non ce la faceva più a stare in casa ad attendere. Per questo era uscita, anche se non sapeva neppure verso dove dirigersi. La serata era fredda e umida, le luci dei lampioni lungo la strada spandevano i riflessi come chiazze di colore sui marciapiedi; tutte le persone in giro a quell’ora apparivano serene, tranquille nel loro passeggiare in compagnia di qualcuno scambiando le proprie opinioni, e divertendosi nel raccontare le piccole vicende che ognuno viveva ogni giorno. La sua solitudine, in contrasto con gli altri, pareva caricata di orgoglio, come se la sua vita fosse costituita da un materiale più forte, e stesse lì, lungo quei marciapiedi, solo per dimostrarlo a chiunque.

I suoi passi casualmente l’avevano portata fino al caffè dove tanto tempo prima si era incontrata una sera con lui, quella volta per pura combinazione, quando mediante l’ausilio di alcuni semplici sguardi tutto aveva trovato un suo seguito. Così, rallentando il suo passo alla vista del locale, si era avvicinata, aveva spinto la porta vetrata, un campanellino aveva tintinnato, e lei era entrata lasciandosi avvolgere dall’aria calda e luminosa che c’era tra i tavolini e il bancone di legno. Lui era lì, seduto con qualcuno che lei non conosceva: lo ignorò, si sedette, si fece servire del the. Gli dava le spalle e per nessuna ragione al mondo si sarebbe mai girata verso la sua direzione. Bevve con calma il suo the, consultò qualcosa nella sua agenda, si accese una delle sue sigarette, poi, una volta pagata la consumazione al cameriere, si alzò dal suo tavolo e prima di uscire disse soltanto: addio, a voce alta, a tutta la sala, ma senza riferirsi a nessuno.

Quando raggiunse il marciapiede riprese a camminare come prima, ma pur stringendosi nel suo paltò le pareva d’essere una persona diversa da sempre, e anche quando si accorse di piangere, pur con tutto il bisogno che aveva di chiarezza, non riuscì neppure a capire se lo faceva per la gioia, o al contrario, per un dolore fino ad allora sopito.

 

 

 

 

 

 

         Nel colore rosso.

 

 

         Come ogni giorno lei era tornata a casa, dopo il lavoro. Un’ora più tardi aveva appuntamento in palestra, come tutte le sere, ma pensò che non aveva alcuna voglia di andarci, di fare i soliti esercizi, di scambiare le solite battute con le ragazze che conosceva. Così si era seduta sulla sua poltrona preferita cercando dentro di sé di comprendere l’origine di quella sua strana e repentina apatia.

         I suoi anni stavano scorrendo senza inciampi, quasi senza dolore, e lei non amava fare bilanci, però se proprio doveva riflettere su quei suoi ultimi anni avrebbe detto che le parevano insulsi, senza alcuna caratteristica. Era difficile provare un senso vero di noia, c’erano le amiche, il lavoro che le piaceva, i fine settimana da trascorrere sempre da qualche parte, a scoprire qualcosa di nuovo, eppure in certe giornate tutto le appariva come una grande stupidaggine.

         Poi le era presa la voglia di mangiarsi della frutta mentre accendeva la televisione tanto per curiosare sui programmi che passavano a quell’ora, e così aveva aperto il frigorifero, tirando fuori una mela bella lucida e succosa, proprio come piacevano a lei. Aveva preso un coltello dal cassetto, uno di quelli ordinari, da tavola, giusto per sbucciare quella frutta, ma quasi senza rendersene conto si era subito fatta male ad un dito, forse per distrazione, forse per quella svogliatezza da cui si sentiva attraversata ultimamente in ogni cosa che faceva.

         Qualche goccia di sangue era caduta sul piano della cucina, lei aveva guardato quelle piccole macchie con sorpresa, quasi con curiosità. Si era sentita come immobilizzata a quella vista, la mela lucida da una parte, la sua mano mezza insanguinata dall’altra. Così aveva fatto qualcosa quasi per un gusto che neppure conosceva: si era provocata un altro piccolo taglio nella mano, con intenzione, giusto per vedere ancora il rosso del suo sangue. E dopo un altro ancora, quasi per ridere, senza badare troppo a ciò che le stava succedendo, solo per vedere quel colore che si spandeva sopra al piano della sua cucina.

Infine si era inferto un colpo netto di taglio sopra al polso, proprio lì, dove le vene e le arterie sono più evidenti, ma non per farsi male, quanto per capire fin dove poteva misurare la sua voglia di diversità, di elementi nuovi nella sua serata, dentro la sua vita. Si era toccata il viso, le braccia, tutto il vestito, imbrattandosi orribilmente di quel sangue che continuava ad uscirle dalle sue ferite, di quel suo elemento interno che pareva bramare per mettersi in mostra, per farsi vedere, fino a sentirsi a un certo punto sola, debole, scoraggiata anche in quella voglia assurda.

Allora aveva cominciato a urlare, ma solo per un po’, quasi per se stessa più che per gli altri, fino a riflettere che era sola in casa, e che probabilmente i suoi vicini non l’avrebbero sentita. Pianse allora, all’improvviso, di qualcosa che non riusciva neppure a capire cosa fosse, ma quando si trascinò fino nel bagno per vomitare dentro al lavandino, scoprì nello specchio quanto profonde fossero quelle ferite, e fu in quel momento che ebbe paura anche di se stessa. Si affacciò alla finestra per prendere un po’ d’aria, ed osservò per un attimo la strada sempre identica sotto casa sua; infine decise che era meglio telefonare in ospedale.  

 

 

 

 

 

         Estranea alle persone intorno

 

 

 

         C’è sempre un sacco di gente davanti alla fermata dell’autobus a quest’ora, proprio quando esco dal mio lavoro. Sembrano tutte persone distanti, quasi diverse da me; certe volte penso: chissà ognuno di loro cosa fa in tutto il giorno, oppure quali saranno i suoi pensieri mentre sta qui, sul marciapiede, a riflettere chissà mai su che cosa? In fondo non ha alcuna importanza, io tengo ben stretta la mia borsa e penso soltanto ai fatti miei. Guardo l’orologio, tra due minuti arriverà il diciassette, io salirò, timbrerò il mio biglietto, mi piazzerò come sempre nell’angolo in fondo, e tempo venti minuti sarò quasi a casa.

         Mi guardo attorno, ci sono sempre un sacco di brutte facce che girano da queste parti; non che si debba giudicare tutti dall’espressione del viso o da come sono vestiti, però non mi sento tranquilla a questa fermata, a quest’ora poi, quando la luce del giorno se ne va, e i lampioni e i fari delle auto mostrano una realtà più tagliente, più confusa, quasi violenta. Ma io tengo ben stretta la borsa sotto al mio braccio, non mi può succedere niente. Certe volte immagino che se per disattenzione cadessi per terra, nessuno mi darebbe una mano a rialzarmi, e questo mi pare terribile.

          Non riesco proprio a capire come facciano certe ragazze che girano serene in questi paraggi, magari con le gonne più corte di quanto dovrebbero essere, o le scollature vistose. A me non importa, mi stringo dentro me stessa e vado avanti, per la mia strada, qualsiasi cosa succeda. Non guardo nessuno, mi sistemo dove ritengo di non intralciare il passaggio, e sto lì, aspetto l’autobus senza che niente mi distolga dalla mia attesa.

         In questo tratto di strada c’è sempre un movimento continuo di macchine, e gruppi di pedoni traversano da un marciapiede a quell’altro. Spesso qualcuno frena un po’ bruscamente davanti ad un passante sbadato, oppure ci sono altri che credono di essere furbi e vanno a tutta velocità da un semaforo a quello seguente. Mi sembra tutto tremendamente pericoloso, come se davanti a questa fermata dell’autobus si sfiorasse ad ogni minuto una di quelle tragedie di cui da tutte le parti si sente parlare.

          Dentro alla tasca tocco con la punta delle dita il biglietto dell’autobus e mi sembra già di essere via, lontana da qui. Un senso di smog e di polvere rende tutto sgradevole da queste parti, quasi che niente potesse essere neppure sfiorato, senza raccogliere da ogni superficie una patina di sporco. Non mi accadrà niente, ripeto qualche volta tra me, e intanto mi stringo di più tra l’impermeabile e la borsa che ho sotto al braccio.

          Poi si avvicina qualcuno, un uomo, forse straniero; mi chiede dove andare per raggiungere una strada che è lì nei paraggi, ed io la conosco, so dov’è, potrei dargli le spiegazioni che cerca. Lo guardo, ma soltanto un momento, vedo dietro di lui che sta arrivando il mio autobus, si, è proprio il diciassette, la linea che porta nei pressi della mia abitazione, così fingo di non capire, di non sapere niente della strada che cerca, lo scarto, con il semplice gesto del braccio, e infine salgo sul mezzo pubblico insieme a tanta altra gente, e timbro finalmente il biglietto.

          Non mi interessa un bel niente dei problemi degli altri, penso, devo stare ben attenta che a me non succeda qualcosa, qualcosa di cui magari in seguito ritrovarmi assolutamente pentita, di cui rammaricarmi per chissà quanto tempo, come una sciocca; proprio perché ci vuole un attimo, una sciocchezza, per rimanere in balia di un evento a cui non si era pensato, una svista da niente, un incontro casuale, che spesso si presenta così, con la faccia di una persona qualsiasi, e non ti porta proprio niente di buono.

 

 

 

 

        

         Una donna perduta.

 

 

         Non c’è niente di strano, diceva lui continuando a fumare, senza guardarla, seduto al tavolo di cucina con aria svogliata. Lei non amava fare domande, così le parve che non ci fosse neppure bisogno di continuare a parlare di quell’argomento. Era convinta che avere dei segreti non provocasse la fine del mondo, certo, ma la scioltezza con cui lui faceva tutto quanto, e la maggior parte delle volte a sua completa insaputa, senza neppure accennarle qualcosa, non rivelasse un’idea di rapporto maturo quale in fondo lei credeva fosse il loro.

         Si cambiò d’abito, poi disse che usciva, voleva riflettere le cose con calma, da sola. Camminò lungo i soliti marciapiedi che si snodavano nel loro quartiere, osservando le persone che mostravano fretta in quell’ora serale, coloro che ridevano scambiando opinioni su una cosa o sull’altra, gli individui da soli, che certe volte apparivano come sperduti, tra quelle strade, le case, i negozi, i palazzi, tutti pieni di estranei, come un selva di sconosciuti completi, che probabilmente avevano dentro la testa pensieri diversi dai suoi, e che forse optavano per modi diversi di vivere.

         Si fermò in un caffè, si fece servire un aperitivo frizzante, tanto per tirarsi su di morale, osservando le poche persone che tiravano tardi prima dell’ora di cena. Poi uscì, rinfrancata, ma senza motivo. La sera aveva una luce stupenda, le auto parevano inseguirsi tra loro con i fari puntati, scivolando sopra l’asfalto nella ricerca di qualcosa che ne giustificasse la corsa, e gli autisti proseguivano a pigiare pulsanti, pedali, azionare le leve, come elementi di modernità inalienabili.

         Lei proseguiva a pensare, rifletteva sulla sua vita, cercava un motivo dentro di sé con cui sentirsi appagata, ma era inutile, non c’era nessuna cosa di cui fosse contenta, neppure di sé, delle sue considerazioni improvvise: le sue giornate erano composte di materiale povero, pensava, privo anche di parti migliori, che brillassero almeno una volta per dar mostra di loro.

         Una coppia di uomini giovani, che le camminavano davanti una decina di metri, entrarono in fretta dentro a un grande portone di un antico palazzo, lasciando aperto dietro di loro. Lei rallentò, guardò attorno a sé quel tratto di marciapiede in quel momento deserto, infine scivolò lentamente anche lei dentro all’ingresso, chiudendosi dietro. Sul fondo di quell’androne, le scale di pietra serena apparivano belle e importanti girando attorno ad un ascensore che in quel momento stava salendo, avvolto in una gabbia di ferro battuto con la cabina di legno e di vetro.

         Prese le scale, raggiunse il vasto pianerottolo del primo piano dove si aprivano due portoncini simmetrici, e restò lì, per un attimo, come a scrutare ogni cosa da cui si sentiva circondata ed attratta. Non avvertiva rumori, se non da qualche piano più in alto, dove forse i due uomini giovani erano giunti. Infine premette il campanello in ottone che riluceva alla destra del portone dove era riportato un nome che pareva importante, e qualcuno giunse ad aprire, restando per un momento in silenzio, guardandola: per favore, disse lei con parole senza l’uso di accenti, mi sono perduta.

 

 

 

 

 

 

         Per le violette fiorite.

 

 

La casa era silenziosa a quell’ora, la lampada bassa diffondeva nella stanza una luce calda, lei stava seduta sulla sua poltrona preferita, e scorreva le parole delle pagine di un libro, un romanzo che aveva già letto molti anni prima. Le piaceva rivedere le cose che le erano piaciute durante la sua gioventù, era un po’ come ritrovare anche qualcosa di sé, di quelle passate emozioni, di quegli stupori che spesso aveva provato nella scoperta del mondo.

         Le capitava spesso di ripensare qualcosa dei tempi passati, a volte anche senza volerlo, come se i suoi ricordi affiorassero alla mente da soli, composti da una propria vitalità, ma ogni volta lei si mostrava pronta a scacciarli, in dei casi con un gesto, oppure con un sorriso, o con un repentino ritorno al presente, quasi che il tempo dedicato a quei sentimentalismi si dimostrasse a lungo un comportamento deteriore, e comunque una sciocchezza poco importante. Loro tornavano, lo sapeva benissimo, lievemente, poco alla volta, senza ingombrare, e lei lasciava che si affollassero attorno alla sua poltrona per la lettura, per poi riprendere di nuovo ad allontanarli da sé, come un piccolo gruppo di animaletti curiosi.

         Non si era sentita mai troppo vecchia, lei, che ancora andava a spasso con le sue amiche, sapeva adeguatamente truccarsi gli occhi, e spesso in giro riusciva a dar mostra di sé, con la sua personalità non da tutti e i suoi capelli curati, anche se quella solitudine che spesso provava certe volte indubbiamente la faceva soffrire. I libri la portavano via, ma lei voleva restare con i piedi ben piantati per terra, essere cosciente di tutto ciò che avveniva, informarsi, stare aggiornata sulla realtà ed i suoi cambiamenti continui. 

         La sua piccola casa certe volte le pareva perfetta per le sue esigenze: ogni angolo aveva uno scopo e da ogni parte lei si sentiva a proprio agio, come se tutto fosse disegnato per ogni sua piccola necessità. Ma più di ogni altro, era il posto dove teneva i piccoli vasi con le violette ciò che le dava una soddisfazione particolare. Aveva trovato il sistema per riprodurle, quelle piantine, partendo ogni volta da una semplice foglia, e ciascuna di loro, quando nasceva sopra a quel tavolo su cui le curava, accanto ad una finestra, mostrava, dopo aver messo le minute radici, una fioritura di colori sempre diversi. Non chiedevano molto, le sue violette, solo un poco di cure e di attenzioni, il resto lo facevano da sé, in bella mostra sopra la mensola, con delle fioriture meravigliose.

         Le guardava, le toccava, ed era come se loro sapessero che lei era lì, ad osservarle con attenzione, pronta con orgoglio a mostrarle ogni volta che qualcuno andava da lei a farle visita. Prima di uscire di casa passava ancora da loro, come ad assicurarsi che tutto fosse a posto, poi si fermava davanti al grande specchio del corridoio, e dava un ultimo sguardo al suo viso, ai suoi capelli, come a raccogliere con un gesto il meglio di sé, e affrontare ogni aspetto che fuori l’attendeva.

         Ma quel giorno non si era sistemata per uscire, non aveva guardato le sue piante, era rimasta seduta a leggere il libro, quel romanzo della sua gioventù, e quando si era alzata, forse in modo repentino, dalla sua poltrona, era andata, chissà come, a cadere come una sciocca, quasi senza rendersene conto. Il dolore fortissimo a una gamba le aveva reso evidente in un attimo la gravità di ogni cosa, e lei, impossibilitata a muoversi, era rimasta lì, semisvenuta, incapace di chiedere aiuto.

         Il silenzio della casa non le dava sollievo, i suoi pensieri adesso correvano veloci, si soffermavano su tutto ciò che avrebbe potuto portale un aiuto, ma restarsene ferma là a terra era qualcosa che non aveva mai preso in considerazione, e il telefono era lontano, proprio all’ingresso, sotto allo specchio. L’avrebbero trovata lì, priva di vita, pensò in un attimo, fra tre o quattro giorni, o anche di più, ma in fondo tutto questo era un aspetto che riusciva persino ad accettare.

Ma poi le erano venute a mente le sue violette: non poteva lasciarle, avevano bisogno di lei, sarebbero seccate senza la sua mano esperta: quell’esperienza che aveva maturato con loro non poteva averla nessuno come lei, ne era sicura. No, non poteva lasciarle, sarebbero rimaste lì ad appassire, giorno dopo giorno, ignorate da tutti, e questo non lo meritavano. Si fece coraggio, pensando queste povere cose, si trascinò alla meglio lungo quel pavimento, e alla fine raggiunse il telefono. Non mi importa niente di me stessa, aveva detto alla sua amica che fortunatamente abitava vicino, spiegandole tutto ciò che era successo, ma devo pensare a queste violette, sono anche loro che hanno bisogno di cure, hanno bisogno di me, ed io non posso permettere che quei fiori meravigliosi appassiscano.

        

        

 

 

 

         Incomprensibile solitudine.

 

 

         Seduta ad un tavolino della saletta di un bar, la ragazza si era fatta servire una tazza di tè dal cameriere, poi aveva aperto un libro che aveva dentro la sua borsa, e ne aveva scorso velocemente alcune pagine, seguendo le parole, a dire la verità, con scarsa concentrazione. Intorno c’erano poche persone, una coppia di innamorati, tre giovanotti, un anziano da solo. Non aveva alcun motivo importante per starsene lì, non aspettava nessuno, non le piaceva neanche troppo il locale, eppure le era difficile pensare di andarsene, forse perché non sentiva alcuna voglia di mettersi in giro con il freddo che faceva senza una meta, e neppure tornarsene a casa per stare da sola era qualcosa che le sembrava accettabile, almeno per quel pomeriggio.

         Lei insisteva da anni nel definirsi ancora una ragazza, ma la sua età un po’ più avanzata tendeva ormai a mostrarsi: i primi capelli bianchi si erano già fatti vedere, qualche piccola ruga ormai  contornava i suoi occhi, qualcuna forse anche la bocca. Che schifo la vita, pensava certe volte, se ne va via senza che neppure abbiamo imparato come trattarla, in quale maniera starci nel mezzo, considerarla, spenderla; non si era mai spinta molto in avanti, lei, questo era vero, però che cosa poteva farci se era quello il suo modo di essere, il suo carattere? In fondo era riuscita a starsene spesso da parte, senza dare fastidi, anche questo era un valore, e lei si sentiva orgogliosa di non aver quasi mai fatto le cose che non le andava di fare. 

         Era da sola, anche se non per una sua scelta, ma ormai questo suo modo di essere le era diventato quasi un vestito che non riusciva proprio a non indossare, e non le importava neanche più niente che qualcuno del vicinato pensasse di lei come di una zitella. Certe volte si piazzava seduta, osservava le sue mani sempre curate, e si sentiva completa, come se non avesse bisogno di altro: zitella era una donna che non accettava la vita senza un rapporto di coppia, pensava, per lei era diverso, andava tutto bene così, non aveva bisogno di niente, rialzava la testa quando i vicini la salutavano, e cercava di apparire felice, sorridente, a posto e in armonia con le poche cose su cui poteva contare. Aveva poi ripreso il libro, leggiucchiato un’altra mezza pagina, bevuto un sorso finale di tè, infine si era decisa ad alzarsi ed uscire dal bar.

Fuori la serata era fredda, come già sapeva, ognuno per strada si stringeva dentro ai propri abiti, lei aveva sistemato bene la sciarpa e percorso senza fretta alcuni marciapiedi di quel suo quartiere. Era giunta soprappensiero davanti al portone del condominio dove abitava, senza quasi rendersi conto, così aveva cercato la chiave nella sua borsetta, l’aveva inserita ed era entrata dentro l’ingresso, richiudendo velocemente l’uscio dietro le sue spalle. Un suo vicino del piano superiore era giunto in quel momento scendendo le scale, l’aveva salutata con un sorriso, lei aveva risposto, e infine, rallentando ambedue i propri movimenti, si erano guardati più attentamente, come alla ricerca di qualcosa di sensato da dirsi: fa freddo fuori, aveva spiegato lei; e camminare per strada da soli certe volte è pesante. Lui l’aveva guardata negli occhi, si era soffermato ancora un momento, quasi ad indagare su qualcosa di cui non aveva alcuna idea, poi era tornato con gesto lento ad aprire il portone, e infine, senza neppure riuscire a dirle niente, era uscito da lì, quasi di fretta.  

          

 

 

L’arrivo imminente.

 

 

 

Clelia lo aspettava, sapeva che lui sarebbe arrivato prima o poi, non era possibile tardasse ancora più a lungo, lei lo sapeva perfettamente, lo sentiva dentro di sé, sarebbe arrivato da un attimo all’altro, senza alcun preannuncio, come se la sua comparsa fosse l’evento più naturale di tutte le cose che sarebbero potute accadere. Aveva riflettuto a lungo su quegli ultimi avvenimenti, Clelia, aveva continuato a pensare ogni particolare di quell’ultimo paio di giorni, dando una spiegazione del tutto logica a ogni dettaglio, come se quegli accadimenti fossero stati aspetti ordinari della loro esistenza, come qualsiasi altro avvenimento delle giornate che si susseguivano, ed adesso si sentiva perfettamente convinta e a proprio agio con quelle semplici concezioni che era riuscita con determinazione a mettere a fuoco.

Addirittura, all’inizio, quando aveva capito, appena si era convinta dell’arrivo imminente di lui, era corsa dietro ai vetri della finestra con profonda sicurezza, col viso ridente, ed era rimasta lì, ad osservare la strada nell’attesa e nella certezza di vederlo arrivare, come tante altre volte in quei quattro anni era successo, e appoggiata agli infissi si era sentita bene, a suo agio, nel guardare le persone di quel quartiere che si fermavano a parlare tra loro lungo i marciapiedi, e a scambiare qualche opinione, a dirsi qualcosa che magari non aveva neppure troppa importanza, e che invece, in qualche maniera, appariva per quella frazione di tempo così fondamentale, come tutte le piccolezze che compongono qualunque giornata. Poi però si era scossa: non voleva farsi trovare da lui in quella posizione, e così era andata a sedersi accanto al tavolo, iniziando a giocherellare con la tovaglietta merlettata, e continuando a pensare a tutto quanto, sempre accompagnata dalla sua grande fiducia.

Era già successo qualche altra volta a Clelia: aveva così tanto desiderato di vederlo arrivare all’improvviso, lo aveva così tanto pensato nella profondità di se stessa, che alla fine lui era arrivato davvero, quasi materializzandosi, come richiamato dalla telepatia che lei era quasi convinta di possedere dentro di sé, come se quella unione fosse un elemento inciso nella natura delle loro cose, e di cui non doversi mai meravigliare, in qualsiasi caso. Certo, stavolta forse era diverso, lui aveva detto del loro rapporto parole irripetibili e quasi definitive che probabilmente non avrebbero dovuto lasciarle molte speranze, se non fosse stato che Clelia, ripensando a quegli ultimi tempi, si era resa subito conto di non aver compreso bene alcune cose, e di non aver parlato a lui delle variazioni nelle sue idee e di quei desideri che era riuscita da poco a comporre. Ecco, soprattutto questo le pareva l’elemento fondamentale di adesso: com’era possibile che lui da quasi tre giorni non sentisse l’esigenza di parlarle, di scambiare i suoi pensieri con lei come sempre era accaduto, di sapere cosa stesse facendo, di chiederle quale fosse il suo stato d’animo attuale?

Avevano scambiato tutto in quei quattro anni, pensava adesso Clelia, non era possibile interrompere di colpo qualcosa che in loro aveva sempre agito in modo così naturale, quasi come un automatismo, rispondendo però ad una invidiabile sincera spontaneità. E poi, il loro parlare di futuro, quel sognare quasi ad occhi aperti su tutto ciò che di bello avrebbe senz’altro dovuto accadere a loro due, non poteva certo interrompersi in quella maniera. No, lui stava arrivando, Clelia lo sapeva, era proprio come tutte le altre volte: ma non doveva avvicinarsi alla finestra, non doveva dargli la soddisfazione di mostrare che lei era lì, in sua attesa, come non avesse altro da fare. Doveva svagarsi, occuparsi di qualcosa, così ad un tratto Clelia si alzò dalla sedia per accendere la lampadina, contenta di aver trovato un gesto utile, e in quell’attimo sentì una vibrazione nell’aria, qualcosa di realmente poco comprensibile: si accorse Clelia, all’improvviso, che era trascorso più tempo di quello che si sarebbe mai immaginata: il giorno aveva già tracimato dentro la sera, il cielo si era oscurato, un altro pomeriggio era passato, senza che lei quasi se ne fosse neppure accorta. Così mosse alcuni passi dentro la stanza, Clelia, si guardò attorno nel silenzio, e infine andò ad accostarsi di nuovo alla finestra, con un moto di disperata speranza.

Non c’era più nessuno nella strada adesso, tantomeno lui. Eppure a Clelia sembrava ancora che quasi stesse arrivando, le pareva addirittura di vederlo, se ci pensava con profondità, con il suo modo particolare di camminare, la sua faccia serena, il suo sorriso. No, rifletteva adesso all’improvviso, non stava venendo da lei, ecco cos’era l’elemento più nuovo, e non era lui quella persona che camminava laggiù da sola contro le case, anche se in fondo forse questo non aveva più alcuna importanza: d’un tratto non era più tanto essenziale che ora lui si facesse vedere, che uscisse fuori dallo scuro di quei marciapiedi; Clelia adesso provava un’emozione diversa, lo sentiva accanto a sé, ne sentiva il respiro, la presenza, le pareva quasi di poterlo toccare, come se non si fosse mai allontanato; lui era lì, insieme a lei, Clelia ne era sicura, e tutto il resto al confronto con questa convinzione era soltanto una sciocchezza del tutto secondaria.

 

 

 

 

         Pomeriggio sospeso n. 2.

 

 

         Si era vestita, togliendosi la sua vestaglia da camera e scegliendo con calma gli abiti adatti per una passeggiata nel suo quartiere, senza neppure una meta precisa. Si era osservata più volte davanti allo specchio che teneva in un angolo, infine si era spazzolata i capelli, poi era tornata nel salottino. Non aveva una gran voglia di uscire di casa, questa era la verità, però sentiva suo preciso dovere smuovere quell’aria magica che lui, quando era uscito, si era lasciato alle spalle. I loro incontri clandestini erano così, spesso nascevano all’improvviso, e molte volte si consumavano in fretta, come un’idea, un pensiero, una supposizione. Mise via i due calici in cui avevano bevuto, sistemò qualche cosa senza importanza, poi cercò le chiavi di casa.

Fu sufficiente non riuscire a trovarle al solito posto, per farle tornare a mente i suoi modi, quel suo sorrisetto quando saliva le scale dietro di lei e attendeva che aprisse la porta dell’appartamento, oppure quando arrivava e restava lì fermo, sul pianerottolo, prima di decidersi a entrare. Avrebbe dovuto farne una copia di quelle chiavi, pensò con un sottile senso di auto rimprovero, come se avesse dovuto già averci pensato, poi immaginò se stessa rincasare e trovarselo lì, come un regalo portato da una bella giornata.

Lei avrebbe sorriso, senza parole, forse le sarebbero spuntati due lucciconi negli occhi per quella gioia improvvisa, e senza far altro lo avrebbe abbracciato, come a trattenerlo per sempre, o a stringere a sé tutta quella emozione. Si avvicinò alla finestra e tornò ad osservare i tetti delle case vicine, e quel campanile poco più là, svettante sul resto. Si accostò al tavolino e aprì il suo diario. “Fantastico averti con me…”, scrisse quasi senza pensare, come se già quelle parole, quelle semplici lettere sopra la carta fossero sufficienti a non farla sentire da sola.

Poi chiuse le pagine e tornò nella sua camera: doveva cambiarsi, pensava, vestirsi in una maniera migliore, perché quello non era un pomeriggio qualsiasi, lui era stato lì poco prima, assieme a lei, e soltanto questo era già qualcosa sicuramente da festeggiare. Indossò un camicetta spiritosa, un colore sgargiante, allegro, proprio come lei aveva voglia di essere, infine chiuse l’armadio per tornare nell’altra stanza.

Forse le avrebbe telefonato quella sera, pensò; forse non avrebbe dovuto neppure pensare di uscire, avrebbe dovuto star lì, aspettare che la sua fisionomia si materializzasse di nuovo, come per una magia. Prese il soprabito con dentro le chiavi e chiuse il portone dietro di sé. Lungo le scale continuava a pensare ai passi di lui che avevano solcato i gradini soltanto poco prima. Non avrebbe mai accettato una copia delle sue chiavi di casa, pensò: troppo concreto, troppo realistico un oggetto del genere; lui era diverso da tutti, incontrarlo aveva il fascino di una prima e di un’unica volta, come se il tempo stesso annullasse qualsiasi altra possibilità.

Quell’appartamentino era suo, non c’era niente da dividere là dentro se non quei momenti, quando la presenza di lui rendeva improvvisamente vere tutte le cose. Raggiunse il marciapiede davanti al portone del condominio, e rimase lì, immobile, quasi perplessa. Dette soltanto uno sguardo fuggevole a tutta la strada percorsa dalla solita gente, dalle auto veloci, dalle persone ordinarie. Tornò in fretta a salire le scale, e quando chiuse la porta alle sue spalle fu come ritrovare lui di nuovo tra quelle sue stanze, e questo in fondo era tutto ciò che contava.

 

 

 

 

 

 

         Il superamento delle difficoltà.

 

 

         Aveva preparato le spugne, un secchio con l’acqua, la scopa, si era osservata attorno svogliatamente pensando alla polvere, ai panni accumulati sopra la sedia, ai tanti altri oggetti di casa da pulire e rimettere a posto. C’erano da fare parecchie cose, Marilena lo sapeva benissimo, eppure adesso restava lì, nell’attesa quasi che tutto andasse avanti da solo, senza di lei, senza la sua volontà. Quella miriade di piccole cose di cui preoccuparsi, accumulate un po’ per volta ogni giorno, senza fretta e senza particolare importanza, adesso la indisponevano terribilmente.

         Non era tanto la mancanza di impegno il suo vero problema, quanto quel continuo e rituale ripetersi di ogni gesto e della sua causa, la polvere che cade, i panni che si accumulano sopra la sedia, lo sporco che va a finire sui pavimenti. Pareva un’ineluttabile condanna quel correre dietro qualcosa senza vederne la fine, come se fosse inevitabile perdere tutto quel tempo senza alcun risultato definitivo, se non quel momentaneo risistemare le cose, che non durava quasi niente, spesso neppure mezza giornata.

         Poi si sedette, osservò l’acqua immobile dentro quel secchio e si sentì sola, persa e amareggiata del suo troppo pensare, di quella sua scrupolosa ricerca razionale dell’esistenza nei gesti più stupidi, nei compiti più ordinari, nel cercare di rendere le cose più simili alla loro radice. Le venne da piangere per la rabbia che riusciva a provare dentro di sé, ma si riscosse, si cambiò velocemente d’abito e decise di uscire di casa. Lo sapeva che al suo ritorno forse si sarebbe sentita ancora più triste per le cose accumulate ulteriormente grazie alla sua mancata volontà di affrontarle, eppure scese le scale con passo leggero, come se ad attenderla ci fosse una giornata meravigliosa, ineguagliabile, qualcosa da cui in nessuna maniera si sarebbe potuta permettere di non lasciarsi coinvolgere. Rientrò dopo una lunga passeggiata, e tutto le parve accettabile.

 

 

 

 

 

 

 

         Un percorso da intraprendere coi piedi nudi.

 

 

         Non c’è una ragione precisa che mi spinga ad andarmene via; eppure è sufficiente che io chiuda gli occhi, mi assenti da questa semplice quotidianità, tolga il presente da tutti i miei pensieri, per sentirmi con naturalezza subito lontana, via da tutto, da tutto ciò che ogni giorno mi circonda, tutto ciò che oramai sento spremuto fino all’osso, che non mi offre quasi più nient’altro di tutto ciò che sento di aver già avuto, quasi come se niente di questo ormai mi appartenesse, o come se io non appartenessi più a ciò che forse vorrei ancora. Penso confusamente queste cose mentre esco, la borsetta con le solite cose, la gonna che rammenta la mia femminilità.  

         Mi inchino per un attimo, quasi per abitudine, aggiustando il fermaglio di una scarpa dal suono secco che fa il tacco sopra al pavimento: poi chiudo la porta, un altro suono fermo, deciso, senza alcuna possibilità di sfumature. La giornata è bella, piena di sole, vorrei soltanto potermi soffermare ad aspirarne il sapore, sentirne sulla pelle la piacevolezza che riesco solo a immaginare. Vado, devo spingermi oltre, lo so, ne ho piena consapevolezza. Gli altri intorno sembra che si spieghino tra loro le medesime cose di sempre, ma non importa, non provo alcun minimo interesse a vivere diversa da me stessa. Mi spingo avanti, non so neppure verso dove, eppure so che uno scopo mi attrae, ci deve essere per forza qualcosa oltre le lacrime che velano il mio sguardo.

         Lungo il marciapiede mi salutano, sorrido, non ci vuol niente ad essere cortesi, in questo quartiere mi conoscono, eppure so che questa falsità di cui tutti siamo consapevoli non porterà niente di buono, prima o poi presenterà il suo conto, dovremo allora essere onesti. Mi spingo oltre, devo percorrere la strada che mi è più congeniale, nessun dubbio neppur minimamente può incrinare la mia consapevolezza. Eppure le mie convinzioni si ammorbidiscono mentre cerco qualcosa senza importanza dentro la mia borsa, e forse vorrei urlare qualcosa che non ho assolutamente chiaro, e dire a voce alta a tutti quanti che sto male, ma che non so neppure io perché, e che forse se ne avessero la voglia di rifletterci, anche loro probabilmente si renderebbero conto di star male, perché è solo una finta quella del compiacimento di queste stupidaggini, e che alla fine non è vero che siamo tutti dalla stessa parte: anzi, probabilmente siamo costantemente in una aperta competizione, immersi in una forte, terribile competizione; e tutto ciò soltanto per riempire questo vuoto, quello che anche io sento proprio adesso, che sento qui, da qualche parte.

         Mi rifugio in un negozio, uno qualsiasi dove sono stata già parecchie volte, osservo le cose, saluto, mi guardo attorno: non ho più alcuna certezza, potrei acquistare qualche cosa, adagiarmi sopra le solite abitudini, ma anche se non voglio essere così, non riesco proprio a pensare qualcosa di diverso. Esco, la giornata è ancora la medesima, non è successo niente se non dentro di me, ma io sono una spugna, riesco ad assorbire qualsiasi cosa, tutti possono continuare a salutarmi ed io a sorridere fino alla nausea, se mai questa si farà davvero avanti. Poi mi inchino nuovamente e con un gesto secco mi slaccio questi stupidi sandali primaverili con il tacco, li tolgo dai piedi con gesto rabbioso e li getto lontano. Rido senza vergognarmi mentre cammino scalza lungo il marciapiede, qualcuno evita il mio sguardo: ma il mio percorso è solo iniziato.

 

 

 

 

 

         L’acquario del mondo.

 

 

 

         Fuori, la città era ostile. Lei era uscita di proposito per affrontarla, per andare incontro a quello che oramai le pareva inevitabile, ciò nonostante, adesso provava una leggera paura, un disagio profondo, che dimostrava forse la sua evidente incapacità al confronto con gli altri. Si era preparata, aveva abbandonato, dopo averle sputate, le sue pastiglie dentro un vaso da fiori, e aveva pensato per tempo a tutto quanto, premurandosi giusto di lasciare un gesto di affetto verso il piccolo acquario incantato, con i suoi amati pesciolini rossi: ne aveva accarezzato il vetro con molta lentezza, li aveva osservati nuotare nell’acqua uno ad uno, e si era quasi divertita, ancora una volta, ad appannarne la superficie con il proprio fiato.

         La strada procedeva diritta avanti a sé, e faceva freddo, anche se si era coperta, e aveva addirittura indossato la sciarpa, proprio quella che normalmente le opprimeva il collo e non sopportava. Scendendo le scale non aveva incontrato nessuno, ma forse, pensava con leggero piacere: adesso qualcuno probabilmente si sarà già reso conto della mia assenza. Sicuramente, per procedere avanti, lei camminava, ne aveva una vaga coscienza, ma era come se il marciapiede le si srotolasse via sotto ai piedi, ed il resto, gli alberi, le case, i portoni dei palazzi, tutto quanto semplicemente le scivolasse vicino, come in una prospettiva inventata.

         Lungo il viale aveva incontrato soltanto due o tre persone a piedi, ma non le aveva guardate, si era anzi voltata dall’altra parte, proprio per non dover dire ciò che pensava di loro, di tutti quanti. Poi aveva visto una panchina vuota e si era seduta. Era sicura di avere la forza e l’energia sufficienti per riuscire a combattere contro qualsiasi cosa fosse venuta a sfidarla, però non voleva guardare attorno a sé, le bastava osservare qualcosa sul marciapiede, e sapere che lei era lì, decisa, con le idee chiare. Aveva visto due bambini che si avvicinavano, così aveva nascosto la faccia dentro alle mani, ma quelli si erano fermati, avevano cercato di guardarla con maggiore curiosità, e prima che arrivasse la mamma, lei aveva già perduto la capacità di ignorarli.

         Si era messa ad urlare, ad un tratto, che andassero via, via da lì, che voleva stare da sola, che non c’era proprio niente da continuare a guardare, e quei bambini, impauriti, erano andati verso la mamma, ma lei oramai aveva sentito che la crisi la stava prendendo, che non sarebbe riuscita a resistere, che tutto le stava vorticando intorno alla testa, e che la strada e il marciapiede si attorcigliavano tra loro senza che potesse far niente. Le erano tremate le gambe, le braccia, aveva dovuto quasi sdraiarsi sulla panchina, ma non era intervenuto nessuno, e così, poco alla volta, in pochi minuti, le era passata la crisi, e tutte le cose avevano ripreso a funzionare in maniera quasi normale.

         Infine lei si era alzata, aveva mosso due o tre passi in avanti, poi aveva atteso il primo passante. Quello camminava senza problemi, come un soldato convinto delle proprie risorse: le sue scarpe erano lucide, il cappotto abbottonato, il suo respiro rilasciava nell’aria una nuvoletta di vapore sfogliata immediatamente dal vento. Lei pensò a sé, ai suoi pesciolini nudi nell’acqua, ed ebbe un moto di rabbia. Rimase ferma più a lungo di quanto si sarebbe aspettata, e quando il passante riuscì a superarla, lei rimase incapace di qualsiasi offensiva immaginata fino ad allora, come se avesse perso l’energia sufficiente, o la capacità di sapere che cosa davvero era importante.

         Tornò a sedersi sulla panchina ancora vuota, si concentrò sul nuoto dei suoi pesciolini che adesso quasi vedeva muoversi da qualche parte, con le loro piccole code guizzanti, e quando arrivò l'ambulanza con quelle persone gentili, seppe che poco dopo li avrebbe rivisti, e questo fu sufficiente a farla felice.

 

 

 

 

 

 

 

 

         Quasi un balcone fiorito.

 

 

 

         Il negozio di fiori rimane poco distante da casa sua, a piedi lei ci impiega appena dieci minuti, ma forse proprio per questo alla signora Teresa le piace, anche oltre l’orario previsto per la chiusura dell’esercizio, rimanersene là dentro a fare ancora qualcosa per migliorare quel suo piccolo mondo: curare la vetrina, bagnare con grande attenzione le foglie delle sue piante, sistemare nella maniera migliore tutto l’assetto della sua pur piccola bottega di fiorista. Di tornarsene a casa, in quel piccolo appartamento dove le sembra di non avere quasi mai niente da fare, dove ormai va soltanto a dormire, le sembra che ci possa essere tempo più tardi, sempre più tardi. 

         Così molte volte resta in negozio, anche quando si accorge che tutto è già a posto, e che non ha praticamente più niente da fare, tutte le sue piante sono ben sistemate e tutto è ordinato, ma allora si rilassa, si piazza seduta dietro la piccola scrivania, spenge le luci e guarda fuori dalle larghe vetrine, con la vista filtrata dai mazzi di rose, di gerbere, e da tutte le altre piante, osservando quella vita che le scorre proprio davanti, con le automobili dai fari già accesi lungo il viale, e le persone che passano a piedi proprio da lì, percorrendo quel largo e bel marciapiede.

Può darsi sia una vita minore quella che vede la signora Teresa, ma per lei soltanto il fatto che abbiano scelto di passare da lì, proprio accanto al suo chiosco di fiori, le rende quasi simpatiche tutte le persone che transitano; e così continua a guardare, come in un film o in un documentario, immedesimandosi a volte in quella poca gente che c’è a quell’ora lungo il viale, e a volte sogna, come cercando di immaginare una realtà diversa e migliore. Lei non si è mai lamentata della sua sorte, anzi: però le sembra a volte che siano tanti quelli che vivono male, che non riescono ad accontentarsi di quello che hanno, e che proseguono ad inseguire idee indefinite. Per lei, con tutti quegli anni passati a vendere fiori, con ciò che significa, accontentando tante persone diverse, interpretando i desideri di tutti, la sua sensibilità nei confronti dei pensieri degli altri si è andata migliorando moltissimo, ne è consapevole. Tanto che quando entrano dentro al negozio anche dei nuovi clienti, la signora Teresa riesce a comprendere al volo la psicologia di quelle persone, e trova sempre il fiore più giusto ad ognuna, a seconda delle esigenze, senza sbagliarsi.

         Quando la sera rimane nel buio tra le piante, ad assaporare quello scorcio di esistenza che scorre davanti al suo negozio, le capita certe volte di ascoltare, pur non volendo, delle piccole discussioni che vanno avanti per lo spazio di pochi secondi, giusto il tempo che serve per passare a piedi lungo quel marciapiede. Ascolta le poche manciate di parole, ne soppesa il timbro, le inflessioni, a volte il senso con cui vengono dette, e poi, senza preoccuparsene troppo, immagina il resto, come se riuscisse a comprendere la vita degli altri da una semplice frase o da poche espressioni. Ma la signora Teresa è consapevole che la vita non è fatta solo di fiori e colori, e quindi spesso pensa che è assurdo cercare una risposta per tutto, bisogna pur arrendersi, ogni tanto, e accettare la realtà per quello che è. Lo dice per sé, ma vorrebbe suggerire questo pensiero anche a tanti di quelli che passano.

         Poi esce, abbassa la serranda, e se ne torna verso casa: domani ci sarà tutto il tempo, pensa alla fine, per affrontare altri pensieri e fare qualche riflessione diversa da quelle messe a punto stasera. Perché alla signora Teresa le pare ci sia tutto un mondo ancora da comprendere e da interpretare, e lei, nonostante i suoi fiori ed anche tutto il suo impegno, sa di avere ancora una visione soltanto parziale di moltissime cose. Ci sarà tutto il tempo, pensa, per capire di più.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Donna di fiume.

 

 

         La casa sul fiume pareva come solcare incessantemente le acque, indirizzando la prua non verso una vera e propria direzione, ma quasi auspicando un mare remoto che doveva esserci per forza laggiù, da qualche parte, in fondo a quella corrente. Lei dalla finestra del primo piano osservava il tremolare dell’erba lungo la riva, mentre attendeva con impazienza il suo ritorno, come ogni sera, la cena pronta nel forno, la volontà solita di rompere al più presto possibile quella insopportabile solitudine, immersa completamente dentro l’attesa.

         Poi sentiva la macchina arrivare sul retro, lo sportello sbattuto, le scarpe sopra i tambureggianti gradini di legno. Avrebbe sempre voluto urlare in quel momento, inscenare un dolore che non sapeva neanche lei da dove potesse provenire, se non da ognuno di quei pomeriggi dolenti, silenziosi, marcati solo dal viaggio, dallo spostamento costante e continuo di tutta la sua abitazione, controcorrente, non verso il mare, ma verso le montagne lontane, dove stavano le sorgenti di tutte le cose. L’acqua scorreva al suo fianco, la navigazione era lenta e costante, certe volte l’orizzonte pareva quasi a portata di mano.

         Era felice del suo ritorno, certo, ma dentro a quel sentimento qualcosa sembrava assorbirne ogni dimostrazione, come se il tempo solitario appena trascorso ne reclamasse per sé almeno una parte. Quello era il momento più difficile del giorno, quel veloce trapasso da una stato a quell’altro: qualsiasi cosa sarebbe stata migliore potendo evitare quell’attimo. Certe volte aveva voglia di piangere, in altre occasioni era andata persino a nascondersi, come ad evitare una fase che il suo spirito non riusciva a sorreggere. Si sentiva raggiunta in quel momento, affiancata da lui, come se il suo lento percorrere il fiume avesse trovato in quell’attimo qualcosa capace di farle piegare la testa, inchinata ad una specie di volontà superiore.

         Certe volte si sentiva soltanto come una bambina; non ne aveva mai parlato con lui: lui l’abbracciava, le sussurrava piccole dolci frasi, mostrava la sua gioia, forse gli sembrava di incarnare ogni volta il ritorno dell’eroe senza meriti, quello che torna e basta, come è giusto che sia, lasciando alle spalle, con indifferenza, una battaglia vinta oppure perduta. Lei certe volte sentiva la sua presenza ancora distante, ma lasciava che tutto scorresse con naturalezza, come il fiume là accanto, anche se il suo inconfessato dolore pareva gonfiare poco per volta il suo stato, spingerla via, come un vento impetuoso, lontano il più possibile da quella terribile attesa.

         Infine tutto accadde come per caso: lei uscì di casa per non sentire quel morso, seguì incantata l’onda del fiume che quel giorno pareva lasciarla navigare in maniera molto più libera di quanto si fosse mai immaginata, e quando lui tornò a casa, semplicemente, lei non c’era più.

 

 

 

 

 

         A volte può darsi.

 

 

Può darsi delle volte che lei durante la notte si alzi dal letto, vada in cucina, si versi un po' d'acqua da bere, e osservi fuori dalla finestra le luci dei lampioni lungo la strada, restando come colpita da quel chiarore rosato nell'aria dato dalle lampade del casello autostradale poco lontano, osservando tutto quanto dal suo piccolo appartamento periferico dove si è ritrovata alla fine ad abitare da sola, senza neppure il conforto di una vista migliore. Qualche volta si guarda allo specchio nella sua camera: si trova ancora in forma, un bel figurino, la faccia ancora da giovinetta, ma poi sorride e trascorre le sue serate a guardare qualche programma trasmesso in televisione.

Può darsi che ci sia un suo vicino di casa che qualche volta l'osserva mentre lei passa velocemente lungo il cortile: la saluta cortesemente quando la incontra, e lei gli risponde alla stessa maniera, ma sempre senza mai incoraggiarlo, perché ogni volta che cammina sopra quel selciato polveroso, sente in qualche modo che il suo vicino è lì, da qualche parte, forse alla finestra, la sta guardando, probabilmente fa pure delle congetture di qualche tipo sopra di lei, e chissà con il pensiero fino dove sia già riuscito a spingersi, se ci riflette davvero non osa neppure pensarlo.

Può darsi poi che lei ami questa sua solitudine, specialmente alla domenica quando non deve andare neppure a lavorare. Guarda la sua casa, il frigorifero, sa di avere tutto ciò che le serve per trascorrere una giornata come si deve. Poi prova qualche vecchio vestito, mi sta ancora bene pensa, prima o dopo ci sarà l'occasione  per metterlo ancora. La sua cucina è pulita, tutto è in ordine, si può permettere di stare seduta a leggere un libro o a pensare qualcosa, a pensare che magari questa sua vita di adesso più o meno è forse la stessa di quella che in qualche modo ha sempre desiderato.

Può darsi che lei ogni tanto esca con una sua amica, vada ad un cinema, per esempio, ma più volentieri in giro per la città a visitare negozi e a guardare vetrine; parlare del più e del meno, lasciare che i suoi pensieri sgorghino senza ritegno tramite le parole, come se ci fosse una strada aperta, diritta, forse un modo per sfogarsi del tutto fino a sentirsi migliore; poi però si sente sempre un po' stringere il cuore quando torna da sola con l'autobus verso il suo appartamento. Non c'è niente di male, ha fatto un po' tardi, non c'è neppure il suo vicino a guardarla rientrare.

Può darsi che il giorno seguente provi una grande fatica per alzarsi ed andare al lavoro. Dà un'occhiata a quell'alba rosata fuori dalla finestra della cucina, mentre si prepara qualcosa per colazione, e non riesce neppure a distinguere se è il sole che sorge o sono ancora i lampioni della notte lungo l'autostrada poco lontano; sa solo che ha di fronte una giornata intera da vivere, e che tornerà con i piedi ormai gonfi, stanca, sfinita, e magari ci sarà ancora il vicino di casa a guardarla mentre passa svelta lungo quegli ultimi metri. Forse lei stasera lo saluterà con un'enfasi maggiore di qualsiasi altra volta, pensa per scherzo; si fermerà un attimo con lui per dirgli qualcosa, magari soltanto per fargli presente che non vede l'ora di farsi un caffè, di gustarlo con tutta la calma e la tranquillità ritrovata, e può pure darsi che gli chieda se gli va di prenderne una tazza anche a lui.

 

Bruno Magnolfi

 


Villi

VILLI

 

 

4 giugno – Villi.

 

         Certe volte si pretendeva che tutto fosse chiaro e tranquillo, e intanto si sguazzava nella complicazione più alta senza riuscire a ritrovare il nesso delle cose. Si fingeva controllo, e c’era sempre chi riusciva ad essere più credibile di altri, ma in generale era evidente il vuoto atteggiarsi di molti, senza alcun aggancio al concreto. Tutto ciò permetteva una leggerezza e una facilità di pensiero superiori al normale, e in questo comportarsi uscivano fuori idee e spunti creativi, quasi a getto continuo. Le amicizie spesso erano finte o superficiali, ma in certi casi ci si aiutava a vicenda in modo insperato, senza chiedere niente, senza farsi neppure domande o porsi dei dubbi. Si sentiva che il cemento comune era la sconfitta continua dell’ovvietà, e si cercava di rifugiarsi tra le cose scontate solo a patto di coniugare questo comportamento con una dose massiccia di autoironia. Infine si cercava di essere veri, ed era rara la mancata sincerità, e in questo modo, anche da soli, si riusciva a sentirsi solidali con gli altri. Non si parlava quasi mai dell’amore, sentimento troppo egoistico, però ci si innamorava continuamente, e spesso delle persone sbagliate.

Lungo la strada, quando ci incontrammo, Villi per prima cosa mi chiese se mi ricordavo di lei. Non sono mai stato un fisionomista, così risposi di si, ma soltanto per non sembrarle scortese. Di fatto qualcosa forse mi ricordavo di lei, adesso che mi rammentava l’occasione d’incontro, però l’avevo vista soltanto una volta assieme ad altre persone, e la sua faccia non mi era proprio rimasta nella memoria. Prendemmo assieme un caffè dentro a un bar, si parlò in generale di noi, e lei continuò a sorridere molto, a parlarmi come fosse realmente contenta di avermi incontrato, e contemporaneamente a comportarsi come fosse agitata, preoccupata di qualcosa che io non riuscivo minimamente a comprendere.

Poi disse che da poco erano tutti partiti coloro che avevano abitato fino ad allora in casa con lei, e lei aveva paura a rimanere da sola, forse per un suo vizio mentale, forse perché troppo grande quel suo appartamento, e così si stava facendo ospitare per quel periodo in una casa diversa, da una sua amica, insieme alla quale stavano preparando la loro tesi di laurea. Erano i primi giorni di giugno, ricordo, e le cose sembravano scorrere leggere in quel lungo periodo. Così quando mi chiese se per un po’ volevo andare a stare a casa da lei, in modo da permetterle di riprendere i suoi comportamenti di sempre, a me sembrò quasi normale, ma riflettevo dentro me stesso che quella era soltanto una delle tante possibilità che potevano normalmente accadere in quegli anni vivaci. 

 

 

 

8 giugno – La casa dei greci.

 

         Quando entrai nella casa dei greci, che sarebbe diventato il Consolato di Grecia vent’anni più tardi, se percorrendo le due rampe di scale fino a quel primo piano mi ero sentito a disagio, vuoi per il grande portone di legno in pieno centro storico, vuoi per l’odore di pietra serena che emanava dai grandi gradini sagomati della scala, mi parve, al contrario di ogni impressione, che tutto all’interno mi fosse più familiare di quanto avessi pensato, e che già dall’ingresso pareti e arredamenti attorno, fossero ancora più consoni ad ogni mia positiva aspettativa. Nella mia stanza, quella che mi aveva assegnato la Villi, troneggiava un basso letto dalla struttura di legno, e sulle pareti scaffali vuoti a vista, illuminati dalla luce rossastra di un bel tramonto quasi estivo che penetrava da una grande finestra ai piedi del letto.

Due porte opposte dominavano la camera, immettendo in altrettanti corridoi misteriosi, e si intuiva come sia le altre stanze, che tutto il resto del grande appartamento, girasse attorno ad una corte interna, fresca e silenziosa. Presi possesso della mia grande camera in maniera formale, senza capire realmente quale comportamento era meglio tenere, così mi limitai ad appoggiare sopra a qualche scaffale i pochi oggetti che avevo con me, quelli che mi sembravano più indicativi della mia personalità, come per una sorta di indicazione da dare alle cose. Finsi con la Villi una fretta che scongiurava qualsiasi domanda, sfuggendo il rapportarmi con una persona che in fondo non conoscevo per niente, e ammantato, come mi sentivo, di cose da fare e di impegni, accettai quasi di sfuggita la copia della chiave di casa, e infine uscii senza indugi, come tenendo il comportamento più ordinario del mondo, per tornare in quel luogo da sogno soltanto nella tarda serata.

 

 

 

15 giugno – Gatto Mammone.

 

Durante l’occupazione dell’ateneo si era girato in lungo e in largo dentro alle facoltà, fingendo sempre di cercare qualcuno, ma di fatto cercando una propria collocazione, un proprio ruolo, certe caratteristiche che rendessero specchiate le personalità di ognuno di noi. Avevo conosciuto un ragazzo, non so neanche come e perché, un tipo di Roma, con il quale ero andato in giro per un giorno intero, e che mi aveva riferito una frase che non mi sarebbe più uscita di mente: “conosco tanta gente, ma non ho neanche un amico…”. Eppure lo invidiavo. Girare per strada con lui era quasi imbarazzante: tutti lo salutavano, tutti avevano qualcosa da dirgli o da chiedergli, come un punto di riferimento, quasi una boa attorno alla quale far girare piccole e grandi imbarcazioni che veleggiavano in acque un po’ oscure, a volte persino minacciose.

Due anni dopo entravo in casa di Villi a serata avanzata, nella penombra tardo primaverile, fresca della bianca luce lunare che penetrava dai finestroni. Sulla lunga terrazza che dava sul cortile interno del grande appartamento lei stava lì, forse aspettandomi, con una bottiglia di Pinot grigio ghiacciata e due dita di vino bianco dentro ad un calice. Presi il mio bicchiere in cucina senza accendere neppure le luci, e andai a sedermi dall’altra parte del piccolo tavolo, nella stessa posizione di lei, spalle al muro, come ad un cinema, con i piedi appoggiati alla ringhiera di ferro, ad osservare i tetti delle case di fronte e il cielo giallo-rossastro delle luci cittadine e del tramonto che si riversava dall’alto sopra di noi.

Dei gatti si erano rincorsi fino ad allora miagolando arruffati, ed io, dopo un po’ di silenzio, avevo iniziato, tanto per riempire quel vuoto ed evitare argomenti un po’ triti, a narrare la storia di Gatto Mammone, che era probabilmente un animale un po’ timido, secondo la mia fantasia, poco adatto alla vita all’aperto con gli altri. I gatti sui tetti continuavano a correre e a rincorrersi, forse felici, ma lui no, introverso e sensibile, si teneva in disparte, e cercava un angolo buio dove ritirarsi da solo, senza mai mescolarsi con gli altri. La continuazione di tutta la storia l’avrei poi raccontata la sera seguente, e tutte le altre sere a venire, per un lungo periodo costituito soltanto da quei pochi ingredienti, fino a quando litigai con la Villi, non mi ricordo neppure di preciso il perché, e lei dovette andar via, in Grecia, a completare la sua tesi di architettura, lasciandomi padrone di una casa stupenda, però ormai priva della sua fondamentale presenza.

 

 

 

23 giungo – La fine del sogno.

 

Gatto Mammone si era stufato. Stufato dei tetti da dividere con gatti senza cervello, stufato di fare quello che se ne stava da solo in un angolo, stufato di fare quel personaggio in mezzo a dei simili, che quel personaggio non riuscivano neanche a comprendere, che non faceva parte dei loro orizzonti, sempre ammesso che ne avessero avuti. Gatto Mammone si sentiva fondamentalmente diverso, e il suo aggirarsi per i tetti con gli altri, era solo una dimostrazione verso gli altri della sua capacità di mostrarsi sociale. Ma ora era finita. Era saltato giù, sopra un lungo terrazzo, nella parte più buia che aveva trovato, e aveva intercettato la conversazione dei due che bevevano da calici freddi e parlavano in toni soffusi, probabilmente cercando un’intesa che andava semplicemente creata, inventata dal niente.

Lei parlava di un’isola greca, di Thassos, sul mare davanti alla città di Kavala, e lui seguiva i percorsi di ogni frase che lei soggiungeva cercando di spiegarne i contorni, come fosse un accrescimento strategico di ogni sua conoscenza. C’era del fascino in quella serata, e gatto Mammone passava la sua coda come una piuma lungo le gambe delle sedie dei due, mentre nel buio, tramite parole sommesse, i due si scambiavano forti impressioni senza peraltro conoscersi affatto. Gatto Mammone era una variabile astratta di ogni concetto che venisse sotteso, in un contesto in cui lei si sentiva già fragile, più di una semplice componente di un sogno qualsiasi, e lui, affacciato alla finestra sul mondo, come fotografato una volta per tutte, ad osservare e misurare la sua capacità di assumere dentro di sé il pensiero e la sofferenza degli altri. 

 

 

 

30 giugno – La buonanotte.

 

Gatto Mammone aveva strisciato a lungo contro quei muri, senza neanche dare troppa importanza a ciò che faceva o che lasciava pensare di sé, usando il suo solito modo di fare, tipico di chi non è interessato quasi di nulla, e sta passando da lì solo per caso. La Villi aveva riposto nel frigo la sua bottiglia di vino quasi terminata, e aveva appoggiato i calici di vetro sopra al lavabo, augurando di passata la buonanotte, mentre si ritirava nella sua stanza, forse irritata, forse delusa, chissà. D’improvviso la casa era piombata nel silenzio, non che precedentemente fosse stata particolarmente rumorosa, solo che adesso i pensieri sembravano strisce di carta colorata che passavano davanti alle lampadine ancora accese, brillando per un attimo nel buio generale.

La luna fredda della luna invece, illuminava i finestroni della camera, con la sua luce bianca omogenea, rassicurante. Il Gatto, con la sua riconoscibile livrea bianca e nera asimmetrica, era entrato senza chiedere alcun permesso, soffermandosi a lungo ai piedi del letto, ad osservare e a farsi osservare. Un senso di sospensione spasmodica era rimasto nell’aria, senza conseguenze, senza epilogo, e questo apriva il sipario ai pensieri più sfuggenti, forse al preambolo dei sogni da vivere e da scoprire nel corso della notte.

Poi Villi era tornata indietro, come cercando un’ultima possibilità, o forse solo per concedere quella stessa ultima possibilità a sé, o agli altri, o alla sera sfumata. Aveva visto Gatto Mammone, aveva sorriso, come di fronte alla materializzazione di tante frasi inventate e di tanti discorsi tentati, e infine aveva pianto tra sé, solo con un timido e isolato singhiozzo, come per la comprensione improvvisa dell’impossibilità di avere quanto stava cercando. Il Gatto tentava di pensare tra sé qualcosa di positivo attorno a quegli esseri goffi che ritrovava ogni giorno incantati a guardarlo, così limitati nei movimenti, così assurdi nel loro sentirsi perfetti, ma così capaci di tutti quei versi, così simili e monotoni tra loro da divenire qualche volta un canto alla luna, o alle stelle, o al cielo di notte, ricco di tanti presagi per il giorno ancora lontano.

 

 

 

15 e 16 luglio – La solitudine.

 

La Villi era partita di giovedì, in silenzio, senza particolare risalto. Sarebbe tornata un mese più tardi, o poco più, ma io non l’avrei più rivista, le nostre strade si interrompevano lì, anche se non lo sapevo e neppure l’avrei immaginato. Quella sera tornai in quella casa che mi parve persino troppo grande soltanto per me. Chiusi subito le stanze che non mi servivano, sistemai qualcosa in cucina e nella mia camera, poi aprii il frigorifero, quasi come per un gesto automatico. C’era ancora rimasta una mezza bottiglia di quel vino bianco leggero che mi aveva fatto passare parecchie serate in compagnia della Villi, così presi un bicchiere e mi sistemai seduto sulla terrazza, come avevo fatto quasi ogni sera da circa due mesi.

Sopra al tetto di fronte, per estrema normalità, un paio di gatti svogliatamente si chiamavano, e la serata appariva terribilmente tranquilla. Gatto Mammone si fece avanti più tardi, quando il vino oramai era quasi finito; probabilmente notò la mia solitudine, ma rimase al suo posto, rispettando quei dettagli che non conosceva. Mi aveva osservato dal tetto, poi si era stirato le zampe girellando là attorno. Gatto Mammone era cosciente di essere soltanto e semplicemente un felino, però era sornione più di ogni altro, comprendendo le cose che ad altri sfuggivano. “Un giorno, forse, scriverò qualcosa che ti riguardi…”, dissi verso di lui a voce alta, quasi più per esorcizzare la mia solitudine, che per sentire il suono della mia voce. Era chiaramente un augurio che mi facevo: quello di riuscire a descrivere cose che al momento soltanto vedevo o pensavo.

Poi il Gatto parve capire qualcosa del mio stato d’animo sperso e irrequieto, con due salti scese dal tetto, si fece avanti con flemma verso di me, e promise alla Luna di tenermi compagnia per quella e per tante altre serate. Quando alla fine del mese andai ad abitare in una casa diversa, in un diverso quartiere, lo portai assieme a me, e lui si adattò senza problemi alla sua e alla mia nuova vita. Morì sotto una macchina, come è destino degli spiriti liberi.

 

 

 

13 luglio – Inevitabile frattura.

 

Tutto il problema sta dentro alla comunicazione. Si dice una cosa pensandone una simile ma non proprio la stessa. Chi ascolta accetta il gioco e cerca di scoprire cosa si sottenda davvero. Basta poco per scatenare una ridda di equivoci. Con la Villi era andata più o meno in questo modo quando aveva riposto i bicchieri e la bottiglia. Non voleva più parlare con me, non voleva più ascoltare le mie storie sui gatti, tutto annullato, non voleva più avermi tra i piedi.

“Non ho fatto niente”, le avevo detto, ma la sua gelosia la sopraffaceva. Le pareva tradita quella dolce intimità che avevamo coltivato sul terrazzo interno della sua casa, ad osservare i tetti, i gatti, le stelle, i nostri pensieri illuminati per un attimo sul muro di fronte, in quell’atmosfera calda e piacevole da vino bianco fresco e noi due, senza un passato comune da interpretare, solo le nostre diverse vite da raccontarci nella maniera che ritenevamo più opportuna, o a fantasticare sul presente e forse un po’ sul futuro.

Lei persa tutto il giorno nelle biblioteche e in facoltà a preparare la sua tesi di laurea, io preso tutto il giorno da un mestiere assurdo che mi nevrotizzava. Quelle serate erano belle, ma non obbligatorie. Ci eravamo ritrovati lì, nella debole luce della terrazza, ma non ci eravamo dati mai appuntamento. Come quei gatti che si rincorrevano sui tetti, che in certe sere non si erano neppure fatti vivi, forse proprio per sentirsi più liberi.

 

 

 

15 luglio – Prima di partire.

 

Telefonai alla mia mamma prima di partire. Lei mi chiese il giorno in cui dovevo arrivare, l’orario, come stavo, a che punto fossi con la mia tesi. Poi, dopo una pausa mi disse: “Villi, hai una voce strana, un modo diverso di dirmi le cose, che cosa ti succede?”. Sull’immediato cercai di rispondere “niente, solo un po’ di stanchezza…”, però sapevo che con la mia mamma era difficile quel gioco, e poi, forse, avevo voglia di parlarle di me, di dirle qualcosa che tenevo troppo chiuso in fondo a tutti quei miei pensieri.

“Sai, in quest’ultimo periodo ho conosciuto un ragazzo. No, non è greco, è di qui, della Toscana. Non sono stata molto assieme a lui, solo qualche serata. Però mi ha fatto sognare con i suoi racconti fantastici, con le sue invenzioni. Ci sono state delle sere che non ci siamo neppure salutati; semplicemente ci siamo seduti, abbiamo guardato nella stessa direzione, e poi abbiamo parlato, tirando fuori la nostra sensibilità, forse i nostri pensieri e i segreti più nascosti, e li abbiamo condivisi, senza commentarli, solo lasciandoli andare a liberarsi contro un muro bianco, come forme di fumo nel vento debole, forme insensate sollevate da terra e proiettate nel cielo, piccole entità senza spessore, cercando di farle congiungere con tutte le nuvole, e di unirsi alla loro maestosità. Non lo so, mamma, ma all’improvviso non vorrei rompere l’incantesimo di questo momento, non vorrei più partire…”.

La mia mamma capiva tutto quanto, ne ero convinta, e non insistette a chiedermi niente, cercando solo di alleggerire come poteva il mio affanno, cambiando argomento e lasciando che io le dicessi soltanto ciò che mi andava. Ricordo bene, fu proprio quella stessa sera che rimasi da sola, ed il mio vino bianco tenuto in fresco per lui, continuò sopra al tavolo a scaldarsi e a far compagnia a due bicchieri che non si sarebbero riempiti mai più.

 

 

 

12 dicembre – L’ultima volta.

 

Il cielo era chiaro quel giorno, e l’autobus che la portava in città era pieno di gente. La strada era identica, e quando arrivò ad entrare in quella che era stata la sua casa per tutti quei cinque e più anni, la colse un sentimento di estrema malinconia. Erano già trascorsi quasi sei mesi dall’ultima volta che Villi era tornata, e forse questa sarebbe stata la sua ultima volta, ma in questo periodo le pareva fossero già cambiate dentro di sé così tante cose che adesso cercava di lasciare i pensieri a riposo, per paura di scoprirsi diversa anche in quelli. Stavolta sarebbe rimasta soltanto cinque o sei giorni, il tempo per sistemare le ultime cose, salutare gli amici, la facoltà che le aveva concesso quella laurea sudata, e poi tornarsene in Grecia, a costruire il futuro.

In casa le parve tutto come si ricordava, la sua stanza, i finestroni, gli scaffali di legno, anche quel terrazzino che era stato presente a quelle serate da sogno. Chissà dove mai era fuggita quella persona di cui non aveva più niente, un oggetto, una foto, una cosa qualsiasi. Solo i ricordi, ricordi di sogni inventati sotto ad un cielo di stelle tra i gatti sornioni, che forse sapevano fin dall’inizio già più di lei. Era decisa, avrebbe camminato per strada, avrebbe girato per lungo e per largo, in tutti quei posti dove avrebbe potuto incontrarlo, per tutti quei giorni che sarebbe rimasta; poi, comunque fosse stato, sarebbe partita.

Aveva iniziato chiedendo a qualcuno che poteva sapere qualcosa, ma non era riuscita ad avere alcuna notizia. Era assurdo tenersi nell’anima una persona senza riuscire a vederla, neppure una volta, e così continuava a girare per strada guardando ogni persona come potesse essere lui, con la stessa speranza incrollabile. Infine lo vide, ad una certa distanza, davanti a un negozio, mentre parlava con altri. Si fermò accanto a un portone, lo osservò quanto poteva, i suoi modi, le espressioni, le sue mani che esprimevano all’aria parole che lei non poteva sentire. Infine si volse, Villi, e andò via.

 

Bruno Magnolfi

 


Collettivo

          

 

 

Collettivo

 

         Le solite facce, anche stasera, al circolo culturale "Victor Jara". L'argomento di oggi gira attorno ad un vecchio militante scomparso da poco tempo, una persona del popolo, un uomo come potrebbe essere stato chiunque, che pur senza istruzione, o quasi, è riuscito a scrivere, pur tanti anni fa, un opuscolo breve, chiaro e conciso, nel quale riusciva a dire cose estremamente veritiere sulla gente, talmente evidenti da risultare ancora molto attuali. Qualcuno ascolta attento e si dimostra entusiasta del fatto che siano vissute persone del genere in questa città; altri invece si guardano attorno con poco interesse, senza perdere mai d'occhio il quadrante dell'orologio. Lei si chiama Sonja, ha passato da poco i quarant'anni, ed è appassionata da sempre degli argomenti di quel genere, forse più per una scelta iniziale da mantenere soprattutto per coerenza, che per una convinzione davvero profonda in tutto ciò che ultimamente viene estrapolato in serate come questa.

         Fa parte dei soci fondatori di questo circolo, ma all’epoca in cui si sentiva entusiasta di quanto portava avanti con grande determinazione, non avrebbe mai immaginato che le cose in seguito si sarebbero trascinate poco per volta soltanto con stanchezza, e per una sorta di inerzia data dall’affetto ancora in parte emanato da certi argomenti. Lei si sentiva una battagliera, soltanto qualche anno addietro, ma poi essere rimasta quasi da sola a cercare i soldi per le tante sottoscrizioni, giusto per riuscire a pagare l’affitto della sala e delle stanze attigue, affiggere sui muri qualche manifesto, rimborsare le spese di viaggio a qualche invitato per sentirlo parlare là dentro, le ha procurato un’amarezza che le risulta oggi sempre più presente e insopportabile.

         Forse la cultura era un punto di arrivo fondamentale, almeno una volta; significava dare l’opportunità a chiunque di comprendere da solo l’andamento della vita sociale e la gestione della cosa pubblica da parte dei politici di turno. Instillare nella testa della gente poco per volta degli argomenti alternativi sollevando piccole discussioni proprio dal basso, era per lei l’elemento determinante su cui far leva per formare una nuova coscienza, con idee più forti, consapevolezze essenziali, convinzioni maturate su tutto ciò che il giornalismo in qualche modo pareva nascondere. Il grande interesse verso quel progetto non è mai arrivato, e tutto è andato calando in questi anni, tanto che ultimamente si è discusso persino di chiudere il circolo.

         “Sonja”, le dicono gli amici; “bisogna arrendersi di fronte alla realtà”. Ma a lei ogni tanto pare ancora che tutto possa rimettersi a girare bene all’improvviso, e che quel progetto iniziale per incanto riprenda quota, dandole finalmente la soddisfazione che ha sempre cercato senza mai averla assaporata. Introduce la serata, dice che la memoria è sempre più importante, “che ci sono sempre state delle persone che hanno saputo guardare più lontano di tanti altri, e noi dobbiamo saper accogliere almeno nella giusta misura i loro insegnamenti, meditando bene su quanto è avvenuto, e poi sovrapponendo i risultati, quando è possibile, sulla realtà attuale, guardando tutto quanto con occhi rinnovati, con capacità di analisi e di critica superiori alla superficialità del giorno d’oggi”.

         Poi si siede, ascolta con attenzione gli interventi di alcuni altri che spiegano con calma la propria opinione. Ad una certa ora qualcuno se ne va, rimangono ormai in pochi, sempre i medesimi, ed anche se gli argomenti trattati non sono stati del tutto sviscerati, non ha alcuna importanza, bisogna chiudere, la serata se ne è andata in fretta, forse è rimasto qualcosa di tutte le parole pronunciate, o forse no; che tanto di meglio proprio non si poteva fare.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Rinnovato interesse

 

         I suoi genitori adesso sono anziani; lei avrebbe voluto andarsene dalla loro casa quando era il momento giusto, ormai diverso tempo fa, ma in quegli anni giovanili purtroppo si sentiva troppo presa dalle cose di cui si occupava: la politica, innanzi tutto; e poi i convegni da organizzare per il circolo culturale, le letture da consigliare a tutti, i tentativi per coinvolgere nelle scelte in cui lei credeva sempre nuove persone. I suoi amori dell’epoca sono sempre stati troppo fuggevoli, veloci, forse superficiali, senza lasciare dietro di loro alcuno strascico, nel bene o nel male. Ed i suoi vecchi hanno bisogno di lei in questo momento, indubbiamente, e perciò niente infine si mostra possibile, se non continuare a vivere così, senza neppure porsi troppe domande.

         "Sonja", le dicono loro certe volte; "tu sei libera di fare le tue scelte, non devi preoccuparti mai di noialtri". Ma lei li guarda giusto per un attimo, e poi sorride, perché non sente alcun bisogno di affrontare di nuovo quell'argomento, neanche dentro se stessa, che forse è una delle tante spine che in qualche maniera potrebbe ancora sentire dentro al suo cuore. Prova una grande tenerezza, questo si, lei che adesso si sente forte di tutte le proprie convinzioni, per quei due anziani signori così fragili e quasi arrendevoli, grandi iniziali apripista forse inconsapevoli delle sue scelte, con le loro piccole esperienze scorse con garbo e quasi per caso dentro la storia, e che in questo momento fanno girare qualsiasi cosa della giornata attorno alla loro unica figlia. Lei adesso rappresenta il loro faro nel buio, e niente potrebbe essere davvero diverso.

         Lei lavora soltanto la mattina, in un ufficio di un avvocato della sua cittadina. E dal pomeriggio in avanti si concede completamente alla sua passione più forte: incontrare gli affezionati al circolo culturale “Victor Jara”, e progettare con loro gli incontri, i convegni, le letture pubbliche; e poi dibattiti, raduni, discussioni. Forse avrebbe potuto fare altre cose almeno in tutti questi ultimi anni, ma Sonja oramai neppure si pone una domanda del genere; per lei è questo di cui si occupa ciò che più conta, anche indifferentemente dai risultati. Quando rientra a casa dei suoi, generalmente la sera tardi, ed entra senza fare rumore nella sua cameretta, forse si sente ancora bambina, una ragazzina che deve ancora imparare a conoscere tutto, ma una volta coricata nel suo letto da adulta, riesce a sentirsi del tutto tranquilla, con la coscienza serena, pronta a compiere ancora dei sogni in quella sua casa dove ha abitato da sempre.

         Magari tutto questo è soltanto il frutto maturo di tante abitudini, pensa talvolta; però non c’è stato mai niente veramente di forte nella sua maturità, qualcosa che sia stato capace di trasportarla da qualche altra parte, via dalle sue origini, oltre le idee e anche lontano da tutti i pensieri che ha sempre avuto, tralasciando quella coerenza di cui invece si è sempre mostrata orgogliosa. Niente potrà più cambiare, pensa ancora ogni tanto, e questo pensiero piuttosto che renderla triste la fa sentire più forte, convinta, sicura di quello che debba aspettarsi da qualsiasi giorno nuovo. Cosa importa alla fine se non si trovano più dei concittadini disposti a condividere il suo stesso sentire. Ciò che ha valore lei sa che è radicato dentro se stessa, nella fatica e nello sforzo che ha fatto per arrivare fin lì. Il resto sono soltanto aspetti del tutto marginali, che non danno neppure fastidio, tanto sono privi di qualsiasi rilievo. Ci sarà un nuovo interesse da parte di tutti per gli argomenti importanti, prima o dopo; e sarà in quel momento che Sonja potrà dire di averlo sempre saputo.

 

          

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Semi da spargere

 

         Qualche volta lei si sente sola. Anche se ci sono tutti i soci e i sostenitori del circolo culturale che la conoscono e che le vogliono bene; anche se i suoi genitori come sempre l’aspettano a casa e fanno tutto quello che lei chiede loro di fare; anche se le telefonano spesso da chissà dove per proporle delle nuove cose, a lei e a tutto il suo circolo. Ugualmente, in certe occasioni, Sonja si intristisce, ed in quei casi diventa difficile farle passare in fretta il malumore: la cosa migliore è attendere che tutto quanto in qualche modo evapori, come poi sempre succede. Lei nel pomeriggio si siede nel suo piccolo ufficio del circolo "Victor Jara", e legge, consulta qualcosa, cerca di sprofondare quanto più le è possibile in mezzo ai suoi interessi, anche se infine si alza, prende la borsa con tutta la sua roba e va a farsi un giro a piedi, da sola, lungo le strade meno frequentate della sua cittadina. Cerca di scansare chi incontra, perché non ha voglia di parlare, tantomeno rispondere con garbo a chi le chiede cosa riservino prossimamente le attività del suo circolo.

         Sonja è da sola anche se non ha del tutto scelto di esserlo. E’ stata come una conseguenza dei suoi interessi, come se farsi una famiglia fosse stato sempre un pensiero minore in mezzo alle sue premure, una scelta da procrastinare facilmente nel tempo, senza decidere mai nulla di preciso al riguardo. Ugualmente però, questo aspetto adesso le manca: è come se si sentisse monca di una parte di sé, nonostante normalmente riesca a riempire ogni giornata di talmente tante cose da allontanare facilmente quel pensiero. Avrebbe potuto farsi delle vacanze spensierate, andarsene lontano per un po’ da quella realtà di provincia, e magari lasciarsi anche andare, provare a mostrarsi meno rigida su alcune posizioni, e favorire in qualche modo chi le stava vicino.

         Invece il suo carattere deciso ha sempre mostrato in apparenza a tutti gli altri una ragazza dura, forte, convinta di ogni sua scelta. Nessuno si è mai veramente accostato a lei cercando quella dolcezza nascosta che lei ha sempre tenuto segreta. E così nessuno si è mai realmente innamorato di Sonja, anche se lei qualche sbandata forse l’avrebbe anche presa, se non avesse sempre nascosto a tutti, ed anche a se stessa, i suoi veri e profondi sentimenti. E poi i suoi genitori hanno sempre fatto da zavorra inconsapevole ad ogni suo sogno, e lei ha sempre sentito il dovere di esserci prima di tutto per loro, e di prendersi cura di tutti i problemi che nel corso degli anni loro le hanno mostrato, tanto da dimenticarsi certe volte persino di se stessa.

         Se ci pensa si sente quasi in una situazione obbligata, per questo ogni tanto deve prendere una semplice boccata d’aria, un respiro profondo che le faccia passare la malinconia. Continua a camminare per un’ora o due, senza fermarsi, ed infine rientra al suo circolo, nel luogo dove i due o tre frequentatori abituali l’aspettano con calma, come ogni sera, per fare il punto della situazione, magari mettere in cantiere qualcosa di nuovo, affrontare come ogni giorno tutti quei piccoli problemi che facilmente possono insorgere. “Ci sono”, dice Sonja a chi l’attende quando apre la porta principale del “Victor Jara”, e quindi riprendere ogni interesse riguardo a tutta la situazione appena lasciata. “Dobbiamo mettere in stampa un nuovo piccolo manifesto da affiggere, informare chiunque, chiamare a raccolta tutti coloro che ne avranno la voglia, spiegare ai nostri concittadini che siamo ancora vivi, che il circolo funziona, e se anche qualcuno di loro considera ormai fuori moda portare avanti certe battaglie, noi lo facciamo e lo faremo lo stesso; perché possiamo spargere il seme del bene, persino in chi in qualche modo tenta di rifiutarlo”.

 

          

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Proposte non troppo ricercate

 

         Ci sono persone a cui non interessa mai niente. “Va bene”, dicono con superficialità, “però in questo momento ho altro a cui pensare”, anche se di fatto non hanno proprio nulla di cui occuparsi. Ciondolano davanti ad un caffè e dicono giusto qualcosa a chi conoscono, dando già per scontate un sacco di cose. Poi camminano senza fretta lungo un marciapiede, e si guardano attorno quel minimo che basta per sentirsi immersi in una realtà abitudinaria e senza novità.

         A Sonja disturba anche solo la vista di questi individui senza spina dorsale, però riesce almeno ad ignorarli quando li incontra, seppure a malapena, perché sa che con loro, se non cambiano atteggiamento, non avrà mai niente a che fare. Tutta la sua attività in fondo sarebbe tesa a coinvolgere anche proprio coloro che sembrano vivere in una indifferenza generale, ma le torna difficile prendere in considerazione chi non crede minimamente nella possibilità di cambiare le cose, e che tutto sia destinato a rimanere invariato.

         La nascita del circolo culturale di fatto affonda le proprie radici esattamente nella convinta volontà, per quei suoi fondatori e sostenitori, di dare fiato e futuro a qualcosa che potesse attirare l’attenzione di tutti i loro concittadini intorno a dei temi di natura culturale e di partecipazione generale: qualcosa intorno a cui iniziare a parlare, a discutere, incontrarsi, tentando di far smettere le persone interessate di essere soltanto cittadinanza passiva, priva di qualsiasi capacità intellettuale, e quindi con opinioni non sorrette da riflessioni ben ponderate.   

         La mattina, al circolo “Victor Jara”, è possibile entrare e sistemarsi ad un tavolo per consultare uno dei tanti quotidiani che vengono acquistati e messi a disposizione di tutti quanti, ogni giorno. A Sonja era parsa da subito un’idea meravigliosa quella di poter lasciare a chiunque la possibilità di acquisire tutte le informazioni necessarie per comprendere meglio la realtà, e di formarsi così delle opinioni, come minimo più approfondite, su qualsiasi argomento di interesse, anche se in seguito, con il passare del tempo, l’operazione si è andata a restringere ad un numero talmente esiguo di persone da risultare quasi fallimentare.

         “Che cosa importa”, le aveva detto qualcuno; “l’elemento fondamentale è sapere che nella nostra cittadina esiste un faro che ci illumina, e sul quale possiamo contare in qualsiasi momento”. E forse a Sonja è bastato da allora questo pensiero, tanto che quella consuetudine in tutti gli anni di vita del circolo non è mai stata abolita. Nella sala aperta al pubblico ci sono libri, riviste, materiale di consultazione, e a qualcuno dei soci qualche volta era anche venuto in mente di dare maggiori possibilità per svagarsi, permettendo agli utenti il gioco delle carte e altre cose del genere.

         “Non è facile”, le ha anche detto tante volte Virginia, la sua amica bibliotecaria. “In fondo i nostri scopi sono simili, però quello che dobbiamo intraprendere non sarà mai un percorso lineare e tranquillo. Dobbiamo inventarci qualcosa di diverso ogni volta, e poi anche avere il coraggio di cambiarlo quando è il momento, perché le cose che ci sembrano funzionare perfettamente oggigiorno, in poco tempo si stemprano, perdono consistenza, e poi non valgono più. Dobbiamo collaborare, questo si, perché soltanto in questa maniera riusciremo a dare maggiore spessore alle nostre iniziative, e poi dobbiamo cercare comunque l’appoggio di tutti, perché se anche le nostre idee sono buone, le migliori possibili, ugualmente serve che i nostri concittadini le riconoscano come tali, e rifiutino l’immagine di ricevere proposte calate troppo dall’alto”.

 

          

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Ragionamenti importanti

 

         Sono già sufficienti pochi elementi per veder passare via in un lampo un’intera giornata. Qualcuno telefona, e spiega o recepisce qualcosa con calma; Sonja memorizza subito il da farsi, poi si concentra sulla documentazione, sul materiale disponibile, su quello che può mettere assieme, prendendo appunti, elaborando, dando seguito a fatti e impressioni, fino a quando si guarda attorno per rendersi conto improvvisamente che è già persino troppo tardi, perché il tempo è passato molto velocemente, e forse lei, con una buona dose di responsabilità, ne ha perduto una bella porzione intorno a qualcosa che magari non aveva neppure tutta questa importanza. A che serve pensarci sopra, la cosa fondamentale è buttarsi nel mezzo a quanto si è desiderato da sempre, perché sarà d’improvviso che ogni sforzo tornerà indietro a restituire una doverosa soddisfazione, quella di sapere che tutto era assolutamente da compiersi, senza alcun tentennamento.

         Certe volte lei guarda per un attimo la sua ombra sul marciapiede, oppure il riflesso della sua faccia sopra una vetrina mentre cammina velocemente per strada, e sa che tutto è concreto, molto di più di ciò che si era potuta mai immaginare. Non cambierà certo la sua espressione nei prossimi tempi, se anche rimanesse in completa solitudine a combattere le sue piccole ma necessarie battaglie. Qualcosa la spinge, continua a spingerla, e lei non si arrende, non considerando dentro di sé neppure il motivo per farlo: dobbiamo vivere questo presente, osserva certe volte; con la consapevolezza di tutto quello che la realtà riesce a fornirci. “Ciao Virginia”, dice poi con un certo piacere alla sua amica che lavora presso la biblioteca comunale, quando la incontra per caso, o quando va fino da lei per parlarle. Si conoscono bene fin da quando erano due normali ragazze, ed adesso, pur con molti distinguo, si sentono quasi alleate nella loro battaglia per portare il maggior numero di cittadini verso quella cultura in cui credono.

         In fondo il loro lavoro non è troppo dissimile, e ci sono stati dei momenti in cui il piccolo circolo culturale di cui Sonja da molti anni è la presidente, ha collaborato con la biblioteca per attivare percorsi di formazione intellettuale sia per i ragazzi scolarizzati, che per adulti sensibili a certi argomenti. Così si sono ritrovate più volte dalla stessa parte, a condividere i medesimi sforzi nel tentativo di rendere tutto migliore. Sullo sfondo proseguono a muoversi, intorno a loro due, delle scelte che a nessuno tra i loro conoscenti viene mai in mente di criticare, perché certi ruoli si colgono quando è il momento ed una volta per tutte, e poi si rimane come invischiati in quel dato personaggio, praticamente per sempre, senza possibilità di uscire più dalla recita, neppure volendolo. Loro due si sorridono, conoscono perfettamente il peso della croce che portano sopra le spalle, ciò nonostante vanno avanti come sempre nei loro compiti, praticamente impassibili. 

         “Si potrebbe mettere a punto un convegno intorno alla presentazione di un bel libro che ho appena letto sullo sviluppo sociale dei piccoli centri”, dice Sonja con entusiasmo a Virginia; “un volume molto interessante che è stato da poco pubblicato. Conosco il curatore del saggio in questione, e lui credo proprio non avrebbe difficoltà nel venire fino da noi a presentarlo, e poi su questo potremmo restringere l’argomento fino ad affrontare i dettagli della nostra realtà di paese. Si potrebbe invitare persino il sindaco a fare un piccolo intervento sulle tante questioni ancora aperte circa la nostra cittadinanza”. “Va bene” fa l’altra; “magari vediamoci al circolo per parlarne un po’ meglio, in ogni caso mi pare proprio un’ottima idea”. Così vanno le cose, pensano ambedue subito dopo i saluti. Qualcosa dovrà pur decidersi a cambiare una volta o quell’altra, specialmente se tutti noi iniziamo a riflettere meglio almeno sulle cose importanti.

 

        

 

 

 

 

 

 

 

 

         Inutile depressione

 

         Certe sere dentro al circolo culturale “Victor Jara” non rimane nessuno, ed allora Sonja accosta la porta principale, spegne le luci generali, poi si siede alla scrivania nel suo piccolo ufficio sul retro, e riflette. Non ci sono molte cose da scartare nella sua giornata, però senz’altro sono tutte migliorabili. Lei ha rinunciato a sentirsi da sola come accadeva una volta: in fondo le basta l’affetto di chi la sostiene, di chi crede nelle sue proposte, coloro i quali condividono le sue idee, e sono sempre pronti a darle una mano. Poi ci sono i suoi genitori, sempre più anziani, sempre più bisognosi di lei, del suo aiuto, della sua rara capacità di affrontare i problemi e risolverli, almeno quando è possibile. Infine, più tardi, chiude la porta con le chiavi e se ne va a casa da loro.

         Ciò che fa per il circolo culturale non è mai sufficiente, o almeno Sonja non prova quasi in alcun caso quella profonda soddisfazione che tante volte desidererebbe avvertire, ed allora si interroga su tutto ciò a cui è possibile dare seguito sin da domani, ed inventare dal niente nuove iniziative, inserire ulteriori appuntamenti con nomi noti, magari orchestrare una più efficace pubblicità da affiggere sui muri della sua cittadina. A volte si sente una rompiscatole nei confronti di chi collabora con lei, proprio perché insistente, pignola, mai soddisfatta. Qualcuno nel tempo si è anche defilato per questo, lei lo sa benissimo. Non ha un carattere facile, ed anche se chiede sempre l'opinione di tutti, quando crede di essere dalla parte della ragione diviene irremovibile nei suoi convincimenti, e quindi praticamente insopportabile.

         I suoi genitori non le chiedono mai niente sulla sua attività, perché quando ne ha voglia è lei stessa che spiega attorno a cosa stia lavorando per il circolo culturale. Al mattino però va nell’ufficio di un avvocato a sistemarne la corrispondenza, e soprattutto a studiare i complicati incartamenti dei processi per cui il suo datore di lavoro deve intervenire, sottolineando a matita le cose più importanti di ogni atto giuridico, ed estrapolando i passaggi veramente importanti di ogni documento, di fatto predisponendo ogni cosa per far funzionare bene la giustizia ed il lavoro del suo avvocato. Svolge con scrupolo e attenzione questa sua attività, naturalmente, anche se per lei è soltanto quella che le procura un piccolo stipendio con cui riesce a tirare avanti. Perché con il lavoro al circolo culturale, oltre qualche simbolico rimborso spese, non prende niente, anche se è questo ciò che Sonja vorrebbe fare a tempo pieno: organizzare l’intera vita culturale della sua cittadina.

         Dentro al circolo lei si sente bene, al meglio delle sue possibilità, e quando infine riesce ad organizzare la presentazione di un libro importante, di una tavola rotonda su un argomento di stretta attualità, di un dibattito pubblico sul futuro politico del territorio, ecco che Sonja si sente una persona capace, una donna che riesce a marcare la vita della sua cittadina, un personaggio pubblico degno dei suoi compaesani. Qualcuno aveva parlato di lei come candidata a sindaco per le elezioni seguenti, ma poi non se ne era fatto di niente. Non ha alcuna importanza, aveva pensato lei in quella occasione. “C’è bisogno di aprire maggiormente gli occhi su quello che sta avvenendo; si sente nell’aria la necessità di qualcuno che prenda sottobraccio la popolazione e la faccia riflettere su se stessa. Forse sono io che devo farlo”, aveva pensato, “e questo è esattamente il ruolo che mi sono ritagliata, perciò forza, avanti, senza mai lasciarsi deprimere”.

 

        

        

 

 

 

 

 

 

 

 

         Appuntamento preciso

 

         Carlo Cantoni è un insegnante di mezza età, poco conosciuto in paese, se non dai colleghi e dai genitori dei ragazzi a cui impartisce le sue lezioni. Riservato, taciturno, ha avuto la cattedra di letteratura italiana al liceo di quella cittadina appena tre anni addietro, dopo un passato di precariato svolto in altri piccoli centri fuori regione; e così ha lasciato i suoi luoghi di appartenenza per trasferirsi da solo, visto che non tiene una propria famiglia, in un piccolo appartamento in affitto vicino alla piazza principale. Naturalmente da quando vive e lavora in quella cittadina, si è recato numerose volte nella biblioteca comunale, ed ha consultato e preso in prestito svariati volumi sulla sua materia di insegnamento, e vi ha portato in visita anche i suoi alunni durante un paio di occasioni particolari; però non si è mai interessato delle attività del circolo culturale "Victor Jara", ma forse soltanto per una sorta di timidezza nei confronti di certe tematiche affrontate negli incontri patrocinati da quella direzione.

         Però lo incuriosisce sapere che ci sono delle attività di quel genere e in pieno fermento tra i suoi concittadini, e già più volte si è riproposto di mettere il naso là dentro appena se ne presenterà l’occasione. Nel tempo libero lui passeggia volentieri lungo la strada principale del paese, e qualcuno certe volte lo saluta riconoscendolo naturalmente come l’insegnante di lettere. Poi qualche volta passa davanti al circolo culturale, e si limita a dare uno sguardo alla bacheca affissa su un fianco dell’entrata per aggiornarsi sulla prossima attività, e poi basta. Stasera però in quel preciso momento esce da dentro Sonja, la direttrice, per un caso assolutamente fortuito, e vedendolo intento a leggere il manifesto che pubblicizza un incontro che si terrà là dentro tra qualche giorno, lo saluta con un sorriso, non tanto perché lo riconosce, ma al contrario proprio perché in paese non lo ha mai notato. Carlo si sofferma un momento, saluta la donna con cortesia, e poi le chiede se sia possibile per uno come lui dare un’occhiata qualche volta alle attività che vengono portate avanti nel circolo.

         “Naturalmente”, fa subito lei; “ogni settimana di mercoledì per esempio si tiene un dibattito intorno ad un tema di attualità: ci sono delle volte che si presentano in pochi, ma in altri casi la sala è quasi piena, dipende soprattutto dall’argomento. Però se vuole entrare in qualsiasi momento della giornata si può sedere ad un tavolino e consultare le riviste e i quotidiani che acquistiamo ogni giorno, trattenendosi quanto desidera, proprio come fosse una biblioteca”. “Bene”, fa Carlo, “questo mi fa molto piacere”, e così si presenta, stringendo la mano alla direttrice del circolo e promettendo di prestare maggiore attenzione alle prossime attività. “E poi naturalmente c’è un calendario preciso all’interno che è nostra cura aggiornare a proposito di qualsiasi iniziativa venga portata avanti dal nostro circolo”, insiste lei; “così, in qualsiasi momento si può conoscere cosa venga organizzato per le settimane future”.

         Lui torna a sorriderle, si aggiusta per un momento dentro al suo soprabito grigio, poi, con un leggero tentennamento, le chiede se sia possibile prendere assieme a lei un semplice caffè, una delle prossime sere, “magari proprio domani a quest’ora, nel locale di fronte, e parlare più estesamente di tutto quanto”. Sonja lo guarda un momento, sembra riflettere con serietà: “ma certo”, dice alla fine; “l’aspetto dentro al mio circolo, così posso illustrarle ogni dettaglio”.

 

        

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Energie da spendere

 

         I genitori di Sonja trascorrono quasi tutte le ore della giornata dentro la loro casa modesta. Lui, al mattino, con gli occhiali sul naso ed i gomiti puntati sopra al tavolo della cucina, legge ad alta voce l’immancabile quotidiano che gli ha comperato poco prima sua figlia, in modo da comunicare almeno le notizie più rilevanti anche alla moglie; lei ogni tanto propone, proprio su quella base di informazioni, qualche semplice commento bonario, a volte prendendo direttamente la pagina del giornale per assaporare l’articolo in questione lei stessa, e suo marito generalmente concorda con il suo parere, mostrandosi quasi sempre d’accordo. Raramente trovano qualcosa su cui tirare fuori opinioni diverse, ed anche in quel caso sono sempre pronti a trovare una rapida intesa. Quando poi rientra la loro figlia per il pranzo, proseguono con i loro bonari commenti, e lasciano che lei, con le sue maniere più esuberanti, riporti le notizie della piccola città in cui hanno sempre vissuto, ascoltando con interesse ogni novità. Qualche volta si rammentano di alcuni periodi del passato, quando erano giovani, ed allora ogni fatto ricordato viene sempre messo in relazione con la situazione politica e sociale di allora, come fosse un giustificativo a tutto ciò che era accaduto a quei tempi, mostrando comunque la loro chiave di lettura di ogni vicenda.

         In quei casi Sonja li ascolta, cerca di comprendere lo spirito vero di quelle cose che vengono ricordate dai suoi genitori, e quasi sempre chiede degli ulteriori chiarimenti o delle spiegazioni aggiuntive. Loro due sanno raccontare bene le cose che hanno vissuto, qualche volta lei si sente addirittura immedesimata dentro a quei fatti che riportano, e questa che prova la ritiene una sensazione molto importante. Qualche volta ha invitato al suo circolo tutti gli anziani del suo paese, almeno quelli che ne avessero avuto la voglia, per ripercorrere tutti insieme, in certe serate dedicate proprio alla memoria collettiva, le varie fasi dell’ultima guerra, vista questa volta dal punto di osservazione non della storia ufficiale, bensì della povera gente, degli sfollati, delle famiglie in mezzo ai disagi, delle persone sbandate e senza alcuna certezza. Qualcuno in quei casi si è perfino commosso nel ritrovare anche in altri paesani dei ricordi così forti e ancora attuali.

         I ricordi di certe cose sono sempre degli elementi formidabili, Sonja ne ha profonda certezza, ed il centro abitato dove loro vivono ed affondano le proprie radici, è stato testimone diretto di gesti e di fatti importanti, elementi che hanno lasciato innumerevoli strascichi in molta parte della popolazione più anziana, con tantissime piccole vicende ancora non del tutto venute alla luce. Questo, del circolo culturale “Victor Jara”, è ciò che a lei sembra importante più di qualsiasi altro aspetto: riuscire a creare, mediante la memoria collettiva, una specie di strato di solidarietà all’interno della cittadinanza, qualcosa che prenda le mosse magari proprio da quel passato, per trasferirsi rapidamente nella piena attualità. I ragazzi e i cittadini più giovani naturalmente non danno alcuna importanza a queste cose, però secondo lei soltanto parlarne, far circolare le informazioni, portare le persone a scegliere una parte effettiva di appartenenza, è già un primo segno importante di costruzione della coscienza. Il suo impegno è tutto in funzione di questo risultato, ed i momenti di stanchezza che a volte sembrano fermare ogni spinta, sono secondo lei semplici momenti di riflessione di un pensiero più grande; qualcosa di importante, senza alcun dubbio, qualcosa per cui vale la pena di spendere tutte le proprie energie.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

          

         Futuro incerto

 

         Oggi pare proprio un giorno qualsiasi, e per lei non sembrano esserci di fronte delle particolari novità. Sonja si guarda attorno mentre cammina lungo la strada principale della sua cittadina: non ha alcuna fretta, sa che più tardi dovrà soltanto fare alcune telefonate di conferma per mettere in piedi ciò che ha in mente di organizzare nei prossimi giorni per il suo circolo culturale. Non si tratta di qualcosa di insolito, ma di un semplice incontro, da programmare per la settimana seguente, con un importante esponente politico di quella zona, una persona nota, uno di cui lei peraltro ha sempre avuto molta stima, e che forse potrà chiarire meglio, per i cittadini che vorranno intervenire alla serata, questo periodo complicato che sembra evidenziarsi da un po’ di tempo a questa parte. Però anche tutto questo fa parte ormai degli appuntamenti abitudinari che lei organizza ogni tanto, appuntamenti ai quali ultimamente partecipano purtroppo soltanto poche persone.

         Non c'è più molto interesse per certe questioni, ogni individuo sembra perdersi esclusivamente dietro ai propri problemi strettamente personali, ignorando con determinazione tutto ciò che invece sta succedendo a tutti quanti. L'empatia  si è fatta solo un pallido ricordo, l'egoismo ed il proprio stretto particolare sono diventati oramai poco alla volta gli unici metri di giudizio sui quali misurare qualsiasi scelta singola. Però bisogna guardare avanti, pensa chi come lei vorrebbe salvare almeno qualcosa di questo singolare periodo storico, e preparare tutto quanto come se da un momento all'altro potesse davvero cambiare d’improvviso questa tendenza. Prodigarsi per gli altri sembra sia diventato un comportamento quasi risibile, e chi si comporta in questo modo viene additato come stravagante, oppure ignorato, senza l'uso di mezzi termini. E’ una vera guerra, pensa a volte Sonja a voce alta, quando si trova in casa con i suoi genitori, oppure al circolo con i più stretti affezionati, quasi a far risaltare il comportamento sempre più altruista delle persone che, proprio come fa lei, si preoccupano del bene di tutti.

         In ogni caso c’è solo da andare avanti, procedere oltre questi sciocchi pessimismi e mettere in pista tutto ciò in cui davvero si crede, tentando quando è possibile anche nuove strade per smuovere in qualche modo le coscienze. Per Sonja questo è un pungolo ulteriore, anche se riflette molto attentamente alle parole che certe volte le dice in fretta sua madre, quando la consiglia di pensare un po' anche a se stessa, e di smettere di dedicarsi esclusivamente a tutti quanti. I suoi genitori avrebbero voluto una vita almeno in parte diversa per la loro unica figlia, anche se si ritengono molto orgogliosi di tutto quello che fa. Una famiglia, un marito, dei figli, le solite cose, pensano a volte, anche se ormai difficilmente potrebbero fare a meno della sua inseparabile presenza nella loro giornata. Lei sa benissimo cosa passa loro nella mente, ed è forse per questo che non li lascia mai affrontare a lungo quell’argomento.

         In fondo va bene anche così, sembra certe volte suggerire ogni suo comportamento. Al circolo culturale è molto considerata, sembra quasi che tutti sappiano benissimo che probabilmente senza di lei le cose per l’associazione non avrebbero alcun futuro, e che se Sonja non si fosse prodigata in quell’ambito per tutti quegli anni fino adesso, ad ogni buon conto la loro piccola città sarebbe peggiore, priva di quel fulcro culturale che porta generalmente le persone verso il rispetto e alla riflessione attenta su ogni opinione anche diversa dalla propria. C’è da esserne orgogliosi, pensa ancora qualcuno che la conosce bene, anche se sono ormai soltanto in pochi.

 

          

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Certamente benvenuto

 

         “Eccomi qua”, dice lui con un sorriso, mentre sta sopraggiungendo davanti all’entrata del circolo culturale “Victor jara”, nello stesso esatto momento in cui Sonja, con la testa persa come sempre dietro a tutti i suoi pensieri, si fa sulla porta per entrare. “Bentrovato”, gli fa lei con un leggero moto di sorpresa; “immagino che oggi sia arrivato fino qui per tesserarti”, gli chiede. “Certamente”, risponde subito lui, “in fondo non chiedo di meglio che passare qualche serata qua dentro a discutere di sociologia e di politica”. Anche lei gli sorride, poi apre la porta vetrata con le proprie chiavi e lo fa accomodare all’interno. “Comunque stiamo pensando di mettere in pista nei prossimi tempi anche delle cose un pochino più leggere: qualche serata di canzoni, un piccolo spettacolo teatrale, addirittura delle prove di ballo impartite da un vero maestro della disciplina”. “Bene”, fa lui, “mi sembrano degli ottimi propositi”.

         Giunge un gruppetto di soci del circolo, alcuni sinceri affezionati che si fanno vedere là dentro praticamente ogni pomeriggio, impegnandosi generalmente per dare una mano, ad esempio,  con le locandine e i manifesti da affiggere, e che adesso entrano subito nella sala principale e salutano cortesemente loro due. “Possiamo andarcene a prendere un caffè nel locale di fronte”, dice lei sottovoce; così lui annuisce e in un attimo escono sulla strada. “Mi piace il clima che si respira attorno al tuo circolo”, fa lui; “c’è un’aria positiva, una voglia di fare, la sensazione che tutto sia possibile se soltanto lo si vuole”. “Forse”, fa lei, “però nel dettaglio le cose non sono così semplici, e c’è sempre bisogno dell’impegno di tutti per far funzionare al meglio le cose”.

         Poi si siedono ad un tavolino del bar, si fanno portare i due caffè, ed intanto lei continua a sorridere guardandosi attorno, salutando qualche persona presente dentro al locale. “Tutti ti conoscono”, dice lui, “e tutti quanti ti rispettano, anche se probabilmente non hanno le tue stesse idee politiche, o i tuoi ideali”. “Questo è vero”, dice Sonja, “però quando quello che fai viene portato avanti con passione e correttezza, le persone prima o dopo se ne accorgono, ed allora non possono far altro che usare dei riguardi nei tuoi confronti”. Carlo si sente sciolto quando sta con lei, non come quando si trova con le sue colleghe insegnanti che dentro la scuola lo spingono a mostrarsi sostanzialmente rigido nel suo compito, ed anche estremamente riflessivo in tutto ciò che fa e che dice, preoccupandosi solo delle opinioni che possono formarsi nei suoi confronti.

         Sonja porta con sé una ventata di spirito e di intelligenza, qualcosa che non è facile avvertire negli individui, almeno ultimamente. "Ho persino qualche idea da suggerirti", dice lui con serietà; "niente di stravagante, qualcosa che forse, e naturalmente se ti va, può essere sviluppata facilmente dentro al tuo circolo. Sonja gli sorride, si rende conto che lui è proprio nella posizione di aiutare davvero il "Victor Jara", ma non per questo desidera farlo sentire nell’obbligo di impegnarsi in qualche cosa; anzi, come per tutti coloro che si prestano ad ogni attività, vuole assolutamente metterlo in condizioni di sentirsi libero di scegliere, prendendo autonomamente ogni decisione. “Nel tuo circolo potrei aprire un doposcuola, al pomeriggio, almeno per le materie che conosco”, dice lui; “ed invitare magari qualche collega a fare lo stesso fino a coprire ogni materia del liceo. Ci sono ragazzi che rimangono indietro per tante ragioni diverse, certe volte del tutto incolpevolmente; aiutarli potrebbe essere fondamentale per la loro crescita, sia psicologica che intellettuale. E poi levarli dalla strada può essere un vantaggio per tutta questa città”. Lei lo guarda, gli sorride, annuisce; sorseggia il suo caffè, poi dice soltanto: “certamente, sei il benvenuto”.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

          

         Tempi correnti

         Fuori si trovano facilmente delle miriadi di difficoltà da affrontare. Possiamo fingerci indifferenti per qualche tempo, possiamo ignorare quello che ci sembra più ostico, addirittura immaginarci di essere esenti da alcuni di questi problemi che spesso si parano davanti, ma ad un certo punto, poi, dobbiamo scegliere. Sonja si siede da sola come sempre nel piccolo ufficio sul retro del circolo culturale, fissa qualcosa sulla parete di fronte a sé, ed immagina, come molte volte le capita, che tutto rapidamente si stia trasformando, e lei, insieme ai suoi collaboratori, sia chiamata a comprendere forse prima di altri verso dove vadano effettivamente le cose, e quale sia il vero cambiamento in atto in questo momento. Lei si è sempre guardata attorno, ha cercato di ascoltare chiunque, si è messa nella condizione di recepire rapidamente ogni più piccolo utile suggerimento anche involontario, ma la sua difficoltà è rimasta comunque la medesima, e ancora perciò si domanda che cosa possa fare davvero per opporsi a questo presente così sfavorevole.

         Resta piuttosto faticoso convincersi di avere sbagliato in certi casi, di aver interpretato in una maniera scorretta proprio quello che stava avvenendo, e di essere rimasti imbrigliati all’interno di in una realtà che non avevamo per niente considerato, quasi dichiarandoci incapaci di aver saputo leggere proprio quello che era sotto gli occhi di tutti, quasi come degli umili sciocchi, come dei superficiali. Così lei va avanti, a volte quasi per una sorta di inerzia, o anche per abitudine, nonostante adesso avverta la mancanza di quell'entusiasmo del quale ora più che mai avrebbe forte necessità. Poi, all'improvviso, si accorge che cultura è una parola molto ampia, piena di risvolti, e di lati più in ombra, di falsi piani, a cui sottostanno sempre altre cose, ed allora immagina un dibattito in cui affrontare il tema della riformulazione del termine, ed inizia perciò ad approntare un elenco di possibilità che metta insieme tutto quanto risulti in qualche modo possibile, un ventaglio di tante diverse occasioni.

         Non è il libro, non è la parola scritta, non è qualcuno che sappia già tutto rivolto alla fronte di chi non sa niente, non è un filo che lega gli aspetti più diversi ad una stessa matrice, non è neppure un luogo in cui identificarsi una volta per tutte; sono le tante correnti del sentire comune che formano la cultura, e quindi va spostato il concetto, non più inglobando ulteriori aspetti, ma sostituendo il pensiero iniziale con qualcosa di maggiormente impalpabile, un elemento sfuggente che esiste e si trasforma con estrema facilità. Il "Victor Jara" indubbiamente è rimasto un po’ addietro, ora riesce a mostrare soltanto il lato nostalgico della visione, è necessario faccia un guizzo, un salto di qualità, affronti una svolta, qualcosa che vada di pari passo al cambiamento in atto nel tessuto sociale sia della città che della provincia.

         Va aperto un tavolo di confronto su questi temi, pensa adesso Sonja, e stimolare chi desidera intervenire su tutte le problematiche di questo genere: si deve chiamare a raccolta chiunque in questo sforzo corale, tutti coloro che desiderano ridefinire anche i propri concetti, e trovare una sintesi larga, una vera soluzione ai tanti problemi, una nuova idea che sappia essere il più possibile all’altezza dei tempi correnti.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Indubbi vantaggi

         Ci sono delle novità tra le strade e le case di questa cittadina. Qualcuno dice che la presidente del "Victor Jara" ed il nuovo professore del liceo stiano assieme. Lui è stato già sposato, sembra abbia anche una figlia che comunque vive con la madre lontano da questo piccolo paese; ma in ogni caso quei due sembra proprio facciano di tutto nella ricerca continua di non suscitare la curiosità della cittadinanza, prestandosi in questa maniera ancora di più ai pettegolezzi di chiunque. Lui ha istituito gratuitamente una specie di doposcuola, nei pomeriggi liberi, prendendosi cura di qualche ragazzo zoppicante nella sua materia, ed impartendo lezioni all’interno del circolo culturale, e lei invece prosegue a portare avanti le attività istituzionali della sua associazione, organizzate come sempre con grande determinazione, bisogna aggiungere. Si vede di lontano che si corteggiano, che cercano qualsiasi scusa per parlarsi, sfiorarsi, stare assieme. Sono persone che non passano mai del tutto inosservate, perciò è più che comprensibile parlare di loro da parte di chi in qualche modo sa chi siano. 

         Le attività del circolo peraltro vanno avanti con determinazione, e pare che nei tempi prossimi ci siano in cantiere diverse novità. Nuove aperture verso la cittadinanza, piccole nuove significative attività, interessi più allargati: in fondo la politica stretta ultimamente non va molto tra la gente, ed è bene lasciarla da una parte se questo vuol dire instillare la crescita dell'interesse di tutti verso dei temi paralleli. L'ecologia, ad esempio, di cui chiunque sembra voglia parlare a tutto tondo, ma che nella realtà non viene poi praticata da nessuno. Però ad esempio, invece di organizzare dei dibattiti e delle conferenze intorno a questa materia, è possibile mettere in piedi delle giornate in cui si adottano comportamenti pratici apprezzabili nei confronti dell'ambiente. Oppure l'aiuto per i deboli, spingendo i cittadini a prendersi carico degli anziani o degli sfortunati che magari vivono proprio vicino a loro, incoraggiando in varie maniere la solidarietà a stretto giro. Queste ed altre simili le nuove strategie del "Victor Jara", tralasciando sempre di più i soliti seminari e le serate intorno ai temi di rilettura politica degli atti storici.

         La mamma di Sonja si è poi sfogata con una vicina di casa: ha confessato sottovoce che non vedrebbe di buon occhio questa presunta relazione della figlia con il professore, ma ha subito affermato a voce più alta che la sua bambina naturalmente è anche libera di fare tutte le scelte che desidera, e che non saranno certo i suoi genitori ad intralciare il suo cammino. Lei e il professore intanto vanno avanti, e se anche non cercano sempre l’intimità fuori da tutto, proseguono comunque a promuovere e poi a partecipare con gli altri soci del “Victor Jara”, alle tante riunioni programmatiche che si tengono nel circolo, durante le quali proprio in questo periodo stanno affiorando molte nuove idee, sull’onda forse di un ritrovato contagioso entusiasmo. Qualcuno dice già che non potrà durare a lungo questo clima positivo, altri sorridono quando li vedono passare sempre insieme, indaffarati e perennemente carichi di borse, libri, zaini e cartelline varie;  in ogni caso tutte le loro attività sembrano procedere a vele spiegate, e tutta la cittadinanza non può far altro, per poco o molto risulti coinvolta, che ritenersene comunque avvantaggiata.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Determinata solidarietà

 

         Qualcuno nel paese si sente addirittura infastidito quando le cose, esattamente come fanno i componenti di tutte le abitudini, invece di replicarsi perennemente con la solita stanchezza, senza così presentare mai alcuna variazione, sembrano al contrario cambiare con una certa rapidità, costringendo tutti o quasi a tenere conto di ogni nuovo elemento che sembra presentarsi, nonostante avvenga che in contemporanea, ed anche inaspettatamente nel giro di un periodo ragionevole, molti tra gli stessi spiriti critici sembrano con rapidità abituarsi a ciò che si è persino da poco presentato davanti ai loro occhi. Quasi contraddittoria questa metabolizzazione dei fatti e delle vicende in un luogo di provincia, laddove diversamente una qualsiasi persona in vista per il suo ruolo sociale o per la propria professione, se non è esattamente del posto o almeno di quella zona, è comunque guardata con un certo sospetto, e per un tempo anche discretamente lungo, prima che venga davvero accettata da tutti nella presente comunità.

         La reazione tipica perciò è quella di tenere a distanza qualsiasi nuovo arrivo, fingendo una ostinata e ferrea indifferenza, che si trasforma rapidamente in manifesta antipatia almeno nei discorsi tra gli amici e con i conoscenti, anche se motivata perlopiù in modo superficiale e spesso anche generico. Tutto ciò si incrina con rapidità nel momento in cui, esattamente chi ha mostrato con sdegno tali intolleranze, si trovi ad avere magari dei rapporti di una qualche collaborazione, oppure di neutrale scambio diretto di notizie in qualche modo rilevanti, proprio con i personaggi a loro invisi, scoprendo d’improvviso di avere di fronte a loro dei soggetti ben diversi da quanto immaginavano e che si erano aspettati. “Una vera scoperta”, dicono alcuni: “vedendola passare lungo la strada, quella persona che mi pareva così piena di sé, forse saccente, intrisa addirittura di alterigia, l’ho trovata completamente diversa”. Tutto perciò rientra, ed è sufficiente spesso un piccolo passo tra un tizio e l’altro per scoprire quasi un mondo nuovo, delle realtà fino a poco prima difficilmente immaginabili, una comunanza ed una solidarietà insospettabili fino allora.

         Carlo non si fa mai vedere insieme a Sonja senza che la loro vicinanza non abbia dei motivi più che fondati per evidenziarsi. Progettano, elaborano, mettono a punto delle strategie, ma evitano accuratamente per esempio di farsi una semplice passeggiata a due lungo il corso della cittadina dove abitano, almeno se questa non risulta giustificata da qualche impegno che vada ben oltre le loro persone. Però il loro impegno a favore della cittadinanza sembra già aprire molte porte, ed alcuni paesani che fino adesso si limitavano magari solo a salutarli incontrandoli, adesso volentieri decidono di fermarsi per chiedere loro quali novità ci siano nell’aria, cosa stia bollendo nella loro pentola, quale posizione magari ci sarà da prendere per tutti rispetto ad una campagna di sensibilizzazione oppure l’altra. Le cose si muovono, in qualche maniera, loro due ne sono gli artefici, ma sono anche coloro che riescono ad attrarre delle curiosità apparentemente negative, che in un attimo si rivelano un rapido passaggio di idee e di informazioni, molto migliore ed efficiente di qualsiasi scontato, retrivo e risaputo volantinaggio eseguito nella piazza principale.

         Sonja sorride molto in questo periodo, lo vedono tutti; ma solo alcuni trovano da fare delle facili ironie su ciò che riescono a leggere sulla sua espressione. Gli altri sono quasi tentati dal seguire le sue orme, e spingersi in avanti, scrollarsi di dosso quel provincialismo senza sbocchi, quelle abitudini deteriori, e magari impegnarsi almeno in una delle tante iniziative di solidarietà, attorno ad un problema oppure l’altro, che lei riesce a sfoderare adesso con grande determinazione.

 

          

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Difficile equilibrio

         La mamma, comunque sia senza alcuna insistenza, guarda con occhi molto attenti quest'uomo senza troppe caratteristiche, arrivato come d'improvviso a smuovere qualcosa di importante nelle giornate forse un po' troppo simili l'una all'altra in quella sua famiglia. "Un amico, e soprattutto un prezioso collaboratore del circolo", ha detto Sonja presentandolo con entusiasmo, ma anche in maniera un po’ frettolosa; ed a lei non sono certo sfuggiti dei particolari piccoli comportamenti tra loro due, dei quali naturalmente riesce adesso con facilità anche ad immaginarne il proseguo. "Comunque, non è certo una bambina lei", ha pensato subito, soprattutto per rassicurarsi; "sa bene quello che fa, ed io sono soltanto una povera donna che può solo stare a guardare quello che succede attorno a sé". Loro hanno cercato alcuni fogli, qualche documento, degli incartamenti di cui probabilmente avevano urgente bisogno, poi sono tornati ad uscire da casa, lui salutando con cortesia, lei con le sue maniere sempre un po’ sbadate. "Non c'è niente di male", ha spiegato più tardi con indifferenza l'anziana donna a suo marito, rientrato a casa dopo il suo solito giro a piedi, impossibilitata a non rivelargli la realtà di quella visita così particolare, in considerazione del sospetto che comunque lui, in qualche modo, lo avrebbe saputo senz’altro magari dalla voce di qualche vicino più curioso e ficcanaso di altri.

         "In fondo è vero che questa è la sua vita", ha pensato anche il padre di Sonja. "Noi non possiamo in nessun caso lamentarci di lei, anche se si è fatta trascinare un po' troppo da quel suo circolo culturale e da tutti gli impegni che si è assunta in tutti questi anni. Se poi decidesse improvvisamente di legarsi sentimentalmente a qualcuno, noi non possiamo che rallegrarci delle sue eventuali scelte". Marito e moglie certe volte si guardano anche per un solo attimo, e riescono a comprendere perfettamente quei loro semplici reciproci pensieri, senza nessun bisogno di spiegarsi con tanti discorsi. Poi lui ricomincia a leggere il loro quotidiano a voce alta, e lei lo ascolta, come fa ogni giorno, senza provare alcuna necessità di riaffrontare in qualche modo quell’argomento. “Sonja ed il suo collega sono persone navigate”, pensano ambedue con profonda convinzione: “sapranno scegliere perfettamente ciò che è meglio per loro, e probabilmente anche per tutti quanti”.

         Invece tutto precipita da qualche parte. Sonja si irrita certe volte, anche se non vorrebbe, quando Carlo le dice che deve andare a stare di nuovo con sua figlia, almeno per un giorno alla settimana. “Non posso perdere l’intimità con lei, quella vicinanza che riesco ancora a farle provare quando la porto in giro, le parlo delle cose del mondo, della maniera più adatta di osservare quanto abbiamo attorno, nell’attesa che lei si formi una sua idea, dei pareri propri, delle vere opinioni, e maturi dentro di sé una graduale conoscenza delle persone e anche di tutto il resto”. Lei lo sa che lui ha ragione, che è tutto perfettamente giusto, ma ugualmente non riesce ad accettare con facilità questa specie di doppia vita del suo Carlo. “Mi abituerò”, ha già pensato qualche volta. “E forse ho solamente bisogno di qualche tempo in più, prima di riuscire dentro di me a disporre le cose nella maniera più giusta e maggiormente equilibrata”.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Orizzonte di speranza

         "Ecco", dicono gli attivisti politici maggiormente impegnati. "Tutto ha già preso la china del revisionismo, e d'ora in avanti non ci sarà più da aspettarsi niente di buono". Sonja lo sa che a volte in giro si dicono cose del genere, e forse vorrebbe convincere almeno qualcuno tra i più tosti iscritti anche al partito, che nonostante quello che sembra, tutte le attività tendono a restare comunque incanalate nello stesso alveo, ed anche se al circolo culturale “Victor Jara” ultimamente si parla sempre meno dei temi tradizionalmente più cari ad una associazione nata per scopi quasi politici, è ugualmente possibile portarne avanti le finalità impegnandosi in funzioni di supporto, ed anche poco specifiche. Chiara, che lavora nella biblioteca comunale, quando loro due affrontano quell’argomento, le dice che va bene così, che la cosa più importante è riuscire a coinvolgere il maggior numero di persone possibili nelle diverse attività; ma nonostante tutto, rimane comunque in lei una patina di amarezza per non riuscire ad affrontare con la cittadinanza anche i problemi più seri e più di fondo, quelli che riguardano la collettività.

         Sulla base di questo pensiero, ultimamente è maturata nella mente di Sonja la possibilità di creare una specie di giornale del circolo, un vero e proprio contenitore di idee e di istanze raccolte dalla bocca di chiunque abbia in testa qualcosa, da usare come una riserva di spunti ed un elenco di cose da fare, e anche come cerniera nei confronti della cittadinanza. Prendere nota di quanto avviene nel centro abitato, come anche nelle campagne circostanti; dare puntuale notizia delle novità più in evidenza, raccogliere commenti su qualsiasi tema, e quindi a turno, da parte dei soci che se la sentono, effettuare delle vere e proprie interviste alle persone qualsiasi, anche mediante l’uso di un registratore, in modo da mettere in seguito sopra la carta il pensiero vero di tutti quanti, senza alcun filtro, lasciando affrontare da chi ne abbia la voglia anche i temi più scomodi. Quando lei ha presentato il progetto, durante una riunione del circolo, qualcuno ha storto la bocca, ma nessuno tra tutti i presenti si è dichiarato del tutto in disaccordo.

         L'idea del giornale sembra buona, dice adesso qualcuno; probabilmente ci costerà molto dal punto di vista dell'impegno personale di ognuno di noi, e naturalmente servirà anche un discreto esborso di risorse che dovremo impiegare per la sua stampa e la capillare distribuzione; però si può provare, correggere gli iniziali inevitabili errori, e vedere poi quale risultato potremo in seguito raggiungere, anche in termini di apprezzamento cittadino. Alcuni pensano già a delle piccole rubriche fisse da portare avanti anche a livello del tutto personale, altri hanno in mente di ospitare su quel giornale anche le opinioni più scomode, quelle che nessuno normalmente avrebbe mai il coraggio di riferire, ed altri ancora pensano finalmente di inserire là dentro i temi più cari del circolo, quelli per cui il "Victor Jara" è nato, ormai parecchio tempo fa.

         Sonja in questi giorni avverte comunque nell'aria un nuovo entusiasmo, quasi un formicolio se non una febbre, che percorre i soci e gli affezionati del circolo. Era da tempo che non si provava qualcosa di questo genere: “perché sono questi i momenti migliori”, pensa adesso con grande sincerità; “quelli per cui tutto sembra d'improvviso risvegliarsi e mostrare in avanti la strada migliore, quella che concede a chiunque l’orizzonte della speranza.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Peggio di sempre

 

         Un ragazzo passa correndo lungo la strada principale che attraversa quasi tutto il paese. Sembra giocare, come se quel semplice percorrere di fretta la parte più antica del centro abitato, fosse una specie di gara, uno scherzo da tirare a qualcuno ridendo, quasi una beffa nei confronti di chi tenta di dare del senso al passato, magari proprio per fornire più fiato al futuro. Corre davanti al caffè della piazza principale, in mezzo a diverse persone lì in piedi, che parlano con convinzione tra loro, e lascia che tutti lo notino in quel suo atteggiamento beffardo, che finge di scontare il desiderio di rendere migliori le cose forse proprio tramite quelle parole, riducendo purtroppo ogni volontà solo ad uno scherzo, una semplice superficialità, una stupidaggine qualsiasi, senza alcun significato. 

         Ci sono Carlo e Sonja tra quelle persone, e forse stanno prendendo assieme agli altri gli ultimi accordi per portare a compimento i loro progetti, le idee che hanno avuto ultimamente per rendere più aderente alla collettività il compito del loro circolo culturale. Si parla naturalmente della pubblicazione di questo benedetto giornale, una specie di rivista mensile in bianco e nero dove ospitare qualsiasi voce che nel paese abbia voglia di farsi sentire, ed il confronto per arrivare al primo numero da dare in tipografia naturalmente è serrato, pieno di entusiasmi ma anche di dubbi ed incertezze, tanto che si continua a cercare delle mediazioni tra tutti quanti.

         Il ragazzo passa quasi nel mezzo al gruppo di persone, si ferma soltanto un momento, guarda Carlo in faccia mentre distratto sta parlando con un’altra persona, e d’improvviso sputa verso di lui, come per dare una definizione precisa ai propri pensieri. Poi riprende a correre. Non è un estraneo, in molti sanno chi sia, e già in altri casi ha avuto dei comportamenti particolari; però quello di oggi è qualcosa che va ben oltre qualsiasi comprensione. Si dice subito sia stato mandato da altri, che il suo comportamento sia semplicemente il frutto di alcune malelingue ben note che non reputano positivamente le attività di quel circolo, e qualcuno ci vede proprio un interesse politico dietro a quel gesto, e senza comunque cercare di far pagare al ragazzo la sua sciocca bravata, ci si interroga subito su come scoprire cosa possa esserci nascosto nell’ombra. 

Si serrano le fila, si dice che non è il momento di fare polemiche ma neppure di indugiare troppo: è doveroso andare avanti superando qualsiasi ostacolo, ed il fatto che le attività del circolo culturale siano prese di mira, dimostra perfettamente che tutti loro sono nel giusto, che ciò che è stato pensato deve assolutamente essere portato a pieno compimento. Sonja si trattiene, è dispiaciuta per ciò che è accaduto, perciò apre immediatamente le porte del circolo ed invita tutti ad entrare là dentro, perché la strada e la piazza stanno diventando sempre più dei luoghi insicuri, dove la voglia di fare da parte di qualcuno viene già interpretata come una semplice provocazione. Bisogna cautelarsi, dice Sonja senza riferirsi a nessuno in particolare, guardarsi attorno, essere prudenti; insomma fare tutto quello che serve, ma preparandosi al peggio.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Risultati avversi

 

         Il giornale si chiamerà “Victor”, hanno deciso all’unanimità i soci del circolo culturale, anche in funzione del fatto che il percorso per giungere alla sua pubblicazione, sta diventando per tutti loro una specie di vittoria. E’ un vantaggio per chiunque, si dice, la possibilità di avere a disposizione una rivista mensile, pur di poche pagine e con una grafica senz’altro discutibile, che tenta comunque di parlare a tutti quanti di tutta l’estesa cittadinanza, anche di quella costituita da chi non crede affatto in questo progetto, peraltro molto impegnativo, o di chi manifesta un evidente disinteresse. La collettività in seguito ne trarrà un sicuro vantaggio, si mormora nell’ambito del circolo, ed il fatto che stiano facendosi sentire da qualche parte delle decise avversità, non significa affatto che l’idea generale non sia assolutamente buona, forse la migliore da sempre per quanto riguarda il circolo. Non sono molte le cittadine di provincia a poter permettersi il lusso di una pubblicazione autogestita che riguardi tutto il territorio comunale, e se tutto questo riesce ad assumere una connotazione anche di tipo politico, ciò significa che coloro i quali animano il vivaio dove nascono iniziative di questo genere, stanno nel giusto, con indubbia e grande imparzialità, la stessa che da tempo risulta ormai assente in altri contesti.

         Carlo Cantoni è rimasto scioccato dagli ultimi fatti accaduti che lo riguardano. In molti gli hanno battuto una mano sopra una spalla, quasi a dargli una nuova spinta, anche se forse in molti non lo sentono ancora uno di loro, considerato che è venuto ad abitare in quel paese soltanto da poco tempo; ma a lui forse non è bastato, ha sentito incrinarsi qualcosa nel rapporto sincero cercato da sempre con tutti, ed adesso ha scelto di stare un passo più addietro, impegnarsi di meno e di concentrarsi maggiormente nella sua professione di insegnante, piuttosto che di attivista del circolo culturale "Victor Jara". Con Sonja di questa sua scelta fino adesso non ha neanche parlato, perché “sono questioni piuttosto personali” ha riflettuto, ed è difficile per lui spiegare come ci si sente quando si prendono decisioni di una certa importanza, “e poi comunque lei è assorbita in maniera globale dall’uscita imminente del primo numero della rivista”, e probabilmente, nella ricerca spasmodica di fungere da coordinatrice di tutte le idee e le iniziative che sembrano come prendere vita dal niente attorno a questa pubblicazione, non ha proprio più tempo per preoccuparsi di altro.

         Tutti comprendono perfettamente, nei confronti dell’ispiratrice di quel giornale, la sua bramosia di mettere finalmente in mano ai suoi concittadini una realtà di quel genere, di concretizzare quasi la possibilità di parlare con loro, di tentare tramite quel semplice strumento, il dialogo fondamentale all’interno di una semplice cittadina di provincia, quello tra chi ha compiuto da tempo una precisa scelta di campo, e tutti gli altri. Perché il giornale su cui in diversi ormai stanno già  lavorando, non può limitarsi a relazionare soltanto un definito elenco di notizie e di varie informazioni sull’abitato e su quel loro territorio; “ci vuole un'anima che sostenga la nostra pubblicazione”, dice adesso Sonja a voce alta a chi le chiede qualcosa, ed è per quella che lei si sta adoperando. Già, ci vuole qualcosa di inespugnabile, evidente ed indiscutibile: un elemento che dimostri che con impegno e con grande dedizione si possono ottenere dei risultati che in seguito siano utili proprio a tutti, persino a coloro che hanno avversato da subito l’idea, il progetto, la volontà che ci sta dietro; e che sono disposti anche a boicottare con superficialità tutto quanto, pur di contrastare il buon fine dell’impegno degli altri.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Indifferenza ad oltranza

 

         Che cosa importa essere coscienti o meno di quello che è possibile accada tra appena un momento, oppure chissà quando, o magari mai? Sdraiarsi per dormire, nel proprio letto, stanchi di tutto, ed immaginare subito un caleidoscopio di visioni che riescano tranquillamente ad essere il semplice compendio di quanto è stato riflettuto appena in tempi recenti, come un sommario piuttosto fantasioso di quello che capita, o che forse bisognerebbe capitasse. Ci si dibatte all’interno di un percorso che probabilmente non produce risultati, anche se l’impegno in questa maniera appaga facilmente lo sforzo, e si lascia che il succo di tutta la questione sia qualcosa di inafferrabile: importante, interessante, eppure ancora troppo volatile.

         “Voglio dei frutti reali, da questa mia dedizione a quanto ho creduto da sempre”, si mormora piano, con l’espressione di chi crede davvero a quanto desiderato, come se qualcosa evidentemente fosse rimasto addietro, e potesse davvero in questo momento affiancare in fretta tutto il resto, senza alcuno sforzo da parte di chi non ha mai nemmeno creduto nelle capacità di arrivare a dei veri risultati definiti. Si scredita tutto con grande facilità, senza però essere capaci di sostituire ciò che crolla con rimpiazzi efficienti, migliorativi, o almeno dello stesso tenore di quanto si è fatto gettare.

         Altri piccoli attacchi sono stati ideati: brutte scritte sui muri, alzate di spalle al semplice passaggio degli attori del circolo culturale, frasi infamanti nei loro confronti magari pronunciate sottovoce e con un mezzo sorriso, fino a far serpeggiare l’idea che qualcosa di immorale si annidasse tra le fila dei promotori del benedetto giornale “Victor”. Niente di nuovo, in considerazione del fatto che qualsiasi novità in quella cittadina di provincia è sempre stata vista con un certo sospetto, ma forse in questo caso qualcuno sembra impegnarsi di più nel denigrare chiunque prosegua a dare credito al progetto di dotare la cittadinanza di un mensile autogestito.  

         Carlo poco per volta si è quasi defilato dal circolo, con grande dispiacere; altri simpatizzanti iniziano a prendere le distanze, e Sonja stessa è giunta velocemente a chiedersi se sia stata una buona idea quella che ha voluto portare avanti fino adesso con tutta la determinazione che ha impiegato. In ogni caso ormai è tardi anche per un qualsiasi ripensamento, ed anche se tutto l'impegno che verrà adoperato dal circolo non sarà in qualche misura ripagato, le cose devono senz’altro procedere, ad ogni costo. Perché nessuno può permettersi di voltare la pagina ed archiviare l’idea, a patto di perdere la faccia ed anche qualsiasi credibilità.

         I suoi genitori non dicono niente, attendono come sempre le scelte che farà lei, e si sa già che accetteranno in ogni caso qualunque decisione. Virginia invece, la sua amica bibliotecaria, riesce a darle una vera spinta peraltro insperata. Una rubrica, quasi un inserto all’interno di “Victor”, propone lei; una pagina densa, in cui prendere in esame alcuni libri di cui suggerire la lettura agli utenti, sottolineando una motivazione oppure un’altra per farlo, e poi proporre delle semplici recensioni aperte alla discussione e al dibattito, invitando la cittadinanza interessata a chiedere in prestito da loro i relativi volumi. La sua istituzione ne può trarre grande vantaggio, e tutto questo può essere motivo esauriente per avere tra le mani le pagine di un giornale del genere.

         Tutto inizia insomma a prendere forma, in questa maniera, anche a dimostrazione della vitalità positiva di alcuni personaggi che vivono all’interno di quel semplice agglomerato cittadino; ed oramai l’uscita imminente del primo numero della rivista, riesce ad assumere sempre di più le connotazioni e i profili di una vera e propria sfida lanciata quasi di proposito a chi cerca di restare comunque sul piano del dissenso o dell’indifferenza.

 

        

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Imminenti possibilità

 

         Oltre questi giorni segnati già dall’inquietudine, potrebbe esserci qualcosa di estremamente positivo, una rinascita incredibile, un cambiamento estremo naturalmente in meglio, capace di far addirittura ridere chiunque attorno alla scarsa fiducia che si avverte nel presente riguardo al prossimo futuro. Nel circolo intanto ci si tiene la testa con le mani, e tutti comprendono di essersi esposti persino troppo con il resto della cittadinanza, sbandierando con estrema sicurezza la fiducia negli immediati risultati di tutto il loro impegno, mostrando in questo modo soltanto una certa debolezza, ed una esagerata convinzione nelle proprie possibilità.

         La data di uscita del primo numero di “Victor” infine, è stata ormai decisa, e si lavora in questi ultimi giorni alla sua impaginazione, scegliendo con estrema cura le cose migliori e più d’impatto sul lettore, da evidenziare e mettere in risalto rispetto a quelle da usare come una sorta di ordinario riempimento. Sarà un numero zero, di pura prova, e le aspettative per alcuni sono ormai giunte ad un livello tale che immancabilmente potranno mostrare subito dopo soltanto delusione riguardo ai risultati. Sonja prosegue a guardare avanti, come sempre, e cerca di sganciarsi per come può dal progetto generale, ritornando frettolosamente ad interessarsi delle tradizionali attività del circolo, in modo da non puntare tutto quanto sul giornale, e tentando di lasciare per tutti i soci una qualche via di fuga, se qualcosa davvero andasse proprio male.

C'è una strana aria di attesa nel paese, e gli argomenti che si affrontano nei capannelli lungo il corso sono i soliti, generici, i medesimi di sempre. Si parla del paese, degli individui più particolari che in giro magari si vedono di rado; si dice che la stagione non si è certo rimessa, il vero inverno non è ancora arrivato, e qualcuno spiega di preferire il freddo piuttosto a questa pioggia continua e fastidiosa. Della coppia appena composta praticamente non si parla quasi più, anche perché Carlo e Sonja recentemente non si sono più fatti vedere insieme a spasso per le strade. Loro si sono comunque incontrati qualche altra volta, ma con minore assiduità, forse proprio per non bruciare troppo in fretta quell’entusiasmo che in un primo tempo avevano mostrato.

Così arriva Virginia, la bibliotecaria comunale, in un pomeriggio qualunque, entrando dentro al circolo culturale mentre Sonja sta china alla propria scrivania a sistemare le ultime cose della sua rivista. “Anche se il giornale sarà distribuito soltanto tramite dei volontari, devi imporre un prezzo da far pagare a chi vorrà averla ed anche leggerla”, dice lei con impeto. “In questo modo potremo tenerne qualche copia anche noi nella biblioteca, e magari potrai metterla in vendita anche presso qualche negozio maggiormente in vista, e proprio il pagamento di ogni copia mostrerà ad ognuno il suo valore”. L’altra la guarda per un attimo. “Non avevo riflettuto a questo aspetto”, dice la presidente del circolo culturale; “però ritengo ci sia del vero in ciò che dici. Avevamo pensato di donarla per farne circolare un numero maggiore di ogni numero in uscita, ma adesso che me lo fai notare in questo modo è come regalare carta straccia ai più, che appena voltato l’angolo infileranno i fogli dentro al primo cestino di immondizia”.

“Si potrebbe offrire gratuitamente il numero zero, e forse anche il primo vero numero, stampando comunque sulla copertina il suo prezzo reale, in modo da far comprendere a tutti che c’è del lavoro dietro ad una pubblicazione di questo genere, ed in seguito applicare a tutti coloro che si saranno affezionati alla rivista quella stessa tariffa, naturalmente da tenere piuttosto bassa, e chiedere casomai un’offerta per il sostegno della sua pubblicazione”. “Bene”, dice Virginia, "io ci credo molto in questo tuo progetto, perciò devi impegnarti al massimo per avere un valido risultato, in modo da non ritrovarti mai ad essere dispiaciuta per non aver tentato qualsiasi possibilità”.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Davanti a chiunque

 

         Uno dei ragazzi che prestano una mano ogni tanto al circolo culturale "Victor Jara", dice con voce bassa ma parole potenti, che senz’altro il momento è particolare, e che bisogna impegnarsi a fondo in quella loro cittadina, per non darla vinta ai tanti superficiali che vi abitano, ed anche alla massa dei menefreghisti. Qualcuno degli altri annuisce, forse con scarsa convinzione, ma quando si tratta di decidere su qualcosa del genere ognuno sa bene che è doveroso per chiunque fare ciò che è stato stabilito. Sempre difficile, si dice, tirar fuori dei pareri positivi dai propri concittadini, ma è questo l'impegno più forte, quello di valore maggiore. Si è pensato di fare un piccolo capannello nella piazza principale del paese, in occasione dell’uscita della nuova rivista del circolo, e di chiamare a gran voce la cittadinanza, magari intorno ad un tavolino presso cui dare delle informazioni e consegnare a tutti quel primo numero, ma qualcuno vorrebbe trovare una forma più particolare per attirare l’attenzione della gente.

         Una piccola manifestazione forse, un breve corteo in cui inserire una parola d’ordine, una semplice frase che riesca a dare la scossa, un motto che possa essere condiviso da molte persone. Qualcuno sorride, non è facile riconoscersi in un evento del genere, anche se c’è un bel po’ di entusiasmo a trascinare le cose. Infine qualcuno pensa ad un vero e proprio piccolo palco da installare nella piazza, ed invitare là sopra alcuni musicisti del luogo a suonare, in modo da proporre il segno di una festa, di una novità per cui rallegrarsi e sentirsi vicini.

         Si decide a maggioranza che questa proposta è accettabile, ed evitando di fare le cose in modo improvvisato si chiedono i relativi permessi alle autorità e si mette in atto rapidamente un piccolo volantinaggio per indicare la data e chiarire gli aspetti dell’occasione. Sonja improvvisamente sente nell’aria lo spirito giusto, le sembra davvero che tutto possa decollare proprio come lo ha immaginato all’inizio, ed in questa fase fa predisporre dai ragazzi tutti i documenti che servono, firmando qualsiasi cosa di cui è necessario prendersi la responsabilità.

         I suoi genitori, pur anziani come sono, una volta informati di tutto quello che è stato ormai predisposto, si mostrano contenti anche loro di quanto al momento sta per avvenire, proprio rendendosi conto che è possibile davvero riuscire a cambiare qualcosa nella testa di tutti i loro compaesani, e che la loro figlia si merita una grande gratitudine, capace come si sta dimostrando di pensare davvero al bene comune, organizzando benissimo le migliori idee che circolano in certi canali. Anche Carlo le telefona per darle il suo appoggio morale, spiegando che le cose da ora in avanti non potranno che migliorare per tutto quel loro centro abitato.

         La tipografia perciò ha già iniziato a stampare, e la prima copia impaginata è già nelle mani dei soci del circolo, per cui si valuta dentro le stanze del “Victor Jara” quale possa essere l’impatto finale di quel giornale sulla gente comune, ma nessuno trova da indicare lacune o porre eventuali perplessità. Si va avanti, la data ormai è stabilita nel prossimo sabato, i musicisti e tutto il resto praticamente è già pronto, il paese inizia persino a parlarne nell’attesa di toccare con mano quanto sono stati capaci di portare in piazza quelli del collettivo, davanti agli occhi di chiunque sarà presente. Basta adesso; resta soltanto da attendere.

 

          

 

 

 

 

 

 

 

 

         Strade da prendere

         Si presentano delle occasioni, certe rare volte, in cui qualcosa, non si sa neppure bene perché, pare muoversi sul serio. Un senso di urgenza, di necessità a partecipare, di voglia improvvisa del nuovo, un insieme di stimoli che portano i più sensibili a rispondere a questo forte richiamo, ed a spingersi avanti, senza provare né dubbi né perplessità. Una decisione quasi comune, un passaparola spontaneo, una voglia improvvisa di mostrare con la propria semplice presenza il fatto di aspirare a qualcosa, come se un improvviso salto di qualità nel vivere ordinario chiamasse a raccolta gli individui migliori, oppure più attenti, di un'intera comunità. Questa l'atmosfera che si respira nella cittadina di Sonja, alla vigilia della festa durante la quale sarà distribuita la prima copia del giornale di tutti, una rivista che aspira ad essere un punto di riferimento per gli abitanti del suo borgo cittadino.

         Mancano soltanto pochi giorni, lei si corica nel suo letto come sempre, tante cose sono rimaste incompiute se solo ci pensa, molte di più di quante ne avrebbe potuto prendere in esame fino adesso. Eppure c’è sempre un sogno tra gli altri, che forse per sua natura sembra in qualche maniera avverarsi riscattando improvvisamente tutto il resto. Così Sonja vive quest’ultima avventura, come fosse la principale tra tutte, quella che mostrerà sicuramente cosa è davvero possibile fare per gli altri, impegnandosi in un modo esemplare, fino ad annullare talvolta persino le proprie esigenze, lasciare se stessa in un angolo, fino quasi a scomparire del tutto, risucchiata dalle necessità generali, tra i bisogni evidenti della gente comune, anche di quella che proprio non sa di avere pure lei dei bisogni.

         Chiude gli occhi da sola per cercare la calma in mezzo a tutti i pensieri che le turbinano in questo momento dentro la testa, e per un attimo si scopre una piccola donna, piena di paure come fosse ancora bambina, quasi incapace di razionalizzare al meglio le sue riflessioni come fa sempre durante ogni giorno quando sta in mezzo alla gente. E’ questo il momento in cui tutto sembra andarsene come per proprio conto, cercando quasi soluzioni surreali a quanto si è ancora annodato a margine delle preoccupazioni che restano ferme, a formare delle piccole angosce, quei tanti malesseri capaci di sciogliersi soltanto dando compimento al più presto ad ogni ulteriore riflessione esauriente e concreta.

         Sonja sa bene cosa resti da fare, quale sia la strada imboccata, quali possibilità possono aprirsi adesso per lei e per coloro che hanno creduto alla loro voglia di spingersi avanti, ma forse non basta, perché è il resto della cittadinanza che in questo momento dovrà decretare un giudizio, quello sul suo collettivo, definendo una volta per tutte cosa ci sia davvero di importante là dentro, e che cosa questo rispecchi del pensiero di tutti. Lei riflette cercando la calma, anche se l’emozione la prende, la spinge a chiedersi come abbia fatto a ritrovarsi fino a quel punto, in bilico, in balia di una debolezza che non ha forse mai avuto fino ad oggi, la stessa che la fa tremare pensando a come sarà la sua amata cittadina fra poco, nel prossimo futuro, fra qualche anno: un paese qualsiasi, disimpegnato ed indifferente; oppure un posto vivo, attento alla realtà, capace di scegliere in ogni momento la strada da prendere.

 

          

 

 

 

 

 

 

 

 

         Presa d’atto della realtà

         Lei si sente preoccupata. Non per quello che potrà essere domani o tra qualche tempo; ma soltanto perché l'andamento generale delle sue recenti giornate la costringono sempre di più a pensare soltanto a se stessa, spesso anche per una sorta di autodifesa, invece di preoccuparsi soprattutto degli altri come avrebbe sempre voluto. Si guarda attorno e scopre quasi in ogni momento che tutti sono come rannicchiati in se stessi, qualcuno difendendo le proprie posizioni, altri giustificando le scelte, oppure motivando in qualche modo il loro personale passato, e in ogni caso prendendo in considerazione solamente chi adotta quel medesimo comportamento, costringendo chiunque ad accogliere addirittura lo stesso linguaggio che lascia esprimere le persone quasi esclusivamente in termini coniati soltanto al singolare.

         Sonja si ritrova ultimamente da sola a guardarsi dentro lo specchio, cosa che ha sempre fatto poco in tutto il resto della sua vita, per cercare di leggere la sua vera espressione, quella che forse vedono gli altri quando si lascia andare a qualche commento, e poi ad analizzare il suo sguardo, la sua faccia, le sue piccole rughe, addirittura i capelli, per comprendere meglio qualcosa di sé, un argomento che forse ha sempre un po’ tralasciato. Le dicono sempre più spesso che sono d’accordo con lei, oppure che non lo sono per niente, ma motivando ogni pensiero che hanno loro dentro la testa in dei termini esclusivamente individuali, il più delle volte addirittura sfuggendo in questo modo alla matrice vera che ha definito la maggior parte delle decisioni che lei si è sentita di prendere, nell’arco di tutto il periodo da quando ha fondato, insieme a tutti gli altri, il circolo culturale “Victor Jara”.  Secondo lei una qualsiasi cosa da dire, un’affermazione, sciocca o importante che sia, ha semplicemente valore in se stessa, non in funzione di chi la sta esprimendo; ma questa idea sembra ormai superata.

         Pare incredibile che oggi sia diventato quasi assente un punto di vista maggiormente collettivo, quello che aveva praticamente definito tutte le prime decisioni del circolo, ed in virtù del quale sembrava avere senso rivendicare uno spazio reale di oggettività, un bisogno di condivisione del presente con tutti coloro che avevano voluto aderire all’idea principale di fondo. I tempi sono cambiati, si è spesso azzardato a dire qualcuno in proposito, nonostante riflettendoci sopra sia parso impossibile poter perdere in questa maniera e rapidamente certi fondamentali ideali. Ma tant’è, si prendono in considerazione soltanto gli atteggiamenti maggiormente superficiali, e spesso si tralascia proprio l’analisi della concretezza dei fatti.  

         Sonja sa di sentirsi piuttosto sconfortata, quando si trova di fronte in maniera evidente queste semplici e fondamentali evidenze, eppure è disposta a dare battaglia ed a tentare di portare chiunque a migliori consigli, naturalmente con l’aiuto degli altri che pensano le sue stesse cose. Ma l’amarezza che prova le risulta difficile da condividere davvero con chi le sta accanto, perciò si sente sempre più sola, quasi isolata in una comunità che certe volte avverte distante, respingente, diversa, nonostante in questa fase, considerate tutte le condizioni in cui si trova ad operare, non possa far altro che prendere atto della realtà.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Grave

 

         In piazza ci sono tutti, i conoscenti e le facce amiche di sempre, naturalmente; ma anche tante persone curiose, che nessuno si attenderebbe di vedere in occasioni di questo tipo. Sul palco suonano i ragazzi per allietare la giornata, ed intanto si distribuiscono in giro le copie del nuovo giornale, accettando qualche offerta da parte di chi sta apprezzando questo grosso sforzo. Quelli che non si fanno vedere sono coloro a cui il semplice richiamo di un’occasione del genere non è affatto arrivato, e forse non arriverà mai, perché non credono più, o non hanno mai creduto, in queste mobilitazioni, in queste feste, in questi segnali.

         Sonja stringe le tante mani e sorride a chi le fa i complimenti, ma dentro di sé prosegue ad interrogarsi su coloro che non ci saranno quest’oggi, e rimarranno disinteressati per sempre a farsi vedere per strada, a mostrare la loro idea, a schierarsi in qualche maniera. Forse non ha neanche molta importanza adesso tutto questo: il giornale sembra riscuota un buon successo, e tutti coloro che lo prendono tra le mani paiono proprio apprezzarlo, sia nei titoli, che per come è impaginato, tanto che alcuni fanno qualche donazione, altri si informano su come abbonarsi.

         I ragazzi continuano a suonare, poi lei sale sul palco, loro si interrompono, lei sorride a chiunque, e prende il microfono. “Deve essere il giornale di tutti, anche di quelli che oggi non sono qui, per una ragione o per l’altra”, dice. La gente applaude, è d’accordo, non è certo il momento di rappresentare una parte soltanto della cittadinanza. “Dobbiamo intercettare in qualche modo anche il loro pensiero”, prosegue, “e mostrare che nella nostra idea, gli articoli che formano queste pagine non devono essere solamente quelli relativi ad un solo modo di essere, ma anche di quello riguardante tutti gli altri, persino di coloro che non credono, o magari non hanno mai creduto possibile, di poter essere in qualche modo rappresentati”.

         Le persone applaudono con entusiasmo, forse sono parole anche facili da condividere, più complicato magari è mettere in pratica delle idee di questo genere, ma Sonja lo sa, e conosce benissimo le difficoltà che ci sono per arrivare ad interloquire con certe fette di popolazione, ma non si lascia abbattere per questo, e con uno sguardo gettato fino ai margini della piazza del suo paese, abbraccia tutti quanti, forse apparentemente in maniera anche troppo simbolica, però avendo abbastanza chiaro dentro se stessa lo sforzo a cui è chiamata nei prossimi tempi.

         Poi scende dal palco, tutti le stringono la mano e molti l’abbracciano per mostrarle il proprio affetto e la loro vicinanza, e qualcuno dice con convinzione che dovrebbe presentarsi come candidata a sindaco per le prossime elezioni comunali, ma lei si schernisce, non è questo che vuole, la politica la lascia volentieri in mano ad altri. A Sonja basterebbe che qualche persona in più si interessasse finalmente delle faccende del loro borgo abitato, mostrasse interesse alle vicende che vi accadono, alle possibilità che forse vi si offrono, e magari che qualcuno si sentisse davvero immerso in questa piccola comunità, dove spartire le preoccupazioni, i malesseri, certe volte le tristezze, ma anche le gioie, e forse persino le cose comuni più leggere e divertenti. 

         “Una cittadina composta da persone che si sentono uguali, e che si danno una mano l’una all’altra”, pensa ancora Sonja mentre cammina tra la gente. Poi, in mezzo a tutti, sente un dolore acuto ad un fianco, si tocca velocemente con la mano lungo la schiena, e scopre subito una piccola ferita sanguinolenta. Qualcuno l’ha colpita, forse con un coltello o qualcosa del genere. Si piega, la sorreggono, la portano al margine della confusione, la soccorrono: niente di particolarmente grave, dirà un medico presente; ma forse anche qualcosa di gravissimo.

 

         Bruno Magnolfi


Incontrarsi

         Incontrarsi (prima parte)

 

         Quella bettola era l’unico posto, in mezzo a quel grumo di case nettamente separate tra loro dalla strada provinciale che solo in quel punto correva rettilinea e pianeggiante subito prima di affrontare le curve della collina, dove si poteva far passare un po’ il tempo senza sentirsi troppo oppressi dal gioco perverso della solitudine. Avevo ormai sessant’anni, poche illusioni, vivevo da solo e andavo in quel bar, durante certi pomeriggi troppo consueti, e mi sedevo ad un tavolino sorseggiando un caffè, ad ascoltare i discorsi degli altri e a pensare. Mi piaceva la presenza delle persone che ci trovavo là dentro, sempre pronte a parlare del tempo, di qualcuno che in quel momento non era lì, di qualcosa successo chissà quanti anni prima, o più semplicemente della strada, quella strada che passava di fronte, e che sembrava tagliare il paese portando con sé ogni cosa buona. Quando era bel tempo stavo fuori, con gli altri, seduto su una sedia di plastica con i braccioli, le spalle al locale, giusto per osservare la strada, le poche macchine che transitavano a velocità sempre un po’ troppo elevata, i colori delle loro carrozzerie, l’attimo in cui si notava la faccia di chi le guidava, e poi le parti di dietro delle auto che si portavano con loro tutto il rumore che avevano fatto, mentre alzavano una polvere fine e leggera che brillava per pochi secondi nell’aria, nel sole giallo e caldo di quei pomeriggi. Nessuno del locale mi chiedeva mai niente: tutti sapevano che ero taciturno, e mi lasciavano in pace, continuando con le loro discussioni infinite che non arrivavano mai a niente. Certe volte, sul tardi, passava una signora da lì, entrava dentro al caffè, andava diretta verso il bancone, e si faceva servire dal proprietario del bar un aperitivo. Lo sorseggiava con calma, si osservava i capelli dentro allo specchio che fungeva da sfondo, si tratteneva dieci minuti senza dir niente a nessuno, e poi se ne andava, con le sue scarpe col tacco che risuonavano ritmiche e secche sul cemento del marciapiede. Sentivo correre un brivido dentro, quando mi passava vicino con quel suo vago profumo e le sue gonne ampie e scure, quasi vaporose, sopra al suo corpo persino troppo magro. Era la vedova del medico, rimasta ad abitare in paese dopo la morte di lui, lei che veniva dalla città, ma che adesso, inchiodata in una casa forse troppo grande per una persona, forse si annoiava tutto il giorno da sola, e ogni tanto si faceva vedere un po’ in giro, senza mai salutare nessuno, come perennemente di corsa, lo sguardo dritto davanti e la borsetta incollata ad un braccio. Mi piaceva quella sua presenza, in un attimo rinnovava completamente l’ambiente della bettola noiosa e monotona, ed anche se si tratteneva pochissimo, quel poco era già sufficiente. Non potevo dirle niente per primo, io che avevo più o meno la sua età ma non parlavo mai con nessuno. Però mi sentivo vicino ai suoi modi, come se in qualche modo in passato li avessi già conosciuti, e quando una sera lei arrivò col suo solito passo sul marciapiede proprio davanti alla mia seggiola, forse approfittò del fatto che in quel momento non c’era nessuno vicino, così si fermò all’improvviso, come per cercare qualcosa dentro a quella sua fidata borsetta, poi, senza guardarmi, disse soltanto: “…dovremmo parlare, io e lei, se ne è già reso conto?”. Non trovai dentro di me nessuna possibilità o il tempo, né per rispondere, e neppure per farle capire che ero rimasto sorpreso. Lei era già entrata nel bar, stava già sorseggiando il suo aperitivo, ed io, completamente confuso, cercavo ancora qualcosa dentro al cervello per risponderle in maniera adeguata, almeno al momento in cui sarebbe uscita da lì. Non mi concesse neppure questa possibilità, usando l’altra porta di vetro e sparendo alla vista in un solo momento, ma io feci una cosa che solo un attimo prima mi sarebbe sembrata impossibile. Mi alzai dalla sedia, percorsi tutta la strada fino ad arrivare davanti alla casa dove abitava, appoggiai gli avambracci sopra alla recinzione di ferro del suo giardino, e aspettai che lei mi osservasse dalla finestra. Uscì, poco dopo, discese i tre gradini della sua villetta con calma, venne verso di me osservando le sue aiuole e i bellissimi fiori di rosa, giusto per darmi il tempo e la possibilità di risponderle. “Sono pronto”, dissi io, e lei, ancora senza guardarmi, aprì, facendogli fare uno scatto, il cancelletto della sua recinzione.

 

 

 

 

         Incontrarsi (seconda parte)

 

         La donna si era avvicinata al cancello di ingresso, l’aveva socchiuso con un gesto esauriente di invito a raggiungerla sul vialetto di pietre che serpeggiando sull’erba portava fino alla sua casa, poi, senza guardarmi, mi aveva ringraziato di essere passato da lì, e senza mezze misure mi aveva chiesto se avevo voglia di occuparmi di quel suo giardino. Mi aveva notato già molte volte, sapeva chi ero, disse, e si era resa ben conto, cosa questa che rispondeva ad una verità sacrosanta, che avevo tanto di quel tempo libero da non sapere quasi come occuparlo. Naturalmente mi avrebbe pagato, e a lei era sufficiente che io andassi a sistemare i suoi fiori e le piante un’ora ogni giorno, in orario pomeridiano a mia discrezione. Il giardino attorno alla casa era grande, ma non sterminato. Mi piacevano molto le attività all’aria aperta, e occuparmi di quel verde era per me quasi un sogno. Ciò nonostante, come per qualsiasi altra scelta effettuata nella mia vita, mi sentii subito intenzionato a prendere del tempo prima di decidere qualcosa, valutare bene l’offerta, riflettere su quelle parole, considerare tutte le cose. Peraltro perdere anche solo po’ di quel tempo libero durante il quale ogni pomeriggio mi crogiolavo in solitudine in un vuoto completo di cose da fare o di cui preoccuparmi, era adesso un elemento per cui provavo un dispiacere sincero, pur essendo attratto e incuriosito dai modi della persona che mi stava davanti, e così volsi lo sguardo in un aleatorio giro completo attorno al giardino, e mi limitai ad abbozzare un leggero sorriso, senza dire niente. La vedova del dottore si girò alla sua destra, come per incoraggiarmi a seguirla, e così, camminando sui vialetti di pietre, dietro di lei, mi fece vedere i piccoli alberi e le aiuole fiorite, considerando ad alta voce i cespugli da togliere, le erbacce da eliminare, le ricrescite varie da contenere entro forme più definite. Si interruppe, durante le sue spiegazioni, in un attimo qualsiasi di quel suo monologo, si voltò verso di me, e per la prima volta da quando l’avevo veduta, mi guardò dritto negli occhi. Fece un passo verso di me continuando a guardarmi, lasciò una pausa sospesa, poi disse: “…mi darà una risposta domani, in quel suo bar, verrò per l’aperitivo, alla solita ora…”. Provai un leggero disagio, ripresi il mio leggero sorriso e dissi soltanto: “…d’accordo…”, riflettendo tra me che il solo pensiero di quel caffè con le sue sedie di plastica e la strada davanti, mi faceva immaginare un mondo migliore, o meglio, un mondo che andava via via migliorando, in perfetto stile ottimistico. Le strinsi la mano, e quel breve contatto mi piacque, poi, mentre già scivolavo verso il cancello, mi girai verso di lei, che era rimasta là, ferma, e le dissi: “…non conosco neanche il suo nome; come devo chiamarla?…”. Lei tornò ancora a guardarmi, strinse una mano dentro a quell’altra, poi disse: “Mi chiamerà signora Torrini, come c’è scritto sopra al mio campanello; salvo le volte che saremo da soli, qui, in questo giardino, e in quei casi potrà chiamarmi Iolanda, signor Colamonti…”. Uscii, senza riuscire a stabilire tra me se fossi contento di quella giornata oppure no. Feci un giro, passando tra le case di quel piccolo paese, e guardai le finestre, le recinzioni, i giardini di tutti; poi attraversai la strada provinciale, che in quel momento lasciava andar via un camionista svogliato che lentamente spandeva la polvere, con le ruote pesanti di quel suo veicolo, nell’aria calda della serata: mi passò accanto mentre io lo guardavo, e mi inviò un piccolo gesto, un saluto, forse un accenno di scuse per la polvere o per non avermi lasciato attraversare la strada prima di lui: come a sottolineare che non c’era bisogno di alcuna parola per capirsi davvero, o al contrario, per non capirsi per niente, era sufficiente uno sguardo, un accenno, una qualsiasi piccola cosa. Pareva sottolineare, quel camionista, che non c’era bisogno di alcun impegno, era sufficiente mettersi dalla parte di chi vuol capire i bisogni, le ragioni degli altri, e il resto scivolava da sé, come tra persone che sanno comprendere.

 

        

 

 

 

 

 

         Incontrarsi (terza parte)

 

         Il giardino era grande. Solo lavorando con cura attorno a tutti quei piccoli alberi, quei cespugli, quelle aiuole di fiori, si capiva che ogni pianta aveva bisogno di cure appropriate, cosa questa che ad uno sguardo superficiale non appariva per niente. La signora Torrini mi aveva procurato un grosso libro con molte spiegazioni sulle essenze vegetali di ogni tipo, ed io avevo iniziato a studiarlo dentro a quel bar dove regolarmente mi piazzavo in compagnia di una birra, una volta terminato il lavoro. Lei, in quei miei primi giorni del mio nuovo impegno di giardiniere, era stata un po’ assieme a me, indossando guanti spessi di gomma e un buffo grembiule pesante, giusto per spiegarmi qualcosa con poche dirette parole, e illustrandomi le particolarità del suo giardino e di altre cose inerenti la mia attività dei giorni a seguire. Poi era sparita, però mi aveva lasciato la chiave del cancello della sua recinzione, così ero autonomo, anche se sospettavo che lei mi osservasse dalle finestre di casa. In fondo, a me non importava per niente, e nelle settimane a seguire ogni tanto entravo dentro al capanno dove erano riposti gli attrezzi, e là dentro affilavo le lame da taglio, sistemavo gli utensili che usavo, mi fumavo una sigaretta, e lasciavo che il suo sguardo curioso vagasse attorno a tutta la casa nella ricerca del suo giardiniere da tenere sotto controllo. Poi un giorno arrivò mentre stavo dentro al capanno: mi disse che non poteva farsi vedere troppo con me, il vicinato ne avrebbe parlato e questo a lei non piaceva. Mi chiese senza aspettare risposta di raggiungerla in casa passando dal retro quando avessi terminato il lavoro, ed io le dissi che andava bene, ma senza che lei mi avesse chiesto un parere. Quel pomeriggio caddi malamente per terra inciampando su un ramo d’albero che avevo tagliato. Quando mi presentai alla signora Torrini le dissi che sentivo dolore ad un braccio, e forse era meglio se il giorno seguente fossi stato a riposo. Lei disse che non c’era problema, poi mi fece sedere, slacciò la manica della mia camicia e mi fece piegare il gomito in più posizioni, cercando di capire cosa fosse accaduto. Infine tirò fuori una pomata da applicare sulla parte che mi procurava dolore, e senza chiedermi niente la spalmò sul mio braccio. “Si sarà sicuramente chiesto il perché ho cercato proprio lei per lavorare al giardino”, disse. “Non si deve fare strane illusioni, non sono in cerca di un uomo. La mia vita va bene com’è. Però tra tutte le persone di questo paese lei è il più sfuggente, quello che riesce a guardare attraverso le cose, a restare indifferente di fronte a persone o fatti curiosi, e questo mi piace”. Le dissi che il primo giorno avevamo deciso di darci del tu, almeno quando fossimo stati da soli, così si scusò, e fu ancora più diretta: “Soffro di solitudine, purtroppo”, disse di colpo; “e solo vederti mentre lavori in giardino mi riempie lo sguardo. E’ una mia debolezza, ma ciò non toglie che io debba avere un grande rispetto per quello che fai, per la tua pazienza nei miei confronti, per la capacità che hai dimostrato fino ad adesso, di essere serio, comprensivo, una persona per bene”. Poi, d’improvviso, come consapevole di aver speso anche troppe parole con me, si alzò dalla sedia lasciando che io mi avviassi verso la porta, ma poi, guardandomi a fondo con i suoi occhi duri e sfuggenti, le venne da esprimermi un breve sorriso, e con un moto che non mi sarei mai aspettato, mi accarezzò per un momento la mano, e come in un soffio, disse soltanto: “i nostri anni migliori sono passati, a nulla serve oggi essere falsi…”.

 

                    

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Incontrarsi (quarta parte)

 

         L’erba era stata rasata regolarmente, e in virtù delle innaffiature frequenti aveva assunto un colore brillante, capace di far risaltare le bordure e le aiuole di tutto il giardino. Era adesso un piacere passeggiare lungo i vialetti all’ombra degli alberi, in mezzo a quei cespugli fioriti e a tutte le piante: aveva avuto ragione la signora Torrini a far lavorare una persona come me ogni giorno alla manutenzione del verde, adesso i risultati erano evidenti e tutta la casa racchiusa dentro al giardino pareva più viva, più allegra, più giovane. La signora negli ultimi mesi si era fatta vedere anche meno di quello che avrei immaginato, e soprattutto non mi aveva dato nessuna direttiva sui lavori da fare, di fatto lasciandomi padrone del campo e delle mie iniziative. Ogni giorno, terminato il lavoro, andavo come sempre a sedermi sopra le sedie del mio solito bar, lungo la via principale in paese, e tutto pareva procedere in maniera ordinata e tranquilla. Restavo lì, perso dietro ai pensieri di sempre, ad osservare le rare macchine che passavano lungo la via provinciale.  Quasi ogni sera la signora Torrini entrava nel bar passandomi accanto, mi salutava con un certo distacco e si lasciava servire il suo aperitivo al bancone. C’era un’intesa perfetta tra noi. Era come non ci fosse bisogno di alcuna parola, però, se ci fosse stato un problema reale, era evidente che potevamo contare l’uno sull’altra. Poi, uno di quei tizi che in genere perdono il giorno giocando alle carte, passò lentamente vicino a dove ero seduto, si fermò un momento guardandomi con un sorriso ammiccante, e riferendosi alla signora, appena uscita dal bar, con un gesto del capo, disse soltanto: “…puoi essere orgoglioso di aver domato una puledra del genere…”. Restai indifferente, assecondando il mio modo di essere, e lasciai che il mio primo istinto sbollisse; però quella frase non mi era piaciuta, e non potevo lasciarla passare, così, dopo pochi minuti, finii la mia birra e mi alzai dalla sedia per andare verso quel tizio. Era molto che non fronteggiavo qualcuno, mi passarono per la testa in un lampo le lotte di quando era ragazzo fuori da scuola, poi mi fermai alla sua sedia. Lui capì, e si alzò per farmi vedere che non aveva paura. Senza parlare lo colpii con un pugno sul viso, e lui barcollò sdraiandosi a terra tra i tavolini del bar. Gli altri che stavano giocando con lui, rimasero senza parole, mentre il tizio si lamentava sanguinando un po’ dalla bocca. “Ci vuole rispetto”, dissi, con voce per niente alterata, ma in modo tale che tutti capissero bene quelle mie poche parole. Pagai la mia birra ed uscii dal locale. Dentro al capanno dove stavano gli attrezzi che usavo per curare il giardino, il giorno seguente trovai una bottiglia di birra ghiacciata. La aprii, ma ancora prima che iniziassi a prenderne un sorso, arrivò lei, la signora Torrini. Entrò dentro al capanno e socchiuse la porta, mi squadrò con un mezzo sorriso ma senza dir niente, poi prese la bottiglia di birra dalle mie mani bevendone un po’. Mi baciò sulla bocca, ma in maniera affettuosa, come voleva che rimanessero le cose tra noi. Poi, quando prese la porta per tornarsene in casa, disse soltanto: “…saremo sempre più forti, noi due, di qualsiasi stupida idea giri qua attorno…”. Rimasi contento di sorseggiare quella sua birra, il suo sapore quel pomeriggio mi parve migliore di qualsiasi altra birra avessi bevuto, e quell’intesa tra noi la sentii come qualcosa che mi riempiva la vita.

 

         Bruno Magnolfi

 

 


Due donne

 

  

  

 

         Parte debole

 

         Ci sono giorni in cui tutto mi appare distante, persino estraneo talvolta. Mi aggiro scivolando in religioso silenzio tra il nostro salotto del piano terra e la piccola serra curata che adoro, ricavata com’è su di un lato della spaziosa e luminosa veranda, all’interno di questa casa edificata appena fuori mano rispetto al piccolo paese vicino, dove la nostra famiglia però abita praticamente da sempre, ed è così che mi perdo nel tempo allentato di alcune preziose mezz'ore sottratte ai miei compiti, magari soltanto per osservare la costola di un libro di cui forse non riesco neppure in questo momento a ricordare con precisione il contenuto preciso, oppure nel muovermi con calma in mezzo a tutte queste mie piante, dove in ogni stagione si trova quasi sempre qualche nascosto fiorellino meraviglioso che mostra di voler ancora sbocciare. Clara in genere sta su, in camera sua, almeno negli orari in cui non deve recarsi a dare una mano alla signora Martini, la proprietaria del negozio di mercerie che rimane quasi sulla piazza del centro abitato, perdendosi spesso in qualche lettura leggera e sicuramente di scarso impegno. Forse qualche volta addirittura mi osserva con sguardo pressoché immobile dalla sua luminosa finestra, probabilmente proprio mentre mi muovo nel nostro giardino, dando le spalle alla casa durante le piccole attività che mi assorbono, intenta come sono a sistemare le piante per farle crescere nel migliore dei modi, anche se poi a me non importa che lei mi sorvegli, anzi, va bene così.

         Mi sto convincendo sempre di più che era tutto estremamente diverso quando Ernesto era ancora qui insieme a noi, anche se adesso non saprei proprio elencare le vere differenze che con la memoria riesco addirittura a registrare con una certa difficoltà tra le mie riflessioni. Mi sorprendo quasi nella ricerca di rinviare sempre a più tardi le scoperte piacevoli e facili che potrei senz’altro fare anche troppo di fretta, come per allungare il più possibile tutti i pensieri che ancora trattengo quasi con gelosia dentro di me, ricordi sparsi di tutti questi anni trascorsi con mio marito soprattutto all’interno di questa nostra casa accogliente e piacevole. Forse le reali variazioni che in questi momenti mi sembrano più importanti in senso assoluto, se ci rifletto per bene, stanno avvenendo esclusivamente dentro di me, ne ho quasi certezza, pur a distanza di tutto questo tempo che trascorre incessante, insieme al bisogno che sento sempre più forte di non rassegnarmi troppo alla monotonia che vivo da quando lui non c'è più, ed in questo modo riesco a sentirmi certe volte quasi a disagio, nonostante tutto ciò che normalmente  mi passa dentro la mente non mi spinga per nulla a cambiare qualcosa di particolarmente essenziale all'interno delle mie giornate simili e lente.

         Poi Clara scende, mi chiede magari se ci sia da occuparsi di qualche acquisto giù al market oppure in qualche altro negozio, quindi si infila nella rimessa, e con calma mette in moto l’automobile della nostra famiglia, che oramai, visto che io negli ultimi tempi non mi fido a sufficienza dei miei riflessi, adopera lei quasi esclusivamente, e dopo avermi salutato indicandomi l’ora prevista per il suo ritorno ecco che compie la curva e poi se ne va, lasciandomi sola custode di tutta la nostra abitazione. Non mi interessa di ciò che si dice in paese di me o anche dei miei comportamenti. So che quando mi trovo a camminare lungo quei marciapiedi del centro abitato, ci sono certe persone che incontrandomi mi lanciano un saluto soltanto per un sentimento di puro dovere, e quasi nessun sorriso che non sia di cortesia viene espresso nei miei confronti, a meno che non stia passeggiando insieme con Clara, che immagino appaia sempre a chiunque la parte più debole della nostra famiglia, quella da apprezzare perciò con forza maggiore.

        

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 Impossibilità

Ci sono soltanto cinque abitazioni che costituiscono la frazione denominata “del platano”, a tre chilometri circa dalla cittadina di Borgo San Carlo, e se sul davanti le facciate sono divise tra loro dalla stessa strada statale che serpeggia e sparisce sulle colline più avanti, sui fianchi queste case rimangono delimitate da alcune abbondanti strisce di terra perlopiù coltivate a semplice prato, intervallate da diverse colorate piazzole di giardino fiorito. Al signor Remo invece piace più di ogni altra cosa mettere in azione il suo motocoltivatore di colore rosso, e così realizzare quei solchi precisi nella terra e quelle perfette linee geometriche piantumate che lasciano risaltare il grande orto che cura, ricco di varietà vegetali, posizionato un po’ più nascosto dei giardini degli altri, proprio sul retro della sua casa, però ripulito spesso ed in ogni dettaglio, specialmente una volta terminata una delle frequenti e meticolose zappettature, talmente rigoglioso da permettergli di portare sulla tavola ogni volta i frutti meravigliosi di quel suo impegno, fonte di orgoglio e di soddisfazioni. Certe volte ai suoi vicini di casa regala con grande piacere dei pomodori, del cavolo, delle zucchine, oppure l’insalata gradita sempre da tutti, ed anche questo lo fa sentire utile e generoso.

Anche con le Carraresi qualche volta il signor Remo vorrebbe essere carino più di come forse può apparire loro, ma in certi casi gli risulta proprio difficile comportarsi con slancio e con una certa spontaneità, visto che sembra quasi persista una barriera di diffidenza intorno alla abitazione delle due donne, peraltro la più grande di tutto quel gruppo di case, tale da tenere a distanza praticamente chiunque, anche lui. Tanto più che Marisa, la madre, cura ad orto un piccolo pezzo di terra,  ma mette a dimora soltanto poche varietà, quasi si vergognasse di farlo, ed alla fine dedica a queste piantine soltanto una piccola parte del tempo che invece si lascia sottrarre dalle sue rose e dalle altre piante fiorite esposte davanti alla strada.

Difficile anche parlarci con lei, darle magari qualche consiglio, oppure chiederle qualcosa riguardo alle sue strane tecniche orticole, dice il signor Remo; sembra che questa donna sia perennemente in guerra col mondo, anche se forse, alla fine, dietro al suo carattere poco malleabile, deve sicuramente esserci una persona che soffre persino dei suoi stessi modi di comportarsi. E poi c’è sua figlia Clara, una santa secondo lui, sempre in silenzio, nell’ombra, probabilmente per sopportare meglio qualsiasi situazione si possa presentare tra le mura domestiche. Lui lo sa bene, abita proprio di fronte a loro due, dal lato opposto della strada statale, e persino quando vede la ragazza uscire da sola con l’automobile, gli viene da tirare un bel sospiro di sollievo, come se anche lui fosse raggiunto da un pari alleggerimento vedendola allontanarsi dalla mamma. Però c’è da dire che sono ambedue persone estremamente riservate, e per questo non ci si può alla fine lamentare di niente, spiega a volte agli altri vicini il signor Remo, anche se qualcuno probabilmente le vorrebbe più disponibili, allegre, sociali, nonostante tutto questo appaia praticamente impossibile.

 

 

 

 

 

 

 

 

         Dettagli da nulla

 

         Eravamo compagne di scuola, dice la signora Martini. Lei amava sedersi nel primo banco, ogni anno scolastico, io invece non ci tenevo affatto ad essere sempre sotto gli occhi della maestra di turno. Però mi piaceva quella bambina, aveva sempre qualcosa nei suoi comportamenti che le altre non si sognavano neanche. Marisa, le dicevo certe volte: raccontami una piccola storia che nessuno mi hai mai letto. E lei lentamente iniziava un racconto che mi faceva subito fantasticare, tanto che alla fine mi chiedevo dove mai avesse imparato quelle favole così belle e intriganti. Soltanto più tardi sono riuscita a capire che era capace anche con un certa facilità e naturalezza di inventarsi ogni vicenda che raccontava, così, su due piedi, senza preparazione.

         Poi ci siamo perse per tanti lunghissimi anni, forse tutti quelli che sono intercorsi tra la fine del periodo scolastico e la morte di suo marito. Non lo so per quale motivo, o che cosa sia successo a lei in tutto quel tempo, però ogni tanto la incontravo per strada, e più tardi, quando rilevai il negozio di merceria sulla strada principale del paese, ecco che veniva qualche volta ad acquistare da me ciò che le serviva. Martini, mi diceva con il suo modo un po’ duro; vorrei questo articolo. Ed il suo fare mi teneva a distanza, come sempre, tanto che non ho mai trovato la possibilità di ricordarle in maniera adeguata i tempi spensierati della nostra infanzia. Ma io non ho mai dimenticato niente degli anni scolastici, e quando lei in tempi recenti venne a chiedermi se avessi per caso bisogno di un aiuto al negozio proponendomi sua figlia Clara, dissi subito di si, perché sapevo che con lei non ci sarebbe più stata un’altra occasione per riavvicinarsi.

Le dissi che era naturalmente necessario un periodo di prova, e che non doveva credere che facessi questo per amicizia o per ragioni di cuore, visto che il funerale di Ernesto si era svolto soltanto qualche mese più addietro. Mi serve una persona nel negozio, le spiegai senza sorridere, e Clara mi piace, ma deve impegnarsi e dimostrare di essere all’altezza del compito. Va bene, disse Marisa, perché forse era proprio quello che mi voleva sentir dire, e così mi mandò sua figlia da sola, il giorno seguente, senza accompagnarla né in quella occasione e neppure un’altra volta qualsiasi in tutto questo periodo da quando Clara lavora da me. Così sono trascorsi già cinque anni, dice la signora Martini, e a me farebbe tanto piacere che il clima lentamente cambiasse tra me e la Marisa, anche perché ormai abbiamo ambedue i nostri anni, e per quanto mi riguarda non mi dispiacerebbe un giorno di questi lasciare il negozio interamente nelle mani di Clara, visto che io non ho avuto figli, in modo da mettermi finalmente a riposo.

Continuo a rimandare, lo so, forse dovrei essere più decisa, ma so pure che prima o dopo dovrò affrontare questo argomento con ambedue le Carraresi, e so già perfettamente che a Marisa non piacerà per niente l’idea di dare così tanta importanza a sua figlia anche se invece, secondo me, la merita tutta. Perché Clara è brava, silenziosa quanto basta, e con la nostra clientela al negozio ci sa fare davvero, perché ha pazienza e garbo, tanto che gli affari della merceria vanno piuttosto bene. Forse inizierò col sentirmi indisposta uno di questi giorni, ed anche se mi dispiace la lascerò sempre più in solitudine a gestire il negozio, dice la signora Martini; fino a quando l’argomento sarà già bello pronto per essere discusso nei suoi dettagli.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

        

Avvistamenti segreti

17 settembre

Non so cosa succede. Io mi sento bene, come sempre; però la signora Martini al negozio mi guarda con un’aria strana, come se avesse qualcosa in mente che vuole assolutamente tenere nascosta

18 settembre

Sono andata al negozio alla stessa ora di tutti i giorni, e la signora Martini ha detto con un’espressione di rimprovero che qualche volta potrei arrivare anche un po’ prima, come se non avesse stabilito lei i miei orari. Sono due giorni che non parlo con la mamma, e non ricordo neanche più il motivo per cui proseguiamo a tenerci il broncio in questo modo. Per delle sciocchezze forse, come sempre.

19 settembre

Ci sono dei giorni in cui mi sento giù. Non sono le risposte sgarbate che certe volte mi danno le clienti del negozio, e neppure mia madre con i suoi modi sempre un po’ scostanti. È qualcosa che sento dentro di me, come un bisogno di spezzare in una volta sola tutti questi comportamenti abitudinari. Un ragazzo oggi mi ha fermato simpaticamente con una scusa per la strada. Lo conosco di vista, credo abbia almeno un paio d’anni meno dei miei, però mi ha chiesto se non volessi farmi vedere qualche volta alle panchine davanti al bar Soldini, tanto per stare insieme alla combriccola di paese che si ritrova sempre lì, specialmente al sabato. Forse sono troppo grande per queste cose da ragazzi ho pensato, però gli ho sorriso ed ho detto ringraziandolo che andava bene, e che ci avrei riflettuto. Però non è facile per una come me che è sempre stata a casa con sua madre, farmi vedere all’improvviso in un posto come quello dove so che tutti stanno sempre a ridere e a prendersi in giro. Mi pare un salto troppo grande, troppo frettoloso. Ma tutto questo non l’ho detto a nessuno, me lo sono tenuto soltanto per me.

20 settembre

La signora Martini ha detto che le piacerebbe parlare con la mamma, ma non mi ha spiegato perché. Non ho fatto niente di diverso da sempre in questi giorni, sono tranquilla. Però la signora Martini appare sempre più strana, ed un paio di volte l’ho sorpresa a guardarmi di nascosto, cosa che non era mai successa, almeno mai che io ricordi.

21 settembre

Due ragazzi sono venuti a guardare la vetrina del negozio, senza interessarsi d’altro se non del fatto che io fossi dentro a lavorare. Quando alla fine del pomeriggio io e la signora Martini abbiamo chiuso, loro erano lì, come ad aspettarmi. Mi sono venuti vicino, mi hanno chiamata per nome, ed hanno detto senza ridere che mi aspetteranno, al bar Soldini, appena sarò pronta.

22 settembre

Ogni volta che scendo dalla macchina per entrare nel negozio, o quando apro la macchina per mettere in moto e tornarmene a casa, ho sempre l’impressione che ci sia qualcuno ad osservarmi. Non ho paura, tutt’altro. Improvvisamente mi sento importante, e questo quasi mi piace.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Difficili decisioni

Non c'è niente lungo la strada, solo qualche casa che la costeggia, come se quelle poche abitazioni che si incontrano volessero quasi affacciarsi sulle sponde di un fiume sempre placido, dove si avvista raramente qualche barca, o arriva certe volte un pescatore con la sua canna, la sua pazienza, e le sue speranze. Quando si esce dal paese si sa che si trovano solo grandi strisce di terreni coltivati a pascolo, e più avanti una boscaglia fitta costituita da cerri, da ornelli, e anche da castagni. Ci vuole quasi un’ora per arrivare fino in città, con la corriera anche di più, e soprattutto è necessario uno stomaco forte, che regga tutte quelle curve attorno alle colline.

Alcuni ragazzi nel corso di certi sabati si avventurano lungo quella statale, pieni di intenzioni e di voglia di inventarsi qualche serata senza precedenti, ma i più restano in paese, senza molte cose da escogitare, se non muovere i soliti passi lenti intorno alla piazza principale e davanti al bar Soldini. Si parla sempre delle stesse cose, aggiornamenti minuti sulle medesime persone, piccole sciocchezze spacciate come chissà quali novità, e poi commenti sfusi e frasi ironiche per provare a ridere di gusto intorno agli argomenti monotoni di sempre. 

Qualcuno snobba quei comportamenti, quel perdere del tempo senza alcuno scopo, e certi anziani naturalmente si lamentano della gioventù che immaginano così senza futuro, alla quale secondo loro sembra più che sufficiente sentirsi parte di un gruppo per star bene, per avvertire già una sensazione di completo appagamento, come se non ci fosse necessità di impegno. Però non ci sono molti altri svaghi nel paese, ed ognuno deve fare delle scelte per trovare la maniera di sentirsi più o meno sociale. Certe volte poi ci vuole anche un piccolo incoraggiamento per qualcuno, come se ci fosse un discrimine preciso tra chi si ritrova sulle solite panchine e tutti gli altri, e si sentisse la necessità di essere accettati davvero, almeno per le prime volte.

Per Clara è presto per andare al negozio della signora Martini, così parcheggia l’auto della sua mamma lungo una viuzza, e poi attraversa a piedi la strada principale, fino ad arrivare sulla piazza, proprio davanti al bar Soldini. Di mattina non c’è quasi nessuno, se non tre o quattro pensionati che si guardano attorno senza fare niente. Potrebbe farsi vedere anche lei a quelle panchine, una sera delle prossime. Potrebbe accettare l’invito dei ragazzi che sembrano simpatici, che con lei probabilmente cercano soltanto di allargare le loro amicizie. Gli anziani del paese però osservano tutto, hanno un giudizio pronto per qualsiasi cosa, e ognuno di loro sa bene chi sia lei, che cosa faccia, quali siano i suoi comportamenti più abitudinari.

Va superato uno scoglio, non c’è dubbio, forse qualcuno potrebbe riportare velocemente qualsiasi notizia anche a sua mamma, e sua mamma probabilmente non sarebbe troppo contenta di quanto va accadendo. O forse invece si, perché con sua madre non è mai facile capire quale sia il suo pensiero più profondo, quale peso abbia voglia di dare ogni volta ai piccoli avvenimenti a cui le capita di essere spettatrice. Dovrà decidere Clara, questo è il punto, anche se sa perfettamente che una decisione vera dentro di sé è stata presa già da tempo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Piccoli cambiamenti

 

         Marisa gira per casa come sempre. Sua figlia è rientrata dal negozio della signora Martini da circa una mezz’ora, e quando è passata lungo il corridoio loro due si sono salutate appena, subito prima che Clara salisse come sempre al piano di sopra per infilarsi svelta in camera sua. Tra poco dovrà comunque scendere in cucina, chiedere a sua madre che cosa abbia previsto per la cena, e poi dare una mano alla preparazione del cibo e nella sistemazione della tavola. Non è facile passare sopra tutto e dirsi che le cose stiano andando proprio bene, forse ci vorrebbero dei caratteri diversi per farlo, e magari aver sviluppato negli anni dei comportamenti meno spigolosi e maggiormente comprensivi l’una verso l’altra. Però Marisa prende l’iniziativa, e mentre lava le verdure chiede quasi distrattamente chi siano quei ragazzi che da un po’ di tempo vanno a scrutare Clara dalla vetrina del negozio proprio mentre lei sta lavorando.

Non lo so, risponde la figlia registrando con sorpresa un evidente scambio di informazioni tra sua mamma e la Martini; sono ragazzi del paese, io non ho dato mai confidenza a nessuno, ma loro ogni tanto passano da lì e allora mi salutano. E’ tutto qua. La mamma non commenta, in fondo sono cose più che normali, Clara è una bella ragazza, a qualcuno prima o dopo farà senz’altro girare un po’ la testa. Tra un paio di giorni comunque potresti uscire prima dal tuo lavoro, le fa, visto che hai allungato l’orario ormai diverse volte in questi ultimi tempi; vorrei arrivare fino in città per acquistare delle cose. Se puoi farlo ci andiamo insieme in macchina, altrimenti prendo da sola la corriera. Clara rimane in silenzio, il problema posto è semplice, ma porta con sé una serie di altri quesiti. Innanzitutto la signora Martini che sembra ormai sempre più praticamente assente nel negozio, e lascia servire la clientela esclusivamente a lei. E poi visto che tra due giorni è sabato, avrebbe proprio voluto fare un salto davanti al bar Soldini prima di rientrare a casa, e magari fermarsi a scherzare con quei ragazzi che la stanno invitando già da qualche tempo.

Non so se la signora Martini me lo permetterà, dice sottovoce; lo posso chiedere domani. Magari lei ha in mente un programma ben diverso, visto che in questi giorni dovrebbe anche arrivare un rappresentante con il suo nuovo campionario da farci scegliere. D’accordo, tronca l’argomento sua madre; sabato andrò con la corriera, così sarai libera di occuparti di tutte le tue cose. Mi dispiace, dice Clara dopo una lunga pausa in cui ha accomodato le posate e i tovaglioli sopra il tavolo. Mi sento quasi costretta a fare così, però sarei stata contenta di venire in città insieme con te, magari per girare in qualche negozio dove nessuno ci conosce, e guardare bene quali siano le novità di questo periodo. Poi le cade una forchetta, si china per raccoglierla, la porta sotto l’acqua per lavarla e sua madre le va vicino, come per sostenerla.

Sei grande ormai, le dice. Sai decidere da te che cosa ti interessa maggiormente tra le cose che hai attorno. C’è sempre un momento in cui avvengono dei piccoli distacchi, per un motivo oppure per l’altro.  Lo so che prima o dopo resterò più da sola, magari per delle intere serate in questa grande casa, ma non voglio certo ostacolarti, ora che le cose sembrano proprio mettersi bene nei tuoi confronti. Poi si morde la lingua, la figlia la guarda, mette al suo posto la forchetta, e poi resta in silenzio. Ci sarà tempo pensa, per comprendere meglio queste parole.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Verso di lei

Va bene, dice il ragazzo ai suoi amici seduti accanto a lui. Poi con le mani dentro le tasche si alza e si allontana senza fretta dalle panchine dove ogni giorno lui e tutti gli altri si ritrovano, dopo uscito dalla piazza principale e procedendo sul marciapiede lungo la strada che attraversa il centro abitato della cittadina. Torna poco dopo trattenendo sul viso la medesima espressione che aveva prima, e le mani ancora sprofondate nelle tasche. Non c'è, dice subito agli altri che lo guardano: ho anche aspettato diversi minuti, ho gironzolato davanti alla vetrina del negozio per un po’, ma lei non c’era, forse non è questo il suo turno di lavoro.

Va bene, dicono gli altri vagamente dispiaciuti, forse dopo l’ora di chiusura dei negozi si farà vedere lo stesso, anche senza invito. Poi riprendono a dirsi le cose di sempre, a battersi le pacche sulle spalle per incoraggiamento, a ridere forte per delle uscite curiose di qualcuno, e a parlare costantemente solo del presente e del passato prossimo, scherzando e divertendosi. Un paio di loro a turno si staccano e vanno a prendersi una birra dentro al bar Soldini, tornando con la bottiglia in mano e la faccia di chi in fondo si sente proprio stanco di quei pomeriggi così vuoti. Si sostiene sottovoce che sia necessario andarsene al più presto da questo paese cencioso e senza sbocchi, dove non si intravede mai una variazione nell’andamento ordinario delle cose. C’è anche chi dice che non ha proprio più voglia di continuare ancora con questa vita così monotona. Ma c’è subito uno che prende in giro un altro, ed in questo modo si ricomincia a ridere di tutto, senza parlare più di quel loro futuro incerto e doloroso.

Clara, trascorso ormai parecchio tempo, esce dal retro del negozio, dopo aver tirato fuori dagli scatoloni tutta la merce nuova che è stata portata dal rappresentante. La signora Martini si è tenuta da una parte, ha lasciato che prendesse lei l’iniziativa sulle cose da farsi lasciare e quelle da non prendere proprio in considerazione. Le aveva detto subito alla sua commessa di non sentirsi in forma, di avere mal di testa, di non essere capace di scegliere i nuovi articoli che il rappresentante aveva proposto per la nuova stagione.  Ma non ci sarebbe stato in nessun caso alcun problema: in fondo a Clara piaceva molto stare in mezzo a quelle cose, per cui scegliere il nuovo campionario ed immaginarsi già le parole con le quali presentare ogni pezzo alla loro clientela le tornava del tutto naturale, anche se proprio non capiva la necessità da parte della titolare dell’esercizio di ricorrere a dei sotterfugi per farla impegnare di più, per dare il massimo di se stessa, perché in fondo era qualcosa che stava già facendo da diverso tempo.

Alla fine è ora di chiudere, e Clara pur pensandoci sopra non capisce ancora cosa si potessero essere mai dette sua madre e la signora Martini alle sue spalle in quei giorni appena trascorsi, anche se adesso però si sente bene, sicura di sé, convinta di ciò che la sta aspettando. Il solito saluto di sempre all’anziana proprietaria del negozio, e quindi qualche passo verso la piazza, verso quelle panchine, davanti al bar Soldini, dove forse qualcuno è rimasto ancora lì ad aspettarla. Ciao ragazzi, dice con un sorriso, e gli altri si voltano tutti verso di lei.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ottimismo sciocco

Mi piace starmene da solo. Esco da casa e costeggio quasi sempre una piccola via deserta che conosco bene, fino ad arrivare ad un muretto oltre il quale si vede soltanto la campagna, e poi mi siedo sopra quelle vecchie pietre, e resto lì anche a lungo, fino a quando la luce calda del pomeriggio si fa persino troppo obliqua, e mi spinge a tornarmene indietro.

Gli altri mi dicono che tutto prima o dopo deve cambiare, che la cosa più importante di tutte è restare sempre se stessi, indifferenti a quanto succede, oppure a quanto non succede mai, proprio per niente. Non lo so, forse hanno ragione, soltanto vorrei che qualcuno da dentro riuscisse a togliermi questa piccola angoscia perenne, questa sensazione di inutilità che provo praticamente ogni giorno.

Al mattino davanti alla corriera siamo in otto ragazzi che ci ritroviamo per andare fino al liceo, cercando durante la mattinata di non farsi mai prendere dal sonno che è sempre presente in coloro come noi che si alzano anche troppo presto dal loro letto. C'è quasi rassegnazione nel silenzio con cui si continua a seguire ogni lenta ora di lezione, ed anche quando l’ultima campanella ci libera dall’oppressione di seguire qualcosa che in seguito immaginiamo ci servirà a ben poco, difficilmente riusciamo ad essere davvero contenti di qualcosa.

I miei compagni poi si ritrovano nel pomeriggio tutti davanti al bar Soldini, magari per trovare qualcosa da dirsi, per fingere che la giornata abbia anche un senso, ma a me generalmente non interessa, preferisco starmene a casa piuttosto, a studiare, a leggere qualcosa, a perdermi semplicemente nel guardare a lungo quella prospettiva di abitazioni gialle che riesco a vedere dalla mia finestra. Non trovo un vero e proprio stimolo che mi procuri entusiasmo, ma penso che ciò non significhi che sia lecito rinunciare a cercarlo.

Quando sto seduto al mio muretto immagino il mio futuro come qualcosa che non sia mai privo di possibilità, e per questo motivo cerco di essere curioso, e tentare spesso di mettermi nei panni di tutti gli altri, in modo almeno da comprendere qualcosa dei comportamenti che riesco a vedere in chi mi passa più vicino. Il mio riflettere parecchio su tutte le cose che vedo attorno a me credo che mi sarà sempre di aiuto, anche quando dovrò andarmene da qui ed arrangiarmi in posti nuovi dove forse non ci saranno per me dei punti fermi.

Per adesso mi guardo attorno, cerco di stare solo anche per avere un po’ più libertà mentale, ed evito di ricopiare gli atteggiamenti che noto nei miei compagni di scuola o negli amici del paese che sembrano assumere sempre più una medesima visione delle cose. Mi piacerebbe avere una ragazza, scambiare con lei tutte le idee che mi porto dentro, ma non mi metto mai in mostra, e per questo motivo ritengo di non avere troppe possibilità. Vado avanti, comunque, ed ogni volta che ci penso credo di avere sempre una grande fiducia nelle opportunità che si potranno presentare. Non so perché, forse soltanto per uno sciocco ottimismo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Decisione finale

 

Ciao Marisa, le aveva detto la signora Martini un pomeriggio di qualche giorno addietro, quando l’aveva aspettata quasi con impazienza, la sua vecchia compagna di scuola, per parlarle di quella sua figlia, quella Clara che si stava dimostrando ogni giorno così diversa dalla sua mamma. Poi si erano sedute ad un tavolino appartato, all’interno del bar Soldini, si erano fatte servire due caffè dal cameriere e poco per volta avevano tirato fuori i diversi pareri sulla ragazza, mescolati a qualche paragone sui loro vecchi tempi, insieme a certi ricordi vagamente nostalgici di un periodo risalente ad almeno cinquant’anni prima.

Clara è in gamba, diceva la signora Martini, ormai ha acquisito tutto ciò che c’era da sapere per portare avanti degnamente il negozio, e per me è arrivato purtroppo il momento di farmi da parte; magari tra qualche tempo potrebbe prendere anche un giovane apprendista per farsi aiutare durante gli orari con afflusso maggiore di clientela. Personalmente da ora in avanti continuerei ad andare al negozio ogni tanto, anche ogni giorno nei primi mesi, ma senza avere più degli orari precisi da rispettare, e così poco per volta tutto passerebbe nelle sue mani, e da un punto di vista fiscale diventeremmo socie dell’attività, trattandoci perfettamente alla pari.

Pur ringraziandoti per l’offerta generosa, aveva detto Marisa, devo sottolineare però che è un periodo piuttosto delicato per una ragazza della sua età; non vorrei che l’importanza concessale in questo momento finisse per giocare un ruolo addirittura negativo sulla sua formazione. Ci vuole niente ad una giovane così per montarsi la testa e mostrare di botto una personalità presuntuosa e persino arrogante. Rinviando invece questo passaggio di un anno o anche due, forse una maturità maggiore per Clara eviterebbe l’insorgere di un rischio del genere.

Tua figlia ormai ho imparato a conoscerla bene, aveva detto l’altra; le piace il lavoro che svolge, è contenta di stare a contatto con la clientela che ogni giorno ci si presenta davanti, non credo proprio ci sia la possibilità che tu adesso ravvedi. Certo, l’importanza del ruolo può giocare dei brutti scherzi, ma in quest’ultimo periodo ho fatto in modo di lasciarla spesso da sola a prendere decisioni e nel fare alcune scelte, e Clara non ha mostrato alcun problema di superbia o al contrario di perplessità. Credo che i tempi per lei siano maturi, ed il periodo di adesso si presta piuttosto bene alla variazione di ruolo, in considerazione della stagione più calma che nel prossimo periodo andiamo ad affrontare.  

Tu poi non ti sei mai fatta vedere dentro al negozio in tutto questo tempo, dice ancora la signora Martini; ma ti posso assicurare che tua figlia in questo periodo è in tutto e per tutto il perno attorno a cui ruotano tutti i clienti. Certo, ogni tanto mi chiede qualcosa, un parere, un consiglio, un suggerimento, ma per il resto è assolutamente in grado di portare avanti tutta l’attività, e di questo non appare né spaventata, né bramosa di darsi importanza. Insomma, dice Marisa, non posso far altro che mostrarmi d’accordo. Certo, dice l’altra, anche se naturalmente l’ultima decisione, quella finale, quando le avremo spiegato ormai tutto, resta in ogni caso la sua.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Probabilmente lontano

A me non interessa niente. Guardo le persone che vengono dentro questo locale in due o tre per volta, si bevono un caffè, prendono una birra, oppure chiedono un gelato, e tutti che si guardano attorno, e intanto cercano di gustarsi il momento, la chiacchiera amichevole, lo scherzo, la battuta di spirito, e poi via, fuori da qui, per ritornarci magari più tardi, o forse soltanto domani. Sono sempre gli stessi, perlopiù. Mi dicono qualcosa ammiccando, oppure mi chiedono un parere, un pensiero che sia di loro sostegno, ma io sono neutrale, non parteggio mai per nessuno, resto estraneo alle logiche di coloro che analizzano la realtà sulla base del numero dei bicchierini di grappa, o anche dei caffè corretti al liquore, che poi vengono consumati indifferentemente sia dall’uno che anche dall’altro. Non mi riguarda, penso, sono qui soltanto ad asciugare le tazzine e i bicchieri, e a mettere sul banco quanto mi viene richiesto, senza commenti. A volte mi dispiace persino chiamarmi con lo stesso nome del bar, ma è stato mio padre a volere così, pace all’anima sua, non posso fare niente.

Avrei dovuto andarmene da questo paese quando ne avevo ancora la possibilità, e trovare un posto lontano per non guardarmi più addietro neppure per sbaglio; ma si è deboli a volte, e non ci si rende conto che sotto le apparenze di una scelta accettata, c’è soltanto l’assoggettamento ad un futuro che non lo sappiamo ma è già stabilito, dove tutto scorre come un treno sopra il binario, e non porta più variazioni, nessuna differenza tra un giorno e il seguente: le stesse persone, i medesimi discorsi, i soliti sciocchi e annoiati argomenti. Saluto sempre tutti coloro che entrano qui, ma è una clientela che non chiede molto, gente che viene qua dentro a cercare una pausa, un’oasi, una specie di zona franca, dove sentirsi più liberi e ancora capaci di qualche pensiero sganciato dalla logica delle loro famiglie o dal mestiere che svolgono. Siamo tutti uguali qua dentro, sostengono talvolta quei loro sguardi, ed io li faccio sentire sempre appagati, lasciandoli navigare nel loro oblio.

Forse non sono neppure io troppo diverso tra tutti quelli che vedo di fronte a me; mi ritraggo nel ruolo che ho assunto come una lumaca dentro al suo guscio, e lascio con gusto che il grande specchio su cui troneggiano le bottiglie di cento marche diverse, rifletta soltanto i miei gesti visti di schiena. A volte ho sognato per questa nostra cittadina annoiata un locale diverso, un luogo dove scambiare davvero qualcosa: qualcuno che suonasse una musica, delle canzoni più o meno impegnate, dei disgraziati che leggessero le proprie poesie, ma sono sempre riuscito alla fine a sorridere di una scommessa del genere, ancor prima di renderla davvero effettiva. Non ho mai trovato nessun presupposto, nessun sostegno da parte di alcuno, se non al contrario lo scatenarsi gratuito e definitivo di chi avrebbe detto immediatamente che sarei stato soltanto uno stupido a cercare qualcosa che non potrà mai essere minimamente diverso. Così ad ogni sera abbasso la serranda su tutti questi sogni svaniti, esattamente come il vapore della macchina con cui si fanno i caffè, quando forse rimane nell’aria soltanto l’aroma di qualcosa che sa di lontano, ma non si sa bene neppure da dove e per quale motivo sia davvero arrivato qua dentro.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Differenze

2 ottobre

Mi sento strana. È come se provassi qualcosa di simile all’ansia che si sente prima di superare un ostacolo, come se avessi di fronte un giorno particolarmente importante, o qualcosa in cui dovermi cimentare, anche se in realtà oggi non vedo niente di tutto questo nel mio futuro.

3 ottobre

Stamani ho cercato di riordinare la mia stanza. Ci sono cose che indubbiamente non mi servono più ma che mi fa ancora piacere avere con me; altre però che devo sistemare al fondo di qualche cassetto nel tentativo deciso di dimenticarle. Poi sento la necessità di gettare via degli oggetti che ritengo oramai del tutto inutili, anche se non mi piace affatto fare cose del genere, perché in fondo rappresentano sempre dei dettagli che forse fanno parte ancora di me, della mia vita, della mia formazione, pur ritenendole momentaneamente del tutto inservibili. Così ho un’intera collezione di giochi e di pupazzi di quando ero bambina, ad esempio, per non parlare di un paio di bambole secondo il mio parere ancora bellissime, e da cui sono certa non mi separerò mai. Poi ho trovato delle cose che tanto tempo fa mi ha regalato mio padre, oggetti a cui sono particolarmente legata, ma non posso farne dei veri cimeli, perché non è possibile venerare delle cianfrusaglie soltanto perché ti legano ad un periodo in cui c’era ancora il mio papà insieme con noi. Devo essere forte, mettere assieme tutto quanto e riporlo con cura dentro al baule del corridoio, dove sono sicura non andrò più a guardare per chissà quanti anni.

4 ottobre

Oggi mi sono innervosita con una cliente del nostro negozio, che mi ha fatto perdere un sacco di tempo senza decidersi a comprare un bel niente. Non è da me comportarmi in modo sconveniente, perciò sono riuscita a contenere la mia agitazione anche se dentro stavo quasi per scoppiare di brutto. Devo cercare di essere più indifferente a queste situazioni, trovare il modo di fortificarmi e magari usare un po’ di ironia nel trattare con certe persone. In tutti i casi devo lasciare che tutto avvenga senza pensare di poter mettermi in mezzo a dirigere le cose che possono o non possono succedere. La realtà è questa, devo prenderne atto, nient’altro.

5 ottobre

Sono preoccupata. Quando sono da sola penso delle cose di cui mi è persino naturale essere convinta. Quando sono con gli altri invece perdo facilmente ogni certezza, ed inizio a mescolare le mie idee con quelle che credo verrebbero più facilmente accettate da coloro che mi trovo davanti. Questo meccanismo mi torna così consueto che mi sono accorta di esserne succube soltanto da poco, riflettendo con attenzione sulle piccole cose che compongono la mia giornata, tanto da trovare una divisione netta tra i miei momenti di solitudine da tutti gli altri.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Solo paura

 

         Giungendo fin lì con il suo solito passo deciso, lei appoggia una mano sulla grande maniglia della porta vetrata, poi resta per un attimo immobile guardando dentro quella libreria che conosce benissimo, nella ricerca tra i due o tre clienti presenti all’interno, di una faccia precisa della quale riconoscere già alla prima occhiata superficiale i lineamenti ben noti. All’altro braccio porta appese quasi con sistematica indifferenza alcune buste griffate provenienti dai negozi nei quali con molta calma e ponderazione ha acquistato durante la tarda mattinata alcune cose delle quali si era convinta ultimamente di non poter in nessun caso fare a meno: un vestito attillato ed elegante dai colori tenui, un paio di scarpe di gran marca, un foulard, due camicette bianche che adora, una piccola spilla dentro un astuccio, pronta per essere utilizzata come regalo. Ha pranzato senza fretta in uno spazioso caffè affollato del centro, si è guardata attorno per tutto il tempo in cui vi è rimasta, ha cercato di porsi alcuni interrogativi che proseguono a girare nella sua mente da un po’ di tempo, senza però avere trovato le risposte cercate, e poi ha lasciato una mancia al cameriere, cosa questa che fino a poco tempo prima probabilmente non avrebbe mai fatto.

         La città dietro ai suoi occhi rimane sempre un guazzabuglio affascinante, con il suo carico di persone indifferenti a qualsiasi pensiero degli altri, e la capacità di farti sentire perfettamente da sola in mezzo a tantissima gente, ed a lei ogni tanto piace immergersi in quella atmosfera, anche se sa benissimo che non è certo il suo mondo, il luogo dove potrebbe vivere oltre quelle brevi parentesi che una volta o due al mese ama concedersi, generalmente soltanto per fare degli acquisti un po’ particolari, o andare a salutare come adesso la sua cara amica. Però c’è qualcosa di diverso stavolta, un ingrediente poco definito che sembra danzare come una mosca in mezzo alla strada, su in alto, al di sopra del livello costituito dal traffico di macchine e di passanti apparentemente senza una meta. La preoccupazione improvvisa di rimanere da sola a portare avanti ogni propria battaglia.

         Non ci aveva seriamente mai riflettuto fino a questo momento, ma i buoni risultati di sua figlia sul lavoro, il suo impegno evidente in tutto ciò che si trova ad affrontare, e la sua età che oramai non ne fa più una ragazza, bensì una donna, le fanno comprendere che a breve Clara sentirà un maggiore bisogno di autonomia da sua madre, e forse prenderà delle decisioni sulle quali ogni altro parere avrà una scarsa importanza. Con la mano ancora sulla maniglia della libreria lei avverte perfettamente come un senso di solitudine che le sta lentamente giungendo, quasi un surrogato minore di quel momento drammatico di tanti anni prima in cui si trovò ad affrontare il proprio periodo di vedovanza. Infine qualcuno però le va incontro, le apre la porta vetrata, la saluta subito con un abbraccio, come sempre è successo. E’ Elena, la sua amica di sempre, la proprietaria di quella libreria, donna coraggiosa e tenace, capace con un solo sguardo di comprendere quasi tutto delle persone che si trova di fronte. Ciao, le dice Marisa, appartandosi subito con lei in un angolo del grande negozio, per un minimo di intimità. Sono un po’ preoccupata, le dice subito, però vorrei tanto che tu mi consigliassi uno o più libri capaci di farmi riflettere; qualche scrittore che ha già affrontato e risolto questa paura della solitudine che improvvisamente mi sta attanagliando.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Appartenenza

Ciao, dice la ragazza in modo timido, senza riferirsi a qualcuno in particolare tra coloro che formano quel piccolo gruppo che si ritrova di fronte. I quattro o cinque presenti, pur restando quasi immobili nelle loro posizioni rilassate, com’erano già anche prima che Clara arrivasse fino lì, le rispondono sottovoce con lo stesso identico saluto, e dopo una breve pausa soltanto Renato, muovendosi leggermente verso di lei e sorridendole con un’espressione semplice, riesce a farle capire quanto sia contento che si sia finalmente decisa a farsi vedere presso quelle panchine insieme con loro. Si conoscono tutti in un modo o nell’altro, ma al di là degli anni scolastici in cui qualcuno ha frequentato in certi casi anche la stessa classe dell’altra, non c'è mai stata una vera e propria amicizia da parte neppure di uno solo di loro nei suoi confronti, forse perché Clara è sempre apparsa come un tipo schivo, pronta a rimanersene per conto proprio in ogni circostanza; o forse anche perché non c’è mai stata una vera occasione per scambiare con lei qualche parola che andasse oltre gli argomenti consueti.

Ti va di bere qualcosa, chiede lui toccandole un braccio, e dentro al bar di fronte alla piazza la invita a sedersi ad un tavolo, cercando di trattarla come un’ospite di gran riguardo. Non so, dice Clara, mi è sempre sembrato che non facciate mai niente, se non starvene qui a bighellonare e a perdere del tempo. Hai ragione, dice Renato, e per alcuni forse è ancora così, però questo qui è anche l’unico ritrovo possibile che in fondo non ci impegna in nessuna maniera, e dove ognuno si sente libero di farsi vivo oppure no, e così se poi magari uno di noi decide di stare un po’ con gli altri, forse riesce a confrontare anche qualcuna delle proprie idee, fino a cercare o proporre a tutti qualche volta perfino degli obiettivi comuni.

Poi escono dal locale, i ragazzi seduti sulle panchine sembrano adesso privi di un vero e proprio argomento di conversazione, perciò dicono a turno qualcosa che sembra ogni volta generalmente un po’ scollegato da un reale contesto, e quando Clara e Renato tornano tra loro restano tutti per qualche attimo in silenzio, forse in attesa che siano gli ultimi arrivati a dire qualcosa. Lei invece sorride a tutti, spiega che le piace quella loro compagnia, ma che adesso deve proprio andare, ed il gruppo la saluta nella stessa maniera di quando è arrivata poco prima; Renato si dichiara a sua disposizione per accompagnarla, ma lei rifiuta, dice che ha la macchina poco lontano, non ha bisogno di niente. Si farà ancora vedere lì in quella piazza, spiega Clara con convinzione, e almeno lui ne appare felice, poi lei se ne va senza aggiungere altro.

Non è complicato fare un po’ di vita sociale, pensa Clara mentre cammina; si tratta soltanto di accettare il principio per cui il tempo si possa dilatare, ed invece di pensare a se stessi, cercare di mescolarsi con tutti gli altri, senza un preciso motivo apparente, soltanto per il gusto di stare in mezzo a tutti, e di sentirsi parte di una compagnia. Mi piace sentire dentro di me questa appartenenza, dovrò coltivarla meglio nel prossimo futuro.

 

 

 

 

 

 

 

 

Come ogni giorno

Marisa nel tardo pomeriggio è già nella cucina di casa quando Clara rientra. Ciao mamma, le dice la ragazza mentre toglie il soprabito, e l’altra alza appena per un attimo il suo sguardo severo dalle cose di cui si sta occupando, e le risponde in fretta guardando l’orologio sopra al muro, soltanto per registrare mentalmente un certo ritardo rispetto al suo consueto orario di ritorno. Mi sono fermata a parlare con una persona, fa lei, tutto qua. Va bene, dice Marisa; al negozio le cose filano bene, mi pare di capire. Certo, fa lei che forse a quel punto vorrebbe salire per qualche minuto in camera sua, come fa sempre. Se non hai bisogno di aiuto andrei in bagno e a cambiarmi d’abito, le dice. Va bene, fa Marisa, però non impiegarci troppo tempo, ho bisogno di te per preparare qualcosa per la cena. D’accordo fa la figlia mentre già sale le scale.

La mamma è sempre stata un po’ diretta nelle sue espressioni, non ha mai sentito il bisogno di girare troppo attorno a quello che vuol dire, specialmente in riguardo agli argomenti che maggiormente la interessano, ma in fondo è una persona sincera, una della quale capisci immediatamente le cose che le vanno bene, ed anche tutte le altre che al contrario non riesce assolutamente a digerire. Forse Clara negli anni passati ha avuto persino paura di lei in certe occasioni, di quei suoi modi forti, soprattutto, dei suoi gesti spigolosi, di quegli sguardi che non lasciano alcun dubbio, ma adesso, forse anche per una forzata abitudine, lei sa che non ha più del tutto bisogno del parere della mamma per portare avanti le sue scelte. Magari è proprio questo che alla lunga potrebbe innescare dei risentimenti, riflette mentre si sofferma due minuti dentro la sua camera: la sensazione di sentire sua figlia sempre più adulta e indipendente probabilmente la fa sentire inutile, priva di quel ruolo che ha sempre amato svolgere nei suoi confronti, specialmente dopo che è venuto a mancare suo marito. Ma non è possibile farci niente, le cose possono soltanto andare avanti in questo modo.

Per favore apparecchia la tavola, le dice Marisa appena lei rientra in cucina: sto cucinando qualcosa da cui non posso distrarmi neanche un momento. Va bene, fa Clara sottovoce. Poi restano ambedue in silenzio per qualche minuto, mentre ognuna si trova indaffarata dal proprio compito. Sembra che la signora Martini voglia smettere poco per volta di occuparsi del suo negozio, fa la mamma, e lasciarti praticamente padrona del campo. Ma una persona da sola non può farcela ad occuparsi di tutto, dice Clara alzando la faccia di scatto. Lo sa anche lei, dice Marisa, per questo vorrebbe che tu scegliessi un’aiutante, un apprendista, un ragazzo o una ragazza che stia in negozio durante quelle ore del giorno più impegnative e con maggiore afflusso di clientela. Ne avete già parlato quindi, dice Clara guardandola fissa. Certo, fa la mamma, per te è una grande opportunità, e lei voleva naturalmente sentire il mio parere.

Ho capito, risponde Clara, ci rifletterò nei prossimi giorni prima di decidere. No, fa subito Marisa, non c'è niente da decidere, soltanto da ringraziare la signora Martini per tutta la sua generosità e la fiducia che ripone in te. Torna il silenzio dentro la cucina, ma dopo poco la cena sembra pronta, e non c’è da far altro che mettersi a mangiare come sempre.

 

 

 

 

 

 

 

 

Stretto necessario

 

Qualcuno dice che al mattino dopo la sveglia si riesca a dare il meglio di se stessi: la mente è più fresca, le idee maggiormente brillanti, c’è più entusiasmo per mandare avanti le cose. Ma io preferisco senz’altro la luce calda del pomeriggio, quando la giornata si è distesa ed oramai ha assunto un suo significato più definito, quando tutte le cose attorno sono più mature per lasciarti decidere che cosa salvare di tutto quello che ti sei ritrovato, e l’opinione che ne può scaturire è di fatto più fluida, più naturale, più vera.

Non mi interesso mai dell’opinione degli altri, generalmente resto ritirato dentro al mio guscio, come direbbero tutti, così se posso evito addirittura di parlare, mi limito ad ascoltare gli altri, e quando qualcuno si riferisce direttamente a me mi limito a sorridergli, perché ritengo che la mia sia un’espressione naturale, che non ha mai fatto male a nessuno. Lavoro con mio padre da diversi anni, agli inizi mi limitavo ad osservare i suoi gesti e a passargli gli attrezzi di cui aveva bisogno. In seguito tutto invece è diventato per me un’abitudine, ed adesso frequentemente non ho neanche bisogno di pensare per portare avanti le attività che affrontiamo. Mio padre mi ha detto tante volte che secondo il suo parere questo non è il mestiere adatto per me, ma io non saprei fare nient’altro, non mi sono mai interessato di altro, e della scuola quando ero ragazzo non me ne è mai importato un bel niente. Aiuto mio padre, lo seguo in tutto, lascio comunque che sia lui a sviluppare le cose, preparare i preventivi, decidere le soluzioni, tenere i rapporti con i clienti. A me basta arrivare in qualche modo all’ora in cui terminiamo, lavarmi le mani, cambiarmi la camicia, dimenticarmi completamente del lavoro e di tutto ciò che comporta, per raggiungere in fretta gli altri ragazzi davanti al bar Soldini.

Mi prendo una birra, mi siedo sopra le assi delle solite panchine, scherzo con i ragazzi cancellando dalla mente tutto quello del giorno che sopporto di meno. Non mi piace quando qualcuno si mette a parlare del nostro futuro, come fosse qualcosa per cui sviluppare già adesso chissà quale strategia. Non c’è futuro penso; soltanto qualcosa che andrà avanti così, senza grandi sussulti, e con il minimo delle preoccupazioni possibili. Mio padre dice che qualche volta dovrei pensare seriamente a farmi una famiglia, ma a me sembrano tutte cose prive di qualsiasi interesse, elementi forse ancorati alla vita delle generazioni passate, che adesso oramai non fanno più sognare nessuno.

Certe volte davanti al bar Soldini si parla delle ragazze, ma non è la stessa cosa: certo, si può andare con loro in qualche locale, farsi una birra insieme e poi magari con una o con l’altra magari può uscirne fuori qualcosa di più impegnativo. Ma il giorno seguente io torno a lavorare con mio padre, e tutto è tranquillo, mia madre mi porta il caffè per svegliarmi, ed il resto mi sembra lontano, forse da lasciar perdere subito, ed anche se qualcuna delle ragazze mi telefona per sapere se può rivedermi, io mi limito a sorridere alla cornetta. Può darsi, dico, ma non ce n’è uno stretto bisogno; le cose possono capitare, ma qualche volta è anche bene evitarle.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Opportune misure

La giornata appare ancora luminosa durante il pomeriggio, per le strade non c'è quasi nessuno, e soltanto lungo la via principale del paese si vedono adesso sfilare alcune persone che la costeggiano a piedi sopra ai marciapiedi più assolati, senza mostrare peraltro alcuna fretta. Clara si sente risoluta, vorrebbe affrontare il prima possibile con la signora Martini l’argomento che le sta più a cuore, e così chiederle senza mezzi termini il motivo esatto per cui abbia parlato della sua volontà di lasciare il negozio prima con sua madre che con la diretta interessata, cioè lei stessa. Si è sentita quasi furiosa nei suoi confronti quando è stata informata dalla mamma durante la serata precedente, ed anche se adesso il nervosismo le è andato scemando grazie al suo carattere piuttosto riflessivo, in ogni caso vorrebbe conoscere esattamente le motivazioni di quella scelta da parte della titolare della merceria.

L’aspetto positivo per lei resta naturalmente il fatto di poter entrare in società con l’anziana proprietaria, ed in questo modo iniziare a decidere sulle scelte del negozio, liberarsi poco per volta di quella donna che ultimamente è diventata quasi per certi versi un peso dentro l’esercizio, e poi poter decidere in piena libertà di assumere qualcuno che possa darle un valido aiuto negli orari di apertura alla clientela. Anche il fatto di poter accedere almeno ad una parte degli utili della merceria non è cosa da poco, pensa mentre guida l’automobile tra le strade del paese, e le potrebbe aprire larghi spazi di autonomia anche nei confronti della vita con sua madre. Insomma tutto bello, tutto positivo, però resta il fatto che a Clara le piacerebbe essere stata informata direttamente dalla signora Martini, e non essere trattata ancora come una sciocca ragazzina che forse non si sa neanche rendere troppo conto delle cose che le accadono.  

Buonasera, dice a voce alta già entrando con la sua chiave dalla porticina che si apre sul retro in faccia ad un cortile interno, ed attraversando poi un vano che funge da vero e proprio magazzino delle scorte, dove quasi tutti gli articoli in vendita sono ancora dentro ai loro scatoloni, pronti in ogni momento per essere disposti sopra agli scaffali della zona aperta al pubblico. La signora Martini è già dietro al bancone, anche se sta aspettando Clara per aprire la serratura della porta a vetri principale. Mancano ancora cinque minuti all’orario che è stato previsto per l’apertura pomeridiana, e si deve essere inflessibili, per evitare certe abitudini da parte dei paesani, che in seguito si mostrerebbero difficilmente rimovibili.  

L’anziana donna sorride nel vederla, la saluta con dolcezza, le dice subito pacatamente che secondo lei sarebbe giunto il momento di rifare la vetrina, perché ci sono delle cose che sono in attesa di essere esposte già da diverso tempo. Clara annuisce, resta perplessa, attende un attimo muovendosi di fretta per sistemare alcuni piccoli dettagli, infine va ad aprire, anche se sa che difficilmente riuscirà a trovare il momento adatto per parlare con la vecchia proprietaria. Forse però non ha troppa importanza, pensa dopo un po’, subito dopo aver ricevuto i primi clienti del pomeriggio; in fondo va bene anche così.  Pur trattenendo una piccola amarezza dentro di sé per come stanno andando le sue cose, Clara sa che per lei adesso si apre comunque una grande opportunità. Proprio come ha detto la sua mamma.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Basta volere

 

         In certi giorni mi fermo ad osservare, naturalmente senza essere visto, la signora Marisa. Abito nella casa di fianco alla sua, e come tutti coloro che hanno l’abitazione qua attorno, ho un giardino da curare e dove trascorrere un po’ del mio tempo, specialmente quando la stagione è buona e si sta bene fuori ad occuparci delle piante e dei fiori. Lei, quando certe volte la incontro sul marciapiede che costeggia la strada, mi saluta come sempre ha fatto, anche quando era ancora in vita suo marito, senza mutare l’espressione del viso, soltanto marcando bene e in modo netto la parola che pronuncia per ossequiarmi. Non si è mai fermata con me a parlare di qualcosa, salvo i rari casi in cui se ne è presentata una effettiva necessità, neppure quando ci siamo ritrovati uno accanto all’altra presso la staccionata che divide i nostri rispettivi giardini.

         Inizialmente la temevo, credevo fosse una persona estremamente burbera, scostante, capace di montare su tutte le furie per delle semplici sciocchezze. In seguito mi sono reso conto anche osservando i suoi gesti, che non è assolutamente così, e che forse lei con i suoi modi forti cerca soltanto di tenere a bada o di nascondere una timidezza ed una paura mai superata verso tutti gli altri. Per questo mi piace, perché da quando mi sono reso conto del suo carattere effettivo, ho capito che è come siamo quasi tutti: una persona sola, arroccata in se stessa, con la fortuna di avere ancora una figlia grande che abita con lei, ma con la quale non sembra neppure andare molto d’accordo. 

         Così qualche volta mi fermo di nuovo a guardarla e contemporaneamente a cercare il coraggio, che per adesso non ho mai trovato, per dirle con naturalezza che vorrei essere un suo amico, piuttosto che un qualsiasi vicino di casa. Non ci sarebbe niente di male penso, nella mia richiesta. A me basterebbe che la signora Marisa venisse da me qualche volta a prendere un caffè, visitare i nostri rispettivi giardini, o durante qualche mattinata più grigia ritrovarsi per parlare delle nostre vite solitarie, e scambiarsi qualche sensazione, alleggerire in modo semplice i nostri rispettivi pesi da portare, con l’uso sempre efficace delle parole, che riescono talvolta anche ad alleviare il cuore di tutti.  Con lei mi piacerebbe girare qualche volta attraverso la nostra cittadina, farci vedere a passeggio, ed infilarci magari in un locale per passare un’ora ad un tavolino, bevendo qualcosa e mostrando a tutti l’aria rilassata di due vecchi conoscenti.

         Non ci vedrei niente di strano in tutto questo, in fondo è sempre possibile per persone come siamo noi, che hanno raggiunto ormai l’età per essere giudicati degli anziani, sentirsi un po’ solidali, uniti, ed affrontare le amarezze quotidiane con il massimo possibile di leggerezza, o almeno senza la gravità costante della solitudine. Così la guardo, e a volte quando al mattino mi sveglio mi sembra di aver sognato di lei,  di averla avuta qui, insieme a me, e già soltanto questo mi fa sentire meglio, più rilassato. Forse succede anche a lei la medesima cosa, io non lo so, però so per certo che devo farmi avanti uno di questi giorni, e dirle qualcosa di diverso dal solito saluto generico che adoperiamo da sempre tra noi due. In fondo basterebbe trovare la parola giusta, quella che facilmente sa aprire le porte delle persone, ed in questo modo spiegarle magari con un semplice cenno aggiuntivo ed un’espressione sincera e sorridente, che le cose per noi due possono cambiare con rapidità, ed essere migliori di come sembriamo; basterebbe volerlo, credo.

 

        

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Passaggio obbligato

Generalmente non succede mai un bel niente a Borgo San Carlo. Qualcuno in certi casi litiga pubblicamente per strada o nei pressi di uno dei bar più frequentati, ma sono cose normalmente di poco conto, che in fretta vengono lasciate correre e poi dimenticate. Invece si tende a dare una grande rilevanza alle presunte intenzioni di chi è più in vista; così si è sempre pronti a notare qualcosa di diverso nei comportamenti ordinari di alcuni determinati cittadini, quelli che per le loro specifiche attività lavorative, oppure per alcune proprie abitudini, frequentano più di altri le strade principali e la piazza da dove passano tutti, chi prima e chi dopo.

Un nuovo cappello in testa all’avvocato Righetti, per esempio, è già una notizia di cui poter discorrere, anche per le implicazioni che quel copricapo può comportare; oppure il variare di qualche abitudine assodata del ragioniere Santini, potrebbe indicare il segno inequivocabile che le cose gli vadano bene, e questo starebbe a dimostrare che è riuscito ultimamente ad avere un numero più alto di clienti allo studio, e tutti peraltro paganti. Si nota poi, con sicura invidia, chi si fa vedere con un’auto nuova, e per quanto riguarda le donne più conosciute in paese, c’è sempre una punta di malizia da mettere nelle chiacchiere che si fanno nei loro confronti.

Per quanto riguarda la Clara invece, si è già cominciata a diffondere la notizia che presto prenderà lei in mano il negozio della signora Martini, al posto della vecchia proprietaria stanca e senza più volontà, che oramai non ne fa più un gran segreto del suo desiderio di smettere, e naturalmente c’è uno sguardo ed un saluto diverso nei confronti della ragazza quando viene incontrata per strada: è ancora giovane, pensano tutti, forse ancora troppo succube di sua madre, che pare sempre lì pronta a criticarla in ogni momento, però forse lei ha imboccato la via più giusta per riuscire a defilarsi almeno in parte da quella presenza sicuramente opprimente.  Alcuni perciò la salutano con maggiore enfasi rispetto a qualche tempo addietro, e quasi tutti sono propensi a guardare il suo negozio di merceria con nuovi occhi e con la speranza di una positiva trasformazione. Il rinnovamento di qualcosa del genere in paese è sempre stato visto come un elemento importante, degno senz’altro di un certo interesse.

Anche Clara ha già cominciato a riflettere su quali cambiamenti apportare alla sua merceria, e la cosa appare complessa in considerazione del fatto che se è giusto cercare di acquisire nuovi clienti, è sbagliato perderne anche soltanto qualcuno tra quelli più vecchi. Ci sarà sicuramente da scegliere qualche prodotto che più di altri indichi l’inevitabile rinnovamento, ma ciò deve avvenire conservando un costante equilibrio con il passato. Mettere in mostra o proporre degli articoli nuovi, ad esempio; ma che non mettano in ombra quelli di sempre. Un equilibrio difficile insomma, qualcosa a cui lei dovrà riflettere molto, fino al punto di dedicarsi con attenzione nel sostenere ogni scelta, in modo da dare ad ogni singolo interesse di tutta la clientela di quella bottega, l’esatto riconoscimento che merita, tentando così di far diventare sempre di più la sua merceria uno dei punti di passaggio obbligati per ogni suo compaesano.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Autolesionismo

 

Sono stufo, dico a voce alta. Qui non c'è mai niente che cambi, ci si comporta perennemente nella stessa maniera di sempre, e si danno le colpe a qualcosa o qualcuno che non è neanche tra noi, qualcuno che da lontano pare ci possa manovrare e che ci vuole esattamente così come siamo. Non è in questo modo che riusciremo ad uscire da questo torpore, proseguo. La colpa è solo nostra se siamo così, ecco quello che penso. Poi spengo la registrazione, esco dalla mia piccola auto e mi dirigo a piedi verso la piazza dove si apre il bar Soldini. Sono pronto per intervenire alla riunione che si terrà questa sera sul tema: - prospettive per il futuro -, nella sala più interna di questo locale. In diversi si sono iscritti a parlare, ma anche io voglio dire la mia, e vorrei tanto riuscire a far comprendere ai presenti tutte le nostre responsabilità.

Seduti sulle panchine ci sono i soliti ragazzi che conosco, così mi avvicino camminando lentamente, come privo di precise intenzioni, e cerco di ascoltare quello che dicono tanto per comprendere meglio il clima che si respira. C’è una ragazza tra loro, quella che lavora al negozio di merceria, e questa forse è l’unica novità che riesco ad annotare. Tutti dicono che bisogna andarsene da questo paese, che qui non c’è niente, ma la ragazza, Clara si chiama, non è per niente d’accordo, anche se esprime sull’argomento giusto un paio di parole sottovoce e poi basta.

Ciao Tommaso, mi dice uno che conosco meglio di altri, mentre mi fermo a due o tre metri dal gruppo. Immagino tu sia qui per la riunione, mi fa. Certo, dico io, come anche voi, credo. Qualcuno ride, uno si alza dalla panchina come per andarsene proprio, tutti mi guardano con espressioni di scherno e di indifferenza. Non vogliono neppure entrare, dice la ragazza senza guardarmi, con il suo tono basso di voce. Eppure stasera si parlerà proprio di voi, di ciò che servirà nel futuro di questa cittadina per darsi almeno una prospettiva.

Sono perplesso, i ragazzi mostrano indifferenza, incredulità, rassegnazione, ma forse è soltanto una posa la loro, una maniera per non prendersi mai delle vere responsabilità, per sputare su tutto fingendo che tutto vada sempre nella stessa maniera, e che sia inutile impegnarsi per una variazione di direzione. Clara non è d’accordo, ma invece di dire con chiarezza le sue ragioni, assume un atteggiamento di tolleranza, come se l’opinione disfattista di alcuni, equivalesse a quella costruttiva di altri.

Lascio i ragazzi ed entro nella saletta del bar; alcuni hanno già preso posto, conosco due o tre persone, mi guardano, mi inviano un saluto. Non voglio candidarmi a sindaco o cercare un posto nella politica. Secondo me, anzi, la politica non c’entra proprio in questa serata: si tratta di noi, di mostrare che ancora possiamo contare, che non dobbiamo arrendersi ad un corso delle cose così disfattista. Possiamo avere ragione del clima così negativo che sembra regnare tra noi cittadini: ma basta con l’autolesionismo, non sarà mai questo a farci ancora sognare.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Partecipazione

 

         15 ottobre

         Sto trascorrendo oramai tutto il giorno dentro al negozio. La signora Martini resta soltanto un’ora per stare alla cassa o dire buongiorno ai clienti, ma per quello che fa potrebbe anche smettere del tutto di venire in merceria. Si affida a me, completamente. Ho iniziato a prendere appunti sulle richieste che mi esprimono le persone che entrano, le loro aspettative, i loro gusti, le scelte che fanno, e tra qualche tempo inizierò a tirare le somme di tutto quanto. Per quanto riguarda l’apprendista di cui avevamo parlato con la signora Martini, forse ci sarebbe un ragazzino di cui lei mi ha accennato stamani, e che conoscerò probabilmente nei prossimi giorni. 

         16 ottobre

         Mi sono portata a casa tutti i cataloghi degli articoli che sono riuscita a mettere insieme. Altri, scorrendo alcune riviste specializzate, li ho richiesti per posta, e non vedo l’ora di confrontare tutto quello che offre il mercato per rinnovare almeno una parte del nostro campionario. Devo studiare ogni cosa, mettermi ad analizzare i dati con calma, magari lo farò durante le domeniche prossime quando non devo andare al negozio, per cercare di tirare fuori il massimo possibile da quello che offre la produzione. Ho anche iniziato a pensare di modificare qualcosa nell’insegna esterna della merceria, ma ancora non ho delle idee buone. Appena chiuderemo per ferie, comunque, farò ridipingere gli infissi delle vetrine e cambierò la tappezzeria delle vetrine stesse. Anche all’interno credo che vadano rinnovati i camerini di prova e anche qualcosa degli scaffali. Dovrò comperare al più presto possibile dei nuovi manichini, ed anche il bancone avrebbe bisogno di qualcosa di nuovo. Forse è anche troppo, e probabilmente troppo di fretta, però non voglio che vada calando in qualche modo questo mio trascinante entusiasmo.

         17 ottobre

         Da quando abbiamo fissato con la signora Martini la data per la spartizione legale tra me e lei della piccola società del negozio, mia madre pare guardarmi con uno sguardo diverso. Forse questa crescita repentina di sua figlia le sta procurando un cambio di atteggiamento nei miei confronti. In ogni caso per ora niente di sostanziale è avvenuto. Continua a rivolgersi a me con il suo tono brusco, lasciando in aria per il resto dei profondi e lunghi silenzi.

18 ottobre

Stasera ho chiuso il negozio subito dopo l’uscita degli ultimi clienti. Mi sono fermata dai ragazzi delle panchine davanti al bar Soldini, e stavo quasi per andarmene quando è apparso un tipo che non conoscevo. Tommaso si chiama, ed ha detto alcune cose importanti nei riguardi della assemblea che si sarebbe tenuta più tardi nella sala interna del bar. Si parla di futuro, là dentro, e forse non è un argomento sbagliato in un momento come quello attuale. Proprio per questo ho deciso di partecipare anche io, così ho telefonato a mia madre, poi mi sono mangiata un panino da sola dentro allo stesso locale, e quindi mi sono seduta in mezzo alla sala sul retro. Tommaso, senza dare importanza alla cosa, è apparso d’improvviso nella sedia accanto alla mia, e questo mi ha procurato un grande piacere. Ha detto che era contento di trovarmi lì, e che gli sembrava che le nostre idee fossero affini. Forse si, ho detto io, in ogni caso mi sento sempre felice quando finalmente accade qualcosa in questo nostro borgo incantato.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

        

Come sempre

Lungo i tre chilometri circa di strada statale che separano Borgo San Carlo dalla località dove abita Clara, costituita in tutto soltanto da cinque abitazioni, all’ora in cui lei rientra con la macchina in genere si incontrano soltanto due o tre automobili in tutto il tragitto, magari qualcuna di più durante il venerdì o il sabato. Lei guida sempre con prudenza, evitando scatti e velocità eccessiva, anche perché le piace osservare quella campagna che fa mostra di sé lungo quel tratto, mutando costantemente in sintonia con le stagioni.

Una volta terminato l’orario di negozio, quando infine giunge, parcheggia l’auto e poi rientra in casa, se sua madre non è ancora immersa nel suo giardino ad occuparsi di qualcosa intorno a qualche pianta, normalmente è lì in cucina a preparare qualcosa per la cena, e quindi per quel suo daffare dedica sempre poco tempo a saluti e convenevoli. Ma stasera non c’è proprio: Clara gira la chiave nella porta e si rende subito conto che la casa è deserta, ed anche se questo non comporta particolari problemi, ciò che le risulta strano è dato dal fatto che a sua memoria non è mai accaduto che a quell’ora Marisa non fosse in qualche modo lì ad attenderla.

Entra, appoggia la sua borsa da qualche parte, toglie il soprabito, annusa con calma il silenzio quasi inquietante che regna tra le tranquille mura domestiche. Entra in cucina con lentezza, accende i lampadari e scopre che le pare addirittura diversa senza sua mamma in giro. Poi torna nel corridoio, toglie le scarpe ed inforca un paio di pantofole, tirandole fuori da un armadietto, poi si dà un’occhiata di sfuggita nello specchio accendendo a volume basso l’apparecchio radio. Sua madre rientra in quel momento, sulla faccia quasi un sorriso che però cerca subito di ricomporre modellandolo nella sua solita severa espressione.

Non è molto che sei rientrata, immagino, le dice. No, fa Clara, giusto il tempo di arrivare e di togliere le scarpe. Ho scoperto che il nostro vicino di casa è una persona gradevole ed anche una buona compagnia, fa lei, tanto che mi ha fatto fare tardi anche per la preparazione della cena. Non importa, dice Clara, non preoccuparti, non ho neppure molta fame, ho soltanto una gran voglia di rilassarmi. Va bene, dice Marisa, se vai sopra a cambiarti ed a metterti un vestito comodo, io sistemo qualcosa e ti faccio trovare pronto qualcosa che ti metterà appetito. Clara sale la scala pensando che era da diverso tempo che non trovava la mamma così in forma, tanto da lasciarle chiedersi se fosse davvero opera del vicino, oppure qualcos’altro da scoprire. Quando invece torna a scendere di sotto le cose sono già cambiate: a Marisa è caduto qualcosa sopra al pavimento che si è subito sporcato tutto, così ha dovuto prendere provvedimenti, ripulire, perdere del tempo, ed il suo umore in questo modo è già cambiato, si è come dimenticata in tutta fretta di come si sentiva poco prima.

Si siedono al tavolo di cucina, le due donne, e nel silenzio rotto soltanto dai rumori delle posate e delle stoviglie, iniziano a mangiare ognuna immersa nei propri pensieri, quasi indifferente a tutto il resto delle cose. Come ogni sera, d’altra parte.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Festa a sorpresa

La serata è sempre più frizzante al sabato sera, rispetto agli altri giorni, ed i ragazzi attorno al bar Soldini stanno sempre in movimento, mostrandosi costantemente sul punto di andarsene in gruppo da qualche altra parte, anche se poi in turni di due o tre si infilano semplicemente dentro al locale di fronte per prendersi un’altra bottiglia di birra, e poi rimanersene lì davanti, a bere con brevi e rade sorsate, oltre naturalmente a scherzare, e a perdere ancora del tempo. Renato è tra loro, parla con gli altri, si guarda intorno; nel pomeriggio è passato davanti alla merceria dove Clara lavora, ma lei in quel momento era impegnata a spiegare chissà cosa a certe clienti, ed anche se probabilmente lo ha visto fuori dai vetri del suo negozio, non ha potuto interrompere le sue occupazioni, neppure per lanciargli un frettoloso saluto. Adesso lui sta lì in mezzo agli altri, e per un po’ ha anche sperato che lei si facesse vedere, almeno per dieci minuti, magari per dirgli qualcosa, per rendergli il saluto di prima, ma non è stato così, ed adesso ne è un po’ dispiaciuto.

Poi arriva Tommaso invece, con la sua aria sempre svagata, come uno che sembra starsene in giro per un puro caso, senza mostrare quell’interesse specifico per essere proprio in quel posto, lasciando immaginare ai presenti di essere almeno con la mente in qualche altro luogo. C’è un altrove dentro ai suoi occhi, ed ogni espressione, così come i gesti, sono senza alcun dubbio quelli di una persona curiosa, uno che cerca costantemente qualcosa che forse altri che guardano tutto ciò che hanno attorno non sanno neppure vedere. Saluta i ragazzi, restando comunque in disparte, ascolta un momento quello che gli altri stanno dicendo, sorride, infine dice con voce bassa che c'è una piccola festa privata da qualche parte in paese. Qualcuno si mostra vagamente interessato, nessuno dice di saperne qualcosa, ma lui spiega che probabilmente non ci andrà, lo dice chiaro con due sole parole, nonostante sia stato invitato. Speravo di incontrare qui quella ragazza dell’altra sera, aggiunge quasi con indifferenza, e Renato all’improvviso si sente punto sul vivo.

Perché, c'è forse qualcosa tra voi, dice qualcuno senza interesse. No, fa lui sorridendo, però mi faceva piacere incontrarla. Bisogna anche vedere se a lei faccia ugualmente piacere incontrarti, fa Renato con atteggiamento di sfida. Certo, fa lui con calma, è proprio questo che volevo chiederle. Gli altri guardano i due e qualcuno sorride: mi piace quella ragazza, aggiunge Tommaso come parlando tra sé, indifferente a quello che ha appena detto Renato, o forse proprio per mostrargli con molta chiarezza i suoi intendimenti. Renato sbuffa, si gira per guardare da un’altra parte, in attesa forse della prossima mossa. Poi gli viene a mente qualcosa: io vado a cercarla, dice, avviandosi verso la sua motocicletta appoggiata al bordo di quella piazza.

Tommaso si siede sulla panchina, l’altro sferraglia via con il motore già su di giri, nessuno tra tutti i ragazzi trova niente da dire, ma dopo soltanto qualche minuto arriva proprio Clara, stretta dentro un giaccone che la mostra quasi piccola e quasi indifesa, come fosse ancora una ragazzina. Va verso Tommaso, gli sorride, lui le chiede se le vada di andare alla festa. Va bene, risponde lei, andiamo pure.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Percezioni perdute

 

Sto bene, continuo a ripetermi. Non ho ulteriormente bisogno di intravedere la mia immagine riflessa nel vetro della finestra per sapere che sono qui, nel mio giardinetto davanti la casa, praticamente come ogni giorno. Cerco di lavorare, di trovarmi delle cose da fare, di occupare le mani per non lasciare alla testa troppo tempo per insistere a pensare. Eppure, nonostante la leggera preoccupazione che provo,  una parte di me continua a volersi sentire contenta, ad apprezzare in qualche modo quanto sta succedendo. È come se la perdita di controllo sulle cose che ho attorno, adesso non mi spaventasse più come faceva un tempo.

Marisa, sento chiamare con voce bassa e calma di là dalla staccionata con cui confina il giardino. Mi volto subito, alzo una mano per salutare, poi mi accosto pacatamente dalla parte dove sta sorridendo dolcemente il mio vicino. Mi chiedevo se ti andasse di prendere un caffè insieme a me, ma vedo che sei troppo impegnata, mi fa. Sono sciocchezze quelle di cui mi sto occupando, gli dico mentre tolgo i guanti da lavoro; anzi, una piccola pausa in questo momento è proprio ciò di cui sento maggiormente bisogno.

Mi piace il mio vicino, mi piace parlare con lui, scambiare i nostri differenti punti di vista, ascoltare le sue parole sempre rassicuranti, che spesso riescono a sminuire di colpo tutte le mie preoccupazioni. Persino quando poi resto in silenzio, una volta terminato di spiegargli qualcosa, o quando lui non ha più niente da dire o da aggiungere, e se ne sta lì soltanto a guardarmi, senza neppure cercare di rompere quella quiete che all’improvviso sembra più forte di qualsiasi altra cosa, non ho mai la sensazione di avere di fronte degli spazi vuoti che dobbiamo sforzarci di colmare al più presto. La sua presenza mi pare già un elemento che sussurra le cose che a me piace ascoltare, come se le parole fossero in qualche modo quasi superflue.

Dai allora, fa lui sorridendo, sto già aspettando il momento di mettermi seduto di fronte a te. Mi sciacquo le mani alla fontanella, mi asciugo al grembiule con naturalezza, mi tocco i capelli con un gesto femminile che fino ad adesso non ha mai fatto parte dei miei comportamenti usuali, poi esco dal cancello senza affrettarmi, per entrare nella sua proprietà. Speravo tanto mi venisse a chiamare come effettivamente lui ha fatto, quasi rispondendo ad un mio richiamo. Mi manca la sua persona quando non sono con lui, e se fino a pochissimo tempo fa mi sarebbe sembrato impossibile quello che mi sta succedendo, adesso poco per volta inizio come a lasciare che le cose vadano avanti per conto proprio.

Ho voglia di fare qualcosa con te, gli dico sincera mentre entro nella sua casa. Non montarti la testa, aggiungo subito, non è niente di strano; è soltanto che vorrei andare in giro con te, visitare qualcosa, sentire il tuo parere su tutto ciò che guardiamo. Anche se la nostra età non è più giovanile, in ogni caso sento forte la possibilità di aiutarci, di aspirare ad una nostra complicità, e ritrovare insieme quegli aspetti da cui siamo stati costantemente circondati in tutto questo tempo, ma che probabilmente da troppo abbiamo oscurato nelle nostre percezioni.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Gestione impeccabile

 

         La signora Martini non abita troppo lontano dalla merceria dove ha trascorso così tanti anni: a lei basta fare quattro passi una volta uscita dal suo negozio ed è già dentro casa, al primo piano di una palazzina elegante lungo la via principale di quel centro urbano. Non si è mai sposata: forse non ne ha avuto il tempo necessario, oppure la voglia, o magari non le si è mai presentata l’occasione più adatta. Però ha avuto delle storie importanti quando era più giovane: tutti in città prima o dopo avevano saputo di una sua lunga relazione con un uomo sposato piuttosto in vista, tanto che qualche paesano a quel tempo strizzava gli occhi parlando di lei, anche se a nessuno era mai davvero venuto in mente di mancarle minimamente di rispetto. Si diceva che da ragazza volesse aprire una casa di moda mettendo a frutto le sue buone conoscenze di sarta, ma che i suoi genitori si erano rifiutati di darle una mano. Altri dicevano che era rimasta incinta ad un certo punto, ma che aveva abortito spontaneamente, e nessuno era riuscito a sapere chi avrebbe potuto essere il padre dell’eventuale nascituro. Però, chissà come, ad un tratto una mano amica le aveva trovato i soldi necessari per rilevare quel negozio di merceria, dove lei aveva iniziato quasi subito a vendere anche abbigliamento di classe, a volte anche di marche importanti.

Nessuno in seguito aveva più avuto niente da ridire sulla sua condotta morale, e la signora Martini nel giro di un attimo era diventata colei che vestiva quasi tutte le donne della sua cittadina, ed il suo buon gusto nei consigli da elargire alle clienti in tema di abbigliamento, un fatto indiscutibile. La madre di Clara, in tutto quel periodo, non si era mai creata alcun problema con lei: erano andate a scuola assieme da piccole, e per Marisa da allora non era mai cambiato un bel niente. Non erano amiche, pur essendo della medesima età, ma tra loro c’era comunque rispetto e anche stima. Proprio per questo quando era giunto il momento di trovare un lavoro per Clara, sua mamma non aveva provato alcuna perplessità nel rivolgersi a lei. Tutto si era svolto quasi con normalità, semplicemente, e la signora Martini, anche durante il lungo periodo di prova a cui aveva sottoposto la ragazza, non si era mai lamentata della scelta fatta, neppure una volta.

Gli affari avevano proseguito ad andare bene, e Clara, divenuta ormai esperta nel ramo, presto era riuscita già soltanto con la sua presenza a portare dentro a quella bottega una ventata di novità, per cui le cose avevano iniziato ad andare anche meglio. Visti gli affari erano poi iniziate a girare dentro al negozio delle ragazzine assunte per brevi periodi come aiutanti, ma nessuna di loro aveva brillato fino al punto di poter essere impiegata là dentro in pianta stabile. Non è tanto facile questo mestiere, aveva detto l’anziana proprietaria qualche volta, perché contando sulle discrete dimensioni del suo esercizio, la signora Martini aveva sempre puntato nel lasciare la sua clientela ad attendere i suoi pareri, magari facendo osservare i capi di abbigliamento già esposti all’interno, piuttosto che servire tutti in gran fretta, tanto che c’erano stati alcuni momenti, per esempio al sabato pomeriggio, in cui sembrava il suo negozio un vero e proprio ritrovo per le donne di quasi tutto il paese. Questo era sempre stato il suo trucco migliore: mostrare che certe cose potevi farle solo là dentro, come incontrare altra gente con cui dopo i saluti scambiare anche delle opinioni, ed avere così notizie fresche di qualsiasi tipo. Forse adesso quel tempo è acqua passata, pensa lei qualche volta, ma la bottega di merceria è sempre la stessa, e niente vieta a chi la gestisce in questo momento di andare avanti ancora così, nella stessa esatta maniera.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Domani, se vuoi.

Non mi interessa, ho ben altre cose sulle quali impegnare la mente, non sono questi gli argomenti a cui ho bisogno di tener dietro adesso. La motocicletta romba veloce sopra l’asfalto, le facciate delle case fuggono via ai lati di queste strade, quasi come se niente di tutto il centro abitato meritasse di stare un attimo in più davanti ai suoi occhi. Non mi riguarda neppure tutta questa cosa che improvvisamente sembra assumere tanta importanza, pensa Renato tra sé: lei è una ragazza come tante, forse una che non riesce neppure a valorizzare davvero chi le si para di fronte; una che probabilmente esce col primo che sa mettere assieme la battuta di spirito maggiormente efficace, senza preoccuparsi di altro. Mi pareva diversa, mi pareva capace di valutare meglio le situazioni, ma forse sbagliavo, a niente è servito cercarla, invitarla ad uscire da quella solitudine in cui pareva ancorata.

Ma tutto questo comunque non ha neppure troppa importanza in questo momento, quello che mi dispiace maggiormente è soltanto la figura che mi ha fatto fare davanti ai miei amici, anche se loro a quest'ora avranno sicuramente già dimenticato ogni cosa. Però mi dispiace davvero, se ci penso ancora un momento. Vorrei avere la possibilità di recuperare la situazione, farmi spiegare proprio da Clara il motivo per cui mi ha lasciato lì, con gli altri ragazzi, senza nemmeno provare a darmi una spiegazione qualsiasi. Non ho più voglia di passare davanti al negozio dove lavora, senz’altro non lo farò più a questo punto, però so dove abita, e aspettando pazientemente l’ora in cui termina il suo orario e se ne torna come ogni sera a casa sua, potrei andarle dietro, o addirittura aspettarla davanti alla sua abitazione.

Potrei farmi trovare proprio là davanti, da solo, con le mani dentro le tasche, e chiederle con semplicità se ha giusto un momento per parlare con me. Certo, potrebbe rispondermi, e forse aggiungere subito con gli occhi bassi che le è dispiaciuto parecchio essersi comportata in quella maniera con me, anche se è riuscita a rendersene conto soltanto più tardi. Non importa, potrei dirle io, avevo capito benissimo che è stato un gesto senza cattiveria, che non ti era passato neppure per la testa di volerti comportare in modo scostante con me. Certo, è più che evidente. Tutto parlandone si chiarisce con facilità, tra persone che si vogliono bene.

Poi penso che potrei passarci subito da casa sua, senza aspettare un attimo in più, fiondarmi lì con la mia motocicletta, e magari attendere sotto a un lampione che tutto si svolga in modo tranquillo, senza neppure un’ombra di risentimento. Basta un momento, tiro le marce lungo le curve e sono lì. Le luci a casa sua sono già tutte accese, forse Clara è arrivata, anche se non vedo la sua auto al parcheggio. Attendo un momento con la moto ancora che romba nel silenzio di quel piccolo gruppo di case, poi arrivano due fari dietro di me, si fermano, è lei, va tutto bene, mi dico, va tutto proprio come pensavo. Ciao, mi dice soltanto appena spento il motore; se attendi me purtroppo adesso non ho proprio tempo. Però ci possiamo vedere alle solite panchine, insieme ai ragazzi, davanti al bar Soldini; anche domani se vuoi.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Diversi e distanti

Si verificano in certi casi alcune giornate in cui il cielo appare particolarmente nuvoloso sopra queste colline, e si mostrano qualche volta anche degli interi periodi durante i quali tutta Borgo San Carlo, con l’intero suo agglomerato urbano formato anche da viuzze e da piccole abitazioni addossate le une alle altre, appare un luogo decisamente triste, poco attrattivo, quasi scostante, come se le stesse condizioni meteorologiche di qualche serata un po’ uggiosa, riuscisse ad avere un impatto diretto, oltre che nell’umore e nel temperamento stesso degli abitanti, anche proprio sulle case e sulle strade di tutto quanto il paese. I campi agricoli poi, appena lasciate indietro le abitazioni ed una volta usciti dal centro abitato, mostrano facilmente nelle settimane e nei mesi che passano, il susseguirsi monotono delle diverse stagioni, sopportando in certi periodi giusto qualche trattore rumoroso che si può notare con facilità dalla strada mentre si muove lentamente tra i solchi o in mezzo alle stoppie, quasi cercando, insieme agli attrezzi che ogni mezzo agricolo trascina dietro di sé, di dare una logica ed un senso a quei pezzi di terra sotto le nuvole, confinati da lunghe file di alberi e da qualche fossato.

Ci sono persone che quasi ogni giorno, dalla fermata presente nella piazza principale in mezzo al paese, salgono sopra una delle corriere in partenza, e percorrono tutto il tratto di strada necessario per arrivare alla fine nella città più vicina, ed i mezzi pubblici che si intravedono allontanarsi svogliatamente dai muri intonacati del paese di partenza, rispettando certi orari invariabili che quasi sempre sono conosciuti a menadito da tutti, mostrano per assurdo quasi un senso di vitalità per tutta quella strada statale che serpeggia nella natura, lasciando allontanare pur momentaneamente dalla comunità che abita quei caseggiati, i viaggiatori, che quasi sempre sono soltanto dei pendolari, come per dare più circolarità all'ossigeno stesso disciolto nell'aria, rassicurando in qualche maniera perfino le persone rimaste, che forse appaiono perfino contente di non essere andate con gli altri. Qualcuno osserva con una certa invidia le facce dei viaggiatori incorniciate dai finestrini dei mezzi pubblici, altri invece ascoltano soltanto il lieve rombare profondo di quei motori fumanti, quasi come fosse il respiro stesso di qualcosa che continua a produrre una qualità di esistenza altrimenti impossibile.

L'invidia in un caso o nell'altro è sempre presente in mezzo ai pensieri di tutti, e solo parlando del più e del meno con altri paesani delle cose usuali, a voce magari un po’ alta, ciascuno si mostra soddisfatto e meritevole proprio di quello che è, scansando velocemente almeno con le parole qualsiasi variazione possibile nella propria giornata e in quella lineare esistenza, accontentandosi facilmente di ciò che è riuscito a raggiungere senza aver mai dovuto sopportare compromessi a dir poco infamanti. La forma autocritica è chiaro come sia difficilmente praticata tra questi, e chi se ne addossa la responsabilità generalmente viene additato quasi come diverso, qualche rara volta con degli apprezzamenti anche positivi da parte degli altri, ma in altri casi permettendo commenti ordinari con un uso della stessa parola a mo’ di disprezzo, quasi fosse un vero strumento per tenersi alla larga da simili distanti personalità.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Scoperta del nuovo

 

Non so perché abbiamo fatto passare tutto questo tempo. Sono talmente sorpreso nel sentirmi così bene stando insieme ad una persona dopo tanti anni di solitudine, che praticamente non ho più neanche memoria dell'ultima volta che mi è accaduta una cosa del genere. Ci mettiamo seduti lì sulla veranda a parlare, e lasciamo lentamente scorrere il tempo per proprio conto, disinteressandoci quasi di tutto il resto. Marisa, le dico; come abbiamo fatto ad abitare così vicini e a non scambiare mai neppure una parola per tutti questi anni. Non lo so, fa lei; però adesso, se soltanto ci penso, non mi interessa più tanto il passato. Fino a questo momento ho vissuto quasi soltanto di quello, ho respirato i ricordi e la nostalgia come non esistesse null'altro, ma devo dire che questo comportamento non mi ha portato a niente di buono. Ora invece voglio guardare al presente, vivere la giornata, e fare quello che mi piace di più. Marisa, le dico ancora, ma è possibile che sia così, che ci succeda davvero, quando non ce lo aspettavamo per nulla. Sorride; penso di sì, mi fa sottovoce. Ma non voglio pensarci su troppo, ho voglia soltanto di sentirti ancora parlare dei tuoi pensieri, delle tue idee, di tutto quello che avresti voluto fare prima o dopo.

Stiamo seduti, certe volte ci sdraiamo persino sopra al mio letto, soltanto per stare lì, a rilassarci, a guardare il soffitto, spiegare ancora qualcosa l’un l’altra, con gli occhi pieni di sogni e di fantasie. In quei momenti non ricordo neppure che cosa sia accaduto davvero in precedenza; osservo lei, specialmente quando non se ne accorge, e mi pare che tutto all'improvviso sia semplice, leggero, senza alcuna necessità di spiegazione. Marisa, cosa ne pensi, le chiedo. E lei, con le sue maniere ormai assodate, mi spiega che all'interno della sua vita difficile, tutto adesso sembra essersi fatto così semplice, lineare, senza necessità di ulteriori decisioni. Non c'è proprio niente da decidere, mi fa, se non qualcosa su cose sciocche: cosa cucinare stasera, se indossare i pantaloni oppure la gonna, fare una doccia nel pomeriggio oppure più tardi.

Siamo anziani, indubbiamente, le dico, ma non ci siamo mai illusi di poter tornare indietro nel tempo, e questo spingerci sempre in avanti ci sta facendo scoprire forse qualcosa di diverso. Che cosa ci importa, diciamo all'unisono, di quello che possa pensare il signor Remo, quello che abita di là dalla strada, quando ci vede ridere in giardino senza neppure riuscire a metterci un freno, allegri come siamo sempre da quando abbiamo deciso che eravamo troppo simili per non stare un po’ insieme. Lui non sa niente, dico io, prosegue ad occuparsi delle cose ordinarie, dei piccoli impegni di tutti i giorni, lo fa come tutti, forse per un’abitudine assodata, o anche per il senso del dovere che a volte dopo una certa età sembra riempirci rapidamente ogni spazio. Lo guardo, certe volte, lo saluto con la cortesia di sempre, e so che ero esattamente come lui fino a pochissimo tempo fa: è stato semplice però cambiare qualcosa, modificare dei piccoli dettagli intorno ai miei giorni. Ma quello che conta più di ogni altra cosa è questo accettare di modificare la mente, di aprire le idee a qualcosa di nuovo; come se tutto sommato ci fosse ancora tantissimo da scoprire e apprezzare.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Conservazione

28 ottobre

Vorrei fermare questi giorni. Cristallizzare tutto per pensare ad ogni dettaglio con calma, senza questa frenesia che spinge le cose sempre troppo in avanti.

29 ottobre

Ho paura. Non so decidere niente, le novità mi lasciano meravigliata senza comprendere se sono positive oppure no.

30 ottobre

Se pur non sono mai andata troppo d'accordo con mia madre, in ogni caso ho sempre saputo in ogni momento che lei c'è, pur con il suo sguardo tagliente e fermo e con i suoi modi diretti, comunque sempre pronta a darmi il suo parere, talvolta perfino superfluo proprio perché scontato, frutto del suo modo risaputo di guardare a tutte le cose. Adesso lei invece è come se fosse altrove, come se d'improvviso si volesse disinteressare di me, lasciandomi libera dalle sue opinioni, ma allo stesso tempo senza la sponda dura ma rassicurante del suo parere.

31 ottobre

Oggi mi è stato presentato un ragazzo molto più giovane di me, che secondo la signora Martini potrebbe aiutarmi nel lavoro al negozio. Ma a me non è piaciuto, non mi pare proprio sia la persona più adatta per occuparsi di abbigliamento femminile e di merceria. Ho subito avuto l’impressione che la signora Martini dovesse rendere un favore a qualcuno con questa candidatura, ma per me non è neppure un problema di esperienza nel settore: è soltanto questione di avere le qualità adatte ad essere il referente giusto nei confronti di alcune richieste delle nostre clienti. Questo che mi sono trovata di fronte è soltanto un ragazzetto a cui non interessa probabilmente niente di quello che cerchiamo di vendere nella nostra bottega, ed anche se può essere una trovata simpatica quella di mettere un maschio come lui in questo settore, ho paura che alla lunga le cose non andrebbero bene. Ho detto subito cosa ne pensavo alla signora Martini, e lei si è dimostrata comunque comprensiva. Sul momento abbiamo deciso di riprendere a lavorare con noi, se disponibile,  la stessa ragazza che ci aveva dato una mano durante la stagione primaverile. Non sarà il massimo, però con lei sappiamo di non fare delle brutte figure.

3 novembre

Alla signora Martini in fondo sembra non interessi poi molto delle mie scelte. Credo che se da un lato le piacerebbe che io riuscissi a preservare perfettamente la politica aziendale messa in piedi da lei decenni fa, dall'altro sarebbe anche contenta che io dessi una spallata ai suoi modi di tenere in piedi questo negozio. Forse nel dilemma tra una cosa e l’altra, sta pensando bene da adesso di non preoccuparsene affatto, in modo da lasciare a me ogni incombenza, a patto che il negozio naturalmente mantenga lo stesso livello di vendite di questi ultimi anni.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

          

Senza opinione

La giornata appare nuvolosa, e forse proprio per questo in giro per il centro abitato s’incontrano poche persone in questa grigia mattinata. Annamaria si è presa l'ombrello pieghevole uscendo da casa, anche se al momento lo ha riposto ben chiuso dentro la sua borsa capiente. Così quando spinge la porta vetrata della Merceria Martini, lungo la strada principale del paese, ha ben chiaro che indipendentemente da qualsiasi cosa possa acquistare in quel negozio in cui sta per entrare, non dovrà preoccuparsi troppo per un eventuale scroscio di pioggia al momento di tornarsene verso la sua abitazione.

Ha notato come se ci fosse qualcosa di nuovo là dentro arrivando vicino alle vetrine della merceria, ma siccome per sua natura non desidera farsi vedere disposta a perdere del tempo nell’osservare gli allestimenti, pur sentendosi fortemente incuriosita, è subito entrata, senza fermarsi: vuole arrivare immediatamente al punto, e senza grandi indugi acquistare quello che per cui è venuta fin lì, e  poi casomai dare un'occhiata in giro subito prima di uscire dalla bottega e tornarsene lungo la via. Buongiorno dicono insieme sia Clara, che lei conosce da anni, sia, con voce più bassa, un'altra persona che sembra in apparenza una normale cliente, ma che sta lì in piedi con un’espressione seriosa ad occhieggiare con indifferenza qualcosa fuori dai vetri, praticamente senza fare nient’altro.

Non preoccuparti, dice la negoziante notando nella sua conoscente una leggera perplessità: mia madre è qui solo per farmi una visita. Così Annamaria, che a casa sua ha la macchina per cucire e svolge dei piccoli lavoretti di sartoria per tutto il suo vicinato, si fa mostrare del filo di cotone in vari colori, alcune cerniere di ricambio con diverse lunghezze, ed alcuni bottoni particolari dei quali ha portato con sé gli originali, per verificarne appieno la corrispondenza. Poi, mentre Clara le mette gli acquisti dentro un sacchetto, lei guarda distrattamente gli ultimi arrivi di abiti pronti sui manichini e sopra gli appendiabiti. Quindi esce, dopo essersi informata su alcuni prezzi, ma senza acquistare nient’altro.

Marisa non dice niente, forse avrebbe probabilmente anche alcune opinioni su come portare avanti le sorti di quel negozio, proprio adesso che la signora Martini sembra poco per volta uscire di scena e lasciare molte scelte nelle mani di Clara; però si frena, riflette, cerca il più possibile di non essere invadente. Sua figlia le ha spiegato già molte di quelle cose che intende cambiare dentro la merceria, e lei l’ha ascoltata quasi senza ribattere niente, semplicemente annuendo e lasciandola parlare senza interromperla. Va bene, sembra voler sottolineare adesso con il suo silenzio, rispetto al garbato entusiasmo di Clara; ma a me in fondo tutto questo interessa ben poco: è la tua vita, la tua carriera, le tue capacità che devono uscir fuori in questo momento, ed io, anche se sono sicura del tuo successo nei prossimi anni, non sono più in grado di indicarti la via o di darti come ho sempre fatto la mia opinione. Trovo che non sarebbe neppure giusto che lo facessi, ed è per questo che ti ammiro e sono contenta per te: per tutto l’impegno che sicuramente stai mettendo a buon fine, per il tuo bisogno di realizzarti, anche se a me tutto questo mi appare già come qualcosa che oramai non mi riguarda.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Sacrificio solenne

Ogni tanto si concede un giretto a piedi per le vie del suo paese, Tommaso; ma generalmente resta a studiare nella modesta abitazione della sua famiglia per quasi tutto il giorno. Alle lezioni che si svolgono nella facoltà a cui è iscritto si reca solo qualche volta, solamente quando sa che sono davvero importanti, cercando di concentrare tutto quello di cui deve occuparsi in una sola stessa giornata, salendo sopra la corriera che lo porta in città al mattino prestissimo, e tornando con lo stesso mezzo nella medesima serata. Non può permettersi una camera d’affitto nei dintorni dell’ateneo, perciò deve comportarsi così, ottimizzando tutti i tempi delle visite nella biblioteca, in segreteria, ed eventualmente anche negli istituti, per prendere gli inevitabili accordi con gli assistenti o con i docenti delle materie di studio che segue. Ma quando poi torna nella sua cameretta in paese, una volta che ha preso tutte le informazioni, le notizie e le dispense che gli servono, trascorre tutto il tempo davanti ai testi generalmente avuti con il prestito, confrontandoli con gli appunti che gli passano i compagni di corso, per preparare al meglio delle sue possibilità ogni esame universitario che deve ogni volta sostenere.

Devo impegnarmi al massimo, ha pensato spesso fin da ragazzino, e lo ha fatto sempre con una certa determinazione, specialmente negli ultimi anni: nessuno mi tirerà fuori da questo posto se non lo farò da me stesso, con le mie sole forze. Ma da qualche tempo, dopo aver costantemente mal sopportato quella cittadina dove lui è nato e dove ha sempre vissuto, i suoi pensieri hanno iniziato a cambiare, se pur solo a tratti. Difatti, se adesso si guarda attorno, quando cammina sui marciapiedi delle strade principali per esempio, scopre con facilità dei particolari che precedentemente non aveva mai notato. Le stesse persone che incontra, certe volte, - facce già viste, espressioni che conosce da tempo, magari qualche vecchio compagno delle scuole elementari, - gli sembrano tutti più interessanti rispetto al passato. Forse, nel tempo trascorso, ha peccato di una certa superficialità, pensa talvolta; forse non si era mai neppure accorto come, in mezzo alle cose semplici del suo piccolo paese, si annidassero anche elementi che a ben guardare mostravano senza troppo dare prova di sé, anche una certa ricchezza.

E poi adesso c’è Clara Carraresi, questa ragazza che pur mettendo in luce scelte molto diverse dalle sue, dimostra una propria innata sensibilità e anche una spiccata intelligenza, con capacità di analisi e anche di giudizio, tanto che dopo averla conosciuta lui si sente spinto a rivederla tutte le volte che gli risulta possibile. Si è sentito bene qualche sera fa con lei, ha provato una sconosciuta sensazione di completezza, come se i pensieri scambiati tra loro due, pur maturati in ambiti diversi, avessero assunto improvvisamente delle caratteristiche di affinità, tanto da spingerli spontaneamente l'uno verso l'altra. Ci sono adesso molte cose delle quali Tommaso sente l’impellente bisogno di parlare ancora con Clara; ma c'è anche qualcosa che lo spinge verso qualcosa che avverte già come un elemento imprescindibile. Per questo, pur sapendo di non potersi permettere molto tempo da dedicare a lei, all'improvviso gli appare anche persino troppo chiaro che se tiene davvero a questa amicizia tra loro, dovrà prima o dopo sacrificare qualche cosa della propria individualità.

 

        

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Strenua difesa

 

         C’è una strada che attraversa il paese, e mentre scorre tranquilla in mezzo alle case, sembra a volte che parli o sussurri con una voce bassa, timorosa, come quella di chi non può darsi un’importanza superiore a quella che riesce a dimostrare la realtà evidente delle cose. Ci sono alcuni tra gli abitanti di quel luogo che si muovono avanti e indietro lungo la medesima strada, e cercano nelle parole che scambiano tra loro qualcosa che purtroppo la maggior parte delle volte non riescono proprio ad evidenziare. C’è una serenità diffusa, in quasi tutti, un sentimento che spesso assomiglia ad una tristezza profonda, qualcosa che però si potrebbe allontanare con una grande facilità, basterebbe modificare quel sentimento attraverso qualche semplice battuta di spirito, oppure mitigarlo in qualche modo ritrovandosi ad un angolo con qualche amico più svincolato da certe esperienze, o anche costringersi, pur restando nella propria solitudine, a pensare semplicemente ad un diverso argomento, almeno per una porzione sufficiente di tempo.

         Ci sono in giro certe volte i soliti personaggi di sempre, quelli che scivolano lungo i marciapiedi senza una meta precisa, che camminano in avanti con le mani dentro le tasche, senza trovare almeno in apparenza uno scopo preciso, come stessero cercando un sorriso dentro se stessi che spesso non trovano, e quindi lasciando il tempo trascorrere come qualcosa di inevitabile, pur dispiacendosene spesso quando parlano a piccole frasi con chi li conosce. Procede la strada, porta i suoi detriti in giro lungo il paese, perfino sulla soglia di quei portoni dove ciascuno trova il proprio rifugio,  mettendosi in salvo ogni volta che giunge ad aprire la serratura di casa con la sua chiave, come un naufrago che forse non sente tutta l’appartenenza che vorrebbe avere per quel luogo preciso, ma che sa riconoscere nell’edificio che abita l’unica zattera di salvataggio, almeno per sé.

         E poi c’è chi si perde lungo la via, magari si sente anche troppo osservato dagli altri, sempre con gli sguardi di tutti un po’addosso, forse giudicato superficialmente senza aver fatto nulla per attirare un minima attenzione sulla sua persona, e così nauseato che tenta talvolta di cambiare maschera, e modificare per quanto gli appaia possibile, ogni ordinario comportamento, ed in questo processo immedesimandosi dentro un modello, in qualcun altro, fino al punto di non ritrovarsi più ad essere esattamente lui stesso, ma rivestendo però qualcosa che ha sempre pensato, forse un personaggio che senz’altro ora sfugge ad una comprensione di stampo più generale, ma che racchiude in sé almeno qualcosa di quelle sue idee, delle sue voglie, addirittura delle sue capacità.

         La strada prosegue a ritagliare a metà un lato dall’altro, quasi due fazioni della stessa cittadinanza nel disputarsi qualcosa che è anche difficile da comprendere. Alcuni vedono un segno preciso in quella divisione evidente, altri sono disposti magari per gioco a contendersi il predominio su quella piazza che si apre là in fondo, come un terreno neutrale, e che non sembra mostrare un’appartenenza precisa. Ci sarà una battaglia, dice qualcuno, è normale che si trovi un nemico verso cui scagliarsi in questa pesante carenza di motivazioni per mandare avanti le cose. Alcuni già si preparano, altri sono da sempre pronti a difendersi, forse perché proprio nella difesa resta il segreto migliore per vivere qui.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Estrema semplicità

Mi piace sapere in partenza se una certa cosa la posso fare oppure no, anche se ovviamente mi rendo conto non sia così facile comprenderlo. Però trovo tutto ancora un po’ più complicato quando si va a sollecitare in qualche modo le opinioni di qualcun altro, perché in genere non collimano mai perfettamente con quelle che io ho messo a punto, magari soltanto per la mia innata abitudine di trascorrere molto tempo - forse anche troppo – in perfetta solitudine, e di non riuscire per mia natura a fare delle scelte che tengono davvero conto degli altri. Così mi limito a girare per strada, ed anche se so già verso dove vorrei andare in alcune serate come questa, in ogni caso mi prendono continuamente dei forti dubbi sul fatto che quanto ho deciso di tentare, per situazioni come quella che ho in mente, sia poi davvero la cosa migliore da farsi. Provo un deciso entusiasmo, ma non vorrei proprio sbagliare, e ritrovarmi magari a sciupare qualcosa rispetto all’ attesa che ho maturato dentro di me, considerato che continuo solo a girare attorno al problema, nella speranza che la soluzione trovata sia davvero quella migliore.

Stasera non ho neppure troppa voglia di farmi vedere in giro da tutti, ed è anche per questo motivo, a parte l'umidità che persiste in queste giornate, che mi sono ficcato questo cappellaccio sopra la testa, immaginando così di essere un po’ meno riconoscibile. Mi piacerebbe forse addirittura zoppicare o caratterizzare la mia camminata in qualche maniera che non è la mia, proprio per lasciare immaginare a chi mi incontra per strada un'altra persona sotto queste vesti, qualcuno che soltanto difficilmente potrei veramente essere io. Ma poi sorrido di tutte queste mie fantasie, e vado avanti con normalità cercando di mantenere la stessa convinzione e la medesima volontà che mi ha portato poco fa ad uscire di casa. 

Non mi va di mettermi troppo vicino al negozio proprio nel momento in cui si sta avvicinando l’ora della chiusura; mi basta rimanere nei dintorni, attendere, piazzarmi in una zona del marciapiede poco lontano che resta scarsamente illuminata dai lampioni già accesi, e lì aspettare il momento maggiormente opportuno per farmi avanti, immaginando poi di lasciarmi riconoscere soltanto accennando un semplice gesto o una parola appena pronunciata. Però potrebbe anche cadere a sproposito questa mia mossa, anche se continuo a ripetermi che qualcosa devo pur fare, e che devo mostrare la mia precisa volontà in qualche maniera. Ci penso ancora un momento, mentre torno indietro lungo la strada: non vorrei che qualcuno già a questo punto mi avesse notato. Così ripercorro ancora una volta il giro completo dell’isolato, sempre tenendo un comportamento da passeggiata solitaria.

Alla fine mi fermo, le vetrine che mi interessano sono ancora illuminate, anche se l’orario di chiusura della merceria è già trascorso, ed adesso Clara dovrebbe venire fuori, non può più tardare molto. Eccola, difatti, però non è sola: c’è una signora con lei, non posso farmi avanti in questo momento, così mi copro come posso sotto al cappello, e voltandomi spero dentro di me di non essere stato riconosciuto. Farò un nuovo tentativo sicuramente domani, o forse tra qualche giorno, penso; ancora non lo so, perché trovare lo stesso coraggio non sarà certo facile. Anche se a me basterebbe soltanto che lei mi dicesse: ciao Tommaso, con estrema semplicità.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Adesso o mai

7 novembre

L'ho visto, l'ho riconosciuto nonostante stesse quasi fermo in una zona male illuminata. Spero che qualche altra volta passi davanti al mio negozio, che si soffermi, mi dica qualcosa, e magari trovi un po’ di tempo anche per me.

8 novembre

Non so neppure dove abita; mi ha detto che studia molto, che non esce quasi mai di casa. Eppure dovremo tornare ad incontrarci ancora, almeno per una fortuita combinazione.

9 novembre

Sono già due volte che allungo la strada quando esco dalla merceria, proprio per transitare nei pressi della piazza dove stazionano sempre i soliti ragazzi. Ma lui non c'era. Già lo sapevo che non li frequentava molto, che non gli piace stare lì con loro a perdere del tempo. Però speravo che aspettasse me, che facesse in modo di incontrarmi, come io vorrei fare con lui.

10 novembre

Eppure devo trovare un sistema per vederlo. Lui eppure sa dove mi trovo durante tutta la giornata lavorativa. Non capisco perché non passi almeno una volta davanti alle vetrine del mio negozio. Uscirei subito per salutarlo, per dirgli qualcosa, fargli un saluto, nient'altro.

11 novembre

Devo togliermelo dalla mente. Mi pare di essermi fissata: continuo a scrutare la strada fuori dai vetri della merceria per vedere se per caso ci fosse il mio Tommaso da qualche parte. Sono forse stata uno sciocca l'altra sera quando l’ho visto poco lontano dal negozio mentre chiudevo. Dovevo andargli incontro, dirgli subito qualcosa, creare una possibilità, piuttosto che attendere tutto questo tempo stupido e inutile.

12 novembre

Stasera, quando uscirò da qui una volta chiuso questo negozio, arriverò a piedi lentamente fino in piazza, sfiorando le panchine davanti al bar Soldini. E’ come l’ultima possibilità che gli concedo. Se non sarà come spero in mezzo a tutti gli altri ragazzi, cercherò d’ora in avanti di non pensare più a lui, di togliermelo dalla mente, e certamente non starò ancora ad aspettarmi di vederlo da un momento all’altro sulla strada davanti alla merceria. Non ci saranno altre occasioni, ho deciso; le cose si concluderanno lì in questa maniera. Magari starà lì, di spalle, chiacchierando con qualcuno, indifferente a tutto, come fosse cosa normale, ed io saluterò in fretta tutti gli altri senza neppure trattenermi molto, fingendo anzi di avere fretta per non lasciare in aria delle cose ancora da definire. Tommaso si offrirà di accompagnarmi, allora, e così ci sarà il tempo di parlare e di darsi un nuovo appuntamento.

         Lo vedo adesso, proprio mentre scrivo su questo mio diario: è qui, davanti alla vetrina; sorride nella mia direzione, aspetta che io chiuda il negozio, e già mi tremano le gambe. Però sono contenta.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Letture divaganti

Domenica scorsa mi sono alzata presto, d’altronde come faccio quasi ogni mattina. Ancora in vestaglia ho girato per la casa silenziosa, ho controllato subito che la caldaia del riscaldamento funzionasse ancora a dovere, che il vento durante la notte non avesse strappato come a volte è successo le protezioni alle piante del mio giardino, che la lavastoviglie azionata la sera prima per caso non avesse fatto dei capricci. In mancanza di un uomo in questa casa mi devo fare carico di tutto, è oltremodo evidente. Poi in fretta mi sono vestita, ho ascoltato qualche notizia usuale alla radio, ed infine, considerato che Clara probabilmente stava ancora dormendo dentro la sua camera, con indosso soltanto una giacca di lana pesante e stringendo le braccia per ripararmi un po’ dal freddo, mi sono spinta fuori per un attimo fino quasi alla staccionata di separazione dei nostri giardini, giusto per dare il buongiorno al mio vicino di casa se magari fosse stato lì. Le cose non vanno più tanto bene con lui, ma non vorrei avere tutta la colpa di  questa battuta di arresto tra di noi; il mio vicino, in due o tre occasioni, pur ridendo per togliere in qualche modo importanza alla faccenda, ha sottolineato un carattere forse troppo brusco di alcune mie espressioni, e proprio per questo ho deciso in questi giorni di stare leggermente più alla larga da lui, anche se ne sono piuttosto dispiaciuta. D'altronde gli uomini si sono spesso comportati così nei miei confronti, e dopo un primo periodo di entusiasmo mi hanno sempre cercato qua e là dei difetti da evidenziare.

         Quando poi sono rientrata in casa, mia figlia stava seduta in solitudine al tavolo della cucina, impegnata nella prima colazione. Ci siamo salutate. Mi sembri contenta, le ho detto, forse per ascoltare che cosa mai potrebbe aver risposto. Lei mi ha guardato, ha riflettuto un momento, e poi: nel pomeriggio esco con un amico, mi ha detto, con estrema semplicità. Sono rimasta perplessa, non era mai stata così diretta con me, tanto da farmi dimenticare per un attimo di chiederle chi fosse quell'amico. Si chiama Tommaso, ha detto lei interpretando velocemente i miei desideri, poi si è alzata, ha sistemato il tavolo e le stoviglie, ed è uscita dalla stanza. Non capisco quando abbia trovato il tempo di farsi delle nuove amicizie, mi chiedo, visto quanto sembra costantemente impegnata nel negozio di merceria di cui sta prendendo la gestione, ma la sua età ormai è quella giusta per portarla a guardarsi bene attorno.

         Fino ad oggi non sono mai stata gelosa di lei; non me ne ha mai data l’occasione, è quasi meglio dire, però adesso sento che nella sua voce e nei suoi atteggiamenti c’è qualcosa che fino a poco fa non si mostrava. Non voglio indagare né farle delle domande, lei sa che non fa parte del mio modo di fare, però tutto questo apre uno scenario che non avevo mai considerato, e che improvvisamente mette in discussione molte cose. Poi è ricomparsa nel soggiorno ben vestita e pettinata: esco per un’ora, mi ha detto facendo tintinnare in mano le chiavi della macchina, ed io le ho risposto, senza dare alcuna importanza alla cosa, che l’avrei attesa per il pranzo. Lei è uscita, ed io improvvisamente ho sentito cadere su di me una solitudine che non avevo quasi mai provato, forse neppure quando se n’è andato mio marito. Infine mi sono seduta: devo riflettere, ho detto a voce alta; poi ho preso un libro e mi sono messa a leggere.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Rientro a casa

Forse ho sbagliato a dire così a mia madre, ho pensato subito dopo averle spiegato praticamente che lei non avrebbe dovuto più entrare nell’organizzazione delle mie giornate. Probabilmente però affiora dentro di me in certe occasioni quel carattere brusco che credo peraltro di aver ereditato proprio da lei, e che mi è sempre parso orribile in chiunque. Ma è stato come un segnale che le ho voluto lanciare, qualcosa che stesse a significare che oramai sono più che adulta, so camminare perfettamente sopra le mie gambe, non ho più tanto bisogno delle sue opinioni sempre un po’ sprezzanti.

Ho guidato per i tre chilometri fino al Borgo, ed ho parcheggiato la macchina lungo la strada principale, dove la metto quasi sempre, proprio di fronte alla merceria, prima di aprire con calma la serranda del mio negozio ed entrare in mezzo a tutti i silenziosi articoli da cucito e abbigliamento. Anche se oggi siamo chiusi al pubblico vorrei riconsiderare con calma le cose da sostituire nell'arredamento interno, e lo voglio fare ponderando bene ogni scelta, senza avere nessuno intorno ad influenzarmi. Ho riabbassato la serranda da dentro, e poi sono rimasta lì, guardandomi attorno e prendendo degli appunti completati da qualche piccolo schema.

Dopo una mezz’ora stavo poi per chiudere e ritornare verso casa, quando ho sentito qualcuno che mi chiamava debolmente dalla strada.  Ho chiuso allora la porta alle mie spalle, ho fatto scattare la serratura con la mia chiave - non si sa mai -, poi mi sono voltata. C’era Renato lì accanto, fermo, con le mani nelle tasche, la faccia di chi non sa proprio cosa farne della sua giornata. L’ho salutato, lui mi ha fatto una domanda su qualcosa di generico, io mi sono guardata velocemente attorno, come per mostrare una fretta che in realtà non avevo affatto. Non ti sei più fatta vedere, ha detto lui. Sono molto indaffarata come vedi, gli ho risposto. Certe volte bastano anche cinque minuti per mantenere dei contatti, ha detto lui in modo secco. L'ho guardato sorridendo, come fosse una risposta, poi con le chiavi in mano mi sono mossa lentamente in direzione della macchina. Lui mi è scivolato accanto come per accompagnarmi lungo quei pochi metri, ed io allora gli ho detto che forse sarei passata dalla piazza durante la settimana entrante. Lui ha annuito mentre io salivo in auto ed infilavo la chiave nel cruscotto.

Poi senza dire più nulla ho avviato il motore dopo aver chiuso lo sportello, e lui è rimasto lì a guardarmi mentre armeggiavo con il cambio quasi senza decidermi a partire. Non sono tranquilla, ho pensato subito, qualcosa sembra andare storto anche se non vorrei. Gli ho fatto un cenno distensivo con la mano, ma forse il mio nervosismo era ormai evidente. Mi sono allontanata pensando che sia Renato che tutti gli altri ragazzi certamente non mi avevano fatto mai niente di male. Forse adesso però li sentivo lontani, come fossero piccoli, mentre io cercavo di essere già donna. E poi però c’era Tommaso nella mia mente, che probabilmente in questo momento era in casa sua a studiare, a costruirsi un futuro, a guardare avanti a sé, non come loro che continuavano a vivere troppo alla giornata. Poi sono rientrata a casa dalla mia mamma, quasi senza esserne però troppo contenta.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Troppo lavoro

Che cos'hai stasera, dice uno dei ragazzi. Niente, fa lui. Forse soltanto un po’di sonno. Si, fa l'altro, tanto lo sappiamo che hai perso la testa dietro alla merciaia. Non dire stupidaggini, dice Renato senza dare troppa importanza alla cosa. Quella è soltanto una cretinetta, non vale neppure la pena di perdere del tempo con una come lei. Ma se ti hanno visto tutti, fa un altro ancora tenendo gli occhi verso la piazza e sorridendo, che girellavi sempre davanti al suo negozio; e magari lei adesso per ringraziamento non ti guarda più neppure in faccia. Questo non è vero, dice lui; casomai ho cercato di farle un favore invitandola a venire qualche volta qui con noi. Mi avrebbe fatto piacere se ci avesse frequentato, se fosse stata un po’ qui a chiacchierare al nostro solito posto di ritrovo. Però lei è sempre troppo impegnata con il suo negozio. Oppure con Tommaso, fa quello di prima.

Nessuno aggiunge niente, Renato si volta verso la strada, come a cercare altri argomenti, uno di loro si alza dalla panchina per annunciare di andare a farsi dare una birra al bar Soldini. Non è il caso di insistere troppo, pensano tutti; si vede che Renato ci sta male. Ma è proprio in quel momento che qualcuno avvista proprio Clara, da sola, che sta camminando dall’altro lato della piazza, mentre si avvicina a loro senza mostrare alcuna fretta. Lei solleva una mano per salutare chi la sta guardando, evidenziando con il gesto un significato che appare con chiarezza, mostrando cioè quanto non stia recandosi propriamente verso di loro, ma soltanto che si trova a passare per casualità proprio da quelle parti. Renato sembra paralizzato, non se la sente di muovere neppure un passo verso la merciaia, anche se vorrebbe. Gli altri lo guardano, in attesa.

Ma nel momento in cui lei sembra proseguire come se nulla fosse verso la sua strada, lui si stacca dal gruppo, le va incontro da un fianco alla stessa velocità in cui si muove Clara, e dopo alcuni passi ne richiama l’attenzione con un semplice saluto a voce bassa. Lei si ferma, gli sorride, scambia con lui qualche parola, muove una mano in un gesto che vorrebbe forse convincerlo anche maggiormente di quello che gli sta dicendo con la voce, cioè che sta recandosi da qualche altra parte, e che ha qualcos’altro da fare che non starsene con lui o con loro in quella piazza. Per questo Renato impercettibilmente abbassa lo sguardo, lascia trascorrere appena un secondo, e quindi la saluta, tanto che anche ad osservarlo non sembra proprio ci sia altro da fare. Naturalmente nessuno tra i ragazzi sopra le panchine ha perso una sola virgola di tutta questa scena, ma quando Renato si volta per tornare verso di loro, nessuno sembra aver dato la minima importanza a quella cosa, ed ognuno immediatamente riprende la propria ordinaria espressione volgendo la testa in direzioni diverse e casuali. Renato adesso non ha più voglia di star lì in quella piazza ad incassare battutine spiritose, però andandosene subito il suo comportamento sarebbe anche troppo sospetto, per questo si costringe a restare ancora un po’, almeno per un'altra decina di minuti, quando poi dice che se ne deve proprio andare verso casa, ha bisogno di riposo spiega: ultimamente forse ho lavorato troppo con mio padre, dice come tra sé.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Senza occhiali

 

         Qualche volta mi ritrovo a camminare sopra ai marciapiedi del mio Borgo, senza pormi davanti neanche una vera e propria meta, semplicemente passeggiando con la testa ingombra come sempre da tutti i miei pensieri, fumando ogni tanto con tutta calma qualche sigaretta, e magari salutando certe volte le persone che più conosco di vista, al momento in cui le incontro lungo la via principale del paese o sulla piazza. Non mi interessa troppo intrattenermi a parlare come qui fanno quasi tutti tra di loro, per me è già sufficiente soffermarmi qualche momento ad un angolo oppure vicino ad un’insegna, magari anche davanti a qualche negozio che mi piace, per esempio, naturalmente senza entrarvi mai a comperare qualche cosa; mi basta accorgermi che gli esercizi funzionano, che sono pieni di gente, e poi rendermi conto che gli abitanti di questa cittadina sono costantemente in giro, e che le cose proseguono come sempre hanno fatto, senza fretta, proseguendo nel loro percorso, giorno dopo giorno.

Ripenso a molte cose durante il mio monotono camminare, ma l'argomento che più mi attira rispetto a tutti gli altri, è il ricordo che trattengo dentro me di questo paese dove mi sono trasferito tanti anni fa, e misurare ancora quelle differenze che si sono accumulate da allora nella sua fisionomia. Molte abitazioni sono andate giù e poi sono state ricostruite, altre invece completamente ristrutturate, e le botteghe che c’erano sono passate spesso di mano modificandosi e trasformandosi completamente. Gli alberi dei giardinetti sono cresciuti, naturalmente, e lungo il viale si è proceduto comunque anche a qualche abbattimento, per evitare guai causati da piante troppo vecchie. Non sono un nostalgico, però ricordo alcune di queste repentine variazioni, e spesso ogni cambiamento mi rammenta qualche cosa o qualcuno per ogni periodo di riferimento. Mi hanno detto qualche tempo addietro che vorrebbero fare una pubblicazione usando le fotografie dei decenni passati, raccolte forse da qualcuno appassionato di cose di questo genere. Ma a me non so se interessa davvero; a me in fondo bastano i ricordi, è sufficiente la memoria fintanto che riesco ad averla.

Certi giorni entro dentro al bar Soldini sulla piazza principale. Anche questo locale è cambiato tante volte, così come sono cambiate le persone che lo gestiscono, e come anche quelle che si sono alternate tante volte nel frequentarlo. Adesso ci sono spesso dei ragazzi che stazionano perennemente qua davanti, e quando fa più freddo entrano dentro al bar e se ne stanno per ore ai tavolini senza fare niente se non bere delle birre e chiacchierare. Ridono, cercano di scherzare, ma alla fine stanno qui soltanto a perdere del tempo. Come me d'altra parte, che continuo a girare qua attorno senza decidermi mai a niente. Non so che cosa mi aspetto da questa cittadina: però è come se avessi di fronte, ogni volta che ne osservo meglio i dettagli, qualcosa che mi appare vivo: quasi un organismo che tende lentamente a modificarsi, ad adattarsi ai tempi ed a quanto va accadendo.

Abito da solo, non ho molto di cui vivere, però mi sento tanto attaccato a questi caseggiati, a queste strade, a questi muri, e forse anche agli abitanti che incontro quasi ogni giorno lungo le vie, anche se mi tengo sempre da loro ad una certa riflettuta distanza. Non è semplice diffidenza la mia, soltanto la ricerca di un parere autonomo, di un’opinione più obiettiva, di un’idea che probabilmente agli altri sfugge, rispetto a quanto probabilmente pensano tutti, scambiandosi i pareri ogni volta che si trovano a parlarne. Non mi sento certo al di sopra di nessuno, soltanto guardo le cose coi miei occhi, e non vorrei mai trovarmi ad indossare degli occhiali che fanno diventare simili le immagini pur nitide e precise che presentano.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Distanza di affetti

Domani dovremo fare per forza degli acquisti, dice nervosamente ma sottovoce la signora Marisa Carraresi; nel frigorifero ormai non c'è quasi più niente da mangiare. La figlia prosegue con indifferenza a sparecchiare la tavola presso la quale le due donne hanno appena finito di cenare, evitando di guardarla e sistemando piatti posate e pentole dentro la lavastoviglie aperta. Va bene, risponde lei senza smettere un attimo di occuparsi in quella sua ordinaria attività: posso passare dal negozio di Cesare, appena chiusa la merceria per la pausa del pranzo, preparami intanto una lista delle cose da acquistare, per favore.

Marisa toglie intanto la tovaglia, la scuote e quindi la piega per riporla dentro uno dei cassetti del mobile, poi rallentando i suoi movimenti mostra una specie d’inquietudine. Forse mi piacerebbe stare più tranquilla, dice quasi dando voce ai suoi pensieri; non perché non ce ne siano i presupposti, quanto perché provo costantemente dentro di me un indefinibile senso di precario, come un bisogno di arrivare da qualche parte che non so neppure io dove sia, né perché dovrei mai andare verso quel luogo. Adesso non so neppure spiegare il motivo per cui ti dico queste cose, prosegue, e forse alla fine sto soltanto invecchiando, come è giusto che sia.

No, dice Clara; queste cose mi paiono al contrario delle riflessioni importanti, che non c’entrano per niente con l’età, qualcosa che evidentemente mette subito in gioco anche il mio ruolo, almeno quello che tu credi dovrei rivestire come compito principale in questa casa e nei tuoi confronti. Probabilmente senti come tuo il processo che ultimamente mi sono accollata, e forse ti sembra che le cose che sto tentando di fare siano addirittura superiori alle mie forze, ed in questo sentirti quasi sicura della mia debolezza, vai indagando dentro di te quali possono essere le componenti del tuo modo di essere che generandomi sei riuscita a trasmettermi, magari anche durante questa frequentazione a volte esasperante tra di noi, da quando papà non c’è più.

Mi dispiace alterare così la tua sensibilità, risponde la signora Carraresi mentre prende la scopa per spazzare il pavimento della cucina. Però le sensazioni vanno sempre oltre ciò che noi si vorrebbe, per cui indipendentemente dalla mia volontà si sta manifestando qualcosa capace di farmi sentire non propriamente tranquilla, tutto qua. In fondo tu ormai sei una donna con un futuro avviato, e con una personalità che probabilmente riuscirebbe a tener testa a molte delle difficoltà che sfortunatamente potresti incontrare, e poi, alla fine, sarà la tua vita a decidere.

Non mi sembra così, dice Clara; conosco il mio lavoro e prendermi adesso delle responsabilità aggiuntive per quanto riguarda il negozio non mi spaventa. Nel tuo preoccuparti invece, c’è qualcosa fondamentalmente di egoistico da parte tua, qualcosa che mostra il bivio di fronte a cui probabilmente ti senti in questo momento: farti carico di una parte dei miei problemi come fossero tuoi, oppure abbandonare completamente il pensiero di me, lasciando che io prosegua nelle mie cose senza interessartene minimamente. Capisco il tuo punto di vista, anche pur definito da un vago malessere, come dici tu, in ogni caso non riesco a capire il motivo per sottrarmi un sostegno di cui adesso sento avrei davvero tutta la necessità.

Non so, risponde la mamma, forse non riesco a sentirmi propriamente dalla tua parte, forse le differenze tra i nostri caratteri hanno segnato un discrimine in tutti questi anni che per me sembra ormai qualcosa di insormontabile. Però non devi mai credere che manchi il mio sostegno a qualsiasi cosa deciderai del tuo futuro. Sono tua mamma, alla fine, e voglio dimostrarti fino a che punto so esserlo, anche se tu forse continuerai come sempre hai fatto nel tenermi a distanza.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Così come dev’essere.

Guardo dalla mia finestra la casa delle Carraresi, proprio di fronte alla mia abitazione, dall'altra parte della strada statale, in questa località da sempre chiamata del platano. Mi sembra tutto così particolare quando immagino cosa accada là dentro; intendo il fatto che loro due, queste due donne, si sono sempre dimostrate persino troppo riservate, serie ed anche oltremodo coscienziose in tutto quello che hanno fatto, quasi incapaci, dico io, di qualsiasi leggerezza, forse persino di reggere la spinta ordinaria della quotidianità senza riuscire costantemente a crucciarsene, ed a fare di ogni sciocchezza un elemento da ponderare, da prendere con estrema quanto inutile serietà. È vero che non le ho mai viste litigare tra di loro, eppure sono ugualmente certo che sia sempre mancato un clima realmente disteso tra quelle stanze. Più che una famiglia la loro, a volte mi è parsa la semplice somma algebrica tra due persone.

Io sono soltanto un pensionato che cura l'orto accanto alla propria casa e che si fa generalmente gli affari propri. Eppure provo un certo dispiacere nel rendermi conto che le cose in quella abitazione sembrano restare identiche da un anno a quello seguente, e che nessuna risata forse è mai riuscita a levarsi davvero tra quelle mura domestiche. La vita per noi gente di paese si mostra già piuttosto severa con le sue giornate noiose e normalmente avare di vere e proprie novità. Ma per loro due, queste due donne dall’immagine di persone così irreprensibili, le cose probabilmente potrebbero andare meglio se soltanto volessero.

Il marito di Marisa in fondo, ancor prima di morire, so per certo che le ha lasciate con un bel gruzzolo in banca, e con diverse proprietà sparse da queste parti, ma loro invece di godersi qualcosa di quei soldi e questi averi, sono sempre rimaste lì a bisticciarsi, con le facce tirate e qualche piccola mania per ciascuna, come portare i sacchetti della nettezza nell'area ecologica ogni giorno alla stessa medesima ora. Oppure farsi vedere sempre separatamente, mai insieme, come se uscire insieme fosse in questa zona qualcosa assolutamente da evitare.

Buongiorno, dico certe volte alla ragazza quando esce di casa nello stesso minuto di ogni giorno per mettere in moto l’auto ed andarsene al negozio dove lavora. Lei mi risponde con cortesia ma senza enfasi, come se già nei minuti precedenti avesse avuto qualche piccolo screzio con sua madre; la sua espressione appare quasi tirata, i gesti nervosi, lo sguardo di chi pondera bene cosa dire e soprattutto che fare, senza sprecare niente nei suoi comportamenti. Più tardi esce sua madre in giardino, guarda i suoi fiori, le piante, controlla l’altezza dell’erba, e pare proprio che di null’altro le importi se non di quei vegetali che in certe stagioni peraltro appaiono quasi inerti.

Ero riuscito a notare, nelle settimane addietro, che lei aveva iniziato a frequentare il vicino di fianco alla sua casa, a parlare con lui, ad andare persino a prendere il caffè a casa sua, e mi sono subito chiesto quanto tempo mai sarebbe trascorso fino ad interrompere tutto quanto. Difatti adesso sembra che neppure si conoscano, proprio come avevo immaginato, e lei è tornata ad ignorare chiunque le si muova attorno, proprio come sempre. Forse sono io che vorrei tutti gli altri magari più spensierati ed allegri, ma in ogni caso un giorno di questi attraverserò questa strada proprio per chiedere alle Carraresi il motivo del loro comportamento, e che cosa le porti ad essere in buona sostanza esattamente così come sono.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Pugno inspiegabile

Lui sta fermo sul marciapiede. Finge di leggere qualcosa che tiene con apparente interesse tra le sue mani, anche se in realtà, non sapendo prendere una decisione, cerca soltanto di perdere tempo e di concentrarsi su come sia meglio comportarsi nei prossimi minuti. Ciao, gli dice un ragazzo che lo conosce da sempre mentre passa sopra al marciapiede di fronte. Lui gli risponde di malavoglia soltanto con un cenno, quasi scacciando da sé quell’incontro casuale, forse anche senza importanza, ma che infine gli fa decidere di non andare per niente davanti al negozio di Clara. Lei non è stata precisa l’ultima volta che loro due si sono visti, e non gli ha dato nessun appuntamento per farsi rivedere, forse immaginando che in qualsiasi momento per lui sia possibile arrivare facilmente fino alla merceria, piazzarsi là davanti, magari poco prima dell’orario di chiusura, ed attendere la sua uscita inevitabile. Ma Tommaso non vuole certo mostrarsi a tutto il paese mentre staziona come un fesso là davanti a quella bottega, quasi non riuscisse più a vivere senza incontrarsi con quella ragazza, come se non fosse capace di gestire le cose in un’altra maniera, come una stupida forzatura, quasi un obbligo quell’aspettarla all’uscita, che peraltro non lascia alcuna libertà di scelta neanche per lei, ed è per questo che se anche gironzola per le strade pensando solo a Clara, cerca di evitare il passaggio da quelle parti.

Perciò svolta per le vie minori che circondano tutto quel quartiere centrale, osserva attentamente ogni cosa che incontra nel suo camminare, riflette cercando di ponderare al meglio tutti i dettagli che devono essere presi in considerazione, ed alla fine, proprio all’angolo con la strada principale del centro abitato, avvista parcheggiata proprio la macchina di Clara. Non è sicurissimo che sia proprio la sua, però gli sembra impossibile che possa essercene una così uguale a quella che lui già conosce, così strappa velocemente un foglietto tra quelle quasi inutili carte che tiene regolarmente dentro le tasche, e scrive un saluto indirizzato a lei con una matita, lasciando il messaggio piegato sotto ad un tergicristallo. Poi se ne va, anche se gli pare di non aver completato perfettamente l’opera come vorrebbe: domani sarà la medesima cosa riflette, mi dovrò inventare ancora qualcosa; così dopo pochi passi torna subito indietro, riprende lo stesso foglietto e scrive sul retro che il giorno seguente l’aspetterà proprio a quell’angolo, lì dove adesso staziona l’automobile, perché deve dirle qualcosa di estremamente importante.

Non c’è qualcosa di così fondamentale da dirle ad essere sinceri, però nello spazio temporale di un’intera giornata qualcosa si farà pur venire alla mente. Quindi se ne va verso la piazza: può fermarsi dai soliti ragazzi a fare due chiacchiere, bere una birra con calma, ed infine rincasare senza problemi. Ma quando arriva proprio nei pressi delle panchine dove tutti stanno seduti, si accorge che c’è Renato che gli sta andando incontro con passo minaccioso. Gli si para davanti, lo guarda, e senza neppure aprire la bocca per dirgli qualcosa, gli sferra un pugno in piena faccia, facendolo cadere a terra indolenzito e con un rivolo di sangue sopra le labbra. Tommaso incredulo si rialza con calma, gli altri lo guardano senza aiutarlo, quindi si asciuga lentamente la bocca con il suo fazzoletto; poi se ne va, senza trovarci niente da dire.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Sbagli evidenti

Buongiorno signora Marisa, fa Remo alzando appena sufficientemente la voce, giusto quello che serve per farsi sentire. Lui si è sempre riferito a questa donna mantenendo una certa distanza, anche se la conosce da sempre, d’altronde lei non ha mai fatto un bel niente per concedere al suo vicino una maggiore confidenza. Forse gradisce un cesto di lattuga che ho appena colto, le chiede. La signora Carraresi si muove leggermente mostrando oltre la siepe del suo giardinetto soltanto la parte superiore del corpo. Ha come al solito un'espressione piuttosto seria, quella di chi sta forse riflettendo intorno a delle cose lontane, chissà, trattenendo nella mente magari alcuni pensieri remoti, però all’improvviso sembra tornare velocemente al presente, e guarda l’uomo per un solo attimo ma con una certa attenzione, quasi fissandolo, per poi sorridergli leggermente, con una vaga spontaneità, ed al contrario di quanto ci si potesse aspettare, alla fine allunga verso di lui un cenno decisamente affermativo, con il suo capo fasciato, così come è solita addobbarsi, con un grande fazzoletto a colori.

Remo allora apre il cancelletto della sua proprietà, e con le mani ingombre da una cesta colma di diverse verdure, attraversa la polverosa strada statale in quel momento deserta nella località del Platano, osservando bene se non stiano sopraggiungendo proprio in quel momento delle automobili. Marisa apre a sua volta il cancello del suo giardino, allarga maggiormente il sorriso al vicino che sta raggiungendola, accoglie con le mani i prodotti dell’orto che lui le sta offrendo, e poi, mentre lo ringrazia con un complimento di poche parole, lascia che Remo le dica a sua volta qualcosa, come una specie di confidenza: sono preoccupato, le fa lui adombrando per un attimo la propria espressione; ho visto sua figlia correre, qualche giorno addietro, poco prima di sera, come se le stesse per accadere qualcosa. E con lei c’era un ragazzo, uno forse della sua stessa età, che le diceva qualcosa mentre andavano da qualche parte, di fretta, in mezzo al paese, come se non avessero proprio più tempo per ponderare meglio le cose.

Niente, fa subito la signora Marisa; sono soltanto delle sciocchezze di due ragazzi, niente che abbia una minima importanza. Non si deve affatto preoccupare, continua, va tutto bene adesso che Clara ha acquisito il negozio di merceria della signora Martini. Bene, fa Remo, allora complimenti per la carriera che sta facendo la sua ragazza: così fa felice la mamma, immagino; d’altra parte la signora Martini era ormai troppo anziana per occuparsi ancora di un negozio che sembra sempre pieno di tanti clienti. Questo è vero, fa lei, gli affari sembrano andare piuttosto bene. Così lui si volta su un fianco, guarda per un momento la strada, riflette, poi saluta inchinando anche la testa mentre sorride alla signora Carraresi, quindi torna rapidamente sul suo cammino, raggiungendo il cancelletto rimasto aperto e richiudendolo con cura alle sue spalle. Marisa invece rientra nella sua casa senza tentennamenti, appoggia sul tavolo di cucina i prodotti dell’orto, poi si siede nervosamente, in preda ad una certa agitazione della quale conosce bene il motivo. Non le piace che Clara sia sulla bocca di qualche conoscente qualsiasi, tutto qua; anche se in fondo sembra proprio che poco per volta stia giungendo anche per lei il tempo in cui fare delle inevitabili scelte; nonostante, a suo modo di vedere, siano quasi del tutto sbagliate.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Problema perfetto

 

         Anche riflettendoci sopra con molta particolare attenzione, lei si sente praticamente sicura del fatto che fin da quando era piccola non abbia mai avuto una vera e propria amicizia femminile. Certo, nel suo percorso ci sono state delle compagne di scuola, naturalmente anche di giochi, e poi alcune vicine di casa, persino una simpatica compagna di banco degli ultimi anni, fino agli esami di maturità; ma nemmeno una di queste è stata tale da definirsi, a suo parere, una vera e propria amica intima. Niente e nessuna a cui sentirsi particolarmente vicina. Forse lei non si è mai concessa abbastanza, pensa adesso; magari il suo carattere è apparso sempre un po’ troppo duro o scostante a tutte le ragazze che ha conosciuto fino ad oggi in tutti questi anni; però, in ogni caso, se deve essere del tutto sincera, lei non ha mai avvertito l’assenza bruciante di una vera amica del cuore, perciò si può anche sostenere che non l'abbia mai veramente desiderata.

Forse, nella sua infanzia non precisamente spensierata, c'era semplicemente sua madre onnipresente come figura femminile, pronta a riempire eventuali vuoti che si potessero manifestare durante la sua crescita ed in tutto quel lungo periodo della vita; però è anche vero che la presenza di uno spiccato senso critico sostanzialmente innato dentro di lei, non le ha mai permesso di accettare pienamente nelle sue giornate una sua semplice coetanea. Anche con i maschi peraltro non è certo andata meglio: troppo giocherelloni, secondo il suo parere, con la testa perennemente in aria, incapaci di quella serietà che lei al contrario ha sempre cercato in se stessa e anche attorno alla sua persona, inadatti forse a piegarsi verso una logica di impegno e di attenzione maggiori nei confronti della realtà; incapaci di essere davvero affidabili, riservati, composti.

Soltanto adesso sembra quasi mancarle qualcosa di quella leggerezza che pur inconsciamente non ha mai voluto prendere realmente in esame, ed il rendersi conto all’improvviso di una carenza del genere dentro di sé, non sembra comunque procurarle molto di più che qualche piccolo superabile problema. Si riconosce incapace di sentirsi come le altre, e forse non vuole neppure cercare di esserlo; si guarda attorno certe volte cercando dei riferimenti che difficilmente ha preso davvero in esame. Perciò qualche volta si sente inadatta a stare con gli altri, ed anche se cerca di addomesticare il più possibile la propria personalità, alla fine non è quasi capace di mostrare un comportamento naturale e spontaneo. Sto scoprendo qualcosa per la prima volta, dice stasera a Tommaso mentre lui sembra prendersi cura con attenzione della sua incapacità di lasciarsi un po’ andare. Non sono mai stata così poco razionale, dice ancora, ma forse ho perso qualcosa.

Lui la guarda a lungo mentre lasciano scorrere il tempo nella sua macchina immobile. Vorrei recuperare qualcosa di quello che ho lasciato per strada, dice Clara in un soffio, senza quasi riferirsi esattamente a lui, ma quasi parlando a se stessa. Tommaso la guarda, pesa con attenzione le parole che gli vengono a mente, ritiene che tutto si stia complicando al punto da sfuggirgli quasi di mano, però vuole stare ancora a quel gioco, ritiene che non ci sia niente di così importante quanto porsi degli obiettivi attuabili, e lui in questo momento è sicuro di non sentirsi a posto da solo. Lo dice in fretta, come in risposta a quanto ha appena ascoltato, ma lei risponde che in questo periodo non è più sicura di niente, le pare che il suo apparente equilibrio si stia rapidamente perdendo, anche se è dentro di lei che tutto deve essere risistemato, e che forse non avrebbe alcuna importanza confessargli in questo momento di volergli davvero bene, senza prima aver considerato tutti gli aspetti che una frase del genere comporta. Tommaso annuisce, anche se non è del tutto sicuro di aver compreso perfettamente il problema.  

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Conseguenze lampanti

Certe giornate sono infinite. Affronto le cose come sempre ho fatto in questi ultimi tre anni, ma qualche volta nonostante tenti di comportarmi secondo le più ordinarie consuetudini, tutto questo non sembra bastare. Fingo che le cose vadano sempre per il meglio, specialmente quando intravedo i soliti clienti che vengono allo studio, e forse dal punto di vista lavorativo non devo registrare neppure qualcosa di importante che in questo periodo si sia messo effettivamente di traverso. Ma la giornata di ciascuno di noi tra questi uffici, io penso non sia composta dalle sole mansioni occupazionali che vengono comunque portate avanti: ci sono certamente mille pensieri che aleggiano nell’aria e che pretendono il loro spazio, e poi ci sono altrettante preoccupazioni più o meno importanti che spesso tolgono in qualche caso anche il respiro, soltanto a pensarle.

Forse non nutro sufficiente interesse per il mio lavoro, questo è il mio pensiero segreto; magari non esattamente come qualcuno tra gli altri ragazzi pieni di entusiasmo con i quali portiamo avanti le cose in questa grande stanza ingombra di vecchie scrivanie, però niente di quello che faccio lo lascio mai del tutto al caso: rifletto, preparo gli incartamenti, affronto ogni aspetto che mi si pone davanti con ampia e sufficiente serietà, almeno secondo il mio parere. Qualche volta ho anche pensato che non era proprio la mia aspirazione questo occuparmi dei vari conteggi delle piccole società artigianali che sono presenti in questo nostro diffuso territorio, però penso che qualcuno deve pur farlo, ed in fondo io non ho mai manifestato interessi diversi dopo aver preso il diploma di ragioneria, e forse non l’ho mai fatto neppure prima.

Ho avuto la fortuna di poter entrare in periodo di prova, tramite le amicizie di mio padre, in questo studio dove si mette a punto la consulenza del lavoro, le buste paga per le organizzazioni che hanno dei dipendenti, e gli aspetti più commerciali riguardanti le dichiarazioni dei redditi e tutte le altre cose di questo genere che affliggono piccole ditte, società agricole, negozi e professionisti. Nessuno però mi ha mai spiegato a muso duro che non ero adatto per questo mestiere, tanto che il mio datore di lavoro al contrario si è mostrato piuttosto contento di assumermi come apprendista.

Di fatto non mi lamento, ho sempre qualche soldo dentro le tasche, però ogni giorno non vedo l’ora di uscire da questi uffici e raggiungere gli altri ragazzi sulle panchine disseminate in mezzo alla piazza, scrollarmi di dosso questi obblighi assurdi, e sentirmi finalmente libero, almeno per un’ora, ed assaporare una birra insieme a loro, parlare con tutti delle cose che mi interessano di più, che poi non so neppure io quali possono essere, tanto a me basta che siano totalmente diverse da queste odiose scartoffie. Poi c'è questo passaggio di proprietà del negozio della signora Martini, e la società che sembra formarsi è a favore di una ragazza che conosco di vista, un tipo a posto, forse un po’ riservata, ma che sembra portare avanti bene le cose in quella bottega, tanto che tutti sembra ne parlino in termini positivi, come la persona giusta per quel lavoro, quella che proprio ci voleva.

A me fa piacere, ho visto le carte sopra la mia scrivania, domani sono sicuro dovrò occuparmene, e magari indicare le documentazioni che mancano per mandare avanti la pratica. Con poco potrei complicare le cose, se solo volessi, basterebbe far sparire un foglio o una firma. Non farò niente del genere, è chiaro; ma un giorno di questi dovrò pur comportarmi in maniera stravagante, uscire almeno per un attimo da questa monotonia che non lascia respiro. Mi sento già pronto perfino ad affrontarne tutte le conseguenze.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Intenti insani

 

         4 dicembre

Sono sospesa. Il lavoro va bene, che c’entra, ho delle buone idee da mettere in campo nei prossimi mesi, ma tutto questo è soltanto la metà dei miei pensieri.

5 dicembre

Vorrei che qualcuno mi indicasse la via migliore per non avvertire costantemente dentro di me questa ansia. Mi sembra di vivere un incubo in cui sentirmi obbligata a muovere il corpo senza toccare assolutamente nessuno, come se tutti gli altri fossero portatori di infezioni fulminanti. Forse ho soltanto bisogno di mettere a punto la mia strategia, e non voglio in nessun modo essere condizionata da chi mi sta attorno.

6 dicembre

Stasera mi sono vista di nuovo con Tommaso. Mi piace stare con lui, sentirlo parlare dei propri studi e dipanare le sue opinioni che mostrano lo spirito curioso da cui è animato. Mi piacerebbe fare qualcosa insieme a Tommaso, andare da qualche parte, forse impegnarmi in un piccolo progetto: magari sperimentare una novità per ambedue, andare da qualche parte, vedere degli spettacoli, qualcosa forse di poco ordinario, in modo da poter scambiare in seguito i propri rispettivi pareri. Non succederà niente di tutto questo, almeno per ora, ne sono certa; però tutto in seguito potrebbe essere possibile; chissà, tanto vale rincorrere dei sogni.

7 dicembre

Mia madre mi ha spiegato con molta calma che non va bene secondo lei che io tiri tardi ogni sera una volta chiuso il negozio di merceria. Qualcuno mi ha visto, ha subito aggiunto. Eri con un ragazzo, ed anche se oramai sei grande, le tue sembrano soltanto delle sciocchezze da ragazzina. Non le ho risposto neppure, non mi va certo di essere trattata in termini puerili. Forse per troppi anni mi sono assopita su un comportamento monotono e privo di qualsiasi novità. Perciò devo cambiare, i tempi sono ormai più che maturi, ed indipendentemente da Tommaso devo trovare la maniera per essere più autonoma, e smettere di occuparmi soltanto delle cose che in qualche modo fanno piacere a mia madre.

8 dicembre

Nonostante sia festa oggi ho trascorso interamente la giornata dentro casa. Non ho quasi rivolto la parola a mia madre, escluso le frasi ordinarie; non mi va di parlarle, mi piace che si renda conto di quanto io sia rapita da tutti i miei pensieri. Ad un tratto durante il pomeriggio ho avuto voglia di uscire, prendere la macchina e farmi un giro senza meta, magari passando dal centro del paese. Avrei potuto incontrare Tommaso, riflettevo, ma la delusione di non vederlo da nessuna parte sarebbe stata troppo forte, perciò ho rinunciato del tutto.

9 dicembre

La giornata di oggi è scivolata via come sempre dentro al negozio, senza novità. So dove abita Tommaso, ho trovato l’indirizzo sull’elenco telefonico, e passando da lì con indifferenza ho visto piazzata fuori dalla sua casa la bicicletta che usa sempre per girare nel paese. Potrei mettere un biglietto piccolissimo da qualche parte in quel manubrio, così che lui possa trovarlo, ben ripiegato, ma senza che faccia troppa mostra di sé a tutti i curiosi che affollano questo centro abitato. Ma non saprei proprio che scriverci, non ho le parole che piazzate sopra un foglietto spieghino in maniera adeguata me stessa, perciò non farò niente neppure di questo, anche se uno di questi giorni se non accade nulla ho deciso che scaraventerò in terra quella stupida bicicletta; così, senza motivo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Sfida triste

I ragazzi ne hanno discusso a lungo. Nei loro pareri sembravano quasi tutti divisi su due fronti, ma appena qualcuno ha iniziato a sbuffare mostrando una certa insofferenza, l'argomento è velocemente decaduto, lasciando ognuno ad esercitarsi sulle solite battute di sempre trangugiando qualche bottiglia di birra pagata sempre dagli stessi. Nei momenti iniziali alcuni c'erano rimasti male, non sembrava proprio che quella ragazza fosse un motivo plausibile per prendersela tanto. In ogni caso l'amico di sempre per tutti era Renato, non certo quel cervellone tutto studio che non si sapeva neppure cosa ci venisse a fare alle panchine insieme a loro.

Renato si è invaghito troppo di quella merciaia, avevano detto immediatamente; lei non vale quasi niente, lavora tutto il giorno in quella bottega per vecchi, non può minimamente sapere cosa ci gira in mente a noi che abbiamo il polso della situazione tutti i giorni, stazionando in questa piazza, al centro delle cose. Poi avevano smesso, perché era chiaro come Renato si fosse sentito forte dell'appoggio morale dei suoi amici, e forse anche per loro aveva voluto affrontare la questione proprio in quel modo. Aveva agito d’istinto, è vero, però quel gesto era stata una soddisfazione che certo si voleva togliere da tempo. Tommaso probabilmente non si sarebbe fatto più vedere davanti al bar Soldini, la faccenda si poteva dichiarare praticamente chiusa, anche se probabilmente neppure Clara sarebbe facilmente tornata nella piazza.

Invece no, giusto qualche giorno dopo, eccola con Tommaso che entra con indifferenza dentro al bar Soldini. Nessuno dei ragazzi naturalmente si azzarda a dire niente, e Renato volta subito le spalle alla scena per non dare importanza a quanto sta avvenendo. Qualcuno dei ragazzi fa presente la cosa, quasi per stuzzicare una reazione, ma Renato sembra di pietra, non si muove, guarda a terra, sembra non voler fare proprio niente, neanche pensare. Non ci sono molti argomenti da affrontare sopra quelle panchine del giardinetto in mezzo alla piazza, così ognuno cerca di immaginare dentro se stesso quale possa essere il proseguo per Renato di tutta la faccenda. Dopo un po’ i due escono dal bar, Tommaso lancia un lieve cenno di saluto verso i ragazzi, come a mostrare di non coltivare alcun risentimento, mentre Renato resta bloccato nella medesima posizione, anche se poi tutto sfuma lentamente.

La cosa ha preso una brutta piega, dice uno dei ragazzi. A me non frega niente, sbotta un altro. Renato cerca di mettere a punto un atteggiamento di strafottente indifferenza, ma si vede che è nervoso, che non si sente a posto. Infine, dopo una certa riflessione, riesce a dire soltanto: non vale niente quella stupida, quasi bisbigliando dentro se stesso, ma lasciando comprendere a tutti gli altri che per lui oramai si è conclusa completamente la vicenda, non ci sarà più alcun seguito, proprio perché l’oggetto del contendere tra lui e quel Tommaso ha perso talmente tanto senso, da non suscitare in lui neanche una briciola di ulteriore volontà nello sfidarlo ancora. Gli altri lo guardano, nessuno dice nulla, forse nessuno trova niente da ridire, poi uno si alza con indifferenza, per andare a prendersi soltanto un'altra birra.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Fantasie difformi

Lei osserva attentamente un angolo della parete che ha di fronte. Pare assurdo che questo forte senso di solitudine si faccia sentire proprio adesso, quando sembra non abbia più alcun significato. Il silenzio però è come una coltre densa certe volte, che pare avvolgere in un bozzolo tutta la casa; come il freddo di queste sere invernali, ad esempio, insieme al buio profondo all’intorno, che quasi gli impedisce di manifestarsi degnamente a quei tre o quattro lampioni là di fuori, sul bordo della strada, in questa località probabilmente anche troppo isolata. Passa un'automobile ogni tanto, a ricordare un’esistenza reale là intorno, con un percorso indiscutibile che ha un inizio ed anche una fine, di un viaggiatore che forse nota vagamente, anche se per un solo attimo, quelle case senz’altro abitate da qualcuno, al di fuori dal suo parabrezza - da dentro le finestre s’avverte leggermente il rombo di ogni vettura quasi in ogni stanza -, ma poi basta, tutto passa, rapidamente: un semplice momento, ed è già tutto finito. La campagna aperta ed anche i boschi fitti poco lontano sembrano quasi incombere, come sempre hanno fatto peraltro, anche se adesso sembrano più immobili, cristallizzati ed innocui dentro la notte, come una vecchia fotografia rimasta in un cassetto fino a diventare un qualsiasi oggetto inutile.

Posso alzarmi da questa sedia, pensa lei senza convinzione. Posso trovare qualcosa di cui occuparmi per riempire questa lunga pausa, come ogni volta, perdendomi con facilità in piccole operazioni di manutenzione delle cose, oppure in grandi progetti che perdono di senso e di importanza soltanto con il tempo, che riesce a neutralizzarli lentamente ma con facilità, rendendo tutto quasi indolore. Posso leggere un libro, magari, e perdermi rapidamente nella fantasia di qualcun altro, respirando vicende e descrizioni che forse non sono esattamente quelle mie, ma in parte probabilmente le assomigliano, o che potrebbero addirittura essere state inventate da qualcuno dal pensiero vivace come il mio, e che magari mi è vicino, in qualche modo, che quando sogna, forse, ecco che fa i miei stessi sogni, ripercorrendoli come un sentiero già tracciato. Odio gli altri, a volte, questa è la verità; o almeno tutti coloro nei confronti dei quali posso scagliarmi facilmente con il mio spirito ipercritico, quelli che sento estranei, diversi, lontani, quelli dei quali non conosco niente, e che forse proprio per questo mi fanno paura, rendendo il mio pensiero instabile, senza le sue basi solide. 

Non ho mai sofferto di solitudine, deve esserci un’altra spiegazione. Mia figlia è fuori, rientrerà più tardi, forse sono preoccupata per lei, ed è tutto qua. Oppure, all’improvviso, sento che qualcosa si sta modificando, ed io ho paura delle variazioni, non vorrei dover affrontare qualcosa a cui non sono preparata. Ma come prepararmi, come tentare di accogliere ciò che forse è già dietro quell’angolo, senza sapere prima cosa sia. Meglio guardare ancora questa parete bianca, immaginarla senza spigoli, senza asperità, e disegnarci sopra qualcuna delle mie fantasie, per poi pensare ancora che tutto sarà sempre così, invariabilmente.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Domani, forse.

 

Dopo la mezzanotte in piazza non rimane generalmente più nessuno, almeno durante le giornate invernali maggiormente fredde. Quelli che hanno stazionato qui anche stasera hanno lasciato soltanto qualche carta in giro, ed una bottiglia rovesciata sopra al marciapiede, perciò queste panchine adesso appaiono vuote, mentre il bar Soldini di fronte ormai ha tirato giù le sue serrande. Soltanto due ragazzi con le mani nelle tasche sembra abbiano ancora voglia di tirare tardi, e gironzolano senza meta lungo la strada parlando tra loro a bassa voce.

Non so cosa pensare, dice uno; a volte le cose sono così complicate che la soluzione migliore sembra proprio quella di non prendere alcuna decisione. Con i miei non riesco più neanche a parlare, c’è una distanza siderale tra di noi, e d’altra parte qui in paese non si trova neanche uno straccio di lavoro. Perciò vorrei andarmene, prendere tutto e trasferirmi in città, per poi mettermi lì a fare qualsiasi cosa possa capitare, anche il manovale o il lavapiatti se necessario, mi basterebbe giusto qualcosa per tirare avanti, magari trovare una stanza d’affitto e poi guardarmi attorno. Però, così da solo, mi risulta un po’ difficile.

L’altro lo guarda un attimo, annuisce. Poi dice che lui avrebbe in mente qualcosa di diverso: vorrebbe iniziare a lavorare con il suo fratello più grande che fa l’idraulico, imparare il suo mestiere e poi, poco per volta, mettere su un’attività per conto proprio. Il problema è che mio fratello almeno fino a questo momento mi tratta con superiorità, e non mi ha preso mai troppo sul serio, e poi dice che almeno in questi quattro o cinque centri abitati qua d’attorno sono già fin troppi gli idraulici in circolazione, probabilmente non ci sarebbe del lavoro sufficiente anche per un altro. Per questo attendo, fa ancora il ragazzo: aspetto con pazienza che qualcosa succeda.

Forse l’unica cosa da fare è proprio quella di aspettare, fa annuendo con la testa il primo: qualcosa prima o dopo dovrà pur accadere, preoccuparsi troppo, avanti che il tempo sia maturo, non mi pare neppure una buona idea. Sarà, fa l’altro, però anche strascicarsi tutti i giorni così, senza uno scopo, a me è venuto piuttosto a noia: vorrei impegnarmi almeno in qualcosa, mettere a punto una strategia per tirarmi fuori da questa pausa infinita.

Potremmo fare i ladri, dice subito l’altro tanto per ridere: mettere a punto un bel colpo magari in una banca di uno dei paesi qui vicino per non farci riconoscere, e poi mettersi fermi per un po’, magari utilizzare la grana per impiantare con calma qualcosa e sistemarci. Magari fossimo capaci di una cosa di quel genere, fa l’altro; il fatto è che mi sembra troppo complicato perfino mettere a punto un piano che mostri un suo senso compiuto.

Bé, allora non ci resta proprio altro che star qui a guardare, farci quattro chiacchiere ogni sera con tutti gli altri ragazzi, fingere di essere soddisfatti di quello che già abbiamo, e poi buttare giù qualche birra fresca fintanto che i nostri genitori ci passano ancora qualche soldo. No, vorrei un’occasione, niente di più, una semplice possibilità almeno per darmi un’occhiata attorno, tirarmi fuori da questo posto così vuoto di tutto. D’accordo, fa l’altro, qualcosa prima o poi capiterà; per adesso andiamocene a dormire, come sempre, domani poi vedremo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Nulla di me

 

         Sono confuso ed anche indolenzito, però mi guardo attorno e mi rialzo, seppure con un’estrema lentezza, dopo essere caduto a terra in malo modo, quasi scivolando ma solo per la semplice sorpresa che ho provato, dopo aver perso il contatto con la pavimentazione della piazza, nella ricerca strenua, contemporaneamente, di comprendere che cosa fosse successo per davvero, e soprattutto perché non fossi riuscito ad immaginare, almeno un attimo prima che proprio succedesse, quello che stava sul serio per accadermi, senza alcun preavviso. Lui mi guarda truce, con la stessa espressione di estrema cattiveria che aveva ancora sulla faccia appena un attimo prima, ma a me pare ancora inverosimile che abbia potuto colpirmi così, senza essere stato neppure provocato. Mi sembra tutto assurdo, penso che ricorrere alle mani sia qualcosa assolutamente di ridicolo per chiunque tenti di affidare a questo sciatto comportamento l’unico sistema per rimediare alla propria deficienza di parole per spiegarsi e farsi comprendere. Questo forse gli vorrei dire adesso a voce alta, mostrandogli l’errore, l’insensatezza, la stupidità, però riflessivamente evito di farlo, come per un senso di sopportazione ed anche di tolleranza per quanto già accaduto.

         Lui, dopo un momento, ancora un po’ rigido nelle sue movenze di persona che agisce solamente d’istinto, con ogni evidenza preferisce allontanarsi, come per non avere più niente a che fare con un essere che neppure si ribella ad un comportamento scellerato come il suo, che non replica un bel niente, non accetta neanche di scendere sullo stesso medesimo livello, e forse per questo non merita neppure alcuna azione reiterata. Lo guardo, ma pur osservandolo in ogni suo dettaglio, lo fisso senza trovare in lui un interesse vero. In fondo ho capito perfettamente il messaggio che ha voluto porre in questo modo strambo alla mia attenzione. Tutto così mi pare ancora più ridicolo, ed adesso che ci penso meglio, perfino parlargli mi parrebbe fuor di luogo. Sanguino dal labbro, è il minimo che possa essermi accaduto, così sputo a terra un bolo semplice di schiuma rossa, come a mostrare il succo della mia sofferenza che ingloba in sé anche la sopportazione che tento di mostrare per il suo comportamento stupido, erroneo, privo del senso che generalmente si cerca dalle cose, e che io cerco negli altri soprattutto.

         I ragazzi poco lontani immagino ci guardino ed abbiano già preso posizione entro se stessi, in genere si sta sempre col più forte in questi casi, anche se adesso non mi interessa per niente il loro inutile pensiero, ed io non appaio certo quello che ne esce meglio da questa situazione, anche se mi sento comunque superiore, non fosse altro per essere riuscito almeno in qualche modo a conservare la mia calma, a non aver accettato una sfida da ragazzi sciocchi e senza stile, comportamento che reputo non mi appartenga affatto. Mi rialzo e resto lì, sopra i miei piedi, nell’attesa che sia lui a togliersi di torno, o che comunque dimostri che il suo modo di pensare è di fatto definito soltanto dall’uso delle mani, e da nient’altro. Poi avverto qualcosa di grottesco in tutta la faccenda, così mi volto da una parte, mi asciugo con un fazzoletto, e senza dire niente vado con calma ad infilarmi dentro al bar Soldini, giusto per bere un goccio d’acqua ed andare in bagno a controllare nello specchio cosa sia successo alla mia faccia. Quando torno ad uscire sono tutti ancora lì, nessuno dice niente, ed a me viene persino da sorridere, non per un moto di sfida, quanto per il senso di patetico di tutta la faccenda. Poi me ne vado, non ho niente da fare in quei paraggi.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Uomo centrico

L'uomo guarda la strada. Nel caffè dove si trova ci sono rimasti ormai pochi individui, qualcuno di loro gioca a carte, altri si limitano ad osservare il gioco che si svolge sopra ai tavolini, e nessuno sembra interessarsi a qualcosa di diverso, a parte lui. Sulla piazza, fuori dai vetri del locale, ci sono adesso i soliti ragazzi di ogni giorno: parlano, ridono, si fanno cenni in genere comprensibili solamente a loro, e dei quali paiono snodare continuamente un grande campionario.

L'uomo lì osserva, forse tenta di decifrare senza impegno qualcuno di quei loro messaggi, anche se a tratti sembra poco attento a quanto va avanti sulla piazza. Poi accade qualcosa: un tizio si stacca dal gruppo e si avvicina lentamente ad un altro che se ne sta da solo, e in un attimo gli sferra un pugno in pieno viso, tanto da farlo cadere a terra. Resta fermo qualche momento, come a controllare che il lavoro sia stato eseguito bene, quindi lentamente torna sui suoi passi.

L'uomo sul momento vorrebbe quasi intervenire, ma in fondo sono cose che non lo riguardano, così resta immobile dentro al bar, nella stessa posizione di prima. Il ragazzo caduto a terra peraltro si rialza poco dopo, nessuno sembra dire niente, le cose paiono proseguire come se nulla di rilevante fosse accaduto. Il ragazzo che le ha prese si guarda attorno, ma non sembra neppure troppo contrariato, forse si aspettava già un atteggiamento violento di quel genere, probabilmente c’era qualcosa rimasto insoluto da tempo tra quei due.

L’uomo immagina che certe scaramucce magari siano all’ordine del giorno tra quei giovanotti che se ne stanno tutto il giorno a bighellonare sopra alle panchine; forse non hanno niente di cui occuparsi veramente, e quindi ogni tanto la loro noia sfocia in qualcosa che non ha nulla di razionale, qualcosa che permette loro di sfogare con pochi mezzi tutto il proprio rancore represso. Il ragazzo si tocca la faccia, gli altri lo guardano senza dire nulla, poi lui entra dentro il bar, si fa servire dal cameriere qualcosa da bere, e poi chiede del bagno, probabilmente per controllare meglio quanto sia successo o meno sopra al suo viso.

L’uomo aspetta che accada qualcosa, forse si attende una reazione, ma dopo poco il ragazzo ritorna, beve al bancone la sua ordinazione, si guarda attorno e sembra proprio non abbia maturato alcun rancore in quei pochi minuti. Poi se ne va, uscendo dal locale con molta calma e senza dare alcuna soddisfazione al gruppo dei ragazzi che sono rimasti là di fronte, sopra le panchine, quasi immobili, lasciando che quello che ha sferrato il pugno prosegua a darsi forza del proprio stare immerso in quella compagnia.

L’uomo forse vorrebbe aver detto qualcosa al ragazzo che le ha prese, ma probabilmente il suo intervento sarebbe stato preso soltanto per una sciocca curiosità, così alla fine gli pare che tutto vada bene in questo modo: non ci sono ragioni importanti che spingono l’uno contro l’altro, sembra pensare; anzi, spesso sono soltanto dei pretesti quelli che fanno montare la rabbia nella testa di qualche facinoroso. Lui se ne frega, questo è il punto: non c’è niente di fondamentale in ciò che avviene, tanto vale reputare ininfluente qualsiasi cosa non riguardi direttamente ciascuno di noi. Così possiamo proseguire senza indugio nei nostri compiti, pensa, scansando gli altri quando questi sembrano mostrare troppo interesse anche per delle emerite sciocchezze.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Focaccia salata

 

         Io abito assieme ai miei genitori in via Boito. In genere non esco molto di casa, mi piace rimanere nel mio angolo a sistemare con calma tutti i miei pensieri. Però al mattino sto sempre nel negozio di mio padre, che fa il fornaio, e che a seconda dei giorni della settimana lavora nel laboratorio per quasi tutta la notte, ed in parte anche al mattino, in negozio con me. Al pomeriggio invece lascio il banco delle vendite alla mia mamma, e così io posso fare ciò che più mi piace. Normalmente resto in casa in pratica da solo, rispettando il silenzio doveroso verso mio padre che si concede il dovuto riposo nella sua camera da letto, e soltanto verso le cinque generalmente esco in punta di piedi per raggiungere i miei amici nella vicina piazza del monumento. Poi resto lì seduto con gli altri, e ascolto le minute novità che vengono snocciolate dai ragazzi, oppure mi diverto ad ascoltare gli immancabili scambi di battute tra di loro. Tutti sulle panchine mi giudicano un timido, ma a me non interessa molto quello che dicono di me, basta che nessuno mi faccia domande troppo dirette, e che mi lascino in pace, senza tirarmi dentro ai loro problemi. 

         Stasera, da via Colombo, arriva improvvisamente questo tizio, Tommaso, che ogni tanto si vede alle panchine della nostra piazza, ma mentre attraversa lentamente, dritto verso di noi, Renato gli va incontro, come per sbarrare il suo passo. Non si dicono niente loro due, si guardano per un lungo attimo e poi basta, come se tutto fosse già chiaro, evidente, senza necessari approfondimenti. Renato prende l’iniziativa e colpisce l’altro, senza spiegazioni, facendolo cadere a terra, poi torna con espressione soddisfatta verso di noi. Nessuno ha niente da dire, nessuno si scuote, o si alza, o fa un minimo gesto di meraviglia. Sono fatti loro, sembra che sia il pensiero che attraversa la mente di tutti, a noi non deve interessare un bel niente.

         A me invece non piace quanto è successo, così aspetto qualche minuto in silenzio, quindi mi alzo dalla panchina, e come ricordandomi all’improvviso qualcosa da fare, me ne vado dalla piazza senza salutare nessuno, e giro attorno all’isolato riflettendo su quanto ho appena visto. Rientro in via Colombo da una stradina minore, e poi raggiungo il negozio dei miei genitori, ancora aperto, poco più avanti. Saluto mia madre che sta servendo qualcuno, le chiedo se tutto vada bene o se per caso abbia bisogno di aiuto. Poi torno sulla strada. Dopo un attimo arriva Tommaso da solo, con un fazzoletto sopra la bocca. Non mi guarda neppure, così mi supera con passo lento, ma io gli dico qualcosa da dietro, pronunciando delle parole che non so neppure io da dove mi giungano.

         Mi dispiace, gli fo, e lui si gira meravigliato. E’ da stupidi affrontare in questo modo i problemi, e lui annuisce. Si ferma, mi guarda, forse mette a fuoco meglio quanto cerco di dirgli. Difficile evitare di reagire, gli dico, ma credo sia da persone migliori. Ti ringrazio, mi fa, pensavo proprio che foste tutti uguali là in mezzo. Mi sbagliavo. Così mi stringe la mano, ed io la stringo a lui; poi non c’è altro da dire, così ce ne andiamo, ognuno dietro ai propri problemi. Forse non si dovrebbe essere troppo solidali con uno che non fa neanche parte della tua compagnia, però a me sembra giusto in questa maniera, ed adesso che ho fatto questo gesto mi sento meglio, mi pare di aver tirato fuori qualcosa di me stesso che normalmente tengo celato in mezzo a miei pensieri e alle mie giornate monotone, scandite dagli orari del negozio e della mia famiglia. Forse per qualche giorno non tornerò a farmi vedere dagli altri sulle panchine, ma non importa: tanto qualcuno dei ragazzi, quasi ogni sera, arriva fino al nostro forno per comperarsi del pane o anche della focaccia.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Variazioni in corso

 

Soltanto un mazzolino di fiori direttamente dal mio giardino, ha pensato di dirle lui con semplicità, mentre ormai è già arrivato davanti al cancello della sua vicina di casa, con una mano ingombra da quelle piantine, mentre con l’altra preme il pulsante per farsi aprire da Marisa Carraresi, che dopo qualche attimo effettivamente gli apre il portone di scatto, e lo osserva seria da sopra il gradino, fissandolo quasi con un’espressione accigliata, anche se poi gli fa cenno, senza neanche tornare a guardarlo, di seguirla dentro la sua abitazione.

Vieni a sederti, gli fa precedendolo nell’ampia cucina. Devo chiederti un’opinione, dice nervosa mentre prende i fiori e ne infila velocemente i gambi in un vasetto recuperato dal mobile, dove ha subito messo dell’acqua. Lui si siede vagamente perplesso, poi dice: sentiamo, anche se sono qui soltanto per farti un saluto. Mia figlia Clara è sempre più distante da me, fa lei; forse si vede con un ragazzo, ma non è questa la cosa importante. Il fatto è che appare dal suo comportamento che non abbiamo quasi più niente da dirci, e così da qualche giorno i nostri argomenti di conversazione sono rimasti soltanto quelli deputati a comunicarci i rispettivi orari di uscita da casa oppure di  rientro, o anche i cibi da cucinare quando ceniamo o pranziamo assieme, o magari gli acquisti da fare per la prima di noi due che si reca in un qualche negozio.

Non provo del malessere anche se rimango tanto tempo da sola, dice Marisa, non è questo il punto; credevo però di avere un ruolo, e secondo la mia opinione parlare con mia figlia in questo era essenziale, almeno per farle confrontare le sue idee con le mie, darle una sponda, positiva o negativa che fosse, visto che le sue decisioni da prendere, alla fine, ho sempre cercato di lasciarle alla sua personalità e alle sue voglie. Lo so che ormai è grande e che può fare quasi tutto da sé, ma proprio per questo non riesco a comprendere il motivo per costringermi a tirarmi da parte, come qualcosa che tutto d’un tratto non serve più.

Vedi, fa lui, oramai noi due siamo arrivati all’età in cui renderci conto che non riusciremo più ad essere quello che si era, a fare pur quello che magari abbiamo sempre fatto, ma che adesso poco per volta non ci è più possibile. Dobbiamo riflettere bene, e renderci conto che dobbiamo tirarci fuori da certi giochi: è inutile battere i piedi con la convinzione di non accettare una realtà che ci piace poco. Le cose stanno così, ed anche se questo discorso non significa affatto che dobbiamo arrenderci alla vecchiaia, al contempo però deve portarci ad una consapevolezza più alta. Tua figlia ha bisogno di libertà, di scegliere sapendo di farlo da sola, di maturare delle convinzioni che sono soltanto le sue, non moderate o plasmate dalla sua mamma. Anche se la tua opinione è sempre e senz’altro a fin di bene per lei, forse in questo momento però è soltanto d’impaccio, Clara non ne ha più bisogno, e tu devi renderti conto di questo.

Va bene, dice Marisa alzandosi dalla sua sedia e girandosi verso la finestra: forse per troppo tempo ho pensato di non poter accettare la realtà se non modellandola come la volevo; ma adesso, all’improvviso, perdo me stessa così, non ho più niente da fare, non ho più una parte in questa commedia. Io credo di sì, fa lui, e notevolmente importante: devi soltanto riuscire a cambiare qualcosa di te, e lasciare che il corso delle cose non sia tu questa volta a deciderlo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Cambio d’anno

 

         22 dicembre

         Trascorro ore di grande sofferenza in questi giorni, pur non riuscendo a comprenderne appieno neanche il motivo. Tanto che in certi casi non capisco neppure come possa poter sopportare, pur sforzandomi di mettere in mostra il mio solito ed invitante sorriso che spesso risolve tanti problemi, certe vecchie ed antipatiche clienti della nostra merceria, che sembra proprio si impegnino a giungere fin qui soltanto per mettere a dura prova le mie indubbie capacità di socievolezza e di pazienza. Il falegname ed il tappezziere sembra finalmente abbiano proprio terminato con i loro piccoli lavori di ammodernamento degli arredi del negozio, così come avevo chiesto loro di eseguire ormai da tempo, ma nonostante abbiano attuato quasi fedelmente ogni mia indicazione, adeguandosi al progetto generale ed anche ai disegni che avevo preparato, e lo abbiano fatto impegnandosi al massimo, proprio come avevo chiesto, soprattutto durante gli orari di chiusura dell’esercizio, adesso non mi hanno lasciato quell’entusiasmo che avrei voluto provare contemplando i loro risultati. Forse però è soltanto colpa mia che oramai riesco a provare maggiore soddisfazione dalle previsioni delle cose, che dalle cose vere e proprie.

         27 dicembre

         Tommaso per questi giorni di festa è andato insieme alla sua famiglia da una zia che abita lontano. Mi ha assicurato di voler approfittare di questo periodo, portandosi dietro tutti i libri e quanto gli serviva, per preparare un esame universitario che dovrà sostenere immediatamente al suo ritorno. Mi è parsa un’ottima idea razionalmente, anche se avverto ogni giorno di più la sua mancanza. Non vorrei sentirmi così legata alla sua presenza, e soprattutto non mi piace rendermi conto di avere necessità di qualcuno a sostenermi in queste mie giornate così ostiche. Ho sempre pensato che qualsiasi persona libera è solo colei che riesce a fare a meno degli altri, nel senso di avere la capacità di prendere qualsiasi decisione senza l’aiuto di nessuno. Però in questo momento mi prende spesso la paura sottile di allontanarmi un po’ da tutti, grazie a questo pensiero, e di mostrare un’indipendenza così totale che forse non è neppure data dalla mia vera natura.

         3 gennaio

         Con mia madre le cose posso dire che vanno meglio, nel senso che non abbiamo più litigato ormai da tempo, forse anche grazie a questi giorni festivi che abbiamo trascorso quasi totalmente in casa insieme, a parte il mio forte impegno lavorativo nella merceria. Non parliamo quasi più di nulla tra noi due, a parte le cose essenziali che definiscono la nostra convivenza in questa abitazione fortunatamente grande, dove possiamo fare contemporaneamente cose diverse, e se da un lato forse è questo il punto più dolente, probabilmente è pure quello che dall’altro ci fa anche andare più d’accordo. Lo so che lei a volte si sforza nel cercare di non mettersi in mezzo alle mie decisioni o ai miei pensieri, però comprendo come costantemente abbia su tutto ciò che faccio delle opinioni precise dentro la sua testa, e spesso anche solo misurare l’inflessione del suo sguardo, mi fa capire che non è affatto d’accordo con me. Che non sia più uscita la sera, e non abbia più fatto troppo tardi dopo l’orario del negozio, sicuramente le ha fatto piacere, anche se non ne sa il motivo. Non so, però penso che presto qualcosa dovrà cambiare inevitabilmente, così come senza neppure rendercene troppo conto, ormai abbiamo passato un altro anno.

 

          

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Stanze quotidiane

 

         Non so perché lei abbia accettato. Così come non capisco per quale motivo io, che non ne avevo minimamente voglia, le abbia chiesto di uscire insieme a me in questa giornata di festa. Però è andata così, quasi inspiegabilmente, ed io e mia figlia durante questo pomeriggio, come non succedeva ormai da tempo immemorabile, ci siamo spinte fuori con la nostra automobile per andare a farci una tranquilla passeggiata a piedi lungo le strade centrali della cittadina di cui facciamo parte. E naturalmente non potevo certo esimermi, in questo percorso senza alcuna meta prestabilita, dall’effettuare una breve visita al suo negozio di merceria, lungo la via principale, di cui lei porta sempre con sé la chiave, almeno per osservare con calma le variazioni agli arredi fatte apportare ultimamente proprio da Clara. Sono rimasta perplessa, inutile negarlo, anche se non ho fatto altro che apprezzare quanto è stato eseguito, sempre con naturali parole di elogio e di soddisfazione.

Mia figlia naturalmente si è prodigata subito a spiegare con parole e con gesti, a tratti quasi eccessivi, le scelte adottate, probabilmente nella stessa maniera che avrebbe fatto con chiunque, anche se io capisco benissimo, nello stesso esatto momento in cui lei tentava di convincermi, che neanche lei stessa era troppo soddisfatta del risultato che ha ottenuto. Ho pensato in silenzio, conservando un debole sorriso sulla faccia, che a volte si inseriscono anche troppe aspettative rispetto a quanto si vorrebbe vedere già finito, ed in certi casi in cui abbiamo impegnato persino troppa fantasia, i risultati non possono che apparire deludenti. Così quando siamo tornate sulla strada non ho neppure insistito troppo con dei complimenti ordinari e scialbi, che in questo caso sarebbero senz’altro sembrati anche falsi e fuorvianti. Forse per mia figlia in tempi diversi avrei immaginato un'altra vita, che non fosse quella di una semplice bottegaia di paese, ma questo è anche un pensiero da cui devo rifuggire ogni volta che mi si presenta, per evitare di riproporre alla mia memoria il percorso difficile e tortuoso che ha attivato tutto quanto.

Sono contenta, le ho detto in breve per chiudere la questione, le cose sembrano proprio si siano messe per il meglio, e nel passaggio di consegne dalla signora Martini fino a te, non sembra affatto che la clientela sia diminuita. Forse è presto per dirlo, mi ha risposto Clara, però le mie intenzioni sarebbero addirittura quelle di incentivare ulteriormente le vendite, svecchiando l'immagine di tutto il negozio e variando poco per volta sia gli articoli in esposizione, sia quindi l’età di tutti i clienti. Me ne sono rallegrata, questo è chiaro, però spero proprio che tutto questo non richieda nel futuro la disponibilità di risorse pecuniarie che non derivino direttamente dagli utili della piccola società che sostiene questa merceria. Io non firmerò mai nulla, in ogni caso, per avvallare coi miei risparmi delle scelte finanziarie in questo senso.

         Qualcuno ha salutato Clara, quando siamo andati al bar Soldini per sedersi ad un tavolino e prenderci un caffè, ma non mi è parso dalla qualità dei gesti e dalle parole di saluto messe in campo, che ci fosse in giro la persona che potevo immaginare di vedere. Così, tanto per mettere un pungolo a questo pomeriggio, ho chiesto a mia figlia chi fosse tra i ragazzi sulla piazza quello con cui lei si stava vedendo più assiduamente, ma Clara ha fatto soltanto un sorriso, ed ha chiuso frettolosamente con quello la mia curiosità. Deve essere qualcun altro, ho subito pensato, ma se parlassi intorno a questo argomento per qualche minuto ancora, probabilmente a lei le sfuggirebbe persino il nome, però non voglio certo apparire una curiosa sciocca, per cui mi va benissimo di cambiare l’argomento e di affrontare dei discorsi su tutt’altre cose. Più tardi perciò siamo rientrate a casa, senza grandi variazioni di tematiche, e quando alfine ci siamo messe comode, ognuna di noi due nella stanza che di fatto predilige, forse ci siamo sentite addirittura meglio.

 

          

 

 

 

 

 

 

 

 

Fatti sfumati

Difficile durante dei periodi brevi essere sorpresi da vere novità lungo le strade del centro abitato di una cittadina come Borgo San Carlo. Anche quando si volesse proprio trovarne, in mezzo ai suoi cittadini, forse scavando fin nei risvolti di quelle deboli discussioni che a volte riescono ad infiammare qualche espressione nei capannelli della piazza, o lungo il corso di quel paese, sarebbero comunque sempre poca cosa, che dura giusto lo spazio di qualche momento, e dopo appaiono subito destinate a finire. Si può arrivare persino all'odio, da parte di qualcuno, notando l'immobilità insopportabile delle strade e dei vecchi edifici costruiti più di cinquant'anni prima e mai modificati nel tempo, anche se la maggior parte della cittadinanza sarebbe forse pronta a difendere a spada tratta l'aspetto di quei manufatti, come per una legittima nostalgia che a volte crea legami perfino con le pietre, anche se alla fine ci si abitua rapidamente ad ogni cosa, pur lasciando fedelmente aperta la porta a qualsiasi altro tipo di curiosità.

Perciò quando poi si viene a sapere qualcosa di interessante ed insolito che riguarda specialmente certe persone che sono conosciute da molti, allora ecco che nasce rapidamente l’interesse bramoso, ed in particolare, se la questione che sta passando dalla bocca di diversi individui sembra proprio destinata ad alimentare altri fatti ed ulteriori risvolti, un proseguo che magari sul momento potrebbe pur sembrare persino poco probabile, ma che nella fantasia di qualcuno diviene velocemente perfino possibile, allora è fatta, la cosa può crescere a dismisura, quasi senza alcun limite.  Che due ragazzi se le fossero date di santa ragione per colpa di quella signorina che lavora nella merceria della signora Martini, ad esempio, era una notizia che ovviamente non poteva restare racchiusa soltanto tra le opinioni di coloro che li avevano visti davvero, ma considerato che nessun seguito si era prodotto in quei giorni seguenti il fattaccio, qualcuno aveva presto iniziato a lavorare di fantasia, modificando, almeno in qualcosa, sia l’azione principale avvenuta, ampliandone la portata, sia i suoi risultati, ventilando clamorose vendette da parte di chi aveva maggiormente subito il pestaggio. Di Clara poi si era detto di tutto, ed era stato poco considerato chi aveva cercato di far presente che era lei la nuova proprietaria del negozio di merceria, o almeno colei che adesso lo gestiva, perché questo faceva risaltare due piani un po’ differenti. Altri allora avevano parlato addirittura di interessi nascosti, qualcuno di strani e poco chiari doppi giochi da parte di questi ragazzi, ma infine, come succede a molte delle cose nate soltanto da fantasie, presto tutte le voci si erano spente. 

In fondo tutti gli attori della questione erano più o meno di buona famiglia, e se non si manifestava qualche strascico polemico da parte di qualcuno di loro, non si poteva insistere troppo nel ricamare sopra a quello che alla lunga appariva soltanto uno scambio vivace di differenti opinioni. Purtroppo alla fine non si era saputo quasi più nulla di loro, anche se le cose erano rimaste più o meno le stesse, e proprio per questo era chiaro come ormai i fatti accaduti rappresentassero semplicemente il passato, e potevano essere lasciati rapidamente alle spalle nel grande libro della cittadina, proprio insieme alla pagina su cui erano stati disegnati da subito.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Scelte di futuro

Cammina lentamente lungo il marciapiede la signora Martini, in parte per la sua età ormai avanzata, in parte per alcuni modi di fare a cui si è assoggettata fin da ragazza, comportandosi spesso come se il tempo in fondo non avesse avuto mai per lei troppa importanza, e la pazienza risultasse sempre la vincitrice tra tutti i suoi valori di base. Si è trattenuta per sé la metà delle quote societarie, nei confronti del negozio di merceria di cui è stata da sempre unica titolare fino a poco fa; ma di fatto, sin da quando è stato firmato l'atto dal notaio, ha mostrato di voler cedere volentieri tutte le responsabilità dell’esercizio alla sua fedele commessa divenuta da quel momento comproprietaria insieme a lei, accontentandosi alla fine anche di una quantità piuttosto limitata di quattrini, cosa che peraltro l’altra le sta versando ratealmente.

Buongiorno, dice con voce chiara aprendosi la porta quando giunge infine sulla soglia dell’esercizio, dando seguito alle sue abitudini davanti ad ogni persona presente all’interno di quella bottega, dopo tutti quegli anni di esperienza con clienti di qualsiasi tipo, certe volte cortesi a loro volta, in altre occasioni proprio scontrosi. Clara sfodera così da dietro al bancone il suo abituale sorriso, andandole subito incontro fino alla grande porta vetrata, prendendole una mano con molta grazia. Là dentro ultimamente non si è vista spesso la vecchia proprietaria, ma si può star certi che la sua presenza di oggi non sia di tipo puramente formale o di cortesia. A lei interessano i libri contabili, sapere come vanno le vendite, se la clientela si ritiene soddisfatta della nuova gestione, insomma, se il suo negozio senza di lei va ancora bene.

Si siede, sistemandosi su una delle poltroncine imbottite che Clara ha acquistato ultimamente, ma lo fa senza volersi togliere il soprabito, come conservasse una qualche premura di andarsene tra breve, e comunque per non essere forse scambiata per ciò che era là dentro fino a poco tempo addietro. Clara, dopo i saluti e i convenevoli, le chiede con orgoglio la sua opinione sui nuovi arredi e sui manichini delle vetrine, ma la signora Martini sembra non voler esprimere troppo dei pareri, forse addirittura perché poco lusinghieri, limitandosi con un’occhiata generale ad assentire, accompagnando il gesto con un semplice sorriso.

Ho parlato con tua madre, le dice subito invece con un’espressione già più seria; e lei mi ha detto che è piuttosto preoccupata per te e per i tuoi comportamenti, che ultimamente sembrano quasi il frutto di una ragazza con poco cervello, come in verità non ti sei mai dimostrata di essere fino adesso, non mostrando più con lei quella serietà e quella posatezza che ti eri guadagnata almeno insieme a me durante questi brevi anni da commessa. Forse adesso essere più libera in questo negozio le ha dato un po’ alla testa, le ho risposto subito io, però sono sicura che farà presto anche a riprendersi, ed io sono disposta a darle tutta la fiducia che si merita, a patto naturalmente che le cose dentro alla bottega continuino ad andare come devono.

Con la mamma ci sono state delle incomprensioni ultimamente, dice Clara sottovoce con improvvisa serietà, ma tutto è già quasi superato, almeno per quanto mi riguarda. Nel negozio poi le cose stanno andando direi bene, e con questa ragazza che viene il pomeriggio ad aiutarmi mi trovo piuttosto in sintonia. Non c’è da preoccuparsi insomma, conclude in breve, e forse è mia madre che non si sta rendendo conto di quanto sia in errore, almeno in questo caso. Va bene, dice la signora Martini alzandosi dalla sua poltroncina ed avviandosi all’uscita; in ogni caso sappi che tutti quanti in questo momento ti stanno osservando con estrema attenzione, e tutto il paese qua attorno vuole vedere se sai essere all’altezza del compito che ti abbiamo dato; e da questo momento in avanti dipende soltanto da te quale potrà essere davvero il tuo futuro.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Differenti pose

 

         Non ce ne frega niente. Si sta bene nella nostra piazza, mezzi sdraiati sopra le panchine. Normalmente ci guardano tutti quanti nel momento in cui transitano da qui, ma noi non ci muoviamo mai, siamo sempre fermi nella nostra posizione. Ci fumiamo qualche cicca, si parla, si ride spesso, quasi di ogni cosa che ci viene detta, e come sempre si lascia passare lenta tutta la serata, esattamente come fa il ponte di pietra, nel mezzo del paese, con il fiumiciattolo che gli scorre sotto. Cosa importa il resto, questa è la nostra casa, il luogo in cui ci sentiamo meglio e più al sicuro, dove possiamo pensare e dire tutto quello che ci passa per la mente, senza frenare mai nessuna sillaba delle nostre parole.

Il tempo subisce a volte delle forti accelerazioni, lo sappiamo. Ma in altri casi rallenta fino a fermarsi, e lascia che tutto attorno si depositi, tanto da chiamare noi alla calma e alla riflessione su ogni semplice dettaglio, proprio come si fa con la sabbia bagnata in sospensione nell’acqua che decanta piano, dopo una tempesta sopra il mare. Accadono certe volte delle cose senza che si sia riusciti minimamente a prevederle, e magari ci colgono completamente di sorpresa, ci meraviglia la loro così improbabile comparsa, e in un solo momento capovolgono tutto quello che sembrava stabilito appena un attimo più indietro. I risultati spesso sono addirittura difformi e poco comprensibili, forse pretendono prese di coscienza particolarmente precise, decisioni che magari in piena tranquillità non si sarebbero nemmeno prese in considerazione. 

Ma sono soltanto dei pensieri senza lacci tutti questi, dei semplici retaggi della mente, possibilità mentali che forse non si realizzeranno mai, mostrandosi come sono senza alcun aggancio con la materia più realistica, anche se in ogni caso noi dobbiamo essere pronti anche per queste remote eventualità, in guardia però contro qualcosa che può sempre accadere da un momento all’altro, ed è proprio questo il senso più profondo che stilliamo in ogni momento dal nostro apparente sentirci indifferenti a quanto normalmente ci circonda.

Ci sentiamo annoiati, è evidente, di tutta questa terribile monotonia, ma ciò non significa che i nostri sensi siano ormai ovattati, o che non siamo in grado di reagire al momento in cui ce ne sia davvero il bisogno. Brace sotto la cenere, nervi tesi sotto alla calma apparente che pervade. Salutiamo chiunque senza mostrare enfasi, giudichiamo qualsiasi cosa si possa guardare usando una logica estremamente elastica, che forse manca a volte di definizione, ma che in generale non ha neppure per noi molta importanza. Cosa interessa prendere adesso delle vere decisioni: è sufficiente sentirsi distanti dai problemi, lontani da quanto sembra attanagliare tutti gli altri.

Sottolineiamo una diversità che spesso non sappiamo neanche noi quanto sia vera: eppure il nostro più profondo desiderio di non assomigliare mai a nessuno, ci fa sentire esattamente in questo modo, differenti dal giudizio che viene emesso su di noi, proprio perché ci sentiamo pronti a disconoscere ogni volta chi, in quel preciso istante, ce lo sta assegnando, limitandoci a mostrare il volto inespressivo e ambiguo del pensiero divergente, del tutto incomprensibile a chi non lo frequenta. Poi però richiudiamo rapidamente tutti quegli emblemi di cui abbiamo fatto gran mostra, e senza darne alcuna spiegazione, torniamo a riprendere le nostre esistenze normalizzate in fretta, lasciando indietro quanto saremo capaci di evidenziare ancora tra pochissimo, appena il tempo di tornare durante la prossima serata in questa stessa piazza, e di sedersi come sempre  in pose improponibili, con la testa sgombra dai pensieri che per qualsiasi altro sono tutto, e per noi niente.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Coraggio di piazza

 

         Clara è stanca. Rientra a casa anche stasera come sempre, dopo una giornata intera trascorsa dentro al suo negozio, e le pare proprio di non aver fatto niente di importante, neppure oggi. Pochi clienti, qualche chiacchiera di circostanza, nessuna buona idea, neanche per rendere più invitante la vetrina per coloro che passano a piedi lungo il marciapiede della strada di fronte. Ha trovato un biglietto quando è uscita, sotto al tergicristallo della sua macchina parcheggiata poco distante, e questo è stato l’unico dato positivo, almeno da un po’ di tempo a questa parte.

Lo ha letto subito, non poteva attendere; così è entrata in auto, ha aperto il foglietto, ha visto per prima cosa che c'era in fondo la firma di Tommaso, e già questo le è parso meraviglioso, quasi commovente. Solo una frase semplice vergata sulla carta: “Ciao, domani sera sarò davanti al tuo negozio, all'ora di chiusura”. Va bene, ha detto lei a se stessa, come per sentire la propria voce avvalorare meglio e maggiormente ogni suo pensiero a riguardo. Poi ha avviato il motore della macchina, ha innestato la retromarcia per compiere la manovra, e solo a quel punto ha notato nello specchietto retrovisore qualcuno che in silenzio la stava guardando.

Si è avvicinato dalla sua parte, senza che lei avesse fatto niente, se non restare ferma, con il cambio posizionato in folle. Poi Renato, vicino al finestrino, le ha detto qualcosa, forse una parola di saluto, e lei allora ha aperto giusto una spanna del suo vetro, proprio per capire bene cosa era venuto a dirle davvero quel ragazzo. Non ti sei più fatta vedere in piazza, ha spiegato lui appoggiandosi leggermente alla carrozzeria dell’auto. Mi dispiace, ha aggiunto, perchè non era questo il risultato a cui aspiravo. Mi piacerebbe trovare nuovamente la sintonia che eravamo riusciti ad avere tra di noi qualche tempo fa, anche se immagino che adesso sia diventato tutto più difficile.  

Clara spenge il motore, pur restando ferma, seduta al volante. Forse non avrebbe voglia proprio adesso di affrontare un argomento così difficile e spinoso, però sa che probabilmente non avrà un’altra occasione di vero confronto con Renato, e lei non vuole perdere questa occasione. Mi meraviglio, dice, che tu abbia la faccia tosta di venire così a parlarmi. In ogni caso sappi che non ho mai inteso essere la preda per alcuni litiganti. Non mi pare adeguato il tuo contegno, e non credo sia giusto il comportamento che hai tenuto. Però sono fortemente dispiaciuta per quello che è successo, e cercherò nel futuro di essere più accorta affinché una cosa del genere non si verifichi mai più.  

Non è questo, dice Renato con gli occhi bassi; volevo solo sapere adesso se possiamo ancora essere amici. Clara attende un attimo, lascia passare un tempo sufficiente a caricare di importanza le parole, poi dice in fretta: certo, tu non mi hai fatto niente personalmente, però il tuo comportamento è stato pessimo, come se i miei desideri dovessero piegarsi a delle questioni di forza bruta, e non mi pare il caso di spingersi davvero così in basso. Tornerò in piazza da te e dai ragazzi qualche volta se mi andrà, forse già uno di questi prossimi giorni, perché non voglio resti uno strascico negativo di questa storia; però non accetterò mai di passar sopra ad un atteggiamento come il tuo, privo completamente di qualsiasi riflessione, ed assolutamente fuori da qualsiasi razionalità.

Va bene, dice lui restando nella stessa esatta posizione. In ogni caso tu non c’entri molto in questa cosa. Ci sono ancora delle vecchie ruggini, che in certi casi tornano fuori senza che siano state previste, e comunque volevo solo dirti che secondo me tu sei la persona migliore che da tanto tempo ha avuto almeno il coraggio di farsi vedere in piazza insieme a noi.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Tutta per sé.

 

         Lei va sempre da sola fino alla scuola. O meglio, senza la mamma, oppure il babbo, al limite giusto con qualche compagna di classe vicina di casa che volentieri si affianca a lei durante quel breve tragitto. Però in certi giorni, con la sua cartella ben chiusa stretta dentro la mano, lei cammina in solitudine a passo cadenzato e gli occhi bassi, sfiorando quasi le case, come le hanno detto di fare, senza mai fermarsi, fino a quando non si ritrova a varcare il cancello, con tutti gli altri alunni dentro al cortile, e ad aspettare quel suono martellante della campanella, prima di salire le scale.

Marisa, la chiama in quei minuti il suo compagno di scuola preferito, e lei subito lo cerca con lo sguardo e gli sorride, scambia con lui le sue sensazioni di bambina, parlando della maestra, dei giochi, anche dei propri genitori, toccando con semplicità gli argomenti più comuni, prima di entrare in una classe purtroppo diversa dalla sua, che è già più grande di un anno. Qualche volta si sono tenuti la mano, di nascosto, e a lei è piaciuto parecchio, tanto che adesso, a distanza di oltre cinquant'anni, riesce ancora a ricordare perfettamente quei deliziosi momenti.

Poi la sua adolescenza è un lento passaggio quasi insignificante, percorso nel tentativo di ritrovare in qualcuno la stessa dolcezza provata negli anni della scuola elementare, fino ad arrivare a conoscere Ernesto, che diverrà suo marito, quasi come per una forma naturale di tutte le cose. Per lei innamorarsi è stato sempre cercare di riprovare delle sensazioni che nel passato avrà già conosciuto, o almeno tentare di avvicinarsi proprio a quello struggimento indimenticabile.

La scuola elementare è grande, piena di bambini entusiasti e divertenti; c’è anche la Martini in classe con lei, e tra loro ci sono così tanti alunni che riusciranno sicuramente a trovare la loro strada, ma ce ne sono anche di quelli che purtroppo non combineranno mai nulla di buono. Marisa adesso, quando si sdraia sul suo letto, nel buio solitario della camera rimasta la stessa da tanti anni, a volte li elenca nella sua mente, e li ritrova parecchi, come non fosse trascorso tutto quel tempo, come se fossero tutti ancora lì, a portata di mano. Poi torna a casa, dopo l’ultima campanella, dopo tutta la confusione dei bambini che escono correndo in mezzo al cortile, alla ricerca dei genitori o dei nonni, dopo aver salutato lui, di nuovo lì, a dirle: ciao Marisa, vediamoci dopo, ai giardinetti, posso aiutarti nei compiti che ti hanno dato da fare. Va bene, fa lei, siamo d’accordo.

In certi momenti, nella sua mente, lei sa che un’eclisse solare abbuia tutto il resto per una manciata corposa di anni, e la sua malcelata durezza dell’età adulta, è forse soltanto il bisogno di tenere nascosto da qualche parte dentro di sé, qualcosa di prezioso e di assolutamente non condivisibile. Quel bambino, di cui in seguito non vuole più ripetere neppure il nome, si perde più avanti, quando saranno più grandi, e lei non lo cercherà più, perché è assurdo tentare di cambiare qualcosa che il destino ha già definito, e non potrà mai neppure assomigliare a ciò che era stato.

Ciao mamma, dice Clara rientrando in casa; e di colpo tutti i bambini dentro di sé si prendono per mano e subito se ne vanno, fingendo di non essere neppure mai stati da quelle parti. Non si può neanche desiderare di sentirsi diversi, pensa Marisa certe volte. Si è così, bisogna piegarsi a quanto ci capita. Ho una storia ufficiale da raccontare, naturalmente, dice all’ombra di sé sotto al sole; ma anche una diversa, che vorrò sempre tenere soltanto per me.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Spirito pratico

 

         Certe volte non vorrei neppure uscire di casa. Accatasto i miei libri sopra al piano della scrivania, mi metto accanto tutti gli appunti delle lezioni in facoltà, poi le matite, i fogli di carta, i miei quaderni, e mi pare quasi che sia tutto lì, vicino a me, ciò che m’interessa maggiormente. Fuori dalla finestra la giornata di sole prosegue il suo corso come sempre, eppure, chino sopra al mio tavolo, io modello poco per volta il mio sapere, assumo la coscienza di quanto sicuramente potrà servirmi nel futuro, mando avanti il mio più forte convincimento, quello per cui tutto è migliorabile, e la positività potrà svolgere un suo ruolo, prima o dopo.

         La strada che si snoda là sotto è comunque un forte richiamo anche per me; un insieme eterogeneo di elementi negativi e positivi che gridano spesso la loro urgenza, come la necessità che molti provano di mostrarsi delle vere persone, di sentirsi perennemente coinvolti in qualcosa, di essere chiamati tutti ad una scelta, pur sbagliata che possa dimostrarsi. Osservo sopra al davanzale qualcuno che cammina lungo il marciapiede, e non so decidermi a pensare quanto sia meglio svagarmi, piuttosto che continuare a riflettere ancora su tutte le mie cose. Poi chiudo i libri ed esco.

Intendo passeggiare, soffermarmi su qualcosa che attiri i miei interessi, ma non posso certo ridurmi a transitare sempre davanti al negozio della merceria, come solo un fissato potrebbe fare; cosi è meglio se prendo la bicicletta, per pedalare in silenzio senza grandi pensieri, e fare un giro verso la campagna circostante, spingermi magari fin dove iniziano i boschi rigogliosi, magari fermarmi sopra un poggio più in alto ad ascoltare il vento, ad osservare i merli che si rincorrono, guardare le pecore al pascolo se oggi ci sono, radunate in qualche campo poco lontano.

Poi torno indietro: non c’era niente che non conoscessi già lungo quei viottoli, tanto vale andarmi ad infilare tra le case del paese, nella ricerca di qualcuno che forse già conosco. In fondo mi piacerebbe anche incontrare di nuovo Renato, magari da solo, a distanza ravvicinata, senza un pubblico a sommuovere i nostri comportamenti, e fermarmi di fronte a lui con grande calma, anche con profonda serietà, e dirgli con voce leggera che non mi ha fatto niente quando mi ha colpito, perché niente avrebbe mai potuto farmi, visto che le nostre divisioni non esistono davvero, sono frutto soltanto di una maniera distorta di vedere tutte le cose.

Ho colpito la tua incapacità di tenerti da una parte, risponderebbe forse lui; quel tuo metterti in mezzo a qualcosa che sembrava già prendere per me una direzione favorevole. Non ce l’ho con te, non ce l’avevo neanche prima: è ciò che rappresenti il vero problema che poni adesso, quella presunta diversità superiore che manifesti in ogni attimo, lasciando sentire tutti noi soltanto dei poveri sciocchi. Clara è una ragazza che facilmente si lascia incantare da qualcosa che forse neppure comprende fino in fondo, subendo una fascinazione effimera dai tuoi comportamenti. Però è lei che in qualche modo simboleggia al meglio la nostra cittadina, non certo uno come te.

Va bene, potrei dire io, in ogni caso ricorrere a dei mezzi estremi non lascia certo spazio a molte fantasie, e se tu hai deciso di porti in questo modo, sei tu che adesso ne paghi tutte le conseguenze. Clara credo sia una persona libera, sceglierà cosa desidera senza che siano i pugni o la violenza ad imporle qualcosa. Comunque hai ragione almeno su una cosa: io non mi sento parte attiva di questo paese, mentre lei lo è, a tutti gli effetti, e forse per questo motivo dovrà essere uno proprio come te a farsi avanti con lei, e magari ricordarle che lo spirito pratico è il migliore.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Difficile comunicazione

Il nostro è un mondo piccolo, dice quasi tra sé la giornalaia da dentro al suo chiosco ricoperto di riviste ed edizioni di ogni tipo, ogni volta che qualcuno tenta di decifrare grossolanamente la realtà a voce alta, mentre guarda i titoli principali dei quotidiani esposti, sottintendendo in questo modo che quanto accade veramente è sempre troppo lontano da lì, dove di ogni avvenimento esterno che pur dimostri una certa rilevanza, se ne sentiranno delle vere conseguenze in modo talmente diluito da riuscire comodamente anche a passarlo sotto silenzio.

Conosce tutti lei, filtrando la realtà da dietro quella feritoia da cui riesce ad osservare tranquillamente tutta la piazza principale del paese di Borgo San Carlo, e soprattutto dei suoi tanti abitanti che sostano o passano da quelle parti, riuscendo anche a mandare a memoria i nomi di una quantità smisurata di persone che vengono da lei per acquistare qualcuno dei suoi giornali. Il più affezionato tra tutti è senza dubbio è il signor Soldini, che già al mattino presto, spesso per primo, quando lei ha appena aperto la sua edicola, prende sempre almeno due copie dei quotidiani: uno per essere sfogliato rapidamente da lui dietro al suo bancone, e l’altro per essere messo a disposizione di tutti i clienti del suo bar.

         I frequentatori della piazza sostengono che la donna sappia tutto quello che ci sarebbe da sapere in un paese come il Borgo, e spesso qualcuno le si rivolge sottovoce per sapere qualcosa di quello o di quell’altro, anche se la giornalaia ben difficilmente si lascia andare a dei pettegolezzi veri e propri, restando generalmente sul generico e barricandosi dietro al fatto di non essere a conoscenza di parecchie delle cose che le vengono richieste. Qualcuno sorride, altri alzano le spalle, in ogni caso lei non si lascia facilmente tirare dentro a certi meccanismi.

         Conosce Clara, che quasi ogni settimana va da lei per acquistare qualche edizione delle poche riviste di moda e di abbigliamento che l’edicola si fa consegnare insieme a tutto il resto, e conosce abbastanza bene la sua storia di negoziante e di figlia di Marisa, ma non ha mai parlato quasi di niente con lei, escluse le poche frasi di circostanza che si possono usare in quei casi. Perciò le risulta subito strano che questa ragazza oggi pomeriggio, prima di riaprire la sua merceria per il turno della sera, passi da lì quasi con indifferenza, e con una scusa le chieda se conosca quel ragazzo ricciolo, Tommaso, e se per caso l’abbia visto ultimamente da quelle parti.

         Lo conosco, fa la giornalaia, viene sempre per comprare delle riviste di cultura, ma è da un po’ di tempo a questa parte a dire la verità che non si vede più, forse starà studiando per qualcuno dei suoi esami all’università. Va bene, dice Clara mentre si fa dare una rivista di vestiti, ma se dovesse passare da qui, avrei piacere se lo avvertisse che lo sto cercando. D’accordo, fa l’altra, se lo vedo non avrò problemi a dirglielo. La ringrazio, dice ancora Clara, e buona serata. Poi si allontana, in parte soddisfatta del suo tentativo, anche se peraltro le pare di aver sciupato qualcosa con quella sua richiesta sempliciotta. La giornalaia nello stesso momento la guarda allontanarsi: non c’è niente di strano, pensa in mezzo a tutte quelle parole e frasi scritte da cui risulta circondata; certe volte purtroppo viene a mancare la comunicazione tra di noi, anche se crediamo sempre che tutto sia persino troppo facile.

 

        

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Alla luce del sole

 

15 gennaio

Mi sento sempre più confusa. Non capisco più come dovrei comportarmi. E’ come se i fatti di questi ultimi giorni mi inviassero continuamente segnali contraddittori. Non voglio starmene ferma a guardare, magari nell'attesa che tutto quanto per un colpo di fortuna insperato si vada chiarendo; voglio agire, sono convinta sia questo il mio momento, e che il mio futuro prossimo derivi esattamente da ciò che riuscirò a desiderare adesso.

 

16 gennaio

Il mio lavoro non è più tale. Adesso è una scelta fatta, un impegno preciso di esistenza, una prova delle mie capacità. Non devo ascoltare più nessuno intorno, se non me stessa e la mia sensibilità, pronta ad interpretare tutti i segnali che mi possono giungere.

 

17 gennaio

Tommaso non si è fatto più vedere. Non ha importanza, devo essere capace di rinunciare a lui, e di mettere a punto la capacità di fare a meno della sua intelligenza forse un po’ infantile. Farò qualche tentativo nei suoi confronti, ma niente di più.

 

18 gennaio

Non posso fingere con me stessa che non sia successo niente. Qualcuno si è comportato come se io fossi il premio per qualcosa, trattandomi da sciocca, e forse la colpa di tutto questo è stata la mia presunta ambiguità. Però non deve essere così, o meglio: non voglio che le cose siano poste in questa maniera. Per questo motivo ho deciso che per qualche tempo farò a meno degli altri, e mi comporterò come se non avessi bisogno assolutamente di niente, come se nulla ci fosse che mi interessa veramente, se non il mio lavoro, e rilanciare il negozio di merceria svecchiandolo da quella patina di risaputo da cui in qualche modo risulta ancora composto. Forse potrei voler bene a Tommaso, ma adesso proprio non riesco a capire se sia così, e probabilmente non mi interessa neppure troppo saperlo. Anche gli altri ragazzi che si ritrovano alle panchine della piazza magari hanno anche loro delle buone doti: sono simpatici, sanno stare in compagnia, spesso si pongono anche loro dei problemi come me li pongo io stessa. Andare a parlare qualche volta con questi ragazzi non mi comporta però nessun problema, non mi fa sentire in obbligo con nessuno, non sottintende nessuna scelta specifica. Uscire con Tommaso, o con Renato, o con chiunque altro, invece, mi incastona in uno spazio ristretto agli occhi di tutti, e non è questo quello che voglio, almeno in questo momento, anche se è mia necessità essere chiara con chiunque di loro, ed agire come sempre ho fatto alla luce del sole. Farò qualcosa in questo senso, nei prossimi giorni, e forse, se riuscirò anche ad avere tutto il coraggio che serve, chiederò un’opinione di tutto quanto a mia madre, con la quale in fondo trascorro ancora una parte cospicua del mio tempo libero, ed il cui parere è sempre stato in fondo onesto e moderato.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Brutte persone

Lo ha notato quasi immediatamente, di poco avanti a sé, una volta uscito da casa e incamminatosi lungo la strada. Tra le ombre del tardo pomeriggio spesso non è facile rendersi conto di cosa sia un piccolo oggetto scuro che sguscia, che si insinua tra le auto parcheggiate, che si nasconde alla vista di tutti: forse un gatto, uno di quei tanti che girano intorno ai caseggiati camminando sulla cima dei muretti e attraversando le sbarre dei cancelli e delle recinzioni, per poi rientrare nella casa di qualche vecchia che li accudisce e che li fa dormire su una sedia impagliata o sulla poltrona; o anche un semplice pezzo di giornale magari, mosso dal vento freddo di queste sere invernali, sfuggito di mano a qualche passante poco attento, o gettato via da chi non è interessato a lasciare pulite le strade e le piazze della propria città.

Renato si è sentito subito incuriosito da quella macchia di sporco mobile e quasi incomprensibile, quasi fosse ai suoi occhi una chiara dimostrazione di diversità, una differenza palpabile, una variabile insolita, all’interno di un panorama cittadino spesso anche troppo ordinato, fatto e finito, regolamentato da ordini troppo precisi, costituito secondo una logica insopportabilmente esatta, almeno per il suo modo ribelle di vedere le cose. Così si è avvicinato lentamente, badando a non produrre rumori, stando ben attento a dove appoggiare le suole delle sue scarpe, e scorrendo con molta calma il marciapiede di quella strada deserta; ed ha aperto gli occhi nell’oscurità della sera precoce, fino a cogliere ogni più piccola sfumatura di ciò che andava osservando, all’erta per ogni rumore avvertibile.

Poi, un piccolo cucciolo di cane dal mantello chiazzato, finalmente, è uscito con rapidità allo scoperto, scodinzolando verso di lui e fermandosi vicino ai suoi piedi, sprovvisto di collare e senza niente che lo rendesse in qualche modo identificabile.  Renato gli si è avvicinato ancora di più, gli ha fatto una carezza, lo ha trattenuto un momento con sé, ed il cucciolo si è mostrato subito riconoscente di quelle attenzioni, pur magro, denutrito, sporco, probabilmente privo di padrone e perfino di un posto dove andare a rifugiarsi la notte. Non ha avuto bisogno di convincerlo troppo, il cane appena lui si è mosso gli è andato subito dietro, come se riponesse proprio in Renato tutta la fiducia per il suo futuro. Allora lui lo ha preso in braccio, lo ha accarezzato e se lo è portato fino a casa, deciso a tenerlo con sé.

Gli amici più tardi gli hanno fatto corona sulla piazza insinuando qualche immancabile battuta di spirito nel vederlo presentarsi al ritrovo delle panchine con quel cucciolo trattenuto da un guinzaglio un po’ estemporaneo, ma Renato si è mostrato felice del suo nuovo amico da sfoggiare tra i compagni di sempre, quasi fosse quello che segretamente aveva sempre desiderato. Lo ha visto così Clara, passando in modo quasi distratto attraverso la piazza, e salutando tutti da lontano con un semplice gesto: e le è piaciuto molto rendersi conto di come dietro a quei ragazzi mezzi sbandati, privi di un interesse preciso, poco inclini ad integrarsi con gli altri, forse si rannidasse una sensibilità addirittura insospettabile, e di come quel Renato, osservato da un particolare punto di vista, alla fine non fosse affatto una brutta persona.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Sempre perdente

 

         Non lo so, dico io; mi metto in un angolo, senza dare fastidio a nessuno. Al massimo chiedo se ci sia un tizio per caso che abbia una sigaretta anche per me. Quando poi rimango più a lungo dentro al bar del Soldini, trovo sempre qualcuno che mi offre anche qualcosa da bere; ma in certe serate durante le quali magari sono riuscito a rimediare qualche soldo extra, allora mi faccio versare due o tre bicchierini di fila dal cameriere, tanto per riuscire a darmi la spinta che serve. Non credo di dare disturbo, nessuno comunque si è mai lamentato della mia presenza.

         Non lo so, ce l’ho anche io un posto dove passare la notte: è un piccolo capanno di legno in fondo ad una strada che non porta da nessuna parte, dove mi sistemo rinvoltato ogni volta in mezzo a tutte le mie coperte, e dormo tranquillo, senza che nessuno generalmente si prenda la briga di mandarmi via. Cerco del lavoro ogni tanto, ma ogni volta che chiedo a qualcuno, quello scuote la testa, e dice sempre che non ce n’è. Però una volta la settimana o quasi, vado a dare una mano al legnaiolo che sta alla fine di questo abitato, e se c’è da scaricare un autocarro o anche il rimorchio del suo trattore, lui mi lascia fare, senza chiedermi niente, anche se poi mi mette sempre in mano un paio di banconote, senza aggiungere nulla. Io non lo ringrazio, non dico niente, ma giusto per non farlo sentire un po’ in imbarazzo, però siamo amici, ci fidiamo l’uno dell’altro.

Non lo so, ma qualche sera fa freddo, ed è allora che vorrei proprio andarmene da questo luogo poco ospitale, che tanto qua in mezzo non so proprio che farci. Mi piacerebbe andare da qualche parte dove fa un po’ più caldo, magari sul mare, e trovare qualcosa da fare, e metterci un briciolo di entusiasmo, tanto per provare a rimettermi in carreggiata. Non lo so, sono soltanto pensieri quelli che mi vengono in mente, però un giorno magari mi gira tutto in un verso e prendo davvero ogni cosa e poi me ne vado. Non mi piace molto parlare con le persone. Le parole servono soltanto quando vuoi riempire il tuo tempo, o prendere in giro qualcuno; per il resto basta scambiare un’occhiata con gli altri per capirsi davvero. Non lo so, ma io sono fatto così.

E poi non lo so, vado a mangiare ad una mensa una volta ogni giorno, e lì certe volte qualcuno di loro mi avvicina cortesemente per chiedermi se ho bisogno di qualcos’altro, se voglio fare una doccia, di qualche vestito, o di starmene un po’ in compagnia. Non ha importanza ragazzi, io penso mentre sollevo le spalle; tiro avanti bene anche così: mi conoscono tutti, non voglio dare fastidio, ma quelli insistono e allora mi fanno lavare, e dicono dopo che sembro più giovane, e qualcuno si offre per tagliarmi i capelli e la barba, ed io lascio fare quello che vogliono, perché tutto serve quando si vive in questa maniera, anche un aspetto decente.

Non lo so se qualcuno abbia di nuovo la voglia, come è successo una volta, di venire a farmi gli scherzi: mettersi davanti al mio capanno, vicino a questa mia cuccia dove ogni volta sto bello tranquillo, e d’improvviso dar fuoco a qualcosa lì accanto, tanto per farmi paura, magari per affumicarmi e costringermi ad uscire all’aperto. Non capisco, non dare fastidio a nessuno sembra proprio non sia più sufficiente, anche se in questo piccolo centro abitato ho compreso che qualcuno coltiva il disprezzo degli altri, ed io adesso non lo so per davvero, ma un giorno di questi dovrò proprio andarmene, oppure smettere di essere buono. Perché chi è più buono, proprio come mi sento io tante volte, e questo lo so per davvero, è sempre perdente.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Cambio di atteggiamento

 

         Mi dispiace, dice Clara a lui con una certa fermezza; ma in questo momento non me la sento di mettere in piedi con te una relazione che non sia costituita esclusivamente dalla nostra amicizia. E poi, anche per quanto riguarda proprio l’amicizia, negli ultimi tempi sento di preferire la frequentazione di diverse persone, almeno quando mi va, piuttosto che  incontrarmi soltanto con una. Non è che non mi piaccia la tua presenza intorno a me, o che per qualche motivo ti voglia tenere distante: tu mi piaci, e mi va a genio quasi sempre il tuo modo di essere, però qualche volta vorrei fermarmi in maniera spensierata anche dai ragazzi che si ritrovano sulle panchine, ad esempio, e ridere con loro mentre sostiamo tutti insieme davanti al bar Soldini, senza dover pensare che in questo modo rischio di mettermi contro qualcuno.

Tommaso la guarda un momento, sembra riflettere appena per un attimo tutto quanto l'argomento che lo riguarda; poi decide che in fondo non gli dispiacciono troppo queste parole, e gli sembrano, al contrario di quanto avrebbe potuto pensare solo qualche tempo più addietro, addirittura di buon senso, equilibrate, anche perché, nei giorni immediatamente precedenti questo, si era sentito addirittura preoccupato per essere giunto anche troppo velocemente al punto di dover stringere una relazione seria con lei, in considerazione anche di come erano andate le cose tra loro fino a quel momento. Perciò adesso, tirando quasi un sospiro di sollievo, dice soltanto: d'accordo, per me non ci sono problemi. Ho molto da fare con l’università in questo periodo, tanto che il mio tempo libero si preannuncia davvero ridotto. E poi, a parte questo, probabilmente dovremo conoscerci meglio prima di affrontare delle scelte di una certa importanza. Non c'è niente di male, pensano tutt’e due quasi nello stesso momento in cui si guardano: non escludiamo niente così, considerato che tutte le possibilità per un eventuale nostro futuro, rimangono aperte.

Perciò, quando poco dopo si salutano, loro due lo fanno in maniera estremamente cordiale e amichevole, forse addirittura alleggeriti da quel chiarimento di cui senza dubbio sentivano ambedue la necessità. Clara  resta in macchina ancora per un attimo, mentre Tommaso si allontana a piedi senza voltarsi, poi lei avvia il motore e guida con calma e leggerezza per tutto quel tratto buio di pochi chilometri, fino a giungere alla sua abitazione nella località Il Platano: riflette adesso che non ha parlato per niente con sua madre delle ultime novità che riguardano la sua unica figlia, e che ultimamente ha sempre cercato di lasciarla al di fuori persino dalle sue preoccupazioni, ma forse in questo momento, anche se non sa proprio come potrebbe fare, e nonostante le risulti qualcosa di assolutamente non facile, considerando anche che non è affatto evidente come certi argomenti a sua madre le possano davvero interessare, vorrebbe finalmente parlarle. Perché, se ci pensa proprio con intensità, anche nell’attimo stesso in cui sta parcheggiando la sua macchina lungo il vialetto di casa, forse ciò che pesa per lei più di tutto, è proprio quella distanza che immancabilmente si pone sempre tra loro due, in qualsiasi momento della loro vita in comune, all’interno di quella abitazione in cui vivono da sempre, ed anche tutte le poche volte che si trovano a scambiarsi delle semplici opinioni. È come se cercassero continuamente di scansarsi, pensa lei, o di evitare di sentire davvero ciò che l’altra ha da dire. Ma adesso Clara si sente grande, matura, autonoma, non ha più bisogno di rifugiarsi in un angolo soltanto per sfuggire ad una personalità troppo forte come quella di sua madre. Cambieranno le cose, decide; o almeno devo proprio provare a farle cambiare.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Invenzioni libere

In serate come questa preferisco girare per strada da solo senza incontrare nessuno, con il giaccone abbottonato fin sopra al collo, le mani sprofondare dentro le tasche, il passo cadenzato e quasi indifferente. Non è che non trovi qualcosa da fare o che non abbia degli amici con cui magari fermarmi per scambiare quattro parole; è solo che niente mi va bene di tutto questo, e preferisco di gran lunga soltanto mandare avanti le mie scarpe, quasi per una sorta di automatismo, e possibilmente non pensare a un bel nulla.

Credo proprio che a nessuno interessi davvero quello che faccio, come mi guadagni da vivere, quale futuro forse stia cercando di mettere a frutto; alla televisione mi dicono continuamente di pensare a me stesso, di fregarmene completamente di tutti coloro che mi circondano, anzi, di sfruttare a mio vantaggio ogni possibile debolezza degli altri, in maniera che le cose girino meglio per me, proprio nel confronto con le altre persone. Quando poi giungono quelle rare volte in cui mi fermo nella piazza di questo paese, davanti al bar Soldini per essere precisi, e se decido di entrare all’interno del locale, so da subito di trovarci dentro soltanto dei disperati che si attaccano con volontà a quanto hanno intorno: alcuni senza riuscire neppure a comprendere appieno la loro condizione, altri invece, pur essendone a conoscenza, lasciandosi andare alla monotonia di ogni sera, forse per cercare di dimenticarla.

A me al contrario non interessa un bel niente dei loro problemi, perché sono distante da quelle persone, tanto che meno riesco a comportarmi come un animale sociale, meglio riesco a sopportare queste giornate a mio parere senza significato. Qualcuno dice di me che sono un po’ rustico, troppo sulle mie, e forse quando succede che mi viene fatto presente qualcosa del genere, magari con delle battute di spirito, provo subito un leggero dispiacere, anche se in ogni caso non posso certo essere diverso da come mi descrivono, soltanto per avere delle persone che coltivano per me un moto di simpatia. So che non è facile oggi rimanere neutrali: ci si deve schierare, è inevitabile, e trovare sempre la colpa di tutte le cose, indicare un nemico, e spiegare con poche parole per chi si possa mai spendere la propria fiducia. Alla fine mi sento un estraneo, le mie riflessioni restano sempre come al di fuori di quanto si dovrebbe pensare davvero. 

Infine mi decido ed entro nel bar. Un caffè ristretto, dico davanti al bancone, e subito mi si accosta uno che mi fa dei complimenti generici, e sostiene che era un pezzo che non mi si vedeva da quelle parti. Lo saluto, poi dico che non sono stato troppo bene in questo ultimo periodo, tanto per trovare qualcosa da dire, ma quello insiste e comincia a spiegarmi tutto quello che, secondo lui, mi sono perso della vita di questo quartiere. Vengo a sapere così che due ragazzi si sono scazzottati proprio là davanti, e che lo hanno fatto stupidamente per una ragazza, quella del negozio di merceria ed abbigliamento, la figlia di Marisa Carraresi, e che dopo questo lei sembra si sia dileguata e che non voglia più vedere nessuno dei due. Annuisco, tanto per dare importanza alla cosa, poi butto giù il mio caffè e lascio dei soldi accanto alla tazzina, spiegando al tizio che ho accanto che me ne vado perché ho qualcosa da fare. Esco così dal locale, mi guardo bene attorno, infine riprendo tranquillamente per la mia strada: cosa mi importa di questi stupidi pettegolezzi, penso; ci sono altre cose ben più importanti di queste; e se proprio per caso non ci fossero, bisognerebbe almeno sforzarsi per provare a inventarle.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Mai, ogni giorno

La corriera passa ogni ora, è sufficiente stare accanto al segnale della fermata e fare un cenno all'autista per indicare la propria volontà di salire a bordo. Marisa si è vestita con cura per uscire da casa, e quando sale sul mezzo sferragliante sente di essere assolutamente a proprio agio, nonostante tra i pochi viaggiatori presenti, non ci sia a bordo neanche una persona che lei conosca o che abbia già visto in altre occasioni. Sa che non le viene del tutto naturale, però sente che per lei è giunto adesso il momento di compiere un passo importante: andare fino al negozio di sua figlia, acquistare qualcosa accettando i consigli di lei, e farle dei sentiti complimenti per le ultime collezioni di vestiti che ha messo in vendita, qualsiasi essi siano.

Avverto in questo momento la necessità improrogabile di trovare maggiore sintonia con Clara, pensa con determinazione mentre guarda distrattamente gli sprazzi di campagna fuori dal finestrino. In fondo è mia figlia, e se ci siamo un po’ allontanate negli ultimi tempi, è soltanto per una specie di prova di carattere che abbiamo voluto mettere in campo vicendevolmente, qualcosa che in fondo, lo riconosco, non ha avuto assolutamente alcun senso. Probabilmente lei nei prossimi anni sarà impegnata sempre di più con il suo negozio, e forse troverà qualcuno che la porti fuori la sera qualche volta, ed un giorno non lontano verrà magari a dirmi che vuole sposarsi, o che desidera andare a vivere da sola in qualche appartamento vicino al suo lavoro.

E’ giusto, non posso dire niente, pensa ancora Marisa; adesso è il suo momento, deve trovare la forza per fare le scelte maggiormente opportune per la sua vita, anche se spero che le adotti in maniera più pacata, senza trovare nessuno che la pungoli, come probabilmente ho fatto io in certe occasioni; e poi, se lo vorrà, sua madre qualche volta potrebbe forse tirar fuori la propria opinione, un parere obiettivo e assolutamente non vincolante per la sua bambina, limitandosi altrimenti a mostrare sempre e comunque il gradimento di tutto ciò che lei potrà desiderare, senza mettersi in mezzo. Anche perché sono più che sicura che mia figlia non farà mai dei grossi errori, ed io nei limiti del possibile dovrò sempre e comunque fare la mia parte di madre, e riuscire anche a starmene di lato, se Clara desiderasse così.

In fondo molte cose non mi sono piaciute durante la sua crescita, pensa ancora Marisa; ad iniziare dal fatto di non essersi dedicata affatto agli studi, nonostante tutto il mio sostegno ed il mio incoraggiamento. Ancora non capisco quale sia stato lo sbaglio secondo il quale niente di buono è uscito da lei durante la scuola superiore, tanto da farla decidere per l’abbandono senza nemmeno aver preso il diploma. Certo, quella è stata per me una bella batosta, in ogni caso adesso non è più nemmeno il caso di ripensarci, visto che tutto in qualche modo si è sistemato, e che l’intervento di sua madre è stato risolutivo, almeno per lei.

Infine scende dalla corriera, Marisa, sulla piazza principale del centro abitato, quindi si guarda un attimo attorno, sistema qualcosa nella sua borsetta, e poi si dirige con la solita determinazione che la contraddistingue verso il negozio di merceria e di abbigliamento: sarà sorpresa Clara di questa visita, pensa con passo nervoso; in fondo non le capita certo ogni giorno.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Neanche uno uguale

A volte ho paura. Di ascoltare i soliti discorsi ad esempio, di compiere i medesimi gesti, di vedere le medesime espressioni sul viso delle persone che incontro, esattamente identiche a quelle che ricordavo di quelle stesse persone fino ad un attimo fa, senza che sia intervenuta ultimamente una benché minima variazione. Andarsene, cominciare tutto quanto daccapo ma in un luogo diverso, dove dimenticare la mia paura, questo è il sogno che mi prende ogni notte; e soprattutto non sentirmi divenire ogni giorno sempre più simile agli altri, integrato, identico a tutti, privo di qualsiasi connotazione riconoscibile come propria.

Guardo le case di questa cittadina, e immagino le persone che con ogni probabilità si stanno muovendo leggermente all'interno di quelle mura che vedo intorno a me, mentre cammino per strada; sistemano qualcosa con calma, si occupano dei loro piccoli problemi, compiendo forse i gesti di sempre, pensando gli stessi pensieri invariabili, sperando sicuramente che tutto con normalità migliori per loro, che le cose in qualche modo procedano, si aggiustino, pur senza grandi sommovimenti, giusto poco per volta, con piccoli balzi in avanti nel tempo, ma quasi impercettibili. Una grande contraddizione ammanta tutti, senza che nessuno se ne sia neanche accorto, perché i più proseguono a credere che qualcosa di buono avverrà senza dubbio nei prossimi tempi, alcuni poi ne sono già più che sicuri, e urlano agli altri le proprie convinzioni; e quelle loro certezze, chissà come, tengono immobili i diversi desideri sparsi di alcuni.

La mia paura sostanziale è quella che tutto, un giorno o l’altro, degeneri; certo, evitando di virare improvvisamente in cataclismi di eccezionale portata, sbandando verso chissà quali strade traverse, però cambiando ogni cosa che conosciamo con una grande lentezza, sommessamente, verso una nuova normalità, qualcosa che poco per volta possa rimpiazzare, senza che nessuno ne abbia coscienza, le abitudini di tutti con altre piccole attività apparentemente sviluppate, ma nella realtà sempre più peggiorative, e senza strascichi apparenti. Di questo ho paura: di adagiarmi a pensare ciò che pensano in questo momento già in molti, e di smettere lentamente di essere me stesso come sono sempre stato fino ad ora.

Quando fermo per strada qualcuno, perché io cerco sempre di parlare con le persone, di spiegare loro il mio punto di vista, senza pretendere che divenga lo stesso anche per gli altri, in genere mi prendono semplicemente per uno svitato, uno che racconta delle cose perlopiù strampalate, che non hanno né capo né coda, e mi stanno ad ascoltare giusto per qualche momento, assumendo un mezzo sorriso sopra la faccia, ma soltanto per tenermi buono, per non avere da me problemi maggiori. Sono andato a scuola con Marisa Carraresi quando ero piccolo, e già a quell'epoca qualcuno dei miei compagni mi teneva a distanza, dicevano che ero un po’ strano, e con  questo mi etichettavano quasi tutti, ma lei no, lei mi ascoltava generalmente con grande serietà, valutava tutte le parole che le dicevo, ed invece di darmi dei consigli come facevano i più benevoli, o ignorandomi come in genere facevano gli altri, mi diceva che le procurava piacere ascoltare il mio modo di vedere le cose, proprio perché non era quello di tutti.

Mi piaceva Marisa Carraresi, evidentemente la sentivo più vicina di tanti altri a quell'epoca, ed anche se in seguito, com'era inevitabile peraltro, ci siamo persi, io non ho mai smesso di pensare a lei qualche volta, forse soltanto perché tutto sarebbe potuto essere diverso, se solo lei lo avesse voluto. Adesso rimpiango molto in certi momenti il suo modo particolare di guardarmi negli occhi, forse soltanto perché non ne ho più trovato uno uguale.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Sollievo insperato

         30 gennaio

Questi giorni vanno avanti per abitudine. Vorrei che l'entusiasmo con cui ho affrontato tutto il periodo scorso, riuscisse per incanto a mantenersi invariato, senza concedere spazio, come invece fa, a questa sottile angoscia che prosegue a paralizzarmi. Guardo mia madre che mi guarda, poi ambedue rivolgiamo rapidamente gli occhi verso altro, come se fosse avvenuta una combinazione fortuita che nessuna delle due desiderava. Non mi pare ci sia quasi niente a cui aspirare di più per quanto mi riguarda, se non il caso di qualcuno che entri con gentilezza dentro al mio negozio, ed invece di pretendere qualcosa che non ho, come spesso succede, mi dica in breve, proprio mentre proseguo a spandere sorrisi e compiacenza e ad occuparmi di lui, che va tutto bene, che la mia bottega di merceria e di abbigliamento è quanto di meglio si potesse desiderare per un paesetto senza speranze come Borgo San Carlo. Vorrei essere un punto di riferimento per la mia clientela, e anche per chi semplicemente guarda la vetrina dal marciapiede, non so più cosa inventarmi per mostrare un negozio degno di questo titolo, anche se purtroppo molti preferiscono ancora spostarsi in città per i loro acquisti.

31 gennaio

Senza la vecchia proprietaria in giro per il negozio adesso mi sento profondamente sola. Non so a chi rivolgermi per un parere, un consiglio spassionato, una parola di sostegno. La ragazza che mi aiuta con la clientela è brava, svolge perfettamente il suo compito, ma da  lei non posso aspettarmi niente di più. Ho voglia ancora di dedicarmi anima e corpo al mio lavoro, ma la solitudine in cui spesso mi trovo immersa, mi lascia certe volte senza alcuna capacità per reagire davvero. Quando torno a casa consumo la cena con mia madre, che in genere non mi chiede mai come vadano le cose, probabilmente per non imbarazzarmi. Ed io perciò non le dico niente di come stiano andando le medesime cose, per non farle sentire la mia angoscia che forse le ricadrebbe addosso. Non ci guardiamo quasi, ascoltiamo la radio, diciamo giusto qualcosa a monosillabi, per mostrare di essere insieme.  E dopo basta.

1 febbraio

Mia madre è venuta al negozio oggi. Aveva un sorriso innaturale sulla faccia, e mi ha salutato in un modo tale che non è da lei. Poi si è guardata intorno, ha chiesto di quello e di quell’altro fra i capi esposti sugli appendiabito e sopra gli scaffali, quindi si è innamorata di qualcosa che ha voluto acquistare in tutte le maniere, anche se io cercavo di spiegarle che forse non le stava troppo bene. Non so cosa abbia voluto dimostrare, però quando alla fine è andata via mi ha fatto i complimenti, ed allora più o meno ho capito. Vuole starmi vicina, a suo modo, vuole sostenermi, senza che io le abbia detto niente, e niente le abbia fatto capire delle mie difficoltà; ma lei ha compreso da sola perfettamente che per me è un momento un po’ difficile, e che è in questi momenti che si sente il bisogno di qualcuno che stia dalla tua parte.

2 febbraio

Va meglio oggi. Adesso so di poter contare su mia madre se proprio ne sento la necessità. E già, soltanto saperlo, per me è un sollievo inimmaginabile.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Rancori perduti

 

         I ragazzi sembrano svogliati mentre si muovono nella piazza come sempre. Però dicono da qualche giorno che si sono stufati di rimanere sempre sopra quelle panchine con le mani in mano. Vorrebbero avere uno spazio tutto per loro, un involucro vero in cui riflettere, ed è per questo che hanno presentato una domanda formale alle autorità della cittadina affinché mettessero a disposizione una stanza, un ritrovo, un luogo dove riunirsi, una specie di piccolo e semplice locale, anche se per adesso nessuno ha risposto un bel niente. C’è una nuova voglia di fare in tutto il paese, ha detto qualcuno in giro per avvalorare e dare slancio alla loro tesi; e se ci date una mano, dicono ancora ai cittadini, forse le cose possono migliorare anche per parecchia altra gente. Un circolo giovanile, un centro sociale, ecco che cosa vorrebbero riuscire a dar vita, un luogo dove ritrovarsi e confrontarsi anche con altri, in modo da costituire degli sbocchi fattivi a tutto il loro tempo libero.

Hanno poi messo insieme uno striscione con una scritta grande che riporta evidenziati questi loro desideri, e lo hanno esposto proprio sulla piazza, in mezzo alle panchine, così che tutti sappiano cosa chiedono davvero questi ragazzi. Clara lo ha visto, perciò si è fermata in mezzo a loro, ha chiesto notizie, ha detto che a lei piace molto quell'idea, e che forse è proprio il momento giusto per smuovere qualcosa, per svecchiare le abitudini di tutti, per abbandonare i modi di essere che hanno resistito fino a quel momento. Si sono bevuti una birra tutti insieme quella sera, ed hanno brindato con grande soddisfazione a quella loro idea, tanto che infine Clara ha deciso di scrivere a grandi lettere un volantino con la spiegazione delle loro richieste, per poi esporlo per prima dentro al suo negozio, nella speranza e con l’invito che anche altri esercizi si decidano ad aderire all'idea e a mettere in bella vista quelle istanze.

Poi qualcuno ha sentito anche il bisogno di indire una riunione nella saletta del bar Soldini, per tutti quelli che sull'argomento avessero avuto qualcosa da dire o da chiedere, ed ognuno dei ragazzi è stato invitato ad annotare a quel riguardo i propri pensieri e le proprie richieste sopra un foglio comune, in modo da confrontare enumerandole le opinioni e le posizioni di ciascuno. Tutto si è svolto con grande correttezza, ed anche se una sera è apparsa qualche scritta fuorviante sopra ai vecchi muri di quel paese, le cose sono andate avanti in maniera tranquilla, senza strappi.

Il sindaco oggi ha ricevuto nel suo ufficio in municipio due rappresentanti di quei ragazzi, e ha detto loro che ci sarebbe giusto un edificio vuoto di proprietà comunale che potrebbe essere destinato a ritrovo proprio per quel gruppo giovanile. Loro si sono guardati, hanno sorriso, poi è stato sottoposto all’attenzione di tutti una specie di contratto con la cessione a titolo gratuito del bene in muratura, a cui corrispondere però con una serie di adempimenti e di impegni piuttosto rilevanti. I ragazzi hanno preso una copia del documento per leggerla e meditarla con più calma, quindi sono usciti. Davanti al solito bar Soldini hanno iniziato a studiare le pagine, e si sono resi conto poco per volta che firmando quell’intesa non sarebbero mai stati più liberi di fare le cose di sempre, se non diventare dei cittadini modello integrati e composti. Perciò hanno rifiutato.

In ogni caso l’idea è nell’aria, dicono tutti, e soprattutto la voglia di fare qualcosa ormai sta girando nelle teste di molti, e probabilmente un compromesso oppure un’altra soluzione sarà trovata al più presto. Non importa, ha detto perfino Clara ripassando dalla piazza; dobbiamo avere fiducia, le cose si sistemeranno. Con queste parole tutti si sono sentiti più rassicurati, e d’improvviso gli antichi rancori, se mai ce n’erano stati, sono presto scomparsi.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Quasi impossibile

C'è silenzio adesso. Anche intorno alle auto ferme, o davanti ai negozi ed i caffè chiusi. Qualche lampione ronza spandendo la sua luce sul tratto di strada che gli è stato assegnato, e le finestre buie delle case mostrano dell’interno l'assenza completa di qualsiasi attività. Ecco il vuoto, si potrebbe dire in una parola, di quasi tutte le migliori intenzioni, e anche di quelle possibilità eventuali da mettere in pista fra pochissime ore, nonostante immagini fantastiche e indefinibili si aggirino furtive davanti agli occhi chiusi di ciascun cittadino. Questo però è il momento giusto per variare le cose, per cercare un cambio di passo, proprio quando tutti gli altri non si attendono neppure qualcosa del genere. E’ sufficiente forse mettere a fuoco un proposito, un progetto esauriente di qualsiasi natura, e quindi dare spazio ai dettagli. Il resto è solo buona memoria. Perché al mattino poi, tutti gli elementi devono stare in fila di nuovo, nella stessa maniera di come sono stati pensati, e riprendere ognuno il suo posto, in modo tale che quello che è stato ideato tra due sponde definite di sonno, e per ciò stesso già poco probabile, riprenda al contrario la propria forza primigenia, quella di fare a meno di ogni ordinaria razionalità. 

Si sbadiglia, osservando attorno ciò che potrebbe davvero cambiare, e pur sembrando quasi impossibile che questo mai accada, si dà sempre più seguito a quanto è stato in qualche modo ideato, una specie di sogno in termini quasi reali, quasi una favola, che adesso si avverte come imperniata in quella difficile possibilità di rendersi vera. Ma intanto il silenzio ha mostrato qualcosa a cui non si sarebbe potuto mai credere, e quindi soltanto già questo appare quasi un miracolo tra le cose ordinarie di sempre. Adesso si guarda all’alba come ad una conseguente salvezza, una rinascita, l’attimo in cui tutto è possibile. Perché il risveglio è il ritrovo di sé, e di quello che si riesce ancora a provare.

Niente deve sfuggire alla mente, e niente che sta attorno a lei può pretendere una distrazione insperata. Le cose apparse in una fase diversa adesso stanno lì, pronte per essere praticate, forse variate in qualche dettaglio, probabilmente allineate in maniera migliore a tutto quanto è concreto e tangibile, ma in ogni caso l’idea di fondo rimane, ed è quella di portare avanti con fermezza il resto di tutto il pensato. Non c’è neppure troppo da interrogarsi sui motivi di uno sforzo del genere, o su a cosa serva provarsi in un compito tale; va costruito, indubbiamente, perché è soltanto da questo che si potrà vedere davvero la semplice differenza tra un prima ed un dopo.

Così la giornata procede, una giornata forse qualsiasi, eppure anche speciale, e tutti gli elementi comuni ad ogni altra giornata, diventano d’improvviso subito particolari, illuminati da un senso di diversità in ogni dettaglio. Il progetto ha un seguito infine, il programma si snoda poco per volta, la volontà procede a denotare ogni sfumatura che si protende in avanti, e tutto assume un vantaggio, qualcosa che sembra portare verso la soluzione migliore. Un piccolo embrione è stato sufficiente a generare un processo di variazioni: ciò che si poteva definire praticamente come impossibile, è fatto.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ritrovata sintonia

 

La domenica è una giornata insignificante. Si può pensare, riflettere, scrivere qualcosa sul proprio diario, magari prendere appunti per il prossimo futuro, ma non si può vivere davvero. La mattinata scorre svelta, prendersi cura di se stessi è anche troppo naturale, si finge di riposarsi quando invece ci si sente anche più stanchi del normale. Questo pensa Clara durante il solito pranzo a due tra lei e sua madre, la quale oggi, con una certa cura, ha messo in tavola qualcosa di veramente buono, che purtroppo non ha assunto sopra la tovaglia altro sapore che quello già previsto. Perché anche oggi non si sono dette molto loro due: Marisa negli ultimi minuti è sembrata impegnata soprattutto dietro al forno, ad osservare semplicemente il colore dorato della besciamella e quello delle patate al rosmarino, e sua figlia invece è parsa interessata esclusivamente alle notizie politiche della settimana scorsa trasmesse dalla radio. Niente di nuovo, in fondo, dentro quella casa, considerato come le uniche novità che appaiono generalmente ai pasti di ogni giornata, sono date quasi sempre solo dal cambio delle colture servite e cucinate, ovviamente in adeguatezza alle stagioni, fornite dall’orto ottimamente curato sempre da Marisa.

Poi è apparsa una domanda: che cosa fai nel pomeriggio, ha chiesto la mamma con indifferenza, mentre si occupava di altre cose. E Clara le ha risposto: niente; sottintendendo di non aver alcun programma. Potremmo uscire assieme, ha detto Marisa guardando improvvisamente sua figlia in modo molto diretto. E l’altra dopo un attimo ha risposto: va bene. Si sono ritrovate nell’ingresso di casa per le quattro, con abiti adeguati ed i capelli a posto, e sono salite sulla loro macchina con calma, senza nervosismi. Poi si sono avviate lungo la strada principale, lasciando la frazione “il platano” immersa nel silenzio, quindi per coprire lentamente i tre chilometri asfaltati fino al paese di Borgo San Carlo. Marisa ha osservato qualcosa nella sua borsetta, ad un certo punto, poi ha chiesto a Clara come andassero le cose. Bene, ha detto lei, e quindi si è preoccupata di trovare un buon parcheggio lungo la via centrale della cittadina.

C’è un caffè pasticceria poco lontano, ed una volta scese dall’auto loro due hanno deciso di andare proprio là. E’ stato in quel momento che Marisa ha preso Clara sottobraccio, ma non lo ha fatto in maniera forte e rude come forse c’era da aspettarsi, bensì con una certa insolita dolcezza, quasi con grazia, tanto che la figlia si è voltata un attimo verso di lei, quasi sorpresa, ed ambedue si sono scambiate alla fine un breve sorriso. Sono contenta, ha detto la mamma mentre qualcuno le salutava lungo il marciapiede. E soprattutto sono orgogliosa di te, e di quello che stai facendo. La figlia non è riuscita a dire niente, però si è sentita quasi arrossire sulla faccia, proprio per la sorpresa di ascoltare parole di quel genere. Poi le ha risposto che il suo negozio sostanzialmente sta andando bene, e che comunque ha grandi speranze per la primavera prossima, quando metterà in vetrina le nuove collezioni. Sono curiosa di vederle, ha detto Marisa. Verrò senz’altro tra le prime ad ammirare la maniera con cui sarai riuscita a rendere interessanti le proposte per la stagione nuova. 

Quindi sono entrate nel locale, si sono sedute ad un tavolino libero, ed hanno iniziato a parlare tra loro di qualcosa, con le parole quasi nascoste nel brusio diffuso delle persone già presenti nel caffè, ma con le loro espressioni in piena evidenza a tutti, qualcosa che mostrava a quei presenti che una nuova sintonia si era costituita tra di loro, come da tempo ormai era giusto che fosse.

 

Bruno Magnolfi

 

 

 


Pandemico

 

 

 

 

Via da casa

 

         Dapprima sono come fuggiti, salendo sopra al prima treno che andava verso sud, ma quando si sono visti costretti a scendere dal convoglio, hanno proseguito immediatamente con un’automobile a noleggio, percorrendo strade minori e poco frequentate. Peraltro non è facile spostarsi rapidamente con un bambino piccolo, e lei proprio per questo, tenendo suo figlio costantemente sulle proprie braccia, continua ogni poco ad insistere con il marito che è meglio per loro fermarsi, far trascorrere almeno qualche giorno, assumere con maggiore calma le decisioni più importanti, adesso che hanno abbandonato la città e la loro casa. In seguito lui, che guida adesso senza staccare mai gli occhi dalla strada, dice ad un tratto che comunque prova una grande stanchezza, che non ce la fa più ad andare avanti, così sterza verso una frazione di poche case dove un cartello di legno verniciato indica la presenza di una piccola pensione di campagna, e va a fermare la macchina sulla ghiaia di uno spiazzo. Scendono dall’auto, si fanno immediatamente dare una stanza, poi spossati come sono si sdraiano sul letto riuscendo subito a dormire per diverse ore filate, specialmente lui che non riapre gli occhi neppure quando il bambino si mette a fare un po’ di confusione. “Dobbiamo decidere qualcosa”, gli fa lei alla fine. Lui l’osserva con attenzione per qualche attimo, poi dice che potrebbero ripartire il giorno seguente.

         “Io non vengo”, fa lei però a quel punto. “Torno indietro; non credo sia una buona idea spingersi ancora avanti senza sapere neppure cosa ci possa attendere”. Il marito consulta una cartina stradale, gira nervosamente dentro la stanza, guarda qualcosa dall’unica finestra da cui si vedono degli alberi in fila e la piccola strada che giunge fino lì. “Non essere sciocca”, le fa ad un tratto con voce bassa. “Quando giungeremo a casa di mia madre saremo a posto e soprattutto al sicuro”. Poi il bambino inizia a piagnucolare senza apparente motivo, e lui esce nel corridoio per chiedere al proprietario dell’albergo se fosse possibile avere qualche cosa da mangiare. Gli viene portato poco dopo un vassoio con dei salumi già affettati e dei formaggi insieme al pane, della frutta, una bottiglia di vino, e dei piatti per servirsi. Fuori la giornata appare grigia, senza sole, ed anche se ancora non piove non ne è esclusa affatto la possibilità. Lui appoggia tutto sul tavolino tondo della camera, spiluzzica qualcosa dal vassoio quasi con disinteresse, poi torna a sdraiarsi sopra al letto.

         “E che cosa intenderesti fare”, chiede lui a sua moglie che adesso sta allattando al seno il suo bambino. “Torno indietro”, fa lei, “anche se siamo quasi a metà strada, ora non voglio ritrovarmi bloccata a casa di tua madre o chissà dove per chissà quanto tempo”. Suo marito accende la piccola radio sopra al comodino, ed anche con il volume posizionato al minimo le notizie che vengono diramate in questo momento non sembrano per niente incoraggianti. “Quindi vorresti che tornassi indietro insieme a te”, fa lui. La moglie prosegue ad occuparsi del bambino, come per non dare troppa importanza a quella domanda che adesso però appare cruciale. “Sarebbe meglio”, fa lei alla fine, senza aggiungere neppure una parola. Lui sembra indifferente a quanto detto, poi esce dalla porta e va verso la loro macchina parcheggiata sullo spiazzo a prendere qualcosa. Sua moglie dalla finestra vede che sta telefonando, probabilmente a sua madre, magari per avvertirla che ci sono delle complicazioni, che le cose non stanno proprio andando come era stato previsto.

         Quando il marito rientra in camera gli sembra in apparenza non sia cambiato niente davanti ai propri occhi, neppure la posizione di sua moglie oppure quella di suo figlio. Lei lo guarda adesso con espressione seria, lui riprende per un attimo a girare con agitazione dentro la stanza, ma poi si ferma. “Va bene”, dice con sforzo. “Abbiamo con noi un po' di soldi, torneremo indietro; ma senza rientrare a casa nostra, almeno per ora”.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Indistinguibili solitudini

 

         “Tutto bene”, dice lei affacciandosi leggermente alla finestra del suo appartamento al terzo piano, rispondendo ad una sua vicina di casa che l’ha salutata mentre stava sistemando dei panni ad asciugare sulla terrazza a fianco. L’altra però non replica niente, come se non ci fosse proprio null’altro di cui parlare. La sensazione di sospensione del tempo adesso è quasi palpabile, ed abitare da soli rende tutto ancora più pesante, riflette lei. “Ho voglia di andarmene”, aggiunge poi a voce più alta, come si fosse dimenticata dell’elemento più importante, mentre l’altra prosegue, assumendo adesso un debole sorriso sulla faccia nella luce forte del sole, a sistemare tutte le proprie cose. Una fotografia, pensa lei senza più muoversi da dove si trova; un’istantanea che ferma in un attimo le nostre più semplici abitudini, rendendole indelebili, incancellabili, quasi eterne. Ha ragione, la mia vicina, pensa ancora: a cosa serve parlare, spiegarsi le cose che comunque sanno tutti, e ripetersi vicendevolmente le medesime ribadite sensazioni. Dobbiamo chiudere con quello che è stato fino ad oggi, e mettersi tutti a ripensare le proprie percezioni in maniera differente.

         Poi rientra in casa, si guarda attorno, cerca di decidere qualcosa di cui occuparsi, almeno per il momento, senza però trovare cosa. Allora torna ad affacciarsi alla finestra, in fondo è la cosa più vitale che può fare in un pomeriggio come questo. La sua vicina adesso ha terminato di stendere la biancheria, e si è fermata a guardare qualcosa giù lungo la strada. Anche lei adesso guarda sotto al loro condominio, anche se non c’è proprio niente da vedere, o almeno niente di particolare che possa essere differente da qualsiasi altro momento della giornata. Però osservando meglio si nota che c’è un giornale abbandonato sopra ad una panchina vicino a un alberello, forse messo lì apposta per qualcuno che abbia voglia di sfogliarlo. Di fronte poi, un segnale stradale è un po’ piegato rispetto a come dovrebbe stare normalmente, e la serranda di un negozio invece di essere chiusa lascia uno spiraglio quasi sufficiente a farci passare una persona che si abbassi per entrare.

         Tante sciocchezze normalmente di poca importanza, pensa lei; ma che adesso forse vanno riconsiderate meglio ed anche con più attenzione. Perché se è vero che dobbiamo osservare in altro modo ciò che ci circonda per tenere conto di particolari che fino a ieri passavano per ignorati, è anche vero che dobbiamo imparare ad essere più attenti, maggiormente accorti, più precisi. La vicina di casa rientra, ha terminato con i suoi panni ed anche di guardare i particolari della strada, e lei però attende ancora un attimo, come dovesse accadere proprio adesso qualcosa di particolarmente interessante. Una nuvola velata oscura leggermente il sole, una folata di vento debole smuove appena le foglie delle piantine sul suo davanzale, e lei adesso si sente viva, pronta per qualsiasi novità, semmai si dovesse presentare. La sua vicina torna sopra la terrazza, la chiama, dice che le ha lasciato qualcosa sul pianerottolo davanti al suo portone.

         Lei la ringrazia, anche se non comprende che cosa possa essere, e risponde che va subito a vedere, qualsiasi cosa sia; poi rientra in casa, accosta i vetri della finestra ed infine compie il tragitto del breve corridoio del suo appartamento, ed apre il portoncino. Niente di speciale, c’è soltanto una fetta di una torta incartata dentro un fagottino, un piccolo regalo come a volte ci si scambia tra persone che si conoscono da parecchio tempo. Però è anche un segnale importante, secondo lei, tanto che torna subito alla sua finestra per ringraziare, per mostrare quanto sia stato gradito quel piccolo regalo, anche se la sua vicina adesso non si vede, non sta più sulla terrazza. Allora prende una piantina delle due che tiene sopra al suo davanzale, ne spolvera le foglie con i polpastrelli delle dita, e poi va a metterla a sua volta sul pianerottolo davanti al portone dell’altra donna. Forse è questo che ci vuole, pensa adesso: sentirsi simili, quasi identici, accomunati in una stessa solitudine.  

 

        

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Soldato di difesa

 

         Sto ben nascosto dentro alla mia tana, e sono sicuro che a nessuno verrebbe mai in mente di arrivare a cercarmi proprio fino qui. Là fuori forse sta accadendo chissà cosa, ma a me non interessa proprio niente dei problemi generali che dannano la gente: io mi rannicchio in questo buco ed esco soltanto quando servono qualcosa da mangiare, una volta o due al giorno, nella nostra sala comune. Dietro al muro e a questo paravento ben sistemato, quando i soliti curiosi transitano dal corridoio, non possono vedere dove sto, neanche se qualcuno di loro si affaccia al mio bugigattolo, e magari cerca di scansare con le mani quegli oggetti che ho messo a protezione di questa mia preziosa intimità. E’ buio dentro, non c’è nessuna lampadina da accendere. Comunque mi piace quando da qui sento le voci degli infermieri e degli inservienti che si incrociano dentro le sale di questo edificio odioso, tanto nessuno può sospettare del mio nascondiglio, visto che io mi faccio trovare sempre dove vogliono loro nelle ore pattuite durante la giornata. Poi torno a rifugiarmi subito nel mio luogo segreto, ed a nessuno passa per la mente di essere più scaltro di quanto sono io.  

         E’ un sottoscala oscuro e umido, lo ammetto, non è proprio un gran bel posto, ma è qui dove avevano piazzato una porticina piccola che neanche si può chiudere del tutto, un varco minuto che lascia entrare soltanto una persona, qualcuno che abbia proprio voglia di abbassarsi, ed anche se forse non serve a niente questo mio rifugio, per me è comunque il luogo più sicuro tra tutti quelli che ho trovato da quando sono qui. Mi ci sono sistemato poco per volta, con una vecchia sedia ed anche due sgabelli rotti, sui quali appoggio generalmente tutte le mie cose, specialmente il soldatino di legno verniciato che sta con me da tempo immemorabile. Lui adesso appare un po’ scrostato e consumato dal tempo, come è quasi naturale che sia, ma per me è rimasto sempre il solito, il mio portafortuna che non mi abbandona mai, e che spesso mi avverte quando c’è qualcosa che non va. Io sto nel buio della mia tana, e lui ecco che inizia a muoversi. “Che cosa c’è”, gli fo, tanto per sentire quali siano le sue ragioni. E lui mi parla di cose che in parte non comprendo, anche se alla fine si spiega in modo estremamente chiaro quando devo preoccuparmi di qualcosa.

         Se devo dire proprio la verità, è lui che mi ha indicato la prima volta questo nostro nascondiglio segreto, in questo meraviglioso sottoscala. “Devi infilarti in quel buco”, mi ha detto con le sue maniere dirette, un giorno che non sapevo proprio dove andare; ed io evidentemente gli ho obbedito subito, perché di lui mi fido, so per certo che non mi tirerebbe mai una fregatura. In questi giorni sento gli inservienti che parlano spesso di contagi, ed è per questo forse che si tengono alla larga da tutti gli ospiti di questa struttura dove mi hanno messo. Sono al sicuro, dico al mio amico soldatino, e lui sorride, sa che prenderà in ogni caso le mie difese, ed io so che su di lui posso contare, che mi difenderà comunque vadano le cose.

Poi arriva un infermiere, uno di quelli che si occupa generalmente dei casi gravi, e mi spiega subito che la mia cuccia va benissimo, e poi che devo stare là dentro il più possibile per non mescolarmi mai con gli altri. Lo guardo, ma non gli rispondo niente, continuo a mangiare in un angolo della sala refezione per conto mio, e poi appena ho finito mi alzo e vado a chiedere cosa ne pensi il mio prezioso amico in armi. “Ha ragione”, dice anche lui; “devi stare qui, fermo, senza cercare mai nessuno”, mi fa. Così io mi metto seduto sulla seggiola, tengo in mano il soldatino e lo guardo prima di rimetterlo in piedi accanto a me. Sono fortunato, penso: tutti hanno da affrontare un sacco di problemi, e si preoccupano continuamente di ogni cosa. Non io però, che sto sempre tranquillo al mio posto insieme al mio soldato, e non mi muovo, non mi faccio neanche vedere, perché ho soltanto da guadagnarci a comportarmi in questo modo.

 

        

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Uno che guarda

Tutto insieme non si comprende, però poco per volta il senso può anche apparire chiaro. Questo pensa lui, mentre esce da casa, di nascosto, scivolando alla sera tardi quasi come fosse un ladro lungo le strade del suo quartiere, nel tentativo di non farsi sorprendere mentre prende una semplice, innocua, doverosa boccata d'aria. Ha trascorso la giornata sul suo terrazzino al terzo piano, ha telefonato a quasi tutte le persone che conosce, ha cercato di affrontare con loro ogni argomento, ha scavato il più possibile dentro di sé nella ricerca di dare a tutti nuove opinioni, differenti significati, i più svariati sensi alle proprie parole; infine si è fermato, ed ha sentito improvvisamente l'assenza degli argomenti e l'inevitabile conseguente solitudine ricadere su di lui. Allora ha guardato la strada sotto casa sua, ed ha notato ad un tratto qualcosa che forse non si sarebbe mai aspettato. Ha visto se stesso in carne ed ossa muoversi lungo il marciapiede: un suo secondo lui andarsene tranquillo tra i negozi aperti e le case della sua città. Camminava lentamente quella sua controfigura, quasi senza un vero scopo, cercando di ripercorrere esattamente il tragitto più usato da tutti, forse nel tentativo di mettere a fuoco adesso parecchi di quei particolari che normalmente alle persone paiono sfuggire.

Per questo, quando lui è uscito veramente dal suo appartamento a sera tardi, ha cercato di ritrovare quei dettagli che aveva soltanto immaginato durante il giorno dal suo terrazzino, e con sua grande sorpresa li ha rintracciati quasi tutti. Così ha provato di nuovo, e si è accorto con stupore di riuscire a tirar fuori dalla propria semplice memoria molti più elementi di quanti mai avrebbe previsto. Quasi un gioco quello di proiettarsi in una situazione e tentare soltanto con la mente di visualizzare tutto ciò da cui ci si ritiene circondati, però talmente interessante da portarlo, lui che ha sempre vissuto soltanto di fatti e di cose concrete, a prendere degli appunti veloci e a sviluppare dei veri disegni su quanto ritiene di vedere quando pensa alle strade e alle case della sua città. Ha preso poi una vecchia cartina stradale, ed ha cercato di ricostruire passo dopo passo tutti gli edifici che secondo il suo parere si mostrano presenti lungo quelle vie. A riprova di tutto è tornato ad uscire nottetempo, e si è reso conto naturalmente di aver commesso alcuni errori, ma nell’insieme della massa dei dettagli di non essersi mai discostato molto dalla verità. Perciò ha iniziato con calma a ricostruire con la mente l’intero quartiere.

Fantastico riscrivere completamente tutto ciò che non si può vedere di persona, pensa adesso; certamente un esercizio impegnativo, però qualcosa che porta a figurarsi di fronte a sé mille dettagli a cui non si è dato in precedenza mai alcuna importanza. Alla fine, con tutta l’attenzione che necessita questo compito, lui si sente continuamente calato quasi in una realtà del tutto virtuale, anche se molto vicina a quella vera, tanto da telefonare a qualche amico per chiedere loro cosa ricordassero di una certa piazza, di un negozio lungo il viale, o della facciata di qualche noto edificio. Strane domande, buffo modo di impegnare la memoria, però in fondo una maniera come un’altra, pur così inventata, di uscire di casa, di farsi qualche passeggiata senza muoversi, di usare meglio la propria capacità di vedere tutte le cose, e di imparare poco per volta ad osservare meglio e con maggiore attenzione ogni particolare intorno a sé.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Fiore per maggio

 

         “Certo, ci si può anche convincere poco per volta che sia meglio così”, fa lei mentre spazza con attenzione il pavimento del suo piccolo laboratorio di ceramica, chiuso oramai da diverse settimane. Esattamente sopra quel fondo, che funziona naturalmente anche come negozio, c’è il suo appartamento, quattro stanzette al piano superiore, a cui si accede da una buffa scala interna a chiocciola, dove lei abita oramai da parecchi anni con la figlia adesso quasi maggiorenne, a seguito della separazione da suo marito avvenuta tanto tempo prima. La ragazza, seduta accanto alla parete su di uno sgabello di legno, cerca di seguire i ragionamenti di sua madre, anche se spesso le appaiono un po’ strani, inconcludenti, come se la donna cercasse sempre la maniera più surreale di riflettere le cose. La minuta esposizione del vasellame finito e decorato, e anche di tutti gli altri prodotti, costituita da molti pezzi sistemati sopra alcuni scaffali aperti in legno scuro accanto alla vetrina, praticamente è pronta per riaprire agli acquirenti, appena questo sarà possibile, ma il fermo dell’attività fino adesso ha portato tra loro due soltanto malcontento e ristrettezze.

         “In fondo non fa male ogni tanto fermarsi per ripensare tutte le proprie cose, cercando magari dentro di noi una nuova spinta per andare avanti”, dice ancora mentre sua figlia sorride, forse per alleggerire quegli argomenti che non vorrebbe mai affrontare. A volte ha anche provato ad aiutarla in quella sua attività, ma non si ritiene del tutto capace, troppo imprecisa, disattenta ai dettagli e anche alle forme. L’unica cosa a cui le piace star dietro è l’essicazione e la cottura in forno delle argille preparate da sua madre, cosa che viene fatta normalmente soltanto una volta alla settimana, a negozio chiuso; e poi certe volte stare dietro la cassa al pomeriggio, dopo la scuola, quando giunge qualche compratore. Le piace anche a lei, come a sua madre, disporre con calma tutte le cose del negozio, ma non le piace per niente pensare troppo al loro futuro. “Dobbiamo fotografare di nuovo alcuni pezzi di tutta la collezione”, fa la donna quasi per cambiare argomento; “e riguardare meglio anche le proposte della nostra pagina elettronica”. 

"Va bene", fa lei già con la testa da altre parti, mentre si ferma un attimo ad osservare un piccolo disegno decorativo su un pezzo di carta caduto sbadatamente a terra in quel momento. Si tratta di una specie di fiore stilizzato, un modello probabilmente da riportare sopra la ceramica. "Lascia stare", fa sua madre che l'ha vista raccoglierlo. "È molto bello", fa la ragazza osservandolo a lungo e studiandone i contorni. Sua madre allora appoggia quanto aveva in mano fino adesso e si avvicina a sua figlia. "Lo so", le fa; "non l'ho mai usato fino ad oggi, ma potrebbe anche essere un portafortuna, un simbolo di rinascita di tutta la nostra attività, così i prossimi oggetti potremo decidere di decorarli proprio con delle variazioni sui contorni di questo fiorellino". "Certo", fa sua figlia, "mi pare proprio il momento più adeguato per avere un pizzico di buona sorte, magari prima di dover chiedere di nuovo dei soldi in prestito a papà".

Perciò si mettono ambedue sul tavolo da lavoro per estrapolare la massima esemplificazione di quel disegno, ritracciandone a matita e con calma i petali ed il breve gambo, tanto che in breve riescono ad essere piuttosto compiaciute di quanto realizzato. "Ecco", fa la ragazza; "un fregio semplice, completo, e soprattutto sempre riconoscibile, quasi un nuovo marchio di fabbrica". Sua madre sorride, gira l'abbozzo di carta tra le sue mani più di una volta, e poi le fa: "allora mettiamoci subito all’opera, che tra poco dobbiamo essere pronte per riaprire". "D'accordo", fa lei, "in fondo, adesso che ci penso, mi sembra quasi doveroso ripartire proprio con un fiore".

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Armonie celesti

 

         Abito in un cascinale isolato, dove la strada sterrata giunge e non prosegue, tanto che dalla mia nascita in avanti sono sempre stato qui, dapprima con i miei genitori, e poi da solo. Me la so cavare abbastanza bene in ogni attività, e so badare a me stesso per tutto quello che possa servire per mandare avanti i miei mestieri, per cui mi risulta difficile sentire il bisogno di qualcosa di diverso, magari allontanarmi un po’ da questi paraggi, o addirittura andarmene del tutto da questa piccola vallata, cosa questa che non mi è mai neppure passata per la mente. Il silenzio comunque è l’elemento preponderante da queste parti, spesso anche durante la giornata, per esempio quando lavoro nel campo accanto a casa, oppure al momento in cui mi occupo semplicemente dei miei animali; però ci sono delle volte, generalmente durante alcune strane nottate in cui non riesco subito a lasciarmi andare al sonno e alla stanchezza, che avverto distintamente giungere fino a me il suono della terra. Non è un rumore forte, piuttosto si manifesta come una specie di respiro profondo emesso sembrerebbe da una bestia gigantesca. Naturalmente è necessario che non ci sia del vento a confondere le mie orecchie, e che non si facciano sentire gli animali selvatici che abitano nel bosco qua vicino. Però quando tutte queste condizioni si presentano, ecco che quel suono arriva, giunge fin qua da chissà dove, ed alla sua maniera cerca di parlarmi, come per tenermi compagnia.

         Oggi poi non sono stato bene: mi è presa come una spossatezza per me del tutto inusuale, così mi sono sdraiato sopra al letto, e sono rimasto nella mia camera abbastanza a lungo, senza riuscire a decidermi se occuparmi di qualcosa, come sarebbe stato mio preciso dovere, oppure no. Ho pensato molte volte nel passato alla maniera migliore di comportarmi in situazioni simili a questa, però ho quasi deciso che se il dolore in questi casi non mi diventasse proprio del tutto insopportabile, lascerei che la natura facesse con tranquillità tutto il proprio corso, mollando ogni cosa e rispettando i tempi ed il volere di ciò che mi dovesse capitare, senza cercare niente e neanche nessuno. Invece oggi è giunto, mentre stavo qui a riflettere qualcosa in mezzo a tutte le altre mie preoccupazioni, questo solito grandioso suono della terra, come da tempo ormai l'ho appellato e come già tante altre volte ho avuto modo di ascoltare. Qualcosa dentro di me ha subito come accelerato ogni mio comportamento, e mi ha spinto a muovermi senza tanti indugi, scrollandomi di dosso qualsiasi debolezza per recarmi almeno fino al paese più vicino, e lì cercare al più presto la maniera di farmi aiutare da qualcuno. Ho seguito con naturalezza quel consiglio, e così pur con fatica ho messo in moto il mio furgone, ho ingranato la marcia e nonostante una certa difficoltà nell'attenzione e nei movimenti, ho fatto quello che mi veniva fortemente suggerito.

         Ma è stato già lungo la strada bianca, mentre guidavo con calma sul percorso di questi chilometri solitari, cercando di osservare bene il piano viario avanti a me, e lasciando dietro le ruote una gran nuvola di polvere, che le cose sono iniziate rapidamente a migliorare, tanto che quando alla fine sono giunto proprio davanti alle prime case, mi sono reso conto di non avere ormai bisogno proprio di niente, tanto più che in giro non c’era neanche un’anima viva. Allora mi sono fermato nell’unico negozio aperto del paese, e quando sono entrato mi sono fatto incartare dal tizio che conosco, una bottiglia di ottima acquavite, senza dirgli niente di particolare, limitandomi soltanto a lasciargli un semplice saluto di circostanza, mentre lui continuava a guardarmi in modo strano, quasi fossi un fantasma. Appena ho preso la strada per tornare indietro ho bevuto subito un sorso alla salute della mia amica terra, quella che mi ha dimostrato quanto il suo aiuto sia sempre più fruttuoso, e poi ho guidato senza fretta fino a casa, fermando il mio furgone sullo spiazzo davanti alla mia porta. Sono tutti ammalati, ho pensato rientrando nelle mie semplici stanze: non riescono a comprendere che l’unico aiuto vero che possono ricevere è quello che può portarti soltanto chi hai sempre rispettato, e che mai ti tradirà, se lo metti sempre al centro di tutti i tuoi pensieri.

 

        

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Testardamente felice

 

         La donna si siede, attende un momento in silenzio, osserva il velo leggero di polvere sopra il piano del tavolo, poi si decide a telefonare. “Sono da sola”, dice a qualcuno che le risponde da una diversa e lontana città. “e forse comunque è anche giusto così; di fatto non ne soffro, come a tanti succede, ed anzi mi sembra questa per me una buona occasione per riflettere a fondo sui diversi argomenti delle mie giornate”. Poi riaggancia, si alza lentamente da dove si trova e va diretta in cucina, come per occuparsi di qualcosa che purtroppo non sa neppure lei cosa sia. Ci sono delle verdure già pronte dentro al suo frigo; può usarle come contorno ad un semplice uovo fritto in un tegamino, ed in questa maniera anche il problema della sua cena sembra presto risolto. Non c'è niente di cui doversi preoccupare davvero, visto che ognuno in questo momento può ritirarsi dentro al suo nido ed affrontare la propria giornata nel chiuso delle mura di casa. Lei è consapevole del proprio isolamento derivato da questo periodo, come se fosse qualcosa di cui vergognarsi, anche se in verità è proprio quello che le sembra di avere continuamente desiderato.

         “Ma non è andata sempre così”, vorrebbe dire ora al telefono. “C’è stato Armando per quasi due anni, anche se è successo oramai parecchio tempo fa, ed io mi sono sentita in quei momenti una persona diversa, completa, del tutto una donna. Certo, ho le mie colpe: molte volte non mi sono tirata fuori da me stessa, lo so; spesso anzi ho cercato ancora di coltivare la mia individualità, i miei interessi, i miei desideri. Ma non potevo concedermi tutta, è evidente, dovevo pur lasciare qualcosa per me, conservare in qualche maniera le mie idee, i miei pensieri, le mie piccole manie. Forse l’ho spaventato, il mio Armando, ecco; l’ho fatto però quasi inconsapevolmente, tenendogli testa forse su troppe cose, opponendomi alla sua personalità qualche volta, giocando quasi sempre con lui a braccio di ferro”. Probabilmente sono proprio questi gli errori che si continua a pagare per il resto degli anni, senza renderci conto sul momento che la partita è troppo importante per farla decidere da una scenata o da qualche parola sfuggita di bocca. “Adesso lo so, anche se è tardi”.

         Poi stende la tovaglia prendendola dal cassetto sopra al piccolo tavolo di fronte ai fornelli, piegandola precisamente in due parti, con attenzione, che tanto non serve utilizzarla completamente sul piano per una sola persona. Sistema i piatti, le posate, il bicchiere, il tovagliolo, infine apre il gas per accendere il fuoco. E’ rimasto del pane da ieri, adesso può scaldarlo nel forno, ci vuole una brocca d’acqua sul tavolo, la boccetta dell’olio, la saliera, poi tutto è pronto, anche se non le sembra di avere più voglia neppure di mangiare. “Non sono da sola”, potrebbe dire al telefono; “ci sono i ricordi con me, le presenze nella mia mente di tutte le persone che ho conosciuto”. Infine torna nell’altra stanza, vorrebbe adesso qualcosa che attirasse un po’ della sua attenzione: un compito qualsiasi, un interesse, una voglia, un elemento qualunque per rompere questa monotonia, questo andamento usuale e un po’ assurdo per tutti, specialmente per lei.

         Infine torna in cucina e si siede: è tutto pronto, ogni cosa al suo posto così come le piace, può cenare con calma, riflettere ancora su tutto quanto, incontrare di nuovo se vuole i frutti della sua memoria. Torna ad alzarsi, come in preda ad una specie di improvviso pensiero profondo, prende il telefono e torna a chiamare la stessa persona di prima, lontana da lì, però l’unica persona a cui può ancora dire alcune delle sue cose. “Sono felice”, dice all’apparecchio senza neppure spiegarsi. “Non so per quale motivo, e forse può apparire anche a te del tutto incomprensibile; però è così, e tu devi crederlo, devi saperlo, devi fartene una ragione, senza bisogno di chiedermi ancora il perché, come sia mai possibile nella mia solitudine. In questo modo; così”.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Disinteressato, quasi altruista

 

         “Non fa niente”, dice Renato; “per me è la stessa cosa, e se per l’appunto dovessi scegliere davvero tra queste due opportunità, mi troverei sicuramente in forte imbarazzo”. Attività diverse, probabilmente diverse le maniere per sentirsi in pace con se stessi, a posto, senza alcuna necessità di altro. Qualcuno in casi simili potrebbe parlare tranquillamente di stranezze, altri quasi di diavolerie; però non essere capaci di decidersi tra degli impegni futuri tanto diversi, pare quasi qualcosa di cui ridere, tanto appare il colmo di qualsiasi incertezza. Già, perché alla fine non c’è cosa maggiormente insopportabile dell’incapacità manifesta di saper scegliere tra due possibilità così distanti da non apparire neanche assimilabili. “Il fatto è che non sono abituato a prendere delle decisioni; lascio sempre che siano gli altri oppure il caso a scegliere per me”.

Lui sta nella sua casa al primo piano, affacciato alla finestra mentre dice in questo modo, e c’è il signor Parrini dall’altra parte del cortile, dove si trova il retro del giardino della sua villa, che gli spiega di che cosa potrebbe occuparsi se davvero volesse accettare una di quelle sue due offerte. Di fatto è un favore che intende fare nei confronti della madre di Renato, una donna che conosce oramai da tanti anni, ed in considerazione del fatto che per la momentanea situazione economica abbia dovuto licenziare più di un dipendente, e sia fuori di dubbio che alla riapertura completa della sua piccola azienda di trasporti si troverebbe senz’altro con diversi posti di lavoro rimasti ormai scoperti, si vede costretto a dare un’opportunità a tutti coloro che conosce in qualche modo, anche chi forse non gli pare del tutto all’altezza della propria generosità. “Va bene”, gli dice alla fine; “vorrà dire che proverai a fare il magazziniere, piuttosto che il contabile”.

Renato pare contento, non immagina neppure di che cosa precisamente debba occuparsi, però è ancora un ragazzo, e la sua timidezza è tale da non avergli permesso fino ad oggi di fare la benché minima esperienza di lavoro. Sua madre appare di nuovo dieto alle sue spalle, ringrazia anche lei sorridendo, ed intanto riflette su come sdebitarsi nei prossimi tempi per un favore di quel genere. Sapevano tutti, nel vicinato, che quel signor Parrini aveva un’azienda ben avviata, e che proprio non gli mancassero i quattrini; ma da lì a chiedergli un favore di quel genere, a nessuno tra coloro che abitano dietro alla sua residenza era mai venuto a mente. Quindi loro due rientrano, chiudono con garbo la finestra dopo i saluti doverosi, e Renato va subito nella sua stanza a riguardare le sue cose. Ha preso il diploma tecnico ormai da più di un anno, e di tutte le richieste di lavoro che ha spedito in giro fino adesso non gli è tornata indietro neppure un’opportunità di prova. Ora si sente quasi smarrito da quest’offerta: è come se si fosse quasi abituato all’idea che nessuno avesse davvero necessità dei suoi servigi. Rispettare degli orari, indossare indumenti precisi, muoversi al minimo accenno di un’attività da compiere, obbedire sempre: questo immagina adesso.

“Forse era meglio se sceglievo di occuparmi della contabilità”, dice a sua madre quando lei si affaccia alla porta della cameretta. Lei lo guarda, si avvicina, gli accarezza con un gesto semplice la nuca. “Non te lo avrebbero permesso”, gli dice a voce bassa. “Avrebbero finto di farti provare per qualche giorno, per poi scartarti, spiegandoti con due parole che non eri adatto”. Renato guarda sua madre con occhi spersi: “allora chiedermi di scegliere non era un atto vero, una possibilità che avevo”. Lei si muove come per mettere a posto qualche cosa, poi torna a guardarlo: “ci sono dei casi in cui qualcuno finge di essere magnanimo, di voler bene agli altri, come se donare qualcosa sia assolutamente senza interesse. Ma non è quasi mai così, e capita spesso che la furbizia di chi ha la possibilità di dare, resti in qualche modo superiore ad ogni gesto apparentemente generoso”.  

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Nulla da dire

 

         Lei è lì, non l’avevo neanche mai vista prima, saranno dodici o quindici metri dalla panchina dove sono seduto, seduta su di un’altra identica panchina messa di fianco, al margine del camminamento intorno ad una piccola vasca rotonda per i pesci rossi, nei giardinetti pubblici di questo quartiere. Nessuno dei due indossa protezioni, quindi non mi posso avvicinare o sedermi accanto a lei, forse potrei solamente chiederle qualcosa da lontano, ma ogni frase che in questo momento mi viene alla mente mi pare così scontata o addirittura banale da lasciarmi privo di qualsiasi fonema, incapace di pronunciare anche una sola parola, mostrandomi però come se già il mio riserbo e questo silenzio convinto, potesse assumere in qualche modo un certo valore ai suoi occhi. Lei legge un libro, ma si ferma ogni tanto, osserva qualcosa intorno a sé e poi qualche volta incrocia il mio sguardo, tanto che sto pensando di farle un sorriso, oppure una smorfia di simpatia, giusto per tentare di smuovere questa penosa e insopportabile sospensione. Ma non mi decido a fare un bel niente, restando qui semplicemente seduto, immobile, a guardarla ogni tanto, fino al momento in cui lei, chiuso il libro, si alza con calma per andarsene via.

         Il viottolo di ghiaia che subito prende è quello che porta alla strada asfaltata fuori dal giardinetto, varcando un pesante cancello di ferro battuto, ed io penso che devo fermarla in qualche maniera prima che giunga a superare quel passo, non perché ci sia una ragione precisa per farlo, quanto per una specie di traguardo che in questo momento mi pongo. Così affretto la mia camminata dietro di lei, e già il rumore dei sassolini sotto alle scarpe sono un indizio evidente del fatto che la sto seguendo, ma non aspettandomi certo che lei potesse girarsi verso di me, la chiamo nella maniera più stupida che mi possa venire alla mente: “signorina”, le fo con un tono che sembra già tolto dalla buffa recitazione di un attore del cinema, però lei si ferma, si volta, mi guarda, ed attende con rassegnazione il resto del mio debole darle disturbo. Mi blocco a distanza di sicurezza, con un gesto le faccio presente che non ho la protezione, lei sorride leggermente della mia evidente goffaggine, poi: “non l’avevo mai vista da queste parti”, le dico.

         Lei ha molta pazienza, sorride, osserva qualcosa da qualche parte togliendo il suo sguardo dalla mia sciocca espressione, non mostra però desiderio di andarsene subito, ma neppure la volontà in ogni caso di avviare una pur semplice conversazione con me, lascia soltanto che la nostra distanza in qualche maniera si faccia maggiore, forse per quei modi che ho avuto assolutamente inadatti, forse perché ritiene quanto le ho detto una sciocchezza da niente. Trascorre un secondo infinito, poi due o anche tre, ed in questo stallo lei muove il suo libro da una mano a quell’altra, come indecisa se lasciarmi così senza aggiungere niente, oppure scagliare contro di me una parola secca, che non lasci alcun dubbio. Abbasso lo sguardo; “sono uno sciocco”, le fo, tornando ad essere per un momento un po’ meno affettato. “E’ così difficile sentirsi naturali in questo momento, che si riesce alla fine ad essere unicamente impacciati. Parlo soltanto per me, mi pare ovvio”. Lei mi concede uno sguardo di un attimo, poi torna a voltarsi e a riprendere la propria via, ma dopo due passi si ferma di nuovo, a cinque o sei metri da me, in sicurezza: “non è molto che abito da queste parti”, mi dice con una voce meravigliosa. “Può anche darsi che accada di incontrarci di nuovo”.

         La lascio andare, lei supera il pesante cancello spalancato, prende da una parte senza girarsi, e sparisce così alla mia vista. Chissà, penso io, forse potremo davvero tornare a incontrarci; o magari è persino meglio che questo non debba accadere. Non so, rifletto con calma; in qualsiasi caso va bene così: non avevamo niente da dirci quest’oggi, e può darsi che neppure incontrandoci ancora riusciremo davvero a trovarli, gli argomenti di conversazione più adatti.

 

          

 

 

 

 

 

 

 

         Allontanato

 

         “Basta”, dice lui a voce alta da solo, mentre apre la porta del suo piccolo appartamento. “Sono stufo di starmene qui senza fare niente, ho bisogno di andarmene in giro, vedere un luogo diverso, liberarmi la testa”. Scende rapidamente le scale ma poi, una volta in strada, si ferma subito per osservare i dintorni. Non c’è quasi nessuno in questo momento, i negozi sono chiusi, le serrande abbassate, soltanto un paio di tizi un po’ stralunati con il rispettivo cane al guinzaglio. Prendere la macchina, scappare da qui a tutta velocità, pensa lui. Magari affrontando piccole strade provinciali dove non ci sono controlli, e poi arrivare sul mare, magari in qualche luogo isolato dove starsene in piena tranquillità e all’aria aperta. Poi sale sull’auto che lui non mette in moto oramai da alcune settimane, ma dopo un paio di giri il motore si avvia regolarmente. Ingrana la marcia e affronta l’asfalto, senza neppure riflettere dove andare di preciso e quali strade percorrere. Gli alberi lungo il viale, i marciapiedi vuoti, i semafori che occhieggiano regolando un traffico che non esiste, tutto appare strano, diverso, quasi surreale. Poi svolta a caso verso una strada periferica, e percorre tutto un lungo tratto fino a quando spariscono le case d’intorno, per lasciare spazio a larghi pezzi di terra abbandonati, con distese di erbaccia incolta invasa qua e là da qualche cespuglio spinoso.

         “La libertà è lontana da casa”, dice senza preoccuparsi di parlare da solo; la strada davanti serpeggia lungo alcune colline, mostra adesso ai propri margini qualche macchia di bosco e anche dei campi coltivati, lui guida con la mente via via più leggera, come se davvero si stesse liberando poco per volta del forte peso accumulato negli ultimi tempi. Va avanti così per almeno mezz’ora, supera un piccolo borgo di case dove sembra non ci sia neanche un cane, poi avverte sempre più forte l’aria di mare che entra con forza dalla fessura aperta del suo finestrino. Infine eccola, proprio laggiù: una striscia di azzurro incontaminato ed inconfondibile, una tavola d’acqua meravigliosa ed indifferente a tutti i problemi del mondo, col suo moto ondoso perenne, il suo essere sempre così da un tempo infinito. Lui si ferma vicino alla spiaggia deserta, priva di qualsiasi riferimento preciso, poi scende dalla sua macchina e subito affonda le scarpe nella sabbia dorata. Il mare rilascia con calma la sua spuma bianca sul bagnasciuga, e la linea merlettata dell’acqua mostra un confine inesatto con la terraferma, come se tutto fosse destinato ad un’interpretazione giocosa, e le onde giunte fin qui da chissà quale altra terra, iniziano a frangere e a rincorrersi lungo una zona a qualche decina di metri dalla riva appiattita, come sempre è successo.  

         Lui si siede vicino a quella battigia, poi si sdraia con le mani incrociate sotto la nuca, respira a fondo quell’aria leggera, sospinta da un vento di mare che non ha fretta, e che muove stancamente qualche nuvola bianca qua e là, come aquiloni sfuggiti di mano a bambini giganti. “Sono qui”, urla lui verso il cielo come per convincersi a fondo di quello che vede e che sente. Resta per molto nella stessa posizione, poi si sente spossato, quasi stanco del rumore del mare e del debole vento che continua ad accarezzarlo. Riprende la macchina, torna indietro, ripercorre con esattezza le strade che ha già attraversato, rivede tutto quanto quello che aveva visto poco prima, fissando adesso ogni dettaglio nella sua mente. Giunge davanti alla sua abitazione, parcheggia l’auto con calma, attende ancora un momento dentro quell’abitacolo, come se fosse rimasta imprigionata là dentro un po’ di quell’aria che ha respirato poco prima sul mare, poi chiude con cura i finestrini, sbatte lo sportello e si assicura della chiusura, cerca la chiave del portone condominiale ed apre con gesto deciso. “Sicuramente deve essere proprio così”, dice sottovoce mentre sta salendo le scale. “Ma è sufficiente l’immaginazione per sapere come sia veramente”. 

 

 

 

 

 

 

 

         Chiazza di vita

 

         Sto male, inutile finga ancora con i miei familiari, e a dirla tutta anche con me stesso. Dopo pranzo mi sono subito chiuso a chiave nella mia camera, ad aspettare che accadesse qualcosa che pareva ormai impellente nel mio organismo, ma invece niente è parso mutare, se non che ho perduto poco per volta qualsiasi volontà di rialzarmi da questa sedia dove mi sono sistemato. Sono stanco, spossato, incapace di affrontare qualsiasi decisione, così per adesso resto qua, ad osservare il muro di fronte ai miei occhi, come se sopra questa superficie imbiancata ci fosse già scritto qualcosa sul mio futuro. Non c'è più niente che io desideri davvero, se non essere lasciato da solo ad osservare i contorni appena evidenti di questa diffusa macchia che vedo sulla superficie della parete sopra al letto. Potrebbe anche essere una semplice infiltrazione d'umido, oppure una sostanza di chissà quale natura sbattuta là sopra per malagrazia chissà quanti anni addietro: una bevanda, una boccetta d’inchiostro, un succo di frutta zuccherino, un bicchiere di vino o d'acquavite, qualsiasi cosa scagliata di proposito con forza contro questo muro, magari per una ben giustificata ragione, oppure per un’altra quasi del tutto insulsa, e ricoperta in seguito, per superamento delle cose, con alcune mani di vernice, e da qualche tempo però riaffiorata, a far lieve mostra di sé.

Bussano alla porta, mi chiedono dall'uscio semiaperto se adesso abbia voglia di cenare, oppure se ci sia qualcosa che desideri. Fo cenno che non ho voglia di nulla, che non stiano a preoccuparsi per me, forse con una pastiglia riuscirò più tardi persino a stare meglio. Resto solo, e sono sicuro non miglioreranno affatto le mie condizioni di salute: sento la gola chiudersi, il respiro farsi sempre più affannoso, le forze mancarmi persino per lo svolgimento di qualsiasi sciocchezza. Guardo la macchia: adesso mi sembra persino più evidente, come se desiderasse soltanto far parlare di sé, e di qualcosa accaduto in questa stanza quando vi abitavano tutt’altre persone, diversa gente, inquilini forse di passaggio, o magari antichi affittuari cacciati via in un giorno orribile per semplice e sofferta morosità. D’altronde questa abitazione risale ad una costruzione effettuata alla metà del secolo passato, chissà quante modifiche, tinteggiature, traslochi e spostamenti di mobilio ha già visto in tutto questo tempo. Mi corico sul letto, anche da qui vedo la macchia, sono convinto che porti con sé qualcosa di significativo, anche se in questo momento incomprensibile.

Se la guardo attentamente mi pare che assuma una forma persino riconoscibile, come a volte succede facilmente con certe nuvole, che sembrano profili, animali, espressioni, miriadi di cose che in poco tempo svaniscono nel cielo, così come sono nate. Ma in questo caso niente sembra mutare, se non le mie condizioni di salute che paiono velocemente peggiorare, tanto da farmi urlare aiuto, per quanto non abbia più neanche la forza di parlare. Accorrono i miei familiari, tenendosi a distanza per ciò che hanno benissimo compreso, e si coprono immediatamente le vie aeree così come è stato già raccomandato, telefonando ai medici, all’ospedale, a chiunque possa in questo tragico momento riuscire a soccorrermi. Sono pallido, dicono, emaciato, senza un briciolo di vitalità, come se tutto il mio organismo stesse rapidamente collassando. Attendo, con il respiro che mi manca, ed infine giungono i soccorsi, persone chiuse dentro scafandri protettivi, capaci di insaccarmi velocemente come un salame e di portarmi via, dove forse qualche cura adatta potrà ridarmi un filo si speranza. Infine mi issano rapidamente sopra una barella, mi intubano con l’aria di una bombola, mi infilano un ago dentro un braccio, ed iniziano con lo spostarmi dalla mia stanza, dal mio piccolo rifugio dove ho trascorso molti degli ultimi momenti fino adesso. Mi voltano, e proprio mentre stiamo uscendo dalla porta riesco ancora per un attimo ad aprire gli occhi affaticati e a dare un ultimo sguardo d’insieme alla mia camera. La macchia sopra al letto adesso non c’è più, nascosta, asciugata, riassorbita dal muro forse, ed ha scelto rapidamente di tornare a nascondersi sotto all’intonaco della parete; almeno fino a quando non riuscirò a ritornarmene qua dentro.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Basta con le punizioni

 

         Laura è brava, obbediente, attenta, e qualsiasi cosa semplice le si chieda di fare, pur con le sue capacità un po' limitate, lei cerca testardamente di eseguirla, persino se non ne comprende del tutto il significato, e di portare avanti i suoi compiti in ogni caso, naturalmente al meglio che le possa riuscire. Certe volte però ride, si schernisce, specialmente quando non capisce qualcosa che le è appena stato detto, tanto che chiunque si accorge subito delle sue difficoltà, anche se lei non fa altro per evidenziarle, se non limitarsi a guardare un punto indefinito a terra, quasi per cercare l’ispirazione che in quel momento sembra mancarle, nell’attesa magari che tutto le venga spiegato di nuovo, disposta, come si dimostra ogni volta, ad ascoltare sempre ogni cosa che le viene detta, e ad impiegare tutta l’attenzione che le riesce. Costretta nelle ultime settimane a rimanere in casa insieme alla sua mamma oramai anziana, forse per un periodo di tempo un po' troppo lungo per le sue necessità, ha creduto ad un certo punto che quella di non poter uscire fosse quasi la punizione per un suo sbaglio inconsapevole. Così si è fatta triste negli ultimi giorni, sempre più seria, quasi senza più avere quella sua innata voglia di ridere e di stare insieme con gli altri. Sua madre l’ha fatta uscire subito quando si è potuto, portandola con sé dappertutto: in qualche negozio al momento in cui hanno riaperto, a visitare gli amici, lungo le strade del loro quartiere, e poi anche ai giardini, a salutare i conoscenti, anche se adesso Laura non sembra quasi più la stessa persona di prima, come se una parte di lei fosse mutata forse per sempre.

         “Va bene”, dice adesso Laura sottovoce, quasi tra sé, come se cercasse ancora di essere sempre d'accordo con chiunque su tutto quanto le viene detto. Parla un po’ meno di una volta, ed ora scuote il capo più spesso, forse per mostrare alla sua mamma che farà sempre in ogni caso tutto quello che lei vuole. "Non mi piace", fa però qualche rara volta quando la mamma si ferma a parlare con qualcuno e lei non comprende bene o per niente quegli argomenti. E in ogni caso si è fatta più seria, meno interessata a stare con gli altri, meno socievole, come invece mostrava di essere non tanto tempo più addietro. Ormai non è più una ragazza, ed il suo sorriso dolce mostra già qualche piccola ruga, però è una persona che tutti i vicini di casa conoscono, e nessuno può dire qualcosa di male su lei. Sua mamma, senza essere invadente, cerca di comprendere che cosa sia cambiato in poche settimane, ma non è facile capire che cosa le passi dentro la testa, specialmente quando lei pare triste, priva della volontà di relazionarsi anche con le persone che meglio conosce.

         Così stasera si siede con sua figlia al tavolo della cucina, la osserva senza insistenza mentre stanno cenando alla solita ora di sempre. “Non so cosa sia che non vada”, le fa la mamma evitando con criterio di porle una domanda diretta. “Forse ho sbagliato qualcosa; ma non riesco però a rendermene conto”. Laura allora la guarda con gli occhi sbarrati, con una commozione interna trattenuta all’estremo, e forse vorrebbe dirle che le vuol bene, come fa sempre, ed invece stasera si mette subito a piangere, come non riuscisse a trattenere una tristezza che pare uscirle da dentro in maniera diretta. “Sei la mia bambina”, le fa la mamma stringendola a sé, “non voglio che tu pianga”. “Va bene”, fa subito Laura; “però sono stati tutti lontani; e nessuno mi ha spiegato il perché”. La mamma cerca di dirle di nuovo cosa sia effettivamente accaduto alla gente, ma è difficile far comprendere a lei alcune cose, anche se adesso Laura sente di fidarsi maggiormente di quelle parole, e forse non crede più di aver meritato una punizione del genere solo per un suo stupido sbaglio. “Allora voglio tornare ad essere amica di tutti”, dice ad un tratto con convinzione. La mamma le sorride, ed anche lei, mentre si asciuga le lacrime, sente dentro di sé andarsene via, come trasportata dal vento, tutta la tristezza che aveva conservato fino a questo momento.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Casa di riposo

 

         Non ci sono più state delle vere giornate di riposo, da quando è iniziato tutto. Ho continuato a dirmi da sola, quasi continuamente, che questo è soltanto il mio lavoro, e quelle che mi trovo davanti a me durante questi turni infiniti alla casa di riposo non sono neppure delle persone vere, perché non hanno niente di simile a me oppure ai miei colleghi: sono soltanto coloro di cui devo occuparmi, uomini e donne anziani come sono, spesso ammalati gravi, infermi, qualche volta alla fine, soltanto corpi, di cui noi del personale di assistenza ci dobbiamo prendere cura, così come è stato già previsto dai nostri protocolli di contratto, fino al possibile raggiungimento del loro ultimo momento, e dopo basta, senza neanche conservarne poi troppa memoria. Perché, se per esempio cominciassi a farmi prendere emotivamente da quelle loro espressioni, dalle piccole storie che certe volte qualcuno mi ha raccontato, da quegli occhi imploranti, dalle mani che spesso cercano di stringermi, non potrei mai più fare questo mestiere. Distaccata, ecco come devo essere, professionale, con lo sguardo sugli strumenti quando ci sono, per controllare che tutto vada bene, che non si verifichino delle dimenticanze nelle terapie, nell’ascolto dei loro lamenti, oppure in quel continuo accudire di ogni bisogno, di qualsiasi necessità; e poi rimanermene sempre lontana il più possibile da quel particolare modo di essere stato di ognuno di loro per tutti quegli anni che portano sopra le spalle, ed infine restare indifferente anche a quella personale maniera che molti hanno adesso nella semplice dimostrazione di aver addirittura vissuto per tutto questo tempo. 

         Non si lamentano sempre, molti di loro anzi non dicono quasi nulla, lasciano con distacco al personale che hanno più vicino, sempre pronto ad occuparsi di tutto al posto loro, il compito di fare qualsiasi cosa sia necessaria, qualsiasi cosa di cui se ne ravveda l’emergenza, e dopo basta. Non ti guardano nemmeno, in tanti casi, quasi fossero indifferenti, disinteressati sia di noi del personale, che di ciò che li circonda, come se anche loro si fossero in qualche modo già distaccati dal proprio corpo, ed adesso osservassero se stessi quasi da una diversa dimensione. Certe volte mi arrabbio con qualcuno di loro, cerca di scuoterlo, di fargli prendere coscienza di quello che sta succedendo, di quello che rappresentano, e della vita che ancora possono vivere se reagiscono, ma non ottengo mai assolutamente niente, e resto lì come una sciocca, a chiedermi come mai continuo a perdere del tempo, quando in questo luogo devo solamente lavorare.

         Giunge poi questa donna dalla pelle rinsecchita e tutta grinze a dirmi che loro sono soltanto tutti vecchi, e per questo sono deboli, fragili i loro organi, prendono i bacilli con facilità, quindi si ammalano, soffrono, patiscono lentamente cercando forse di pensare a tutto ciò che neppure si ricordano del proprio passato, e di quello che è stato negli anni precedenti, e così sono anche più soli, isolati da una reale incapacità a difendersi, facili prede di qualsiasi malattia voglia presentarsi. La guardo un attimo: “non si preoccupi”, le dico, “sono cose che sappiamo bene tra tutti i miei colleghi; noi facciamo il massimo, voi dovete soltanto fare la vostra parte, e lasciarci lavorare”. Lei mi guarda, forse vorrebbe soltanto reclamare qualcosa, farmi comprendere con le sue maniere lente che non è sempre stato così, che c’è stato anche un lungo periodo della loro vita in cui hanno provato delle emozioni, dei forti sentimenti, magari dando prova d’intelligenza e di indubbie capacità d’intervento nei campi più disparati, che fosse stato l’andamento della propria famiglia o le redini di una complessa società, e che adesso è rimasto tutto dietro le loro spalle fragili, e che non c’è più altro da fare. Mi fermo, resto colpita dalle sue parole, così le faccio una carezza, ma subito le dico con freddezza che non è certo torturandosi che le cose potranno migliorare. Poi esco, vado subito nello spogliatoio deserto, apro l’armadietto dove stanno le mie cose, e subito inizio a piangere come una sciocca, anche se lo so, lo so benissimo, che non dovrei mai farlo.  

 

          

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Noia, soprattutto

 

         “Ho paura”, dice lui. “Non tanto della malattia, dell’ospedale, o delle cure; quanto delle conseguenze che può lasciare tutto questo”. Lei si muove nella stanza, e piegandosi sulle ginocchia apre con decisione  uno sportello del mobile più grande, ne tira fuori qualcosa, una coppa di vetro brillante e colorato, ne osserva la trasparenza con una certa attenzione per qualche attimo, ed infine la rimette al proprio posto. “Siamo tutti immobili a cercare l’equilibrio giusto tra le cose”, fa lei quasi sbuffando; “l’incertezza, è il dato più evidente”. Lui resta in silenzio, poi si alza dalla poltrona e si avvicina ad una finestra, cercando di individuare là fuori qualcosa di diverso dall’ultima volta che si è fermato a guardare quello scorcio di strada sottostante. “Non si può proprio fare nulla”, dice lui sottovoce, quasi cercando una parola finale su cui appuntare ogni sua riflessione.

         Suona il telefono, è un’amica di lei che adesso le chiede come vadano le cose. “Niente di speciale”, le risponde la donna; “come tutti stiamo nell’attesa che qualcosa si risolva”. Lui si muove nervosamente dentro la stanza, infine esce, come a mostrare che quel tipo di conversazioni non gli piacciono, tornando a farsi vedere in quel salone soltanto quando lei ha finalmente salutato la sua amica e riattaccato la cornetta. "Stiamo tutti quanti a chiamarci l’un l’altro sapendo comunque benissimo di dirci sempre le medesime cose", fa lui come se la telefonata avesse interrotto tra loro due qualcosa di importante. Lei si accende una sigaretta restando seduta presso il grande tavolo tondo di legno scuro, lo guarda per un attimo senza assumere alcuna espressione, infine si alza e va a controllare a sua volta se ci siano novità fuori dalla finestra.

"È tutto fermo", fa lui; "non ci sono variazioni, alcun cambiamento, niente; se non che questa attesa ci sta limando i nervi a tutti". "Solo pensare che è così anche in qualsiasi altro posto mi fa sentire impotente", fa lei tanto per dargli l'impressione di stare dalla sua stessa parte. Poi però si muove, apre una rivista che aveva lasciato sopra al tavolo, e ricomincia a leggere qualcosa mettendosi seduta con comodità. "Non so come fai ad essere così tranquilla", dice lui di scatto. "Difatti non lo sono", fa lei; "però non ho voglia di essere presa nel mezzo da qualcosa che neanche conosco". Lui la guarda, forse vorrebbe dirle che ci potrebbero essere anche altre maniere per dimenticarsi della situazione, magari meno individualistiche; però non dice niente, e cerca subito di occupare la mente con qualcosa che lo faccia sentire almeno utile.

“La mia paura è anche quella di non essere all’altezza della situazione”, torna a dire lui alla fine, forse per distrarre la donna da quella sua lettura silenziosa. Lei lascia trascorrere qualche secondo; “se ti ammalassi non credo ti verrebbe chiesto qualcosa al riguardo”, gli fa senza neanche osservarlo; “tutto precipiterebbe rapidamente in quel caso, senza che ci fosse neppure il tempo di venire a chiederti cosa ne puoi pensare”. Lui si mostra stizzito da queste parole, gira per la stanza come cercando qualcosa su cui fermare il proprio sguardo, poi risponde: “ci sono molte maniere di affrontare un’importante malattia che può portare a conseguenze gravi, non capisco come fai a non rendertene conto”. Lei sorride, cerca di evitare l’accensione ulteriore in lui della suscettibilità che mostra adesso, ma appare evidente che avrebbe molto da ridire, come ad esempio la preoccupazione che sospetta in lui di ciò che potrebbero pensarne gli altri, i suoi colleghi di lavoro, le sue conoscenze, le persone che frequenta insomma. “Nel caso sentenzieremmo soltanto che eri un gran brav’uomo, se è questo che tanto ti preoccupa”, gli fa. Lui si muove, e misuratamente apre lo sportello del mobile, prendendo in mano la coppa di vetro colorato a cui lei sembra tanto legata, la guarda per un attimo e poi la rompe a terra, fingendo una sfortunata sbadataggine. “”Non importa”, gli fa lei. “Tanto mi aveva già annoiato”.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Odioso ostentatore

 

         Mi stanno cercando. Mi sento braccato, come un animale in fuga, ed ho paura di commettere degli errori che portino rapidamente i miei inseguitori sulle mie tracce. Per questo mi sono infilato in questo scantinato buio e umido, per osservare la strada, in questo momento fortunatamente deserta, dalla grata di ferro che si apre al livello del marciapiede. Si stanno ammalando tutti in questo periodo, sostiene la radio; dicono che sono io che ho diffuso questa loro malattia, anche se sono sano, e devo per questo essere fermato, al più presto possibile, proprio per mettermi in condizione di non nuocere, qualcuno dice per isolarmi, altri per incenerirmi, per chiudere definitivamente con me. Non ho fatto niente di male penso, e se devo essere curato sono disposto a farlo, però la radio non dice così, ed io oramai ho paura di tutto. Hanno iniziato i miei vicini di casa a scansarmi incontrandomi, poi li ho visti a gruppetti che parlavano concitatamente tra loro, che telefonavano, che chiamavano probabilmente le forze dell'ordine, o chissà chi.

Così mi sono allontanato rapidamente da casa mia, ma non ho un luogo sicuro verso dove recarmi, così cerco di cambiare continuamente la mia posizione, fingendo ogni volta per strada di essere uno qualsiasi. In giro ormai non si vede quasi più anima viva, se non quelli con le divise che continuano a perlustrare ogni angolo. Sento dei rumori sopra di me, qualcuno dice: "l'ho visto qua". Parlano di me, non c'è dubbio, quindi devo trovare rapidamente un nuovo rifugio. Esco di corsa dallo scantinato e prendo velocemente lungo il viale. Nessuno sembra seguirmi, e a me non conviene certo andare troppo di fretta, attirerei subito l'attenzione di tutti. Così vado a sistemarmi sotto ad una piccola tettoia al margine di un giardinetto, riparato da un muro alla vista di chi sta transitando lungo la strada. La radio che ho nella tasca dice che va trovato al più presto colui che diffonde il bacillo infernale, e messo in condizioni di non nuocere a tutti quanti. Un giornalista ipotizza che gli untori, come dovrei essere io, siano ormai già una decina in questa città.

Passa una macchina con le sirene spiegate, la situazione sanitaria sta sfuggendo a qualsiasi controllo penso, e se agli ammalati inconsapevoli non viene fornita una via d'uscita efficace le cose d’ora in avanti saranno destinate soltanto a peggiorare. Ho fame, devo mangiare qualcosa, perciò entro in un supermercato qui accanto tenendo il bavero della giacca sul viso, in maniera che nessuno mi riconosca nel caso abbiano diramato per televisione delle fotografie. Si entra due o tre per volta, e tutti hanno la faccia coperta: sto tranquillo, metto velocemente i miei acquisti dentro al cestino e vado alla cassa. Nessuno mi dice qualcosa, pago i miei acquisti e poi esco. Ma la polizia è già lì che mi aspetta, con un paio di volanti messe accanto al largo marciapiede di fronte. Muovo la corsa alla mia destra, sento intimarmi qualcosa alle mie spalle, e dopo un secondo viene sparato un colpo di pistola, probabilmente in aria. Tremo, mi immobilizzo, le mie gambe non tengono, mi arrendo, non posso più ancora fuggire, e in un attimo gli agenti mi sono addosso, anche se nessuno di loro mi tocca. Intervengono subito alcuni infermieri coperti con degli scafandri, mi infilano un ago nel braccio e mi mettono rapidamente nelle condizioni di non reagire.

Mi portano via con un'ambulanza attrezzata, le sirene spiegate, una fretta maledetta, tutti che mostrano un nervosismo incredibile, fino a quando vengo tirato giù con una barella chiusa da plastica trasparente, e subito mi introducono in un reparto speciale, mi girano, mi auscultano, analizzano ogni cosa di me, fanno tutto quello che vogliono in pochi minuti, come dipendesse ogni cosa da quei risultati, da quegli esami, da quelle analisi composte da vetrini, reagenti, campioni, elementi di ogni natura. Non oppongo alcuna reazione, sono qui, sembro dirgli a tutti quanti, fate pure ciò che volete. Non ho niente, mi dicono dopo un po’; non sono positivo, posso anche andarmene via, dove voglio; anzi, mi dice un medico, devo immediatamente lasciare libero il luogo, perché adesso sono soltanto un intralcio, un ingombro, uno che oramai dà soltanto fastidio.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Giusto in questo modo

 

         “Durante questo periodo le cose sono cambiate”, dice lei. Nel giardino comunale dove loro due camminano, sembra sia stata tagliata l’erba di fresco, e l’odore che la natura lascia emanare adesso dal terreno soffice sotto al sole e negli spiazzi larghi tra le alberature rade, risulta estremamente intenso e piacevole. Ci sono delle panchine di legno scuro posizionate qua e là lungo i tortuosi viottoli di terra battuta, però non c’è quasi nessuno seduto, almeno in questo momento. Lui guarda avanti a sé come per mostrare tutta la sua possibile comprensione per le parole di cui sembra mostrare un attento ascolto: loro si stanno rivedendo oggi dopo parecchie settimane, e non essersi cercati quasi mai per telefono durante tutto questo tempo in cui ognuno è rimasto chiuso ermeticamente in casa propria, ha assunto alla fine un innegabile valore di distacco. “Forse aver potuto pensare con molta calma a tutto quanto, mi ha portato a rivedere alcune posizioni che in questi ultimi due anni avevo quasi dato per scontate”, gli fa lei. Un cagnolino poi, uscito da dietro alcuni cespugli, corre giocoso per un attimo verso di loro, ma ad un tratto però si ferma come ad osservarli, annusa alla sua maniera l’aria tesa e le facce serie dei due che si ritrova davanti, ed infine, alla stessa maniera di com’è arrivato, torna indietro. Lui vorrebbe aver già terminato con quella serie di chiarimenti che sa dall’inizio a che cosa porteranno, ma anche se è stufo di ascoltare tutte quelle chiacchiere, finge ancora di essere estremamente attento e interessato.

Di fatto vorrebbe rapidamente cambiare tema, portare il loro discorrere verso argomenti molto più leggeri, che magari quasi per magia riuscissero a far tornare un po' di quell’intesa che c'era un tempo tra di loro, anche se gli sembra molto arduo. Ma lei prosegue rigida e imperterrita a considerare che forse è stato un bene non essersi visti per quel lungo lasso di tempo, e che adesso almeno per lei le cose appaiono molto più chiare. Tornano indietro, ad un certo punto, e si apre come una pausa di silenzio nel loro camminare lento, senza alcuna fretta; lui non trova alcun argomento di cui trattare, anche se forse avrebbe parecchie domande da farle, ma all’improvviso tutte gli appaiono in un modo o nell’altro fuori luogo. Lei invece adesso sembra da sola, come se non si attendesse alcuna particolare reazione da parte di lui, ed una volta trovato il coraggio di esporgli la propria interpretazione dei sentimenti che tratteneva almeno in parte inconsapevolmente dentro di sé, e chissà da quanto tempo, avesse scoperto finalmente quella forza e insieme quella leggerezza che infonde nell’animo il proprio sentirsi bene, a posto, privi di quel peso che certe volte si continua a trascinare dentro se stessi.

Tornano alla strada, lui ha la macchina parcheggiata poco distante, si offre di accompagnarla  da qualche parte se lei vuole, ma ottiene come immaginava solo un rifiuto, così le propone di prendere almeno un ultimo caffè insieme in un locale con i tavoli all’aperto lungo il marciapiede. “Ma tu, sembra proprio non abbia niente da dirmi,” fa lei; “forse c’è stato fin dall’inizio soltanto un malinteso tra di noi; e probabilmente è stato tutto per colpa mia”. Lui sorride mentre si siedono, fa un cenno al cameriere, espone frettolosamente l’ordinazione, poi le tocca con leggerezza una mano sopra al tavolino, come a voler produrre in lei un’ultima possibile, improbabile, debole scossa carica di significati, con un senso forse vago, ma ben più alto di qualsiasi parola da tirare fuori. Lei lo guarda un attimo, lui si fa serio adesso, le lascia subito quella piccola stretta alla mano per prendersi una sigaretta e poi accenderla, come per emettere una boccata di fumo oltre loro due. Lei lo guarda ancora, forse attende qualcosa che non si verifica, intanto arrivano i caffè, il silenzio sembra farsi improvvisamente persino troppo pesante; poi lui le dice soltanto: “va bene così”.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Dure parole

 

         “Forse era addirittura meglio prima”, dico io. “Non che davvero andasse bene sentirsi obbligati a stare chiusi ognuno in casa propria, però era quello il momento di ritrovare alcuni valori individuali, ripensare con calma le proprie cose, e soprattutto evitare questa socialità falsa che adesso ha già ripreso ad imperare”. Attorno a me tutti mi guardano con sospetto, probabilmente qualcuno vorrebbe addirittura screditare con una semplice battuta quello che sto dicendo, però tutti si trattengono, mi guardano, sanno che per certi versi le mie parole non sono mai delle sciocchezze. “Bisogna stare bene con se stessi”, aggiungo, “piuttosto che mostrarsi in giro con il vestito migliore”. Poi me ne vado, nessuno ha avuto niente da dire, forse non c’è nessun interesse nel mettersi in contrasto con uno come me. Sono stato sindaco di questa piccola città, quasi quattro mandati addietro, ed in quella manciata di anni mi sono reso conto che la mentalità della gente è sempre l’elemento più difficile da affrontare e da cambiare.

         In ogni caso non ho certo rinunciato a dire a tutti la mia opinione, ed anche se oramai mi faccio vedere in piazza solo in qualche giornata particolare, ogni volta incontro sempre qualcuno che mi chiede un parere. Riflettere, questo credo sia l’elemento che sfugga più di tutto alle persone. Poi, mentre torno a casa con le mani sprofondate nelle tasche, mi chiedo a che cosa possa servire parlare con i miei concittadini, spiegare loro quello che penso, vedere sulle loro facce i soliti dubbi di ogni volta, quelli destinati a chi è sempre stato un po’ contro corrente, sciolto dalle logiche politiche e di potere. Si vive un periodo storico così particolare che basta alzare la voce e dire qualcosa di stringente per farsi seguire da qualcuno, ed oramai così deve essere fatto sia da parte di chi è onesto, che da parte di chi onesto quando parla non lo è, perché ambedue resterebbero senz’altro indietro comportandosi diversamente.  

         Quindi rientro nel mio appartamento, mi siedo alla scrivania per godere appieno della mia intimità, e metto giù rapidamente qualche appunto sulla carta per la costituzione faticosa di un mio diario, qualcosa che vuole tenere memoria di questi giorni, di questi pensieri, di questo sentire diffuso che si respira tra le persone. Ma questo pomeriggio non trovo neppure una parola giusta da aggiungere a quanto ho già scritto nei giorni appena trascorsi, così mi fermo, lascio tutto da una parte e poi torno ad uscire di nuovo, con la scusa di andarmene dal tabaccaio a comprarmi delle sigarette che peraltro fumo raramente. Ma sul portone incontro un tizio che ho già rivisto qualche volta, ma con il quale non ho mai parlato. Mi ferma: “non va bene quello che hai detto oggi”, mi fa. “Ci sono delle cose che non hai compreso”, aggiunge sottovoce; “o che forse non hai mai voluto prendere in considerazione”. Lo guardo con interesse, cerco di capire verso dove voglia andare questo suo discorso, e lui, che capisce il mio dubbio, mi respinge dentro l’ingresso del condominio.

         “Devi pagare”, mi fa, senza darmi neppure una qualche motivazione. Tira fuori un lungo coltello, forse per mostrarmi che non scherza, e lo fa con calma, guardandomi, senza un briciolo di esitazione o di perplessità. Improvvisamente mi rendo conto che le cose stanno precipitando molto più seriamente di quanto potevo immaginare, e forse vorrei anche dire qualcosa, cercare di far ragionare in qualche modo questo strano tizio che neppure conosco, ma alla fine decido di restare in silenzio, forse per paura, o per rendermi perfettamente conto delle sue intenzioni, o anche nella semplice attesa della sua prossima mossa. Lui si abbassa leggermente, come rendendosi conto all’improvviso di qualcosa, ma poi mi sferra una coltellata dolorosissima in una coscia, come per mostrarmi la concretezza del suo progetto. Cado a terra, mi esce ovviamente del sangue, ma non è una ferita grave, e lui invece se ne va, aprendo il portone e sparendo senza fretta.

 

          

 

 

 

 

 

 

 

 

         Abnegazione

 

         Davanti alle enormi vetrate, di fronte all’ingresso, c’è un enorme piazzale asfaltato riservato al parcheggio. Difficilissimo trovare là in mezzo un posto auto fino a qualche tempo fa, tanto che ultimamente fa quasi tristezza rendersi conto come spesso in questi giorni rimanga quasi vuoto. “Ho perduto la spinta”, fa lui all’improvviso mentre guarda le poche macchine ferme brillare adesso nel sole, qua e là. “Non dire sciocchezze”, fa lei dopo un attimo senza neppure guardarlo, mentre riordina alcune cartelle dei suoi pazienti dentro l’ufficio al secondo piano del piccolo ospedale cittadino. “Dico sul serio”, prosegue lui; “la missione che sentivo dentro di me si è come intorpidita in queste ultime settimane, ed adesso non sento più quel bisogno di profondermi verso gli altri che avvertivo da sempre dentro di me”. Lei interrompe per un momento il suo compito, osserva di fretta il profilo di quel medico che è sempre stato il suo punto di riferimento, poi fa: “sei stanco, indubbiamente; è normale sentirsi così in questo periodo, anche d’improvviso”.

         Poi ambedue scendono le scale, sempre tenendosi a dovuta distanza, salutano qualcun altro medico del personale che sta montando proprio adesso di turno, ed infine si fermano per un momento sul largo pianerottolo del primo piano, si accostano con calma alle macchinette per il caffè ed inseriscono uno alla volta la propria moneta prendendosi ognuno una bevanda calda. “Non so”, dice lui, “probabilmente non dovrei neanche parlarne, specialmente in un momento come questo, ma è come se all’improvviso tutto mi apparisse identico, monotono, sterile di qualsiasi possibile slancio. Sono cosciente del fatto che tutta la gente stia tifando per noi, per il nostro sacrificio in corsia, per la disponibilità totale che stiamo dimostrando, però qualcosa di intimo si è inserito dentro di me, ed anche se ancora sono orgoglioso di essere parte del meccanismo sanitario di questo paese, adesso però mi sento a terra, senza più alcuna volontà per andare avanti”.

         Lei lo guarda, e nota effettivamente una stanchezza profonda nella sua espressione, come se qualcosa davvero non avesse funzionato negli ultimi giorni durante il suo necessario ripristino quotidiano di entusiasmo, ed adesso provasse per questo motivo un intenso disagio, quasi un’incapacità a riprendere in mano il compito abbracciato e scelto per sempre. Sorseggia per un attimo il suo caffè, come sempre senza apprezzarlo, a compimento comunque del solito rito di fine turno, e poi pensa a tutte le parole che ha appena ascoltato dal suo esperto collega, senza riuscire ad obiettare qualcosa che abbia un minimo senso. In fondo è normale sentirsi svuotati quando tutto un paese ha richiesto da te il massimo in ogni possibile momento del giorno, pensa come fosse da sola. Ma non sa dire niente, niente che possa opporsi a quanto ha appena ascoltato.

         Ambedue gettano i bicchierini monouso dentro un bidone, poi rapidamente raggiungono la postazione dove si deve far strisciare il proprio cartellino dentro a una macchina, e compiono questa operazione esattamente come ogni giorno, in qualsiasi inizio o fine turno, forse senza neppure provare una particolare emozione. Escono, e finalmente sono all’aperto, davanti all’ampio parcheggio delle vetture, nell’aria pura e leggermente ventosa della serata, quasi priva da tutti i bacilli che purtroppo circolano dappertutto là dentro, in quella casa di cura, lasciandosi alle spalle un’altra giornata ordinaria, un altro turno concluso, un ulteriore servizio per la cittadinanza a cui generosamente hanno dato seguito, come ogni volta si deve, senza porsi domande, senza creare complicazioni. Quindi si salutano, senza dire altro, scambiandosi soltanto alcuni pensieri comuni, perché ognuno dei due ha una casa verso dove dirigersi, e ricaricare la propria abnegazione.

 

        

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Privi di possibilità

 

         Ho provato, lo giuro, ho provato con tutte le mie forze, e così mi sono spinto fuori da casa proprio come facevo un tempo, percorrendo da solo con calma quasi tutto il corso del paese a piedi, per poi andare a fermarmi al solito circolino, giusto per scambiare due chiacchiere con qualche conoscente, come ho sempre fatto nel passato. Ed in questi giorni in cui il peggio sembra ormai alle nostre spalle, ho ritrovato ancora là dentro i soliti figuri, le medesime persone, gli stessi tizi di sempre, a bere e a ridere proprio come facevano qualche mese fa, con qualsiasi tempo ed in qualsiasi stagione, esattamente come prima che si diventasse tutti dei soggetti ad alto rischio. Però a me è preso subito il tremore, la paura, il terrore folle di essere contagiato, di ritrovarmi senza respiro dentro il reparto dei soggetti gravi, senza neppure troppe possibilità di cavarmela; allora mi sono guardato attorno ed ho visto che ero l’unico a provare questa sensazione, e che non pensavo affatto le stesse cose di tanti altri che hanno già preso a comportarsi con grande indifferenza per quello che è accaduto, battendosi delle gran pacche sulle spalle e parlandosi l’un l’altro anche da vicino, spesso persino senza niente sulla bocca per proteggersi.

E poi non vorrei mai diventare anche una cinghia di trasmissione per chissà quant'altra gente che neppure conosco, ho riflettuto: parenti, amici, vicini di casa, sconosciuti qualsiasi; così ho preso e sono tornato a rinchiudermi da solo nel mio appartamento, senza attardarmi neanche un momento insieme agli altri, ed anzi evitando perfino quei saluti amichevoli di tutti i tiratardi del circolino, e poi le loro chiacchiere e anche le bevute senza freni. Adesso sto male però. Non so se sia la suggestione che mi è stata provocata da quegli sconsiderati che non si preoccupano mai di nulla, o se effettivamente la malattia abbia già iniziato il suo corso dentro al mio organismo. Però respiro male, ho la fronte sudata, forse ho la febbre, e non so neppure se sia il caso di rivolgermi a qualcuno che se ne intende, oppure rimanere in casa da solo nell’attesa che le cose vadano avanti in modo naturale, senza minimamente ostacolarle. Se ho sbagliato qualcosa, adesso devo pagare, questo è ciò che penso. Anzi, inizio a credere sempre di più che il male sia ciò che meritiamo tutti, dopo esserci approfittati in ogni dettaglio di ciò che la nostra umanità ci ha permesso fino ad ora.

Siamo indeboliti, questo è il punto, prede di qualsiasi microrganismo voglia attaccarci, incapaci di opporre alla forza della malattia una resistenza adeguata. Perciò adesso mi sdraio sopra al mio letto, osservo il soffitto per qualche attimo ed infine chiudo gli occhi, ad aspettare con pazienza che tutto lentamente si compia. Ma ad un tratto suonano alla porta, e mi scuoto rapidamente dal torpore che mi è preso, rimettendomi in piedi ed andando velocemente ad aprire. Davanti a me ci sono ora delle persone che non conosco, vestiti completamente di tute e maschere protettive, e dicono che devono campionare tutti gli appartamenti della zona, per cui indagare, analizzare, fare degli esami, prelevare saggi, tutto ciò che serve per comprendere meglio quello che sta accadendo. Li faccio accomodare, dico che sto male, che forse se ci fosse una cura per me sarebbe assolutamente ciò che ci vorrebbe: “altrimenti sono spacciato”, dico loro, “senza possibilità di andare avanti”. Mi fanno stendere, girano nel mio appartamento, uno mi osserva anche se non troppo da vicino, dice che ci vuole un intervento specifico per il mio caso, ed è proprio una fortuna che siano capitati loro con le strumentazioni giuste. Fanno anche qualche telefonata, mi impongono di stare fermo e di chiudere gli occhi senza affaticare nessun muscolo, fino a quando dicono che se ne vanno, e che tra poco comunque arriveranno i medici, c’è da stare più che tranquilli.

Dopo un paio d’ore senza che niente sia successo, mi alzo per fare due passi e bere un bicchiere d’acqua, e mi accorgo subito che il mio piccolo appartamento è stato completamente svaligiato, ripassato da mani esperte da cima fino in fondo, portando via qualsiasi oggetto di valore. Siamo tutti spacciati, penso adesso, non posso proprio avere altro che mi gira nella mente.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Libera nell’aria

 

         “Non è sempre stato così”, dice lei alla sua vicina di terrazzino, mentre sta quasi osservando qualcosa che in questo momento immagina come un punto lontano, oltre le facciate di tutte quelle case intorno decisamente simili, in fondo a quei palazzi di quartiere dove tutti gli inquilini hanno sempre finto di conoscersi tra loro, sentendosi uniti in qualche modo da quel loro semplice abitare, rimanendo poi tutti rinchiusi nei propri appartamenti per quelle tante e lente ultime settimane, condizionati in ogni loro azione individuale dalla paura folle del contagio, e scoprendo con sorpresa la notizia di qualcuno ammalato per davvero, in pericolo di vita, confessandosi sottovoce queste informazioni proprio dentro al piccolo supermercato della zona, entrando tre per volta, attaccati ai numeri delle vittime e degli ammalati ribaditi ogni giorno da tutti i notiziari. Non sono state molte invece le occasioni tra loro due per scambiare qualche parola: la sua vicina è giovane, sposata da poco tempo, ed è venuta ad abitare nell’appartamento accanto al suo praticamente meno di un anno prima. Poi tutto si sa, è come precipitato, ed il semplice buongiorno scambiato inizialmente per pura cortesia sulle scale del sesto piano oppure dentro l’ascensore, è diventato rapidamente un rispettoso e distanziato: “come va?” accompagnato ad un largo sorriso, tanto per sentirsi in fondo dalla stessa parte, e per ripetere quasi le medesime cose di ogni giorno.

         Lei al contrario abita in quel palazzone senza caratteristiche da più di trent’anni filati, dall’epoca lontana in cui era ancora in vita suo marito, quando le giornate spesso apparivano molto più leggere, prive di preoccupazioni vere, senza le ossessioni che adesso ormai paiono addirittura quasi naturali. “Ci sembrava il paradiso questa zona e questa casa”, aggiunge poi con un leggero sorriso amaro. L’altra non riesce a spingersi così indietro nel tempo tanto da immaginarsi quel quartiere in anni così differenti, però annuisce, dà ancora due colpi di scopa al pavimento del terrazzo e quindi rientra, per continuare con le sue occupazioni. “Forse era quella scarsità di soldi in tasca a costituire una vera e profonda differenza”, pensa adesso lei, rimasta sola davanti alle file ordinate delle tapparelle tenute dai residenti degli appartamenti a metà corsa sopra le finestre dei palazzi in faccia al suo. “Però si stava bene, sembrava proprio non mancasse altro”. 

         Quindi rientra dentro alle proprie quattro stanze, con un’ultima occhiata all’aria tiepida ed alla luce intensa che regna subito là fuori, quasi una rondine che gioisce per un po’ di cielo aperto, per poi infilarsi subito dopo dentro un tetto. “Neanche i miei figli hanno apprezzato tutto questo”, pensa ancora; “ed appena ne hanno avuta la possibilità, sono volati via, come se questa fosse stata per loro quasi una piccola prigione”. Anche lei evidentemente si era dovuta accorgere, ad un certo punto, ma molti anni dopo, che quel quartiere tirato su rapidamente negli anni in cui l’economia girava bene, non era esattamente il paradiso, però l’abitudine a stare in quella casa non le era minimamente mai parsa una possibile costrizione, non come adesso comunque, quando d’improvviso le quattro mura sono diventate per tutti, e anche per lei, l’unico luogo dove poter sedere e respirare senza filtri e protezioni, il solo ambiente adatto per una tranquillità completa, come hanno continuato a ripetere le autorità in tutti questi mesi e ad ogni notiziario.

         “Non importa”, pensa adesso mentre si siede nel suo angolo di casa preferito. “Passerà anche tutto questo”, proprio come qualsiasi altro periodo difficile che in una vita ci si trova ad affrontare. Torneremo a stare bene, ad essere contenti di quel poco che comunque ci è toccato, e a dare un’altra occhiata al cielo, da queste finestre o dalla terrazza, ed a scoprirsi già contenti di sentirsi liberi nell’aria, almeno per un attimo.

 

        

 

 

 

 

 

 

         Perdita di tempo

 

         Guardo ogni tanto le informazioni che mettono in onda quelli della televisione, poi leggo giusto qualche riga tra quegli articoli pubblicati sopra ai giornali pieni di pubblicità che vengono forniti gratuitamente davanti ai supermercati, ed infine seguo anche qualche notizia in rete sul visore del mio telefono portatile, e faccio tutto questo però in modo molto distratto, senza approfondire mai troppo neppure qualche dettaglio, naturalmente per rimanere il più distaccato possibile dalle opinioni degli altri, e quindi maggiormente obiettivo, più imparziale, anche se ogni giorno mi convinco sempre di più che niente tra qualche tempo sarà più identico a prima. Sta andando tutto alla malora, questo è il punto, e tra coloro che continuano a tenere stretto il potere non interessa un bel niente della gente semplice e normale, esattamente come sono io. Intanto personalmente devo ancora rendermi conto se il contagio sia stato voluto da qualcuno di preciso oppure no, e poi sono convinto che ci sarà senz’altro una parte degli individui più in vista a livello globale che riuscirà ad approfittarsi della situazione che si è creata negli ultimi tempi, mentre la gente semplice a cui anch’io appartengo, rimarrà per forza strangolata dal disastro economico che sicuramente arriverà tra poco tempo.

         Resto in casa, esco, neanche so più neanche io in quale modo comportarmi: mi sembra un’ironia dare ancora retta a quello che le autorità ci chiedono di fare; penso che ogni tanto una bella depressione finanziaria con il seguito delle inevitabili masse crescenti tra disoccupati e famiglie ormai ridotte pressoché alla fame, sia proprio quello che ci vuole a chi ormai si è già arricchito alle spalle degli altri nel momento giusto e non vuole certo perdere adesso neppure un centesimo di tutto ciò che è riuscito ad accumulare. Siamo alle solite di sempre, non è cambiata una virgola dell’ingiustizia sociale che da queste parti è sempre esistita. Non sopporto più nessuno, mi sento preso in giro da chiunque si metta a parlare con quella supponenza che tradisce subito una falsità di fondo di cui avverto l’odore fin da lontano. Noi del popolo siamo presi nel mezzo, penso, e a questo punto non è più neppure possibile tentare di ribellarci.

         Mi chiudo dentro la mia stanza, vorrei isolarmi da tutto e smetterla una buona volta di pensare che non c’è proprio niente che io possa fare per cercare una via d’uscita da questa situazione. Sono fregato, questo è il punto, nessuno potrà darmi mai quello che desidero e che secondo me sarebbe sacrosanto. Poi suonano alla porta, vado ad aprire già di malavoglia, senza alcuna curiosità, così apro leggermente l’uscio e vedo dallo stipite che è soltanto il mio vicino di casa che è venuto a chiedermi qualcosa, restando comunque a distanza sopra al pianerottolo e con la protezione prevista ben pressata sulla faccia. “Sono a terra”, mi fa, “non ho più neppure un soldo, ed anche se mi hanno già promesso degli aiuti, intanto non ho niente neppure per mangiare”. Lo guardo un attimo: “sono nella tua stessa condizione fratello”, gli fo senza starci troppo a pensare, così lui abbassa lo sguardo e dopo un secondo se ne va, senza neppure insistere.

         Lo so, forse avrei potuto dargli qualcosa, oppure dividere con lui la scorta di roba che ho nel frigorifero, però non è colpa mia se la situazione porta ognuno a rinchiudersi in se stesso, a fregarsene degli altri: è il sistema che ha generato tutto questo, penso con rabbia; noi poveri cristi siamo soltanto delle pedine rimaste in mano a che ci muove come vuole. Mi apro una lattina di birra e ne butto giù un bel sorso: e poi chi lo conosce questo qua, è soltanto uno che mi abita di fronte, uno che si comporterebbe esattamente nella stessa maniera nei miei confronti; per questo è del tutto inutile persino continuare ancora a rifletterci.

 

          

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Attacco diretto

 

         “Non ci avevo neppure mai parlato, prima di adesso, però gli ho preso la mano, ed ho atteso con infinita pazienza che chiudesse i suoi occhi”, pensa lui da solo quasi sdoppiandosi dentro la sua mente, cercando in sé quella freddezza che il suo mestiere a volte gli richiede. Poi spiega ancora ai suoi pensieri di essersi semplicemente allontanato con lentezza nelle luci basse del notturno ospedaliero, nel suo piccolo reparto, dopo aver annotato l’orario e la situazione verificata, e di aver probabilmente pensato che tutti quanti in fondo siamo destinati a spegnerci, chi più lentamente, altri invece all’improvviso. Infine però ha telefonato a casa, perché in fondo non era neppure troppo tardi, e sua moglie gli ha risposto subito, come fosse quasi in sintonia almeno con alcuni dei suoi sentimenti più profondi. “Sono un po’ provato”, le dice adesso senza darle troppi dettagli, “anche se è normale che certe cose avvengano in un luogo come questo”. Poi ha riagganciato, si è seduto nello stretto ambulatorio in fondo al corridoio, ed ha iniziato a scrivere le pratiche e i dati del caso. 

         Adesso attende quasi con irrequietezza che qualcuno dei pochi pazienti in corsia schiacci il pulsante del campanello, che lo chiami, lo tenga impegnato, perché ha bisogno di sentirsi ancora in azione, di essere di nuovo utile a qualcosa, di riuscire a mandare avanti il suo lavoro, piuttosto che mettersi in un angolo a riflettere su tutto quello che accade e poi basta. Giungono rapidamente i colleghi che si occupano di queste cose, e prendono in carico la situazione; lui assiste alla sistemazione del corpo inerte di quella persona anziana, e nessuno tra loro scambia una sola parola, ognuno sa già perfettamente che cosa fare, ed ogni espressione di qualsiasi tipo apparirebbe solo superflua. Ed i suoi occhi per un momento sfondano il muro della nuda ed immodificabile realtà, assistendo quasi impotenti allo scorrere ordinario di un’intera vita davanti a loro, un’esistenza fatta di mille difficoltà, di risate, di piaceri, ma anche di tantissime giornate dure e tristi.

         Poi i colleghi portano via tutto, lasciando soltanto alle loro spalle un posto vuoto, che lui con calma inizia a riassettare, nonostante l’ora notturna, con gesti semplici, misurati, che cercano per professionalità l’indifferenza massima, per lasciare accogliere al meglio proprio in quel letto, forse tra non molto, un altro corpo, un nuovo malato, un’altra vita intera in balia di un destino che appare immutabile eppure concreto. C’è un filo sottile che segna il margine tra il lavoro e l’emozione, e certe volte resta difficile tener distanti questi due mondi, anche se è così per tutti, e nessuno può pretendere di sentirsi maggiormente sensibile rispetto ad un altro. I minuti scorrono nel silenzio teso tra il corridoio e le camere, accompagnati da un debole ronzio di qualche lampada bassa. Lui cammina tra la porta d’entrata e la finestra, con passi leggeri e cadenzati, percorrendo quel tratto parecchie volte, quindi si ferma, torna a sedersi, riprende in mano le cartelle dei suoi pazienti.

         Un nuovo giorno domani, dice il suo doppio; si volta una pagina, si devono affrontare altre cose, nuove difficoltà, far fronte ad ulteriori sacrifici. Ci vuole forza, lasciare rapidamente alle spalle altre nottate esattamente come sta trascorrendo questa, e dimenticare rapidamente ogni sguardo scambiato, ogni stretta di mano, ogni piccolo dolore trasmesso nell’aria da queste tante persone che ci si trova di fronte: anziani, sfortunati, fragili, facili prede, nella loro debolezza, di un attacco disumano e feroce, a cui non possiamo facilmente rimediare, ed appigliarci a tutto ciò in cui possiamo ancora essere utili, senza guardare mai indietro, perché questo è quanto ci è dato di fare, nient’altro. Poi però lui appoggia lentamente i fogli sopra il suo piccolo tavolo, ed una lacrima adesso inizia a scorrergli calma sopra il suo viso.

 

          

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Insopportabile

 

         Lo so, mio figlio era ancora troppo piccolo per comprendere da solo quello che realmente stava accadendo. E nonostante ogni sforzo che ho cercato di imporre anche a me stessa per portarlo minimamente a riflettere sulla necessità di adottare certi comportamenti in questo difficile periodo, lui alla fine ha deciso ogni volta di fare a malapena quello che gli chiedevo, come per un semplice favore alla sua mamma, e nient’altro. Ho cercato più volte anche di mettermi nei suoi panni, e quindi di tornare ogni volta a spiegargli il motivo per cui non era possibile andare ai giardini insieme agli altri bambini del quartiere che lui conosce, oppure a trovare suo cugino più grande di due anni come qualche mese addietro facevamo. Ma lui ha proseguito a lamentarsi costantemente di qualsiasi cosa e dopo basta, tenendomi regolarmente il broncio.

         “Sei cattiva”, mi ha anche detto qualche volta, come per far ricadere la colpa di tutto su di me, ed io mi sono limitata a sorridergli, tornando a spiegargli con pazienza come stavano davvero tutte le cose. Non è facile tirare su da soli un figlio come il mio, ed in più questo periodo così difficile non ci voleva proprio, né a me, e tantomeno a lui. Mi sono vista disperata in certe giornate, così ho alzato la voce, gli urlato contro, l’ho persino minacciato, lasciando da parte, almeno momentaneamente, ogni volontà di comprensione. Mi è venuto persino da piangere in qualche occasione, per la rabbia repressa, per la situazione, per la sfortuna tremenda di ritrovarmi in una condizione come questa. Adesso non so più cosa pensare: si può tornare fuori poco per volta, andare in giro, riassaporare un briciolo di normalità; ma il guaio è fatto: mio figlio mi guarda senza sorridermi, sembra non fidarsi più di quello che gli dico, e spesso decide di starsene in silenzio piuttosto che sentire ancora la mia voce che cerca soltanto di spiegargli le cose di sempre.

         A me pare sia cresciuto estremamente in fretta durante questa semplice manciata di settimane, ed i suoi sentimenti verso di me sembrano aver virato verso il sospetto, l’incredulità, persino il dubbio, quando cerco solo di parlargli come sempre ho fatto. Lo so che non mi accetta, ed a me di controparte lui riesce sempre meno sopportabile, anche se non dovrei neppure pensare una cosa di questo genere. Certe volte in questi ultimi giorni vorrei quasi soffocarlo mentre dorme, e poi immediatamente andare a gettare il suo corpo da qualche parte, dentro un fosso d’acqua magari, che se lo porti via con la corrente. Non sono vere parole da mamma queste, lo so benissimo, però ci vuole comprensione anche nei miei confronti, perché io mi sento esasperata, non sopporto ancora questo andamento delle cose, ed avverto sempre più forte la necessità di riappropriarmi della mia esistenza. Ormai non telefono a nessuno, mi rinchiudo nei miei pensieri e mi limito ad incrociare uno sguardo carico di odio con mio figlio, regolarmente ricambiato con il suo modo di osservarmi.

         Non può durare a lungo questa situazione, me ne rendo conto benissimo, ed aspetto da un momento all’altro che accada qualcosa di irreparabile. Devo difendermi, questo è il punto, perché so con certezza come lui adesso abbia maturato la forza necessaria per prendere un coltello da cucina e di recidermi la gola. Non gli posso permettere una cosa di quel genere, dopo tutto ciò che ho fatto nei momenti più difficili di questo periodo di chiusura claustrofobica. Devo stare attenta, studiare le sue mosse, attendere con calma che si scopra, che mostri le sue vere intenzioni, e poi sorprenderlo con uno studiato contropiede, neutralizzandolo in un attimo, e mostrandogli così in questa maniera che anche per conto mio si è superata ormai la soglia di qualsiasi sopportazione.

 

          

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Senza neanche rassegnarsi

 

         “Mi devono aiutare”, dice oggi con enfasi il proprietario della piccola gelateria sul mare ai suoi pochi clienti di adesso, negli scarsi momenti in cui qualcuno si fa vedere dentro al suo locale, naturalmente uno per volta. Tutti loro lo ascoltano e annuiscono con semplicità, e dicono che ha perfettamente ragione, ma dopo se ne vanno, indifferenti ai guai economici che girano attorno a quel suo storico esercizio. Settimane di chiusura senza avere il minimo appoggio, neanche morale, pensa lui nelle pause. “Mi hanno lasciato solo”, dice certe volte in questi giorni a chi ha voglia di ascoltarlo, e sono sempre di meno. Perché anche lamentarsi non è mai una bella cosa: la clientela sfugge volentieri a chi se la passa poco bene, ed ascoltare sempre i soliti discorsi quando si sta cercando un po’ di svago e leggerezza, non è certo piacevole. Tutti lo sanno che il momento risulta oltremodo difficile, e che si devono fare molti sacrifici. Ci vorrà del tempo per tornare quelli che eravamo, dice qualcuno; però non si può scaricare le proprie preoccupazioni sul primo che ti passa sotto al naso, questo è quello che pensano quasi tutti coloro che lo conoscono di più.

         Ha piazzato due o tre tavolini fuori dalla piccola vetrina, sul marciapiede, ma nessuno in questi giorni sembra abbia davvero voglia di sedersi in quello spazio angusto, e quando qualcuno invece entra dentro al suo locale, finisce per prendersi appena un piccolo cono gelato, e dopo se ne va. Non sono più quei momenti in cui c’era la fila fuori in certe giornate di primavera o durante i primi caldi avanti l’estate. Lui aveva anche due aiutanti che stavano dietro al banco frigo per servire, ed una ragazza sul retro a preparare continuamente con le macchine i contenitori, pieni dei vari gusti maggiormente richiesti: le cose andavano bene, a lui non rimaneva altro che starsene alla cassa, fare dei saluti e sorridere ai clienti, mettendosi in tasca un bel po’ di soldi tutti i giorni. Ha telefonato innumerevoli volte alle autorità per spiegare che adesso non riesce a farcela da solo se non viene aiutato, ma gli hanno fatto qualche blanda promessa e dopo basta, come per fargli capire che deve semplicemente inventarsi qualcosa per conto proprio se vuole rimanere in piedi.

         “Le spese vive sono rimaste tutte”, dice ad una donna che ha notato altre volte fermarsi lì da lui, e lei lo guarda, comprende perfettamente quale sia il problema: dopo mesi di chiusura, adesso era il momento di tirare il fiato, ma alla gente non va più di spendere, e da quel lungomare non passa quasi più nessuno. “Capisce il mio problema”, fa lui insistendo; e lei lo guarda ancora per un attimo con una piccola coppetta di crema e cioccolato in mano, tanto che le viene quasi voglia di lasciargli una mancia sul bancone, ma poi va via semplicemente pagando quello che è previsto, per non offenderlo, e non per altro. Lui adesso prepara soltanto le varietà di base del gelato, quelle più tradizionali, senza proporre sapori ricercati come in altri tempi. Ma in una giornata intera di lavoro in cui fa tutto da solo, riesce a mettere in cassa appena quello che gli serve per pagare l’affitto e le materie prime che ci vogliono per i suoi prodotti.

         “Mi sento disperato”, dice ad uno che passa da lì con la sua bicicletta, fermandosi soltanto per fargli un saluto. “Non ho neppure la licenza per tenere fuori i tavolini e le sedie, non ho mai avuto bisogno di fare del richiamo davanti al mio locale; ed invece adesso se passa un vigile in divisa, per il suolo pubblico potrebbe farmi una multa che non posso neanche pagare”. L’altro scuote il capo, poi riprende a pedalare, lasciandolo lì coi suoi pensieri. Questa è la vera depressione economica, pensa adesso lui rimasto solo. Quando d’improvviso ciò su cui contavi crolla, ed anche se hai ancora voglia di tirarti su le maniche e darti da fare per resistere, scopri che non è possibile, nessuno ti fa credito, e che le cose per te hanno girato proprio male: devi soltanto rassegnarti.

 

          

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Pulito e pettinato

Sono stato fregato. Mi hanno appiccicato della roba che in apparenza sembrava buona ed anche a basso prezzo, ed invece era soltanto segatura, senza alcun valore. Volevo festeggiare, anche se non c'è niente in realtà da festeggiare, e fingere di stare bene, sentirmi contento, perché mi hanno detto che se sai tirarti su di morale hai fatto già metà dell'opera. Nel condominio dove abito mi tengono a distanza, come fossi un appestato, forse dicono di me che sono un drogato, poco di buono, un avanzo di galera ecco, ed è meglio non aver niente a che fare con gente della mia natura. Forse hanno ragione, in fondo non sono riuscito a combinare niente di buono in questi trent'anni che mi porto appresso, magari perché non ho mai trovato la mia strada, non sono stato capace di perseguire davvero un obiettivo. Ma non ci penso, generalmente vivo alla giornata, consolandomi quando riesco a star bene per un intero pomeriggio, oppure una serata.

Non è che mi interessa soltanto far lo scemo assieme a qualcun altro proprio come me che inevitabilmente trovo davanti ai soliti locali che frequento, con una birra in mano, la battuta facile, la voglia di tirare tardi senza alcun pensiero. Lascio passare il tempo, allontano dalla mia persona ogni altra cosa, e poi rido, e fingo di divertirmi, ma come per una specie di difesa. Quando poi resto da solo invece, tutto crolla all’improvviso, e mi ritrovo preda di una profonda angoscia, di una necessità profonda di essere capito davvero da qualcuno, qualcuno che abbia anche voglia di aiutarmi, qualcuno che mi spieghi, sempre che lo sappia, che cosa devo fare in un momento come questo, perché io proprio non riesco a comprenderlo.

Ho trascorso il periodo di quarantena come un carcerato, muovendomi nervosamente da una stanza all'altra della casa dove abito. Certe volte ho preso le scale condominiali e sono sceso quasi di fretta fino al portone, ho guardato per un attimo la strada del quartiere, poi sono risalito su, come se fossi stato chissà dove. Capisco che siamo sprofondati tutti quanti in una stessa situazione, ma per me la solitudine è forse qualcosa di peggio che per altra gente. Mi sono innervosito, mi sono arrabbiato con la televisione accesa, poi ho preso un coltello da cucina e ho minacciato a caso la signora che abita l’appartamento di faccia sul mio pianerottolo. Lei ha avuto parole rassicuranti, non è scappata subito come immaginavo, ha detto che il momento era difficile per tutti, ma lo ha spiegato con parole piene di tranquillità, pur restando un po’ a distanza da me. Mi sono messo a piangere ad un certo punto, e lei ha compreso che la mia sofferenza non era una posa, ed ha detto con voce calma che dovevo portare un poco di pazienza, e che lei mi avrebbe suonato il campanello per sentire come stavo ogni mattina ed ogni sera.

Lo ha fatto davvero, e la sua piccola visita è diventata per me giorno dopo giorno un appuntamento davvero importante, tanto ogni volta da farmi trovare da lei con la barba corta, ben pettinato, con i vestiti puliti e così via: un aspetto rispettabile, ecco cosa ho cominciato a mostrare grazie al suo piccolo aiuto, come se in quel periodo avessi preso a guardarmi proprio con i suoi occhi. Quando suo marito mi ha detto che era stata portata in ospedale mi sono sentito mancare la terra sotto ai piedi, e sono sprofondato di nuovo e rapidamente nella sofferenza. Adesso qualcuno mi ha fregato, ma io devo essere più forte, lo devo a lei, e smetterla con i soliti comportamenti. Così mi sono pettinato, ho messo un vestito pulito, e sono uscito per fare un giro; senza farmi vedere però davanti ai soliti locali che frequentavo un tempo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Come ogni giorno

 

         Lui stamani ha indossato con calma una camicia pulita e stirata, e poi sopra una delle sue divise estive che sono in uso ormai da parecchie settimane perché fa già un caldo estenuante; quindi ha preso la borsa con dentro alcuni documenti, la sua pistola di ordinanza, il cappello, ed alla fine è uscito, come ogni mattina, o almeno come tutte quelle mattine in cui rispetta questo turno di attività. Si sente fiero del suo grado e della livrea impeccabile, e quando esce da casa e si guarda attorno nel gusto frizzante dell’aria di un nuovo giorno che si avvia ad iniziare, gli piace molto anche incontrare subito qualcuno tra i suoi vicini oppure tra i negozianti della zona dove abita, il giornalaio, o la tabaccaia, ad esempio, persone che conosce e che lo guardano sempre sorridendo augurandogli il buongiorno mentre si avvia ai suoi impegni quotidiani; spesso gli sembra addirittura che dipenda proprio da quel semplice segnale lanciato dai conoscenti tutto il buon esito della sua giornata. Sa che in caserma l’appuntato già lo aspetta per uscire fuori con la macchina di servizio, il solito giro di ricognizione, poi probabilmente andranno a fermarsi dalle parti dell’incrocio con la strada statale, per fermare qualche auto e tastare il polso alla situazione, per redigere insieme a fine mattinata un rapporto ben circostanziato su tutto ciò che riusciranno a constatare circa i comportamenti della popolazione riguardo al rispetto delle nuove normative di governo.

         “Buongiorno maresciallo”, dice uno dei giovani carabinieri di fresca nomina distaccati in quella piccola sede di paese. Lui risponde come sempre sottovoce, con il suo fare sornione, di chi la sa lunga sulla maniera di dirigere al meglio una stazione come la sua, dove ad operare sono sempre in pochi, e qualche volta assolutamente insufficienti ad affrontare certe casistiche complesse come questa della trasmissione virale tra i cittadini del loro territorio. “Oggi ci segnalano altri due nuovi casi dal comando di compagnia”, dice con profonda serietà chi ha trascorso il turno precedente a decifrare le notizie e a raccogliere le informazioni che giungono in caserma. “Va bene”, dice lui mentre aziona la macchinetta a cialde per farsi una tazza di caffè; “hai già trascritto tutti i dettagli immagino: lasciali sopra la mia scrivania, così li consulto prima di uscire”. 

         L’appuntato in quel momento è appena rientrato dalla rimessa da dove ha già tirato fuori la loro macchina di servizio, salito i tre gradini all’interno della robusta recinzione che circonda la palazzina, ed entrato dentro gli uffici con un fare vagamente agitato. “Buongiorno maresciallo”, dice togliendosi in fretta dalla testa il suo cappello. “Forse ha già visto la brutta novità del giorno”. Lui lo guarda, si ferma un attimo perplesso con la tazza del caffè sorretta da una mano, mentre con l’altra fa il gesto come per incoraggiare subito ciò che c’è di così urgente da apprendere. “La moglie del sindaco”, fa l’altro; “portata via d’urgenza già in gravi condizioni”. Lui si siede lentamente alla sua scrivania, si sente perplesso, quasi costernato, poi prende con gesto misurato il telefono portatile e chiama immediatamente il sindaco, che però non gli risponde. Sicuramente ha cose estremamente importanti adesso che gli girano rapide dentro la mente, riflette. Ma dopo un attimo il sindaco lo richiama: “sono in ospedale maresciallo, non so che dirle”.

         “Lo so”, dice lui con estrema calma; “volevo soltanto farle presente che noi tutti siamo a disposizione per qualsiasi cosa di cui abbia bisogno”. Il sindaco lo ringrazia, non è certo il momento per chiamarsi per nome come in genere fanno, o per darsi del tu in modo amichevole come sempre succede nel corso dei mesi. Qualcosa di più importante adesso mette in fila le cose, e le lascia misurare con un metro fondante, essenziale, quasi alla base di qualsiasi espressione si cerchi dentro la testa. “Mi sento smarrito”, aggiunge soltanto il sindaco in questo momento; e dopo riattacca. “Appuntato”, dice il maresciallo alzando la faccia dalla scrivania; “abbiamo un dovere da compiere adesso, e niente potrà esimerci dal portarlo avanti, neppure oggi”.

 

        

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Analisi dei sintomi

 

         Da qualche tempo lei non si sente bene, ormai è chiaro. “Ho l’espressione stanca” dice mentre si trova nel bagno di casa davanti allo specchio; “probabilmente avrei bisogno di vitamine”. Suo marito naturalmente non si è accorto di nulla, lei è pienamente consapevole da sempre della superficialità di quest’uomo, e sa benissimo che in merito ad ogni difficoltà della sua consorte è come se si trovasse di fronte qualcosa che non rientra minimamente nel campo dei suoi interessi, tanto che se lei gli facesse notare proprio adesso questo suo aspetto poco promettente, è sicuro che come ogni volta lui si limiterebbe ad alzare le spalle, quasi per sostenere che non si intende di cose del genere, e che quindi è meglio se cercasse di sbrigarsela assolutamente da sé. “Provo stanchezza per qualsiasi piccola cosa abbia in mente di fare”, dice ancora lei mentre si trova in casa da sola; “e non possono essere certo un paio di chili di troppo a fare davvero la differenza”.

         Avverte qualche volta un preciso dolore alla schiena, nel momento in cui decide di sedersi a guardare in pace la televisione, e quando prova a rialzarsi dopo aver seguito la puntata del suo programma pomeridiano preferito, ecco che quel piccolo segnale torna rinforzato, riducendola per due o tre minuti a muoversi lentamente ed a rimettersi in piedi soltanto per gradi. Se a questo si aggiunge che le gambe a volte sembrano non reggerla più volentieri, tanto da spingerla ad appoggiarsi continuamente al corrimano quando scende le scale che portano dal suo appartamento fino alla strada, e che quando esce da casa chiudendo il portone condominiale le pare, almeno per qualche momento, che l’aria libera della via e la stessa luce del giorno le facessero girare la testa, non sembra proprio mancare più nulla tra quei tormenti che sembrano alla base del suo nervosismo.

         Così decide di aprire il cassettone dove tiene la serie completa dei suoi medicinali, e si mette a guardare con estrema attenzione tutte le istruzioni e le controindicazioni riportate in scrittura minuta sopra le piccole scatole e nei bugiardini delle confezioni. Però più affonda gli occhi nella lettura e più tutti i suoi sintomi sembrano in mezzo a quelle parole scientifiche amplificarsi, fino a dimostrare con limpida chiarezza che lei avrà bisogno prestissimo di un bravo dottore che se ne intenda, uno di quelli a cui in genere si affida la massima fiducia. “Certo”, riflette con convinzione; “uno specialista, ecco che cosa mi ci vuole; un professore di larga fama che prenda in mano il mio caso e riesca a guidarmi attraverso un percorso terapeutico personalizzato”.

         Poi rimette a posto ogni cosa, e quando va per sedersi davanti alla televisione cercando di rilassarsi un momento, le pare che tutti i sintomi di cui ha letto qualcosa in mezzo a quelle frasi complesse e zeppe di parole per lo più incomprensibili, si siano radunati improvvisamente in un unico povero corpo instabile e dolorante: il suo. Attende in questo modo con estrema impazienza il ritorno a casa di suo marito, cercando dentro di sé le frasi migliori per comunicargli il fatto che lei dovrà essere ricoverata al più presto in una clinica adatta, e curata a lungo e al più presto per tutti quei mali che la stanno affliggendo. Ma i minuti sono lunghi certe volte, e va ad iniziare proprio in quel momento il suo programma preferito, tanto che lei inizia a seguirlo, quasi dimenticando improvvisamente tutte le sue sofferenze. Quando rientra suo marito, prima che lei apra bocca, le dice subito di sentirsi la febbre, e che forse è il caso di stare distanti e chiamare subito il numero delle emergenze epidemiche. Lei ovviamente resta sorpresa, senza parole, e le pare in un attimo che il mondo stia quasi sprofondando sotto ai suoi piedi, tanto che quando si alza di scatto per andare rapidamente a comporre il numero telefonico, non avverte più, nei movimenti che compie, alcun dolore tra quelli a lei ben noti, proprio come se non si fossero mai fatti sentire.

 

        

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Direzione definita

 

         Le mie mani tremano mentre osservo il mio amico assopito in un letto d’ospedale, con le macchine perennemente in azione a prolungarne il corpo in molte delle proprie funzioni, ed io, al di qua di una vetrata a tenuta d’aria che mi permette solamente una vista fredda e distante da lui, mentre cerco di immedesimarmi nelle sue condizioni e di provare il senso di quanto realmente gli sta succedendo, riesco soltanto a provare con forza la sensazione della paura, anche se non sono capace di immaginare bene neppure di cosa. L’aria sembra ferma attorno a me, ed anche il tempo pare abbia subito un forte rallentamento; le luci vibrano leggermente nel perenne gioco artificiale di gettare il loro sguardo proprio su tutto, tra i letti, i corpi, i mobili, le attrezzature, fin nei minimi angoli maggiormente remoti di queste stanze, ed i sanitari percorrono il largo corridoio accanto a questo mio premuroso non ingombrarli, camminando in completo silenzio, quasi scivolando sui pavimenti, pur carichi delle loro professionalità indiscutibili. 

         Magari poter davvero essere utili, riuscire a mostrarsi precisi, puntuali, capaci, almeno con la domanda giusta in testa da porre adesso al medico di turno, oppure all’infermiera che si occupa costantemente di lui, in modo da comprendere meglio tutto ciò che succede, e rendere ogni dettaglio inseribile in un contesto più chiaro e già collaudato in mezzo ai molti pensieri. Invece che proseguire a starsene qui come sciocche comparse di una pellicola scialba, le mani dentro le mani, lo sguardo perennemente alla ricerca di qualcosa su cui soffermarsi, senza alcuna possibile azione, neanche una qualsiasi, privi di scelte che non siano già state fatte, e di possibilità differenti all’inerzia. Tanto vale andarsene, penso. Eppure resto, perché sono queste mie mani tremanti alla fine che mostrano il mio stato d’animo, pur nude e capaci soltanto di sfiorare questa cornice d’alluminio che sembra immortalare in un’unica immagine la condizione umana, tutta quanta.

         I ricordi, le risate, le tante giornate trascorse senza alcun dettaglio, e poi invece le frasi azzeccate, il gesto memorabile, la parola più adatta; un insieme di tante piccole cose gettate adesso come alla rinfusa dentro una di queste sacche di plasma, oppure in mezzo alle gocce di viva sostanza che tengono in piedi ogni funzione, assieme al respiro cadenzato provocato da un mantice plastico, puramente meccanico, privo di qualsiasi umanità eppure essenziale, come tutto del resto. La massa dei tanti pensieri si riduce alla fine ad un pugno di pochi elementi, e ad un esile filo che li tiene legati tra loro, e poi la pesantezza insopportabile che preme proprio sul cuore, immaginando semplicemente la possibilità di poter essere stato diverso, almeno in questi ultimi tempi: più vicino, più attento, forse più disponibile, come se questo da solo riuscisse a cambiare qualcosa del risultato.

         Lo sguardo gettato attorno, mentre si distillano lunghi minuti, pare un faro che in un attimo illumini debolmente lo spazio ma senza vedere, come incapace di rendersi conto davvero di ciò che il cammino lascia talvolta lungo la strada, quasi vergognandosi adesso delle ore piacevoli, divertenti, incantate, trascorse senza bisogno di niente, di altro, se non di quelle personalità ormai cambiate per sempre, in contrasto al dolore, alla sofferenza, al dispiacere. Nulla, amico mio, dico soprattutto a me stesso, non posso nutrire rimpianti di fronte alla tua battaglia in atto in questo momento; soltanto sostenerla idealmente, accoglierla dentro di me come mia, nella sicurezza che niente sarà mai tanto diverso qualsiasi risultato si ponga dopo questa prova tremenda. Rimarremo gli stessi difatti, lo so, ne sono certo, perché un inciampo durante la via è sempre previsto, ma non può in nessuna maniera riuscire a cambiarci davvero la direzione.

 

         Bruno Magnolfi


Vicino di casa

                                         

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Sarà tutto perso e inutile

 

Spesso mi fermo ad osservarlo, il mio vicino di casa, naturalmente senza che lui possa accorgersi minimamente della mia presenza, nascondendomi con attenzione dietro la persiana di casa mia, oppure immobilizzandomi all'angolo del muro tra i nostri giardinetti confinanti, divisi per il resto da qualche metro di rete metallica, sul retro delle rispettive abitazioni dove mandiamo avanti le nostre esistenze parallele da una quantità di tempo quasi immemorabile. Lo scruto, lo studio, cerco di afferrare il senso dei suoi pensieri decodificando quei gesti consueti che gli vedo compiere più per abitudine che per necessità, almeno secondo me. Adesso che abbiamo tutti molto più tempo per starsene tra le mura domestiche, anche i particolari una volta irrilevanti appaiono improvvisamente, almeno per conto mio, un sicuro oggetto di curiosità e di interesse. Io cerco di scoprire soprattutto quali siano i motivi che spingono il mio dirimpettaio a mostrarsi quasi sempre così allegro, tranquillo, soddisfatto di sé, contento forse di quelle minime cose di cui si interessa. Ci deve essere un segreto dietro al suo comportamento immagino, così lo spio, proprio per riuscire a comprendere meglio e appieno, cosa io debba pensare di lui e quale giudizio darne. Perché alla fine, nonostante lo veda e lo conosca da parecchio tempo, mi pare tutto sommato un individuo sfuggente, estraneo, forse sconosciuto. Certe volte mi accorgo che riesce a trascorrere delle ore intere gironzolando nel suo giardinetto, e tutto questo soltanto per osservare, con minuziosità ed una lentezza quasi estenuante, i germogli delle poche piante che lascia crescere in un fazzoletto di terra circondato da uno stretto cordolo di pietre piane. Naturalmente a me pare impossibile perdere del tempo dietro a certe sciocchezze, però so quasi per certo che qualcosa mi sta ancora sfuggendo.

Quando mi vede lui naturalmente mi saluta, anche per dieci volte in una stessa giornata, aggiungendo subito quelle sue piccole frasi consuete: "come va?"; oppure: "oggi c'è il sole"; o ancora: "ormai è già venerdì", come se attendesse da me chissà quali risposte o inizi di conversazione. Io invece mi limito in tutti questi casi a fare verso il suo indirizzo una smorfia sorridente, senza poi neppure tornare a guardarlo, e lui fortunatamente non insiste con le sue osservazioni che per lo più ritengo persino insulse. Quindi riprende imperterrito ad occuparsi delle sue cose. Lo sento certe volte che sbatte qualcosa per terra oppure su qualche parete, ed è forse una propria maniera per mostrare che lui c’è, è presente, sta lì tra le sue stanze a perdere del tempo e ad inventarsi qualcosa che magari ritiene persino utile. Lo tollero, questo è il punto, perché so bene che con tutte le trovate che riesce ad adottare in qualsiasi momento, non riuscirà mai a mostrarsi agli altri come una persona completa e interessante. Certe volte ascolta della musica, ma lo fa senza esserne orgoglioso, anzi, tenendo il volume del suo impianto quasi al minimo, come si vergognasse delle proprie scelte, ed il fatto che quelle che ascolta appaiono tutte registrazioni ormai datate, ne fa un cultore di materiali vecchi, privi di freschezza e di originalità.

Infine incontro il mio vicino qualche rara volta anche mentre esce di casa, ed allora lo inquadro subito nei suoi modi particolarmente attenti ad ogni comportamento da adottare in mezzo agli altri, ad iniziare da quel vestiario che, si vede, ci tiene molto ad indossare, come avesse un profilo pubblico ben diverso e separato da quello privato. Mi sembra quasi ridicolo, devo dirlo con sincerità, in quella sua pretesa piccola eleganza, ridotta a dei termini discreti, senza sfacciataggine, come se il suo aspetto rispondesse perfettamente ad un canone preciso, secondo il quale i colori dell’abbigliamento, ad esempio, si devono accostare sempre con gusto, ed ogni dettaglio non appaia mai legato al caso. Vorrei quasi evitare di salutarlo, quando lo incontro dal droghiere  oppure presso qualche altro negozio della zona, mentre naturalmente ci teniamo a debita distanza, ma è più forte di me l'abitudine, così rispondo come sempre con il mio solito saluto al suo cenno composto, fingendo quella cortesia che sembra del tutto naturale, proprio come se fossimo due vecchi conoscenti.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Dettagli di memoria

 

         Oggi il mio vicino di casa mi ha chiamato per nome, facendo sentire la sua voce leggera dal  giardinetto sul retro della sua abitazione, confinante con il mio. Ho atteso un momento per essere proprio sicuro di aver compreso bene, quindi mi sono appena affacciato sulla soglia socchiudendo la porta vetrata che immette là dietro. Ho detto a voce alta che purtroppo ero impegnato in quel preciso momento, in questo modo prendendomi un po’ di tempo prima di tornare ad uscire per ascoltare sicuramente un altro dei suoi tanti stupidi argomenti con cui ogni tanto mi intrattiene. Non lo sopporto, questo è il punto, specialmente quando attacca con le sue considerazioni generiche sul mondo, oppure attorno alle sue piccole attività casalinghe. Ogni volta che ha da dirmi qualcosa, sembra che intenda mettermi al corrente di chissà quale segreto di stato, abbassando la voce ed usando frasi e parole circostanziate, prendendo anche le distanze da ogni affermazione, e limitandosi a riportare ciò che ha letto o sentito. Sono rientrato nel mio appartamento, ho fatto qualcosa per impegnare almeno un po' di tempo, poi dopo circa dieci minuti sono uscito in giardino. Lui naturalmente era lì che mi aspettava. "Mi dica pure", ho fatto a voce alta come per mostrare una certa determinazione nel mio comportamento. Ma a quel punto il mio vicino, invece di parlare, mi ha mostrato, allungando il braccio per conservare la giusta distanza imposta dalle autorità sanitarie, una piccola fotografia stampata su cartoncino, un’immagine in cui era ripreso lui stesso, molto più giovane di adesso, intento nell’osservazione di qualcosa fuori dal campo visivo dell’obiettivo.

         L’istantanea mi è parsa subito particolare, insolita, come qualcosa che non si riesce ad afferrare del tutto, e difatti non saprei per nulla spiegare il motivo di quella singolarità, in ogni caso ho subito accennato ad un sorriso di compiacimento, quasi che comprendessi perfettamente che cosa lui intendesse sottolineare nel mostrarmela; ed anche se nell’immediato non ho detto niente, il mio vicino, ritirando verso di sé il braccio con la fotografia, ne è sembrato subito molto soddisfatto. Forse, non avendola più sotto gli occhi, ho immaginato che forse avrei dovuto notare qualcosa sullo sfondo, ma lui ha detto che era stata scattata esattamente l’anno in cui aveva preso in affitto la propria abitazione, ed allora tutto mi è parso più chiaro. All’epoca io abitavo già lì, e così ho immaginato intendesse dirmi che noi due siamo vicini di casa oramai da molto tempo, perciò ho socchiuso gli occhi con espressione ulteriormente compiaciuta, cercando di dare alla faccenda la stessa importanza che sembrava darle lui. Poi però ha detto: “avevo ancora il mio gatto quell’anno”, e così mi sono sentito del tutto fuori luogo, visto che non avevo mai notato che lui avesse avuto un gatto in passato. Mi ha guardato un attimo con gli occhi tristi, ed io ho detto soltanto: "già", sottintendendo che così è la vita, oggi ci siamo e domani non più, riferito però al gatto.

Stavo quasi per rientrare, quando lui ha detto che quel gatto adesso gli manca, e che se fino ad oggi non ne ha preso un altro esemplare, è stato soltanto per evitare di soffrire di nuovo come quella volta. Ho detto che comprendevo i suoi sentimenti, ma subito mi sono sentito ridicolo, e poi avevo voglia di terminare in qualsiasi maniera quella conversazione secondo me assurda, così gli ho spiegato che avevo lasciato a metà delle cose di cui mi stavo occupando, e allontanandomi dalla recinzione divisoria dei nostri giardinetti, sono rientrato nella mia abitazione. Ho visto con la coda dell’occhio che lui è rimasto fermo ancora per un po’, nella stessa esatta posizione di prima, come se io fossi ancora lì di fronte a lui, ma infine si è deciso a girarsi e probabilmente ad occuparsi di altro. Ognuno ha i propri problemi, ho pensato. E nel corso degli anni certe volte si resta colpiti da qualche ricordo che appare incancellabile. Ma questo tipo di memoria non è condivisibile, tutti lo sanno, tanto che non capita mai di dovere far fronte a situazioni del genere. E comunque, anche se ci ripenso, rimango convinto di non averlo proprio mai visto, quel gatto.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Argomenti futili

 

         Oggi, naturalmente con tutta la circospezione che ci vuole in questi casi, ho accostato l’orecchio a quel benedetto portoncino interno, perfettamente simmetrico al mio rispetto al pianerottolo, dell’appartamento dove abita il mio vicino di casa, al piano rialzato di questa palazzina condominiale lungo una strada silenziosa, piuttosto fuori mano, ma caratterizzata da tanti piccoli giardinetti recintati, sia di fronte alla via, che dietro alle case di due o tre piani ben allineate tra di loro, dipinte esternamente con diversi colori chiari, e le persiane invece verniciate  tutte di verde. Sono già un paio di giorni che non avverto alcun movimento nelle sue stanze, in considerazione del fatto che abbiamo anche una parete praticamente in comune, e persino scrutando ad orari diversi il retro delle nostre abitazioni gemelle, non sono riuscito mai a vederne nemmeno la sagoma. Silenzio, anche in questo preciso momento, come se lui fosse partito per chissà dove, senza neanche avvertire. Così sono rientrato in casa mia, ma dopo poco, mosso da una forte apprensione per quello che eventualmente possa essergli accaduto, mi sono presentato di nuovo sopra al pianerottolo per bussare leggermente con la mano su quel legno lucido di colore scuro, sotto alla targhetta plastificata che riporta a stampatello il nome appuntato e il suo cognome.

         Nessuna risposta, così sono tornato dentro alle mie stanze lasciando la mente girare attorno a diverse congetture, tutte poco verosimili. Qualcosa di strano sta accadendo, ho riflettuto: un improvviso malore che lo ha portato a presentarsi personalmente ad un pronto soccorso, ad esempio; oppure qualche parente che lo ha richiamato a sé per qualche importante ragione; o ancora il bisogno improvviso ed irrinunciabile di allontanarsi immediatamente da tutto, salvo tornare indietro tra qualche giorno, forse tra una settimana, rinfrancato e magari più soddisfatto di sé. No, non erano queste le ragioni per cui il mio vicino adesso era assente, semplicemente perché lui di una cosa del genere mi avrebbe puntualmente informato, come fa sempre, anche fin troppo. Avrebbe detto il mio nome avvicinandosi alla recinzione divisoria dei nostri giardinetti, ma senza gridare troppo, con le sue maniere calme e pacate, e poi mi avrebbe spiegato tutto quanto, ne ero più che certo, perché sarebbe stato questo il suo stile, il suo modo normale di comportarsi.

         Ho girato dentro casa mia senza riuscire a decidere di fare qualcosa che alleggerisse i miei pensieri. La mia giornata sembra quasi risucchiata interamente da questa piccola preoccupazione, ho riflettuto, non lasciandomi la possibilità di fare altro. Così ho preso un piccolo foglietto di carta su cui scrivere un messaggio da attaccare alla sua porta, ma mi è subito venuto da ridere, soprattutto perché non è il caso che lui si senta troppo controllato con le mie attenzioni. Perciò ho lasciato perdere tutto quanto, ho indossato la giacca rimasta appesa all’attaccapanni e poi sono uscito, quasi a dimostrare la mia indipendenza, sia nei suoi confronti, che di tutte le sue strane faccende. Ho girato per qualche strada del quartiere senza darmi neanche una meta precisa, e non ho incontrato neppure una persona con cui poter scambiare qualche parola, così alla fine sono tornato verso casa. Ho rallentato gli ultimi passi, quasi per dare un po’ di tempo in più al mio vicino di casa per farsi vedere come sempre, ma poi, dopo qualche sguardo lanciato attorno, ho girato la chiave nel portone e sono tornato a sedermi come sempre sopra al mio divano. Ho acceso la televisione, subito di nuovo spenta, ho preso un giornale per leggere, poi un libro, infine sono tornato ad osservare dai vetri il giardino dietro casa mia, ed è stato in questo preciso momento che ho avvertito dei rumori provenire proprio da quella zona. Lui era là, esattamente in giardino, che girellava adesso sul vialetto come se niente fosse, tra le rose fiorite e le altre sue stupide piantine, mostrando, con chiaro distacco da tutto, che non si era mai neppure sognato di muoversi dalla sua abitazione. Ho pensato subito di chiamarlo, di chiedergli qualcosa in più, e dimostrargli anche le mie ormai superate preoccupazioni, ma poi sono tornato con indignazione a sedermi sul divano del salotto: cosa mi interessa di ciò che fa oppure non fa questo mio vicino di casa, ho riflettuto; basta non venga di nuovo da me per imbastire qualche nuovo argomento di conversazione, e ad annoiarmi.

 

        

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Sottile parete divisoria

 

         Lui in questo momento si trova dentro casa sua, dall’altra parte della parete che purtroppo abbiamo in comune. Lo immagino, ne sono sicuro proprio come lo avessi di fronte, mentre continua a trafficare intorno alle sue solite sciocchezze, e provo un sentimento quasi di repulsione verso tutto quello che riesce o non riesce a combinare nella sua giornata, rispecchiato con evidenza in questo suo perenne perdere del tempo che solo un pensionato con la sua indole è capace di innalzare a impegno, fino a farne una scienza vera e propria. Non mi decido neppure ad uscire nel giardinetto che si apre sul retro della mia abitazione, perché lui al solo vedermi potrebbe subito chiamarmi dall’altra parte della recinzione, e poi, attraverso la rete, prendere a parlarmi per ore delle medesime cose di sempre, come se a me davvero interessassero. Mi muovo con circospezione persino mentre rimango nascosto tra queste mie stanze di casa, in maniera da non permettergli di scoprire, provocando involontariamente qualche piccolo indesiderato rumore, la mia inequivocabile presenza dentro la mia abitazione, in modo tale da rendergli quasi insospettabili persino i miei comportamenti più ovvi e più abitudinari. Ci tengo alla mia privata solitudine, non vorrei mai che qualcuno tra coloro che mi conoscono fosse capace di inserirsi nella mia raggiunta intimità. Poi mi siedo, apro un libro scelto tra tanti, cerco di concentrarmi su qualcosa che non sia racchiuso tra queste quattro mura, anche se provo qualche fatica nel portare avanti questa operazione.

Anche il mio vicino di casa probabilmente sta leggendo qualcosa penso, o almeno lo presumo, ma sicuramente di una natura molto diversa dal mio libro. Ci possono anche essere delle piccole differenze nei comportamenti, minimi divari che rimangono comunque assolutamente incolmabili per quanto si cerchi di non dare loro troppa importanza, e poi forse lui, a pensarci bene, non possiede neanche sopra gli scaffali dei veri e propri libri, o se li ha non si è neppure mai provato nel leggerne qualcuno. E’ una persona senza pretese, un tizio come molti che si perde in tante piccole minuzie da osservare e di cui tenere conto, così come mi spiega certe volte quando ci incontriamo nell’ingresso condominiale che abbiamo in comune, o mentre passeggiamo nei nostri rispettivi giardinetti sul retro, e non riesce mai a dare la giusta importanza a cose che per me sono senz’altro più meritevoli di una certa attenzione. Peraltro non capisco proprio come si possa impegnarsi come fa lui nell'osservazione attenta del comportamento di una semplice farfalla, oppure nello studiare il percorso labirintico delle formiche sulla terra nuda, mentre si impegnano nel trasporto delle riserve di cibo fino alla loro tana segreta. Mi pare impossibile, ecco tutto. Un gettare al vento delle giornate intere che possono essere dedicate ad attività ben più importanti.

Mi distolgo poco per volta dai pensieri che nella mente mi si formano con spontaneità intorno al mio vicino di casa. Certe volte ho desiderato addirittura che se ne andasse, che cambiasse abitazione, ma alla fine mi è sempre sembrato che il suo esempio, pur negativo, fosse da considerarsi come un tipo di comportamento da cui prendere sempre le distanze, e quindi quasi una spinta per ognuno ad essere differente sia da lui che dai suoi atteggiamenti, lontano dai suoi modi di occupare la giornata, diverso, quasi come quegli elementi chimici che non si mescolano mai, non avendo proprio niente in comune, pur appartenendo di fatto ad una medesima categoria. Lo tollero, gli presto il sale oppure il caffè, quando rimane senza, e la stessa cosa fa anche lui nei miei confronti. Mi presto ad ascoltarlo quando certe volte dimostra di aver voglia di parlare con qualcuno, ma ciò non significa per niente che io ritenga di aver davvero qualcosa in comune con un personaggio di questa specie. E questo è dimostrato anche dal fatto che è quasi sempre lui a cercarmi, e che difficilmente avviene l'esatto contrario. Sono convinto che il mio vicino sia un individuo che poco per volta è stato lasciato solo da tutti quanti coloro che frequentava, ed io al contrario sono uno che ha sempre coltivato come qualcosa di fondamentale la propria solitudine. Il risultato nelle nostre rispettive giornate potrebbe apparire non molto differente a prima vista, ma nella sostanza so per certo che noi due siamo persone talmente distanti da apparire incolmabile la nostra separazione, anche se è soltanto una sottile parete a definirla.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Significati precisi

 

         Oggi sono venuti a farmi una visita di cortesia certi parenti, così li ho fatti entrare in casa, ci siamo seduti, ho offerto loro qualcosa, poi abbiamo parlato del più e del meno, finendo immancabilmente per ricordare, con citazioni varie dei modi di dire o di fare, e anche rammentando a turno qualche piccolo aneddoto a loro attribuito, gli altri componenti, naturalmente ora assenti, della nostra grande famiglia, così come dicono loro: lo zio tale, la nonna instancabile, il nonno proverbiale, la biscugina emigrata, insomma tutti coloro che col trascorrere degli anni pare sempre siano stati i migliori e i più incredibili di tutti. Mi fa piacere in fondo mantenere i contatti con questi miei cugini, certamente sono da ritenere delle brave persone, anche se un po' troppo entranti e curiosi, almeno per me. Ad un tratto si sono affacciati al giardinetto sul retro, ed hanno salutato il mio vicino di casa, gesto questo che mi ha subito provocato irritazione, anche se ho trattenuto qualsiasi rimostranza nei loro confronti. Il mio vicino naturalmente non ha perso l'occasione per prodigarsi in sorrisi e discorsi magniloquenti sui suoi fiori e poi anche su di me, cosa che ha portato tutti a discorrere di qualsiasi argomento possibile per un tempo che a me è parso addirittura interminabile, tanto che ho dovuto interrompere tutti, a un certo punto, spiegando che purtroppo dovevo uscire di casa per un appuntamento, così in fretta mi sono liberato, anche se subito dopo ho dovuto dimostrare, se mai fossero rimasti in zona, che avevo da andare veramente in qualche posto.

         Ho preso la mia auto e mi sono fatto un giretto perciò, niente di particolare, giusto qualche strada del quartiere, per poi passare ad acquistare dei generi alimentari che nel momento in cui sono sistemati in dispensa, una volta o l’altra tornano sempre utilissimi. Quando infine sono tornato a parcheggiare la mia macchina nella strada dove abito, il mio vicino di casa, come già immaginavo, con la scusa di spazzare dalle poche foglie secche portate dal vento i due gradini davanti al portone condominiale della nostra palazzina, era lì che mi attendeva, sfoderando con un sorrisone il suo nuovo argomento acquisito: la simpatia manifesta, a suo spassionato parere, di tutti i miei parenti. Quello che temevo di più di fatto si è avverato: dare corda ad una persona insopportabile come lui, che non perde mai l’occasione per intrattenermi con le sue sciocchezze. Ho annuito naturalmente, ho spiegato che non li vedevo da diverso tempo, e che siccome non partecipo quasi mai ai pranzi rituali con la famiglia in occasione dei vari compleanni o per le festività maggiori, tendo in questo modo ad isolarmi da loro, anche se poi me ne dispiaccio. Ma subito ho pensato che il mio vicino non aveva il diritto di farmi parlare a ruota libera in questa maniera, per cui mi sono scusato e a testa bassa sono entrato nell’ingresso ed infine in casa mia.

Un impiccione, ho pensato in seguito con una certa irritazione, un vero ficcanaso che vuole sapere sempre qualcosa in più del dovuto sui fatti degli altri, sciaguratamente memorizzando con estrema rapidità tutto ciò che gli viene confidato, spesso e volentieri chiedendone conto in seguito, con quei suoi modi così untuosi e striscianti. Per cui ho sbattuto le mie compere dentro un armadietto e mi sono seduto sulla mia poltrona, ripensando a tutti i miei guai legati proprio all'avere un dirimpettaio con tale indole. In seguito mi sono dovuto rialzare per il nervosismo accumulato, ed allora sono uscito per un attimo nel giardinetto dietro casa cercando con lo sguardo proprio il mio vicino. Naturalmente lui era là come sempre a perdere del tempo, come fa addirittura troppo spesso. "Sono stanco", ho detto subito a voce alta, senza neppure riflettere alle conseguenze che il mio grido di dolore avrebbe potuto scatenare. Poi sono rimasto immobile e in silenzio. Lui mi ha guardato con stupore, poi lentamente ha lasciato allargare un leggero sorriso sul suo volto, ed a quel punto, in considerazione del mio comportamento sinceramente ambiguo, anch'io gli ho dovuto sorridere, come per togliere valore a quanto di negativo gli avevo appena urlato. Siamo rimasti così, a guardarci, quasi per un minuto o due, poi io ho voltato la faccia ed alla fine sono rientrato in casa. In fondo tutto quello che avevo intenzione di dirgli, lo avevo detto. Stava a lui adesso comprendere il significato più giusto da dare a tutta la faccenda.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Riferimenti esatti

 

         Oggi sono uscito per farmi un giro a piedi. Mi sono quasi spinto fino in centro, e nonostante non sia troppo abituato a camminare, non ho provato particolari apprensioni, e non ho neppure sentito troppa fatica fisica, fino a quando però, come fosse un approdo sicuro, non ho intravisto il solito caffè dove, quando capita, mi fermo volentieri a riprendere fiato e a ristorare il mio corpo. Mi sono fatto servire dei piccoli panini imbottiti ed anche un calice di birra alla spina, sedendo ad un tavolino appartato proprio in un angolo vicino alla vetrina. Poi ho sfogliato il quotidiano a disposizione dei clienti, e mi sono beato del gusto di indescrivibile sospensione che generalmente si respira là dentro. Mi piace molto stare in un locale del genere quando fuori le giornate appaiono belle e incoraggianti, e immaginare così anche la stessa passeggiata che mi attende, da qui fino a casa mia, come un vero viaggio di ritorno da chissà quale avventura, come se la giornata nella sua interezza fosse un evidente periplo da cui doversi divincolare, fino al ritrovo finale nel giusto valore da dare anche alle piccole cose, come ad esempio rientrare semplicemente in casa propria. Fuori intanto le persone passeggiavano in modo regolare lungo i marciapiedi, ed io ne osservavo sovrappensiero il costante flusso, comunque senza neppure concedere loro neanche troppa attenzione. Poi le cose hanno cambiato completamente di senso, perché quasi nascosto proprio dietro ad un gruppo di individui sparsi che camminando parlavano un po’ a gesti, mi è parso di vedere la sagoma del tutto inconfondibile del mio vicino di casa. Mi sono subito schermato  con il giornale che avevo accanto a me, ed ho sperato dapprima che non fosse veramente lui, ed in seguito che non avesse la voglia di entrare proprio dentro al mio locale.

Dopo un minuto invece è arrivato davvero, e peraltro mi ha adocchiato subito, addirittura mentre chiudeva la porta del caffè alle sue spalle, e si è diretto invariabilmente proprio verso di me, senza dubbio per salutarmi con la sua solita cortesia risaputa e insopportabile. Mi ha detto che era proprio una fortuna ed anche una combinazione particolare, il fatto di essersi ritrovati esattamente nello stesso luogo, ma da come lo ha spiegato ho avuto l'impressione quasi che mi avesse seguito per strada, ad iniziare chissà da dove, come fosse quasi incapace di tracciare dei percorsi autonomi da me e dalle mie passeggiate. Ho fatto cenno che poteva sedersi, naturalmente se lo desiderava, soprattutto per evitare di vederlo in piedi vicino a me con quel sorrisone stampato sul viso e quei suoi modi anche troppo ossequiosi. Come immaginavo, lui in un primo momento ha persino rifiutato, sostenendo di essere soltanto di passaggio, ma poi senza dir altro si è seduto, quasi prendendo una propria iniziativa. Allora gli ho offerto una birra esattamente come la mia e così il cameriere l'ha subito servita al tavolo e lui ne ha bevuto un sorso. <<Dobbiamo sentirci contenti anche di una semplice giornata di sole>>, ha detto poi, tanto per sentirsi dire da me che aveva proprio ragione. Poi mi ha parlato di alcune sciocchezze condominiali di cui è venuto a conoscenza negli ultimi giorni, ed infine ha attaccato come sempre con il suo tema preferito: i fiori che sbocciano in questo periodo e quelle piante che in primavera iniziano ad uscire dallo stato vegetativo. Ho annuito in silenzio, concentrato nella maniera più adatta a sfuggire alla sua eloquenza ed andarmene dal locale senza l' impiccio della sua presenza.

Lui deve aver capito la situazione a un tratto, e in virtù di questo si è alzato, mi ha spiegato che adesso doveva proprio andare e dopo altri cento saluti e ringraziamenti è uscito dal locale. Ho tirato un sospiro di sollievo, mi sono trattenuto per altri dieci minuti, poi ho pagato il conto e sono uscito anche io, rassicurato nella mia solitudine. Ho camminato con grande calma fino a casa, ho attraversato anche qualche strada traversa tanto per variare almeno qualcosa, e quando sono giunto nella via dove abito mi sono sentito bene, rassicurato dalla mia lunga passeggiata. Il mio vicino purtroppo era lì come quasi sempre, proprio accanto al nostro portone condominiale, mentre parlava con un conoscente. Mi ha guardato con espressione illuminata, ha fatto posto per farmi passare più agevolmente, e poi ha detto all'altro: <<Ecco qua la persona più cortese di tutto il quatiere>>, indicando me con il suo sguardo, ma riferendosi naturalmente all'altro.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Condivisione

 

Sento delle voci. Cerco subito di capire chi possa mai essere venuto oggi dal mio vicino di casa a fargli una visita, ma nonostante la parete che abbiamo in comune non sia neppure molto spessa, ugualmente non riesco a comprendere una sola parola di ciò che si dicono, pur avvertendo con grande chiarezza più di una voce provenire dall'appartamento di fianco al mio, neppure ponendo in aderenza l'orecchio sul muro, ma soltanto una specie di borbottio sommesso indistinto e poco significativo. Poi mi allontano da lì, vergognandomi leggermente per l'immagine da curioso che sto dando di me stesso, anche se naturalmente sono da solo in casa mia, però infine scosto le tendine del finestrone sul retro di casa, nell'attesa che qualcuna tra quelle persone che parlano tanto, magari si faccia almeno vedere nel giardinetto. Non riesco ad immaginare chi possano mai essere questi visitatori, però provo un certo moto di fastidio nel rendermi conto come ci sia ancora qualcuno che si interessi davvero di questo mio vicino così insopportabile, almeno per come lo vedo io. Poi sento giungere dall'ingresso condominiale le parole di alcune persone che ormai si stanno salutando, ed infine, dopo un altro breve lasso di tempo, gli scatti dei portoni che si richiudono. Silenzio. Potrei andare da lui adesso, sicuramente rimasto ormai solo, accampando una scusa qualsiasi, tanto per saggiare il terreno e lasciarmi confidare le novità della giornata. Il mio vicino è un tipo che non ha segreti, e tutto ciò che conosce lo rivela con grande facilità. Però mi distraggo con delle cose da riordinare nella cucina del mio appartamento, ed alla fine non ci penso più e tralascio di fare qualsiasi altra cosa.

È soltanto più tardi che mi torna a pungolare la curiosità di conoscere chi erano quegli individui che hanno transitato nell'abitazione del mio vicino di casa. Lentamente, ma con una certa decisione, esco nel giardino sul retro del mio appartamento, e scorro lungo la recinzione in maniera da farmi vedere da lui, sempre che in questo momento abbia voglia di gettare almeno un'occhiata da questa parte. Mi soffermo ad osservare un cespuglio di rosmarino che ho sempre avuto, piantato e sviluppato in questa poca terra da sempre, tanto da immaginare che fosse parte della casa fin dalla sua costruzione. Perdo tempo osservando con interesse il muretto di cinta in fondo alla mia proprietà, saggio i mattoni intonacati come se fossero forse indeboliti oppure rotti, poi controllo la rete che lo sormonta, per rendermi conto che tutto sia davvero sotto controllo. Osservo le case poco distanti oltre questa debole barriera protettiva, tocco con la punta della mia scarpa una pietra di porfido del sottile camminamento lungo il giardino che già altre volte avevo notato come leggermente sporgente rispetto al piano, ed in tutte le operazioni che mi tengono così impegnato, mai neppure una volta volgo lo sguardo verso il finestrone vetrato della casa del mio vicino. Lui però sembra proprio che non mi abbia neanche notato, cosa piuttosto strana, addirittura poco consueta tra le abitudini a cui in genere è capace di dare seguito, considerando che praticamente non riesco mai a restare da solo ogni volta che esco qua fuori.

Sono quasi tentato di chiamarlo per nome a questo punto, però ancora mi trattengo, forse si farà vedere giusto tra un attimo, mi sorprendo a pensare, ma infine mi rendo conto che qualcosa è decisamente differente da come me lo sono immaginato. Rientro, chiudo di colpo il finestrone alle mie spalle per dare prova della mia presenza, poi mi siedo cercando di togliere dalla mente tutte le mie curiosità. Potrei sbattere qualcosa sulla parete che abbiamo in comune, rifletto, mostrargli inequivocabilmente che ho bisogno di lui, che ho necessità di sapere, voglia di venire a conoscenza di quanto in questo momento mi è quasi negato. Mi calmo, resto ancora per qualche momento seduto, ma poi mi rimetto in piedi, ed alla fine apro il portoncino che dà accesso lungo il pianerottolo, e suono con decisione il suo campanello. <<Giusto lei>>, dice aprendo il mio vicino di casa, giunto con molta calma e dopo un certo tempo ad aprirmi e a salutarmi. <<Mi ero appisolato sopra la poltrona>>, mi fa; <<però avevo anche io il desiderio di vedermi con il mio caro vicino per fare quattro chiacchiere. Spero non le dispiaccia>>.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Azioni poco prevedibili

 

Ormai lo guardo nella maniera esatta come si guarda un semplice insetto sotto ad una potente lente di ingrandimento. Lo vedo muoversi, dare corso giorno dopo giorno alle proprie abitudini, ai gesti consueti, alle normalità stratificate dall’uso, ed io lo osservo e lo studio, persino anticipando certe volte i suoi comportamenti, come se già conoscessi perfettamente i suoi processi mentali tipici, anche se poi non è del tutto vero, perché ogni tanto riesce in qualche modo anche a sfuggire alla mia immaginazione, con la capacità di meravigliarmi per qualche comportamento messo in opera in modo un po’ differente dal suo solito. Il mio vicino di casa è una persona prevedibile, questo è del tutto evidente, anche se in quello che fa, ogni volta che ne risulta capace, cerca con impegno di inserire una lettura personale delle proprie attività mentali e fisiche, quasi inserendovi qualche elemento vagamente estraneo a dei normali comportamenti, anche se non  giunge mai alla stravaganza, un po’ come se avesse paura di cadere nel rituale, nel risaputo, nella logica dei fatti già troppo definiti e ormai dati per scontati. Si perde nella ricerca dell’uso di parole forbite quando parla con me, oppure nell’insistenza con cui tiene pettinati i propri capelli, pur corti e anche radi, sempre in una certa stessa maniera; e poi gli abbinamenti di colore nelle sgargianti fioriture delle sue piantine, trapiantate nel giardinetto dietro casa secondo degli schemi sempre simmetrici, ed in certi casi addirittura insistenti e ripetitivi. La maggior parte delle volte non mi chiede neppure un parere su molte delle sue attività, tanto è convinto delle proprie scelte, anche se io immagino comprenda benissimo quali potrebbero essere nel caso le mie cortesi osservazioni.

Ci sono dei giorni in cui, desiderando uscire nel mio giardinetto, proprio mentre lui sembra intento a curare le sue piante e tutti i suoi fiori, mi preparo mentalmente alcuni temi su cui cercare di trascinarlo in quelle chiacchiere che immancabilmente sa approfondire con estrema agevolezza, giusto per comprendere meglio così quali siano le sue opinioni attorno a quegli argomenti, anche se, nella maggior parte delle volte, riesce con estrema facilità a coinvolgermi in altre diverse riflessioni che immediatamente sfuggono del tutto a quanto in precedenza mi ero riproposto. In certe occasioni sono stato persino portato a pensare che lui possa avere dentro di sé un innato e specializzato sesto senso, per riuscire in maniera così elegante e veloce a rovesciare i miei sparuti tentativi, e per trasformare ogni mio impulso in una sua diretta riflessione che va proprio a trattare subito di tutt’altre cose, tali da non permettermi più, in tutti quei casi, altri tentativi possibili. Scappa dalle mie argomentazioni, questo è il punto, tanto da togliermi spesso addirittura la voglia di proseguire a parlargli, lasciandomi senza parole e spesso sorridente, ma soltanto per un puro senso di gentilezza, immobile ad ascoltare i suoi deboli vaneggiamenti infiniti e inconcludenti.

Comunque, la cosa che più mi piace fare con il mio vicino di casa, rimane sempre e comunque l’osservazione attenta di ogni mossa che intraprende in modo diretto, oppure che tenta di compiere ma senza avere tutto il coraggio che serve per portarla in fondo. Spesso fingo di guardare da tutt’altra parte, mentre cerco di comprendere che cosa stia facendo, e in altri casi studio semplicemente gli orari in cui esce da casa, o ascolta i notiziari della radio, oppure telefona a qualcuno, senza togliere quei casi in cui inizia a parlare da solo a voce alta, lasciandomi la possibilità di seguire tutte queste cose grazie alle mura sottili che dividono simmetricamente i nostri appartamenti. Qualche volta vorrei addirittura disinteressarmi completamente di lui, e ciclicamente lo faccio per davvero, però solamente per un giorno o due magari, perché in seguito sento di non avere alcuna possibilità di resistere al richiamo che mi offre momento per momento, ed alla fine riesco soltanto a dar seguito al mio istinto e riprendere come sempre ad esaminare ogni sua mossa.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Solo tranquillità e sicurezza

 

         Il mio vicino di casa mi ha rivelato di provare in questo periodo un forte disagio. Naturalmente gli ho subito chiesto il motivo di tanta agitazione, ma lui non ha voluto spiegarmi un bel niente, se non che mi avrebbe chiarito tutto quanto appena gli fosse stato possibile, o meglio quando le cose per lui si sarebbero sistemate in una maniera decisamente più accettabile. Ho capito al volo che ci dovevano essere dei problemi legati alla sua famiglia, ma con lui non ho fatto alcun accenno verso questo aspetto, considerata la riservatezza con la quale generalmente in passato mi ha parlato dei suoi cugini e di quei tanti nipoti, sempre però abbassando un poco la voce, come a sottintendere quanto in realtà non trattasse quell’argomento troppo volentieri, forse proprio in considerazione del fatto che tutti loro sembrano quasi scansarlo, tanto che, a mia memoria, praticamente non si sono neanche più fatti vedere, neppure per fargli una semplice visita nelle ricorrenze o nei giorni di festa. Lui è stato sposato molti anni fa, anche se per un breve periodo, ma le cose fin da subito, poco dopo il suo matrimonio, non sembra siano andate affatto per il verso giusto con questa donna, una persona che purtroppo io non ho fatto in tempo a conoscere, e quindi il passo successivo a quell’immediato brutto periodo pare sia stato per lui il ricorso ad una frettolosa separazione, che a quanto sembra non ha lasciato in loro due neppure troppi strascichi sentimentali. Anzi, ripensandoci, la ragione esatta per cui è venuto ad abitare nell’appartamento di fianco al mio, è stata proprio quella di sistemarsi in una casa più piccola e con meno stanze di quella precedente, più adatta cioè ad una persona che vive da sola.

Adesso, il motivo per cui mi ha rivelato di questo suo nervosismo, probabilmente è legato al fatto di giustificare verso di me un comportamento più scostante del solito, almeno in questi ultimi giorni, cosa che sinceramente non avevo neanche notato; ma l'elemento che credo più saliente di tutti penso sia dato dal fatto che lui avrebbe una grande voglia di parlare dei suoi guai con qualcuno disposto con pazienza ad ascoltarlo, e non avendo sotto mano proprio nessun altro con cui aprirsi, almeno esattamente come sarebbe suo desiderio, ha pensato di usare proprio me, magari durante un giorno dei prossimi, come se fossi propriamente il suo confessore, ed è di questo pensiero adesso, se ho ben compreso, che si è premurato di mettermi al corrente. Non ho avuto niente da recriminare, e naturalmente neppure ho insistito con qualche domanda, oppure anche con delle richieste, che mostrassero un certo interesse di alcun tipo da parte mia, ed anche lui ha subito sterzato i suoi argomenti su qualcosa di più leggero, coronando le sue parole con un accento un po' spiritoso e probabilmente anche ironico, forse per stemperare l’atmosfera fattasi immediatamente pesante, salutandomi subito dopo con un sorriso e con una certa cortesia, proprio come fa quasi sempre, prima di rientrare, alla fine e piuttosto di fretta, dentro la sua abitazione. 

Non so cosa pensare: per nessuna ragione vorrei minimamente restare coinvolto a qualsiasi titolo in mezzo ai suoi guai, ed ancora meno mi piacerebbe dovergli dare dei consigli sui comportamenti che lui dovrebbe tenere verso persone che alla fine neppure conosco. Il mio desiderio più forte resta come sempre quello di stare alla larga da tutti i problemi che possono affliggere questo mio vicino di casa, anche se una certa curiosità nel conoscere la natura della sua agitazione mi pare del tutto normale, almeno da parte mia. In ogni caso è evidente il fatto che io proseguirò come sempre ad essere la stessa persona che sono stato fino ad oggi nei suoi confronti, immaginando che forse la cosa più importante che in questo momento mi viene richiesta da tutta la situazione, è proprio il cercare di essere il più possibile retto e deciso, almeno nei principi generali ai quali ho sempre prestato una fede sincera, ai miei ideali più fondanti di tutti insomma, anche per dare a chiunque mi conosca e che in qualche modo mi circonda ogni giorno, l'immagine di una persona che riesce a profondere tranquillità e sicurezza anche nelle piccole attività quotidiane.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Minuzie non irrivelabili

 

         Lo sto praticamente ignorando; questo è il comportamento che mi sono sentito di adottare da qualche giorno a questa parte. Lui d’altra parte non cerca neppure di evitarmi, come magari mi sarei potuto immaginare, ma neanche tenta di attaccare una conversazione esaustiva con me, non andando oltre, quando mi incontra, ad un normale saluto tra due conoscenti che abitano uno accanto a quell’altro. Si chiama Corrado, il mio vicino, ma siccome da piccolo tendevano in molti a soprannominarlo Corradino, in seguito, per tutti coloro che lo hanno frequentato di più, è diventato semplicemente Dino, ed anche adesso che decisamente è un po’ più avanti con gli anni, lui prosegue a presentarsi sempre in questa esatta maniera. Così oggi l'ho chiamato con questo nome, insomma con una certa familiarità, anche se naturalmente proseguo, come sempre ho fatto, a dargli del lei e a dimostrare per la sua persona lo stesso rispetto che desidero, anzi pretendo, sia adottato nella solita maniera anche nei miei confronti. La mia curiosità però è forte, e dopo che lui mi ha superficialmente accennato a dei seri problemi di insonnia e di nervosismo durante tutto quest’ultimo periodo, il mio desiderio di venire a conoscenza del motivo scatenante nei riguardi di questa sua profonda agitazione, si è ormai fatto per me sempre più intollerabile.

         <<Buongiorno, Domenico>>, fa lui come sempre; e poi resta in silenzio. <<Come va oggi?>>, chiedo invece io restando su dei termini vaghi, mentre mi avvicino appena di un passo alla recinzione che divide i nostri rispettivi giardinetti. Lui osserva qualcosa dietro di me, sembra prendere tempo, muove un piede e si guarda per un secondo la scarpa che ha allungato sopra la ghiaia, quindi torna a darmi un’occhiata nella stessa maniera di quando si è sentito chiamare, ma alla fine non sa decidersi a niente, se non a riferirmi, tra tutte quelle che sicuramente gli sono venute alla mente, la cosa più facile a dirsi: <<Tutto bene>>, mi fa; <<hanno iniziato a sbocciare persino le camelie>>, mi dice ancora guardandosi attorno e tirando un po’ su con il naso, per incoraggiare anche il mio naso ad avvertire il profumo dei fiori nell’aria. Naturalmente io resto immobile, come a voler dimostrare che non è questa la risposta che desideravo da lui, ma subito dopo mi pare di essere anche troppo curioso, quasi un indagatore, così sorrido e taglio la conversazione dicendogli che mi è parso di sentir suonare il telefono dentro al mio appartamento. Tornerà sicuramente a chiamarmi, mi immagino mentre entro nella cucina, almeno se conosco bene i suoi modi di fare, visto che odia profondamente essere lasciato da solo, e considerato pure, e lo so per certo, quanto lui provi il desiderio di rivelarmi il motivo che contraddistingue i suoi giorni in questo periodo. Invece niente, nonostante io lasci la porta sul retro ben spalancata, a dimostrazione del fatto che sono dispostissimo ad ascoltarlo, se avesse voglia di parlare con me dei suoi problemi. 

Forse non è ancora giunto il momento che lui sta aspettando, rifletto; così chiudo la porta dopo un lasso di tempo adeguato, e poi metto infine il mio cuore in perfetta pace, almeno per oggi. Più tardi torno a dare un'occhiata al giardino, ma lui non è là, e sono sicuro di non averlo sentito neppure uscire da casa, e quindi è evidente come il mio vicino, anche in questo preciso momento, stia ancora tra le sue stanze a rimuginare chissà cosa sopra i suoi guai. Non vorrei proprio essere chiamato ad aiutarlo in qualcosa, perché questo non è certo ciò che mi riprometto di fare, se proprio non ne fossi in qualche maniera costretto; però almeno sapere che cos'è che lo sta angustiando, credo sia lecito, addirittura direi doveroso da dichiarare da parte sua, considerato il fatto di avermi accennato immediatamente qualcosa, e poi basta. Sono quasi propenso, e probabilmente lo farò non più tardi di qualche giorno ad iniziare da oggi, di chiamarlo di nuovo dai giardini usando il suo diminutivo, e porgli a quel punto una domanda diretta, che non ammetta sotterfugi o strade traverse tramite le quali sfuggire a ciò che oramai diventa sempre più doveroso da enunciare per parte sua, tanto che lui stesso, e questo ormai è più che evidente, starebbe molto meglio e più in pace una volta svelato tutto quanto ciò che continua a lambiccargli in questa maniera il cervello.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Chiarezza immediata

 

         Oggi sto a casa. Forse più tardi farò semplicemente un salto al negozio dei generi alimentari per l’acquisto di qualche provvista di cui ho proprio necessità, poi comunque tornerò subito indietro, per rientrare tra queste mura accoglienti del mio appartamento, a leggere, a pensare, sistemare qualcosa, e a fare nient’altro di più. Inizio subito col riordinare al meglio la cucina, svuotando la lavastoviglie e poi ripulendo con cura e precisione le superfici dei pensili e dei fornelli, poi getto un’occhiata fuori dai vetri del finestrone che immette al mio giardinetto sul retro. Corrado, oltre la recinzione che divide le nostre due proprietà, non è ancora là fuori che si occupa come sempre delle sue piante da fiore. Non voglio apparire insistente, perciò non mi voglio mostrare anche se è in casa, perciò attendo, così come  mi sono proposto, che sia esattamente lui a cercarmi, sempre nel caso in cui avvertisse la voglia insistente di parlare con qualcuno. Trascorre in questo modo purtroppo quasi metà della mattinata, cioè senza che avvenga niente di nuovo. Preparo qualcosa per il pranzo, ascolto un notiziario alla radio e mi muovo sempre più nervosamente tra la cucina e la camera da letto, senza combinare niente di particolare. Infine sento una voce che chiama il mio nome. E’ il mio vicino di casa, rifletto, non c’è nessun dubbio, ma avverto dal timbro con cui sta scandendo il mio nome, che vuol lanciarmi anche un segnale di leggerezza, come per togliere quel senso di apprensione che negli ultimi giorni è parso caratterizzare i suoi comportamenti.

Dopo qualche momento, mi affaccio al giardino socchiudendo con calma la porta finestra sul retro, poi guardo verso Corrado, e mi accorgo subito che non è affatto da solo. Allora mi abbottono di fretta la giacca da camera, ed esco del tutto, scendendo con flemma i tre gradini di pietra che conducono sul cortile a ridosso del mio appartamento, mentre cerco di comprendere rapidamente, tramite una serie di occhiate colme di curiosità, chi sia mai questa persona che non ho neppure mai visto prima di adesso. <<Ti presento Angelica>>, fa subito lui da oltre la recinzione divisoria, indicandomi una donna dall’età piuttosto avanzata, comunque con i capelli di un bel color mogano, e dei vestiti abbastanza ricercati ed eleganti. <<E’ mia cugina>>, aggiunge poi abbassando la voce, come per mettermi al corrente di un segreto della sua famiglia. Io faccio sporgere una mano sopra la rete il cui limite rimane fortunatamente ad un’altezza non eccessiva, e stringo per  un attimo appena la punta delle dita della mano di lei, mentre Corrado le dice che io sono il famoso Domenico, cioè il suo vicino di casa. Ho subito notato, nell’espressione della donna che in questo momento mi rimane di fronte, una certa serietà; che forse non vuole significare durezza, e neppure un eccessivo contegno, mi immagino; ma probabilmente soltanto una mancata abitudine al sorriso aperto; cioè, come un’inclinazione decisa alla compostezza. <<Piacere di conoscerla>>, dico a lei assumendo immediatamente un’espressione coerente con la sua, aggiungendo soltanto, tanto per riempire il conseguente vuoto di parole immancabile in questi casi, che quello dove si trova è <<il regno assoluto del giardiniere Corrado, l’individuo dal pollice più verde di tutti>>.

Angelica sembra sorridere, anche se in questo attimo noto immediatamente che non sta mutando quasi niente sulla sua faccia, e poi lei si guarda subito attorno, come a spiegare che per proprio carattere non è proprio il caso di perdere del tempo ulteriore, e che le cose per cui è venuta fin qua, per la prima volta io credo, hanno assolutamente la priorità su qualsiasi altra eventuale sciocchezza. Mi allontano di un passo mentre lei fa altrettanto, la guardo voltarsi di fianco come per un frettoloso congedo, quindi con voce impostata: <<Allora arrivederci>>, le dico; e vorrei subito aggiungere: <<Angelica>>, tanto per mostrare che ho gradito parecchio fare la sua conoscenza; ma mi fermo e mi mordo la lingua, proprio per non mostrare di essere una persona troppo leggera. Mi piace questa donna, lo ammetto: risalgo i gradini per rientrare dentro casa mia quasi indugiando, ed intanto rifletto che tutto al contrario avrei voglia di fermarmi a lungo con lei, qui o in qualsiasi altro luogo possibile, anche soltanto per parlare senza alcun freno di tutto quello che a lei e anche a me possa venire alla mente, con semplicità, restando l’uno di fronte all’altra, come a mostrare vicendevolmente di essere due persone che in un solo attimo si sono sentite in qualche maniera già simili: capaci di comprendersi al volo, senza bisogno neppure di troppe parole per fare chiarezza.

 

 

 

 

 

 

 

         Apprezzamenti/svalutazioni

 

         Qualcuno suona il mio campanello di casa. Mi alzo dalla poltroncina in salotto ed appoggio sul tavolo l'agile volume che stavo sfogliando proprio in questo attimo, leggendo qualcosa qua e là. Apro la porta del mio appartamento provando dentro di me come una certa inquietudine, ed invece mi ritrovo davanti semplicemente Dino, il mio noioso vicino di casa. Lui si scusa subito per il disturbo che può arrecarmi eventualmente con la sua presenza, ma io con la solita sopportazione che adotto nei confronti di questo individuo, lo incoraggio comunque ad entrare, anche perché non mi piace parlare sull’uscio, alla portata delle orecchie degli altri condomini del nostro palazzo. Lui si fa avanti, io richiudo la porta dietro le sue spalle, ed allora mi dice timidamente, mentre comunque resta in piedi nel piccolo ingresso, che sua cugina Angelica, la stessa che ho visto per cinque minuti giusto ieri nel suo giardinetto, lo ha messo al corrente di alcune decisioni che tutti i suoi parenti intendono assumere prossimamente. Si tratta di ipotecare una piccola proprietà di campagna appartenuta ai nonni durante tutta la loro vita, e rimasta in seguito, per molti anni ad iniziare dalla loro scomparsa, a disposizione completa di tutto il resto della famiglia rimasta, quasi come una casa di vacanza, con terreno e parecchi ambienti interni ed esterni, da utilizzare da parte dei tanti cugini e dei nipoti, come meglio gli è parso di fare almeno fino ad oggi, a tutti quanti.        

         Naturalmente Dino, a differenza degli altri, non ci è andato quasi mai in quella casa: un po’ perché timoroso di occupare una stanza per sé e così dare disturbo, e poi perché da solo, senza moglie né figli, a differenza dei suoi cugini; e poi quasi incapace di stare a lungo in mezzo a tutti gli altri parenti durante quelle calde estati infinite. In più, riconosce anche adesso, non si è mai sentito a suo agio in quell’ambiente dove aveva trascorso molto tempo spensierato soltanto quando era un bambino, insieme ai suoi compianti genitori, purtroppo anch'essi deceduti da molto tempo, mostratosi in seguito per lui un luogo piuttosto lontano dai suoi desideri, soltanto pieno di ricordi che inducono una certa tristezza. Però ipotecare, e magari poi vendere tutto quanto per finanziare gli studi dei nipoti, è una mossa che non gli pare troppo corretta, anzi, mi dice con voce ancora più bassa, forse decisamente discriminatoria proprio verso lui stesso. <<Non sono riuscito a dirle di no>>, mi spiega adesso; <<anche se non sono affatto contento per quanto è stato deciso>>.

         Faccio cenno al signor Corrado, da tutti in questa zona però chiamato Dino, di sedersi almeno un momento per parlare con più calma e riprendere fiato, soprattutto perché questa faccenda che mi ha appena spiegato in poche parole, mette in luce un aspetto della sua personalità che non avevo mai preso in considerazione, e questo progressivo isolamento, creato intorno a lui proprio dalla sua famiglia al completo, mi sembra esattamente, nei suoi confronti, quasi una gratuita cattiveria; ma Corrado si schernisce, come fa sempre in questi casi, e dice subito che forse è meglio se adesso rientra semplicemente a casa sua, e aggiunge che si è lasciato dietro delle cose da completare, e delle altre che deve sistemare rapidamente. Lo lascio andare, naturalmente, immaginandolo anche un po’ confuso e desideroso di tornare al più presto in mezzo alle sue cose; ma anche perché questa faccenda lascia me all’improvviso quasi senza parole, non riuscendo per nulla a descrivere le sensazioni che mi sprigiona lo scoprire che una persona come lui riesce di fatto ad essere improvvisamente così diversa da come l’ho sempre immaginata fino ad oggi.  

         Torno perciò a richiudere la porta dietro di lui, restando comunque perplesso, e rifletto subito attentamente sul motivo che mi ha spinto a provare come un piccolo moto di pena per il mio vicino di casa, proprio lui che mi ha sempre mosso ad un po’ di insofferenza in tutti questi anni, con quelle sue piante, i suoi fiori e le sue fissazioni. Adesso invece mi sembra soltanto un uomo da solo, uno che persino i parenti più prossimi vogliono levarsi dai piedi. Non lo so, ma improvvisamente mi pare di essere sempre stato persino troppo severo nei confronti di quei suoi comportamenti, giudicandoli spesso addirittura insopportabili; ed in più, nello stesso momento, è come se mi sentissi verso questo mio vicino di casa, che conosco oramai da tanti anni, sicuramente meno curioso rispetto alle sue piccole manie ed i suoi comportamenti, ma contemporaneamente anche più ben disposto ad apprezzare almeno qualcosa in tutti questi suoi modi di essere.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Fatto di fumo

 

         Sento il mio vicino di casa che parla al telefono mentre se ne sta nel giardinetto tra i tanti vasi colmi di gerani e le altre piante che cura. Lo ascolto, mentre rimango fermo, appoggiato alla finestra di casa mia, non tanto perché sono curioso dei fatti degli altri, quanto per il tentativo di comprendere, siccome ho inteso subito che stava parlando con qualcuno dei suoi parenti, o addirittura con quella cugina Angelica che ho personalmente conosciuto anche se solo per un momento e che mi ha addirittura lasciato stranamente un’impressione piuttosto favorevole, come sia possibile che proprio lui, la persona più inoffensiva ed ordinaria di tutte, venga trattato improvvisamente dai suoi veri e unici familiari diretti che gli sono rimasti, così come mi ha brevemente raccontato proprio da poco, quasi un elemento addirittura da tenere a distanza da loro stessi, tanto più che questo mio vicino è un uomo che sta sempre da solo, ed è una persona che vive di poche cose, uno che sa mostrare a tutti quanti che quelle poche cose gli sono per giunta più che sufficienti. Insomma, il signor Corrado è un individuo monotono, noioso, forse anche antipatico, però non darebbe fastidio neppure ad una mosca. <<Va bene>>, dice adesso all'apparecchio. <<Se dobbiamo proprio incontrarci tutti quanti, allora ci sarò anche io>>. Poi chiude la telefonata.

Non lo so, mi pare che sia anche troppo facile con uno come lui ottenere ciò che più si desidera. E mi fa rabbia vedere come questo mio vicino di casa sia destinato indubbiamente a cedere e a piegarsi nei confronti di qualsiasi richiesta, pur lontana dalla sua volontà, che gli venga rivolta o falsamente sottoposta per un suo ininfluente giudizio da questi suoi parenti che appaiono loro peraltro estremamente distanti e indifferenti a tutto, o perlomeno ben lontani da quelli che sono i suoi reali bisogni; vorrei assolutamente cioè, che lui si mostrasse più determinato con loro, meno arrendevole, capace di sostenere con fermezza una propria posizione, ed io sarei persino disposto ad aiutarlo se soltanto mi sottoponesse una richiesta sincera di aiuto. Però è difficile, perché con lui quando ci si immagina di essere facilmente riusciti a conoscerne il carattere, è proprio il momento per accorgersi, anche tramite fatti come questi, che la sua personalità è decisamente più contorta e sfuggente persino di quanto si potesse sospettare. Però rimane comunque il mio più diretto vicino di casa, e forse il mio orgoglio in questo momento mi fa proprio sentire, direi quasi per la prima volta, decisamente solidale con lui e con i suoi problemi, tanto che all’improvviso mi sembra di avvertire l’obbligo caritatevole di fare almeno qualcosa per quest’uomo, ed impegnarmi in prima persona per sostenerlo, anche se in questo momento non saprei proprio in quale modo.

Forse dovrei riuscire ad avere almeno il numero telefonico di sua cugina Angelica, magari facendomelo procurare proprio da lui stesso, e così chiamare questa donna matura e interessante per spiegarle quello che sta succedendo, i retroscena di apprensione e umiliazione di un uomo che forse può sembrare quasi indifferente a ciò che in questo momento sembra cercare da lui la sua famiglia, ma che è evidente come presenti soltanto una semplice maschera per coprire un'indubbia e profonda sofferenza. E poi naturalmente scoprire dalle sue parole dirette, sempre che lei voglia parlarmi, cos'è che si sono messi in testa tutti quanti, e cosa vogliono ottenere alla fine da Corrado, che è proprio il mio vicino, e certamente non un qualsiasi estraneo. Credo invece di aver compreso perfettamente come lo scopo di tutti coloro che si professano suoi parenti, sia una specie di estromissione definitiva dalla sua famiglia, anche se non ne capisco affatto il motivo, considerato che il loro congiunto è una persona remissiva, che non si metterebbe mai in mezzo ad intralciare gli altri, tantomeno i componenti della propria parentela.

Mi siedo. Forse ci sono delle cose che non so, che non conosco. Altre magari che non ho compreso. Se ci penso a fondo mi pare quasi di non sapere niente di fondamentale di questo mio strampalato vicino di casa. Per tanto tempo mi è parso un tipo anonimo, senza troppa personalità. Adesso, se ci rifletto meglio, mi sembra di non conoscerlo affatto, di non essere riuscito mai a comprenderne la vera indole. Probabilmente conserva strettamente dei segreti noti soltanto ai suoi parenti; e forse quello che mi è apparso fino ad oggi è un uomo che realmente non esiste, un'immagine inventata, una persona fumosa che nasconde dentro di sé chissà cos'altro.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Io sono razionale

 

Stamani sono andato con decisione davanti al portoncino del signor Corrado, gli ho suonato il campanello, ho atteso che mi aprisse, ed infine gli ho detto che nel pomeriggio, se a lui avesse fatto piacere, avremmo potuto fare una passeggiata assieme nel nostro quartiere. Corrado si è schernito, ha detto che forse non gli pareva il caso, ma poi mi ha chiesto di accomodarmi nel suo appartamento per parlarne meglio e con calma, e così mi sono reso conto che probabilmente era la prima volta che mettevo piede dentro casa sua. Dal punto di vista della struttura, è del tutto identica al mio appartamento, soltanto esattamente speculare, essendo l'abitazione di fronte alla mia, ma nonostante questo all’interno mi è apparso tutto subito differente. Così ho seguito il mio vicino di casa attraverso le sue stanze fino a giungere nel giardinetto sul retro dove lui, specialmente in questo periodo, coltiva con passione il suo regno, ed in questa maniera ha potuto spiegarmi timidamente come in questo momento si trovi molto occupato con le sue piante e tutti i suoi fiori. Perciò gli ho fatto presente che avevo ripensato in questi giorni appena trascorsi ai suoi problemi con i propri parenti, e che adesso avevo deciso, dopo la sua recente richiesta, di dargli una mano. <<Signor Domenico>>, ha fatto lui; <<io la ringrazio, anzi mi commuove il suo interessamento, e vorrei tanto che lei avesse il potere di risolvere rapidamente tutti questi problemi che mi assillano, perché sono più che sicuro ne sarebbe assolutamente in grado. Però le cose adesso si sono fatte complesse, ed è difficile riuscire a comprendere chi abbia ragione e chi sia invece nel torto, anche se io cerco soltanto di non dare mai fastidio a nessuno, proprio per non farmi dire alle spalle delle cose sgradevoli, in modo speciale dai miei familiari>>.

Ho annuito alle sue parole, che in fondo se ci penso non mi meravigliano affatto, ed ho lasciato, dopo il mio invito, che si infilasse i suoi guanti da lavoro e riprendesse con i propri impegni alla potatura dei rosai ed al rinvaso di alcune altre piante, proprio come stava facendo fino ad un attimo prima del mio arrivo, ma poi, dopo una pausa, gli ho  fatto anche presente che ero rimasto favorevolmente colpito dalla sua cugina Angelica, tanto che avrei voluto informalmente chiedere proprio a lei, se questo mi fosse stato possibile, e con il suo permesso naturalmente, una maggiore chiarezza riguardo al suo caso familiare <<che pare si stia trascinando>>. Corrado mi ha guardato con sorpresa, mi ha detto che senz’altro non aveva niente in contrario a fornirmi il suo numero di telefono, tanto sapeva bene, conoscendomi ormai da diverso tempo, con quale tatto e delicatezza avrei affrontato quella situazione, ma poi ha subito parlato d’altro, come per alleggerire ogni questione. Ho ascoltato le sue divagazioni, ho osservato il suo bel lavoro con le piante, la terra e i concimi, poi ho detto che era meglio se tornavo alle mie stanze, anche per lasciarlo alle sue occupazioni, e lui accompagnandomi fino alla porta ha scritto frettolosamente sopra un foglietto quel numero che gli avevo richiesto.

<<Pronto>>, ha detto a voce bassa la cugina Angelica, e quando mi sono presentato telefonicamente non ha mostrato nessuna meraviglia nel sentire la mia voce, così come neppure mi ha chiesto come avevo avuto il suo numero. Gli ho spiegato con sincerità che il signor Corrado, chiamato Dino da amici e conoscenti, mi aveva chiesto un aiuto per comprendere meglio la propria questione familiare, e che questo naturalmente era il solo motivo della mia telefonata. E’ rimasta un momento in silenzio, ha lasciato probabilmente che io provassi un piccolo brivido per quella pausa, infine ha detto che forse sarebbe stato meglio incontrarsi per parlarne con calma, ed io naturalmente ho acconsentito volentieri, <<con molto piacere>>, ho anche aggiunto subito, nonostante in seguito mi sia parso di aver fatto un errore ad accettare un po' troppo rapidamente. Così ci siamo accordati per incontrarci giovedì in un caffè di questa zona, in orario pomeridiano, poi ci siamo salutati, e tutto è parso scorrere bene, tra persone assennate, che sono capaci di affrontare razionalmente qualsiasi problema si presenti.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Piena ragione

 

         Sono arrivato in netto anticipo nel locale dove abbiamo stabilito di incontrarci, così mi sono seduto con calma ad un tavolo di una saletta in disparte, ed ho tirato fuori un taccuino su cui ho in mente di annotare almeno degli appunti. Non ho certo ripensato molto a tutta la faccenda di Corrado, il mio vicino di casa, soprattutto perché mi pare quasi impossibile che i suoi parenti abbiano davvero l’intenzione di trattarlo in modo così poco cortese, togliendogli la disponibilità di un bene di famiglia. Mi sembra comunque già un buon risultato essere riuscito ad avere alla svelta un appuntamento con sua cugina Angelica per parlarne per bene, tanto più che è mia intenzione eventualmente non insistere neanche troppo con lei sulle cose che mi potrebbe forse rivelare, confidando magari in un nuovo appuntamento tra un paio di settimane, sempre che non ci siano stati dopo questa volta i chiarimenti in cui sto proprio sperando, e che sono qui per domandarle. In fondo chi sono mai io per pretendere chissà cosa da questa persona o dagli altri cugini di Corrado: forse potrei spacciarmi per un avvocato ormai in pensione, ad esempio, ma sarebbe sufficiente lasciarmi sottoporre a qualche domanda tecnica, e la mia copertura cadrebbe immediatamente senza alcun rimedio. E poi non è certo nelle intenzioni del mio vicino di casa farsi rappresentare da un vero legale: le cose sono serie, certo, ma non fino a quel punto. Ed in più lui non desidera certo rovinare i rapporti con gli unici parenti che gli sono rimasti. Per cui, credo vada bene il modo come è stata impostata la faccenda fin dall'inizio: io sono soltanto un suo conoscente, uno che per propria sensibilità si preoccupa di Corrado, e quindi anche dei suoi eventuali problemi.

         Mi sono fatto servire un caffè, anche per ingannare questa piccola attesa, e così adesso mi sto guardando attorno per rendermi conto del motivo, sempre che ce ne sia almeno uno, per cui Angelica abbia scelto di incontrarci proprio in un posto di questo genere: una birreria, quasi una bettola direi, dove la normale clientela continua a parlare a voce alta senza troppi riguardi nei confronti degli altri presenti. Tanto più che in un angolo in fondo all’ampio stanzone principale, c’è persino un biliardo dove si sfidano certi ragazzoni scansafatiche convinti di farsi sempre pagare la propria bevuta da qualcun altro. Lascio il mio taccuino e la piccola cartella che ho portato con me sopra una sedia, e mi accosto con lentezza al tavolo da biliardo, tanto per dare un’occhiata a questo gioco. Uno mi strizza l’occhio prima di fare il suo tiro, e capisco al volo che sta solo cercando un nuovo pollo da spennare appena avrà terminato quella partita in cui adesso è impegnato. Sorrido, si sa che il mondo è composto da grosse volpi e da poveri ingenui, inutile fingersi furbi se non lo si è. Più onesto Corrado allora, penso con convinzione, che preferisce non esporsi, rimanendo più volentieri tra le sue piante da coltivare, che non potranno mai rivoltarsi contro qualcuno, piuttosto che farsi trascinare in cose che forse non è attrezzato neppure per riuscire a comprendere bene.

Uno dei due giocatori scuote la testa, come a mostrare che le cose stasera non gli girano esattamente come vorrebbe: forse il giovanotto si reputa addirittura fuori forma, oppure sostiene che è soltanto perseguitato dalla solita sfortuna. Inutile guardare tutto l'insieme, penso nella stessa esatta maniera come probabilmente sta riflettendo anche questo tizio che ho proprio di fronte; meglio concentrarsi su ogni singolo tiro, come fosse il solo, e poi rifarsela sempre con la stecca che non va, con le biglie che probabilmente non intendono proprio collaborare, e così via. Riflettendo sul dettaglio si perde più facilmente anche il senso del gioco, così possiamo dire alla fine della partita una parola soltanto che la racchiuda e che faccia da commento a tutto l’insieme. Già, immagino; molto meglio spiegare a un certo punto che non era proprio la giornata giusta per giocare al biliardo.

Torno al mio tavolo, Angelica adesso è già un po’ in ritardo, forse potrei andarmene da questo posto e soltanto più tardi chiamarla al telefono, però aspetto ancora, con una residua fiducia: in fondo che cosa mi importa; sono quasi sicuro, minuto dopo minuto, che starà appunto per arrivare, e al momento che infine sarà qui per davvero, avrò in questo modo con lei un argomento in più per avere decisamente piena ragione su qualsiasi problema ci troveremo a discutere.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Oltremodo cugini

 

         Lei mi ha subito detto che ci sono stati dei momenti difficili, molti anni fa. <<Corrado in quel periodo sembrava diverso>>, ha proseguito, <<e quella donna che aveva preso per moglie lo stava facendo diventare completamente matto con le sue richieste. Fu allora che iniziò a chiedere dei soldi in prestito a tutti i suoi parenti>>. Angelica assapora lentamente il proprio caffè dalla tazza aspirando il liquido con un debole suono di risucchio cadenzato e insopportabile, come se il gusto di quella bevanda fosse soltanto una sua prerogativa. <<Nessuno tra i suoi cugini allora trovò il coraggio di fargli presente che i suoi debiti prima o dopo avrebbero dovuto essere onorati, e la faccenda andò avanti così per diverso tempo, insomma quasi un paio di anni, e io stessa peraltro gli fornii una discreta parte dei miei risparmi>>. Mi guardo attorno per un attimo: dentro al locale c’è il solito via vai di ragazzi che parlano e ridono, forse avrei preferito un luogo più tranquillo, comunque adesso il quadro che si sta delineando sembra piuttosto chiaro: ci sono delle cose, come avrei potuto sospettare fin dall’inizio, che il mio vicino di casa si è tenuto per sé, forse per vergogna, o magari soltanto per un personale superamento di quei fatti. <<Naturalmente nessuno di noi familiari gli fece firmare un solo foglio in cui si riconoscevano le somme date in prestito, ma in seguito, dopo la sua burrascosa separazione dalla moglie, oltre a qualche accenno velato su quei soldi, nessuno di noi gli ha mai imposto, e neppure timidamente chiesto, di restituirli indietro>>.

         Peraltro immagino facilmente come il mio vicino di casa non si sia minimamente preoccupato di rendere ai parenti quei prestiti, e che non abbia nemmeno cercato di restituirli un poco per volta, o impegnandosi almeno per una loro piccola parte, magari tentando di mettere insieme le somme con qualche lavoretto serale oltre l’orario di ufficio, anche per mostrare alla famiglia la sua buona volontà. Forse avrà addirittura pensato che quei quattrini sperperati in così poco tempo, costituissero una specie di risarcimento per il periodo complesso che aveva da poco attraversato, ed in seguito il suo più forte desiderio deve essere stato sicuramente quello di cancellare e dimenticarsi in fretta di tutto. Forse gli deve essere persino sembrato che non usare per niente la vecchia casa di campagna dei nonni, come invece stavano facendo assiduamente i suoi cugini con le loro rispettive famiglie, fosse una specie di risarcimento per quelle somme di denaro avute anni prima. <<Nessuno di noi si è mai sognato di portarlo alla rinuncia dell’eredità, oppure di fargli uno sgambetto economico per un semplice odioso dispetto tra parenti. Però il suo comportamento non è stato troppo corretto, ed anche se adesso vive da solo ed in perfetta tranquillità, ciò non significa che i gesti del passato siano da dimenticare con un colpo di spugna.

Annuisco, non posso fare altrimenti; comprendo che i rapporti familiari siano quasi arrivati fino ad un punto finale di rottura, in considerazione soprattutto dell’indifferenza di Corrado nei confronti delle necessità dei suoi cugini, e che quel compromesso, trovato in qualche maniera da tutti loro ma soltanto adesso, mediante l’azzeramento economico della sua parte di successione, fosse davvero l’unica strada per cancellare almeno qualcosa che non abbia lasciato alle spalle della sua famiglia soltanto indifferenza. <<Lei, signor Domenico, non è propriamente un suo amico, ma soltanto un conoscente, un vicino di casa, una persona sensibile che cerca di sistemare le cose semplicemente per uno spirito altruista, mi immagino>>, dice l’Angelica accendendosi una sigaretta e osservandomi con intensità. Questa donna ogni tanto ha dei gesti più rallentati di altri, come se adoperasse un impegno mentale maggiore per fare una cosa rispetto ad un’altra, come ad esempio guardarsi attorno, voltando leggermente gli occhi e la testa con una calma inverosimile, quasi operando una scansione completa di ciò che la può circondare. <<Certo, e adesso comunque mi pare chiara ogni cosa>>, dico io mentre faccio cenno di alzarmi dal tavolo per indicare pressoché terminata almeno la conversazione attorno a Corrado, <<in ogni caso mi ha fatto molto piacere conoscerla e parlare con lei>>, dico mentre sistemo dei soldi dentro al piattino per il cameriere. <<Certo, anche a me, naturalmente>>, fa lei, <<e magari più avanti si troverà l’occasione per prendere insieme un altro caffè, senza la necessità di parlare ancora di mio cugino>>. 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Tutto passato.

 

         Busso leggermente con le nocche della mano all’uscio del mio vicino di casa. <<Dino; signor Corradino>>, chiamo a bassa voce, <<mi apra per favore, se si trova in casa>>. Non ottengo alcuna risposta, e questo mi mette stranamente in allarme, quasi come corresse l’obbligo per lui di rimanere tra le sue mura domestiche ad attendere i miei tempi per le visite. Sorrido persino di me e dei miei pensieri: forse è soltanto andato a farsi un giro, o ad acquistare qualcosa, rifletto. Mi muovo per tornare nel mio appartamento, ma una strana apprensione mi serpeggia addosso più che nella testa. Non avrei mai voluto immischiarmi nei suoi affari di famiglia, ma è stato lui a chiedermi di farlo, spiegandomi come i suoi parenti secondo il suo parere lo stessero defraudando di una parte della sua eredità, senza dargli neppure troppe spiegazioni. Sta di fatto che il mio vicino di casa probabilmente non meriterebbe neppure la quota di quella successione, proprio perché precedentemente aveva chiesto in prestito dei soldi ai suoi parenti, e questi suoi debiti in seguito non sono stati più appianati. Vorrei dirglielo adesso, vorrei spiegargli che non mi è piaciuto ritrovarmi come è accaduto in mezzo alle sue faccende, senza neppure essere messo al corrente di tutta quanta la verità. Ma se ci penso meglio, in fondo non mi interessano neppure queste sue sciocchezze, anzi, vorrei proprio che si tornasse ai rapporti che tenevamo fino a poco tempo addietro, quando ci si limitava soltanto a salutarci con rispetto incontrandoci nelle aree condominiali delle nostre abitazioni, e poi nient'altro.

         Mentre sono ancora sul pianerottolo, intravedo scendere dalle scale dei piani superiori un’inquilina anziana che conosco da diverso tempo, la quale mi saluta, si sofferma per un attimo con un'espressione sul viso come di sorpresa, e poi mi dice con voce tremula che il signor Dino, probabilmente, è stato portato all'ospedale qualche ora prima. Sembra difatti che mentre io mi trovavo fuori casa, sia giunta, senza usare comunque le sirene d’emergenza, un'ambulanza in piena regola, fermatasi davanti al portone del nostro palazzo, probabilmente chiamata direttamente da lui, e che un paio di barellieri, dopo essere entrati nel suo appartamento per qualche minuto, se lo siano portato via, senza che lui avesse detto niente a nessuno. Ringrazio questa donna delle informazioni che mi sta dando, mentre le spiego in fretta che neppure io ne sapevo assolutamente niente, e quindi le faccio anche presente che a mio parere deve essere accaduto qualcosa d’imprevisto, altrimenti Corrado mi avrebbe avvertito senz’altro di questa novità, oppure si sarebbe almeno lamentato con me per qualche patologia, qualcosa di cui rendere necessario ricorrere a delle cure ospedaliere.

         Rientro in casa dopo qualche altra parola ed aver naturalmente salutato l’inquilina, e rifletto se sia forse il caso immediatamente di telefonare alla sua cugina Angelica, che magari è più informata di me su quanto sta succedendo, o almeno per darle io questa notizia fresca. Così, una volta tornato nel mio appartamento, prendo subito il mio portatile, ma all’improvviso mi rendo conto che è probabile che Dino si sia portato con sé il proprio cellulare, ed anche se non è mai successo fino ad oggi che io l’abbia dovuto chiamare al telefono, adesso forse è proprio il caso che lo faccia. Osservo l’orologio e decido di attendere un orario a mio parere più propizio per provare a disturbarlo, considerato che se deve fare qualche terapia nella clinica dove è stato trasferito, sicuramente verso il tardo pomeriggio mi si presenteranno maggiori possibilità di trovarlo a riposo nel letto che a quel punto gli avranno certamente assegnato, ormai senza più nessun sanitario attorno a sé. Giro nervosamente dentro le mie stanze, rifletto, ormai non sono più neppure capace di far nient’altro nell’attesa di chiamarlo.

         Quando avrò sentito la sua voce, e lui, come spero, sarà stato in grado di rassicurarmi sulle proprie condizioni di salute, credo non mi resterà altro da fare che telefonare a quel punto alla sua cugina Angelica per metterla al corrente delle novità, e magari trovarmi anche d’accordo con lei per una visita congiunta all’ospedale dove con ogni probabilità si trova adesso questo degente. Continuo per un po' a muovermi avanti e indietro, nervosamente, ma infine mi siedo sulla mia poltrona, e non so come, forse stanco della giornata, mi assopisco, non per molto, soltanto qualche minuto, il tempo giusto per dimenticarmi dolcemente di tutti i miei problemi. All'improvviso però sento suonare il campanello. Apro, già sulla difesa. È Corrado: <<cessato allarme>>, mi dice. <<Sono andato al pronto soccorso per uno strano moto di affanno che mi aveva preso; ma con una semplice iniezione, in poco tempo, mi è tranquillamente passato tutto>>.

 

 

        

 

 

 

 

 

 

 

 

         Sono inquieto, inutile negarlo.

 

         Vorrei tanto essere capace di infischiarmene di tutti. L’indifferenza, ecco la dote che ritengo più efficace ed utile per quelli che come me desiderano preoccuparsi soltanto di se stessi. Questo è il fine ultimo e il più alto penso, quello di interessarsi solamente a quelle cose che rimangono nella distanza di una sola spanna dalle proprie braccia, vicine a sé, come gli elementi propri di una persona circondata da costrutti conseguenti direttamente dalle azioni eseguite con più individualità. Però non ci riesco. Sono convinto che sarebbe meglio per tutti imparare a coltivare soltanto gli interessi più strettamente personali, ma alla fine so per certo che un tale impeto è impossibile penso, qualcosa si mette sempre di traverso a svincolare e distogliere chiunque da questa direttiva, anche se gli resta propria una tale precisa caratteristica. Così anch’io come tutti quanti mi sento preda delle cose che accadono anche agli altri penso, preoccupandomi spesso, persino a volte non volendolo, di qualsiasi problema riguardante giusto il primo che mi passa davanti agli occhi, figuriamoci poi se quella è una persona che sto frequentando già da diverso tempo, una conoscenza, una figura familiare, quasi un’amicizia; no, mi sono spinto persino troppo oltre, devo almeno tentare di rimanere entro i confini della mia personalità sorretta soltanto da se stessa penso, quella che non concede troppo, e si preoccupa, nella maggior parte del suo tempo, unicamente dei propri guai.

         Così proseguo a pensare, mentre sistemo le cose di ogni giorno dentro la mia modesta abitazione, e immagino questa giornata che ho ancora di fronte come il frutto di pochi desideri semplici, diretti, già considerati, e che non vanno ad intrecciarsi con qualcosa che non sia esclusivo di quel cammino ordinario di un soggetto trasparente che coltiva soltanto l'ambizione di una vita pacata e regolare. Il mio vicino di casa a questo punto riposa tranquillo nel proprio appartamento penso, considerato che tanto attorno a lui qualcuno, o addirittura anche molti altri, sembrano preoccuparsi in vece sua dei problemi da cui sembra spesso ottenebrato. Certo è che le sue maniere di comportamento appaiono sempre più sfuggenti, e non si riesce neppure a darne una motivazione legata magari all'emotività, o ad un profilo esageratamente dimesso, oppure ad un disegno personale più ponderato e ben preciso. In fondo non fa neppure troppa differenza penso, e in ogni caso se intendo comprendere qualcosa di più sul suo carattere bizzarro, la sola maniera a cui posso dare seguito è quella di chiedere notizie a quei cugini suoi, ad iniziare da quella Angelica con la quale mi sento quasi affine, naturalmente non in modo proprio diretto, considerato che sembrano tutti in apparenza dei superficiali e degli egoisti, ma che sotto queste loro maschere nascondono forse delle concezioni precise, ed anche delle opinioni comprovate, sugli altri componenti dell'intera famiglia.

         Non so se attendere nei giorni prossimi qualche possibile novità da parte del mio caro signor Corrado, o se invece di aspettare mi convenga tentare di stanare l’orco, magari telefonando proprio all’Angelica, con la quale peraltro sono rimasto quasi a mezzo di un discorso, così da portare in avanti tutti gli argomenti che prima o dopo dovranno indubbiamente essere chiariti. Potrei addirittura disinteressarmi di tutto a questo punto, considerato che non ho alcun vantaggio in tutta la faccenda penso, ma rimane il fatto di sentirmi ormai troppo implicato in questa situazione per tentare di defilarmi proprio quando le cose hanno già raggiunto questo stadio. Rifletto in questo modo mentre sento il mio telefono che suona. È l’Angelica che mi chiama all’apparecchio, come se esattamente nello stesso attimo mio, stesse anche lei meditando intorno a degli identici argomenti, tanto da sentirsi in dovere di capire quale sia la mia opinione, i miei punti d’arrivo, il mio parere. Rispondo con espressione neutrale e quasi distaccata, cercando di non mostrare affatto nella voce l’apprensione che in questo attimo mi sento addosso e nella mente, ma lei mi chiede subito, come se fosse l’unico argomento di suo proprio interesse, come stiano andando i rapporti tra me ed il mio dirimpettaio, suo parente diretto, e soprattutto frutto di tante inquietudini nascoste o manifeste.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Contatti soltanto telefonici

 

         <<Dino>>, lo chiamavano sempre i suoi cugini quando erano tutti ancora dei ragazzetti coi calzoni corti. <<Corradino; corri, dai, vieni da noi>>, e lui subito rideva ed andava incontro agli altri. Rideva spesso Dino in quel periodo, specialmente quando in estate si ritrovavano spensierati tutti insieme in quell’angolo meraviglioso di campagna, e poi ricominciavano ogni volta con quel gioco semplice intorno alla grande e vecchia casa dei nonni, dove zii e cugini si sistemavano nelle tante stanze per una settimana o due, per ritrovarsi e sentirsi ancora una grande famiglia; così lui si faceva scoprire quasi subito, anche se a Corrado non importava troppo: a lui bastava poter sentire dentro di sé quell'allegria incolmabile, quella necessità di stare con gli altri senza compromessi, senza limiti, come poteva essere quel solare divertirsi e basta. Anche quando si nascondeva in uno dei tanti angoli quasi impossibili da scoprire: nel fienile, nella rimessa dei trattori, nella vecchia stalla, e lì dove si doveva stare nascosti e il più possibile in silenzio, a lui ugualmente veniva  subito da ridere, come fosse quello il solo fine ultimo della giornata, quella la motivazione più alta per stare assieme. Forse i suoi cugini con probabilità lo reputavano uno sciocco già da allora, addirittura proprio per quel motivo infantile, anche se a Corrado non interessava praticamente quasi niente, perché le cose per lui erano in questo modo, e quei loro pareri si mostravano a suo avviso del tutto insignificanti. Anche in seguito, quando tutti rapidamente si erano fatti già più grandi, ritrovandosi comunque qualche volta nel periodo estivo dentro quella casa che sapeva di lavoro, di misteri, di passato e di attenzione alle stagioni, quando anche lui insieme ai suoi cugini si metteva seduto in una di quelle stanze fresche, odorose di paglia e di pietra, a parlare e a confidare ognuno agli altri gli ultimi avvenimenti personali, i corsi di studio, le amicizie, i propri migliori risultati; ecco, a Corradino, ancora non faceva differenza l’opinione che potevano avere di lui.

         Poi si sposarono, un paio dei suoi cugini, e in poco tempo ebbero anche dei figli, ed allora le cose si fecero del tutto differenti: i nonni mancarono improvvisamente, e quel podere comunque rimase, in accordo con tutti, per assicurare ancora alla famiglia un luogo di ritrovo dove trascorrere assieme qualche giorno, qualche fine settimana, dei piccoli periodi strappati al torpore abitudinario della città vicina dove risedevano tutti. Corrado in quel periodo si ritrovò ad abitare da solo in un appartamento senza pretese, accettando quel mestiere da impiegato messo insieme dalle amicizie di suo padre, poco prima di morire. Anche sua madre se ne andò in fretta in quegli anni, ed a lui non rimase altro, dopo un lungo periodo, che trovare una donna piena di interessi per riempire le sue magre giornate. La portò anche in campagna, una sola volta durante la primavera, poco prima del loro matrimonio, ma parve non piacere troppo ai suoi cugini, ed anche se non gli dissero niente in modo diretto, si limitarono comunque sorridendo a fargli capire che forse non era la persona adatta per uno come lui. Corrado comunque proseguì per la sua strada, e dopo poco si sposò quasi di nascosto, prendendo in affitto una villetta forse troppo grande e dispendiosa per due persone sole. In fretta difatti iniziarono a mancare i soldi in quella sua casa, e tutti i suoi risparmi e le buste paga da impiegato non bastarono più a nulla, nei confronti del tenore di vita e delle esigenze quotidiane manifestate fin da subito, tanto che una domenica ritornò da solo, con la faccia triste questa volta, nella vecchia casa di campagna dove si erano radunati come sempre i suoi cugini, e chiese a loro dei soldi in prestito, senza vergogna, come fosse la cosa più naturale di questo mondo. Per non fare differenze tutti i familiari gli prestarono qualcosa, mettendo assieme i quattrini in tanti momenti successivi, fino a quando lui trovò il coraggio di separarsi dalla moglie e smetterla con quelle continue richieste di denaro.  

         I cugini scuotevano la testa, ed anche Angelica all’epoca era molto seria nei suoi confronti, così Corrado si ritirò in un piccolo appartamento di fortuna, e non si fece più vedere, neanche d’estate, in quella vecchia casa dei nonni. Anzi, forse da persona dimessa, immaginò di ripagare i suoi parenti proprio con quella sua forzata assenza, limitandosi a rispondere con cortesia alla sua cugina Angelica, quando a lei veniva voglia di chiamarlo al telefono, e che comunque in seguito rimase l’unica, tra tutti i parenti che aveva, a tenere con lui qualche contatto.

 

        

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Meglio sarà per me

 

Lo guardo, da dietro la mia finestra, mentre lui sta sistemando in un piccolo vaso un'azalea prossima alla fioritura. Non c'è niente di diverso da quello che gli ho visto fare la settimana scorsa nel suo giardinetto, e probabilmente niente neppure di quello che gli vedrò fare tra qualche giorno. Mi suscita addirittura un moto di pena certe volte, e in altri momenti invece mi fa montare una rabbia estrema e quasi irrazionale. Non vorrei neanche spiarlo come invece sto facendo in questo momento, ma non riesco proprio a fare diversamente. Siamo persone differenti, questo è soprattutto il dato incontestabile, e la distanza che ci divide sembra persino incolmabile certe volte, perché lui è una persona fragile, incapace, estremamente semplice nei ragionamenti che propone, mentre io non mi sento così, perché sono fatto con un'altra stoffa, e mi reputo un tipo complesso e persino forte nei suoi confronti, anche se alla fine a vincere tra noi è sempre lui: è Corrado, questo personaggio inafferrabile di cui sembra certe volte di poter conoscere assolutamente tutto dopo una sola occhiata, e che invece in un attimo si rivela sempre differente da come lo avevamo giudicato. Il mio rapporto con il mio vicino di casa spesso si svolge, naturalmente a seconda dei casi in esame, su dei piani molto diversi tra di loro, tanto che sento come cambiare il mio stesso atteggiamento verso Corrado nell'attimo esatto in cui gli sono davvero davanti, nelle medesime parole e nei gesti che uso per spiegargli qualcosa o nel domandargli di qualche faccenda usuale di ogni giorno, lasciando che tutto si faccia improvvisamente differente rispetto a ciò che ho immaginato di dover essere io stesso con lui ogni volta, quando, contrariamente a quel momento, stavo ancora da solo. <<Signor Corrado>>, gli dico poi a bassa voce osservando ancora di sfuggita ciò che sta sistemando; <<oggi è la giornata giusta mi pare, per il giardinaggio>>; e lui sorride, si schernisce, dice che sta solo perdendo un po’ di tempo, e che tra poco smetterà, anche se io so già che non è vero.

Rientro in casa mia, quasi mi perdo cercando di occuparmi di qualche altra sciocchezza, poi mi sento chiamare proprio da lui, da Corrado: <<Signor Domenico>>, mi dice pacato quando infine mi affaccio, <<comunque non si preoccupi troppo per me; va tutto bene>>. Resto per un momento a guardarlo mentre ancora se ne sta nel giardinetto, poi gli sorrido, come a mostrargli che ho compreso perfettamente che cosa intenda dirmi con questa frase, anche se mi agito profondamente nel riflettere davvero sulle sue parole, nello stesso momento in cui lui intende orientare la sua attenzione su di me. Riesce, con quelle sue espressioni timide, con quelle frasi leggere che usa, con quelle parole sempre ordinarie che snocciola tranquillo, ad essere comunque pungente, indefinibile, ambiguo, facendomi trovare spesso pressoché scoperto proprio mentre cerco solamente di dar seguito al mio stesso sentire, quasi come un ragazzo trovato d’improvviso col vasetto della marmellata. Soltanto fino a ieri avrei sinceramente voluto aiutarlo, ma adesso non so più neppure in cosa, e soprattutto non capisco assolutamente per quale motivo dovrei farlo.

Penso sempre di più che forse dovrei davvero telefonare a sua cugina Angelica, e provare a spiegarle come mi sento in questo momento nei confronti di Corrado, cercando di capire se per caso anche nella loro famiglia qualcuno si sia trovato mai in una situazione simile con lui. Poi rifletto meglio che sono soltanto delle sciocchezze quelle di cui vorrei parlarle, e quindi allontano da me anche l’idea di dover comprendere per forza una personalità sfuggente, e per sua natura poco chiara, come quella di Corrado. E poi magari lei non è per nulla interessata a certe cose, né a quelle riguardanti i problemi dei suoi familiari, e neppure alle altre che scaturiscono dai miei sciocchi malumori, e forse è proprio per questo motivo che non si è fatta più sentire come invece aveva promesso qualche tempo fa. Non ha importanza, mi convinco dopo qualche altro secondo; devo allontanarmi rapidamente da Corrado e da tutta la sua gente. Prima lo faccio, meglio sarà per me.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Vittima probabile

 

         <<Guarda, Corradino>>, bisbigliava Angelica con calma qualche volta, quando ancora erano piccoli e si ritrovavano nella casa di campagna dei nonni insieme agli altri quattro cugini; <<il silenzio adesso è così forte in questo buio, che volendo si potrebbe quasi toccare>>. Lui rimaneva per un attimo del tutto immobile a guardare nella notte, senza respirare, con la bocca semiaperta e le mani leggermente protese avanti a sé, forse per avvertire con la punta delle proprie dita anche lui quello che sosteneva di provare sua cugina, ma dopo poco, alla fine di quell’attimo sospeso, scoppiava sempre a ridere ogni volta, probabilmente per rompere quel senso di imbarazzo di cui si ritrovava subito vittima, proprio mentre lei quasi di getto se ne correva via, lungo il grande spiazzo davanti alla rimessa degli attrezzi, tornando da sola e divertita verso la grande abitazione di famiglia. Dopo tutti questi anni e gli avvenimenti accaduti, Corrado comunque non si è mai scordato di tutti quei momenti, ed è tornato qualche volta a ripensarle con una certa calma quelle parole, come se avessero lasciato nei suoi ricordi qualcosa ancora da scoprire.

         <<Signor Domenico>>, mi dice adesso accostandosi alla rete divisoria dei nostri rispettivi giardinetti. <<Ci sono molte cose che non sono mai riuscito a comprendere; non per mancanza di sensibilità, ma solo perché enigmatiche e contorte, o al contrario forse in quanto troppo semplici per un pensiero in fondo poco lineare come il mio>>. Lo guardo, vedo che sorride come per prendere poco sul serio persino ciò che afferma, ed io vorrei rispondergli con qualcosa di appropriato, ma non trovo niente dentro di me, così mi limito ad annuire, come fossi chiamato semplicemente ad ascoltare un suo insipido ricordo di bambino, e poi nient’altro. Mi fa sempre riflettere ciò che mi dice in certe occasioni il signor Corrado, è come se riuscisse a mescolare aspetti essenziali della sua esistenza con emerite sciocchezze che non meritano assolutamente alcun interesse. Lo immagino in mezzo ai suoi cugini, in quegli anni di ragazzi, sempre pronti a prenderlo in giro e a ridere delle sue maniere, come fosse il loro bersaglio preferito con cui divertirsi di gusto subito dietro le sue spalle, senza preoccuparsi del suo orgoglio ferito o della sua personalità scalfita. Come al solito provo dispiacere quando lo immagino così, però immediatamente dopo provo solo rabbia nei confronti di sé e dei suoi comportamenti. Non ne esco da questa situazione, penso che non sarò mai capace di dimostrargli quella doverosa indifferenza che vorrei, anche se tento in ogni occasione di mostrarmi distante dai comportamenti presenti o passati di questo mio vicino.

         Rientro in casa adesso per occuparmi delle mie faccende, anche se forse vorrei trascorrere più tempo ad ascoltare dalla sua stessa voce i propri ricordi di ragazzo, quando con i genitori si recava d’estate presso quella grande casa di campagna che a lui pareva in quell’epoca lo sfondo più appropriato ad ogni idea ed a qualsiasi esperienza, in mezzo a quei cugini quasi tutti coetanei, così affiatati tra di loro da apparire solidali nel pensare probabilmente che Corrado non avrebbe mai avuto un’esistenza semplice, nonostante i loro continui tentativi di mostrargli le difficoltà da cui riuscire a tenersi più distante. Forse era questa veramente la prova fondamentale in cui cercavano di indirizzare il cugino in quelle giornate difficili eppure divertenti, con l'Angelica sempre pronta a funzionare come esca per riuscire a trascinarlo verso i più divertenti trabocchetti, utili per ridere di gusto ed instradare quel ragazzetto un po' lunatico, come doveva apparire a tutti Corradino, verso le difficoltà che tutti loro reputavano ordinarie. Verificavano i suoi comportamenti, ecco quello che facevano in quell'epoca: misuravano semplicemente quante difese le sue reazioni fossero capaci di escogitare, e lui probabilmente era in questo modo una predestinata vittima di tutte le loro marachelle, anche se forse, certe rare volte, lui fingeva soltanto di esserlo davvero.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Momento giusto

 

Oggi penso improvvisamente di essermi proprio stufato di tutta questa faccenda dei parenti del mio vicino di casa, persone che non conosco neppure ed a cui non sono legato per niente: non trovo proprio nulla che ancora, come ho fatto in sostanza negli ultimi tempi fino quasi a stamani, mi costringa ad essere così attento e rispettoso delle cose che riconosco essere una sostanziale pertinenza di altri individui, con cui peraltro non ho quasi niente da spartire, cose che oltretutto in alcun modo riguardano me in modo diretto. Prendere ed uscire di casa, questo devo fare, penso ancora, senza alcuna necessità di guardarmi indietro oppure di lambiccarmi ulteriormente il cervello con dei pretesti che probabilmente possono servire soltanto a gettare via del tempo.

Così indosso la mia giacca quasi frettolosamente, mi assicuro di avere con me le chiavi per rientrare in seguito nelle mie stanze, ed alla fine sbatto quasi la porta alle mie spalle, senza alcuna necessità di riflettere o di rendermi conto se il mio vicino sia ancora presente nel suo appartamento qui accanto al mio oppure no, visto che questi sono diventati dei particolari che da oggi in avanti non devono nemmeno sfiorare gli interessi costituenti la mia tranquilla giornata. In strada tutto sembra regolare, ed io avvio il motore della mia utilitaria con l'intenzione di farmi un largo giro fuori città, e di giungere senza fretta in qualche piccolo paese della campagna circostante, forse sulla riva del piccolo lago artificiale incastonato tra le colline. Guido lentamente mentre lascio alle spalle i numerosi incroci della zona, poi prendo le indicazioni di una via tortuosa che passa per un posto in cui non mi reco da parecchio tempo. Mentre osservo il panorama penso che potrei tra non molto anche fermarmi in una trattoria per mangiare qualcosa, e così, quando poi adocchio il locale giusto, lungo la strada che costeggiando lo specchio d’acqua attraversa anche questo gruppo di case, accosto, parcheggio bene l'auto, ed infine prendo la mia giacca con me per entrare dentro al ristorante. Mi dicono che volendo posso sistemarmi anche all’esterno, in uno dei tavoli all’aperto, ed io accetto, visto che su un fianco della costruzione, sotto al pergolato, ci sono sedie e tavolini liberi con solo tre o quattro persone già sedute a bere e a chiacchierare per i fatti propri.

Una signora gentile mi porta subito una birra ed un vassoio con formaggi e salumi affettati, ed io con calma mi servo ed addento subito delle belle porzioni, insieme alle fette profumate di pane fresco, proseguendo a guardarmi attorno con un interesse improvvisamente rinnovato dalla coscienza di essere in fuga da qualcosa, anche se non ho neppure voglia di pensare cosa sia. Con oggi devo iniziare a disinteressarmi di parecchie faccende penso, e per far questo devo soprattutto riempire le mie giornate con qualcos’altro di cui iniziare da subito ad occuparmi. Prendo dalla tasca un foglietto ed una matita, e mentre proseguo a mangiare il mio piatto freddo, inizio a disporre sulla carta come un semplice elenco di attività: “visite ai musei e ai luoghi di cultura cittadini; visite ai paesi circostanti; visite alle tante biblioteche sparse; raccolta e catalogazione delle immagini e delle fotografie più caratteristiche di tutto il territorio”. Solamente con queste poche e sostanziose attività che mi sono appuntato, posso tirare avanti da subito per qualche anno penso; se poi riesco a scomporle ulteriormente nei tanti dettagli da cui sono formate, credo che avrò materiale di cui occuparmi per un tempo quasi infinito. Termino la mia birra e pago con un sorriso la consumazione alla signora, e subito dopo riprendo la mia giacca e torno alla macchina.

Non ci vuole molto a darsi dei programmi di massima penso, ed anche se sono stato messo in pensione oramai da un bel numero di mesi, ciò non significa che adesso non abbia più niente a cui potermi dedicare. Mi hanno chiamato “professore” per decine di anni nel liceo dove ho lavorato, ed ho studiato tanto per sentirmi sempre all’altezza dei miei insegnamenti. Devo proseguire, coltivare le mie curiosità, tutti quegli interessi culturali che più o meno ho sempre avuto, ed informarmi di tutto quello che può essermi sfuggito nelle giornate in cui non ho avuto il tempo sufficiente per farlo. Questo è il momento giusto.

 

 

        

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Causa prima

 

La sua telefonata giunge di mattina, quando ancora mi trovo in casa senza aver del tutto deciso, con la mia solita scrupolosità, cosa sia meglio fare durante questa giornata, una volta espletate le mie modeste attività ordinarie, commisurate ad un uomo pensionato che vive da solo come me. Mi meraviglio subito dello squillo, poi comunque alzo il ricevitore con calma, e chiedo cortesemente chi ci sia all'altro apparecchio. Silenzio. Trascorre un attimo, avverto un leggero rumore elettrico, quasi una sottile frequenza che cerchi la sua giusta collocazione, e subito dopo la nota voce di Angelica che chiede di me in forma indiretta, come parlasse ad altri, mentre controlla con garbo un piccolo moto divertito, quasi una debole risata. Rispondo immediatamente con un certo entusiasmo, e lei forse apprezza questo mio comportamento, anche se getta lì un generico "come va", senza approfondire affatto, almeno per il momento, la motivazione che l'ha portata a chiamarmi. Stiamo in questo modo per qualche minuto cercando di portare avanti una conversazione un po' stentata, ed infine, quando oramai sembra non ci sia proprio più niente da dire, Angelica se ne esce con un "dobbiamo vederci", che mostra bene il suo carattere forte e deciso. <<Certamente>>, le rispondo subito, nonostante mi renda conto che la mia opinione non sia stata richiesta, e poi subito aggiungo: <<quando vuoi>>, per mostrare la mia disponibilità nei suoi confronti. Un’altra leggerissima pausa, poi: <<Domani>>, fa lei senza alcuna mezza misura, lasciando a me il compito di proporre l’appuntamento presso una nota pasticceria del centro, con la sala da tè ampia ed elegante. Lei accetta con neutralità, poi chiude in fretta la conversazione.

Dagli scaffali della mia libreria estraggo subito un vecchio e piccolo volume di poesie a cui mi sento particolarmente legato, e con una certa iniziale titubanza decido dopo un attimo che può essere proprio quello il regalo giusto da portare domani ad Angelica, nella speranza che una cosa del genere sia di gradimento per una personalità come la sua. E’ soltanto la cugina del mio vicino di casa, ripeto tra me per tornare appena un attimo dopo con i piedi sulla terra, e l’unico motivo per cui abbiamo deciso di vederci, io e lei, è la leggera preoccupazione che mostriamo per i comportamenti di Corrado, anche se personalmente ho deciso di adottare una maggiore indifferenza nei confronti delle cose che lo riguardano direttamente. Appoggio questo libretto sopra la mia scrivania, poi tento rapidamente di trovare qualcosa di cui occuparmi. Decido di uscire per una passeggiata a piedi in abbinamento alla bella giornata, e mi ritrovo rapidamente in strada con la mente leggera ed i muscoli del corpo desiderosi di fare un po’ di movimento. Dall’appartamento di Corrado, dirimpetto alle mie stanze, nessun segno che attiri in qualche modo la mia curiosità, anche se l'apprensione che lui ha dimostrato ultimamente, adesso mi tiene leggermente in ansia.

Percorro in lunghezza un paio di strade di questo mio quartiere, andando infine a sedermi sopra una panchina di un giardino pubblico poco lontano dalla mia abitazione. Decido dopo un attimo di salire sopra un mezzo pubblico la cui fermata mi rimane quasi di fronte, ed arrivare così fino al museo d’arte moderna, dove da molto tempo ho deciso di recarmi senza mai trovare la giornata giusta per farlo veramente. Mi rivitalizza questo impegno con me stesso, e mentre sono dentro al tram mi perdo nell’osservare alcune espressioni di queste persone che come me si fanno trasportare in mezzo al traffico, immaginando, per un gioco mio personale, i loro impegni e tutte le faccende di cui si debbono far carico muovendosi continuamente in lungo e in largo dentro la città. Infine scendo alla mia fermata, attraverso la grande piazza che mi trovo di fronte, ed infine mi decido ad entrare nell’ingresso di un edificio antico ed imponente. Mi guardo attorno, mi pare che tutto adesso stia girando per il verso giusto, e di questo sono felice, almeno per un attimo, senza neppure sapere esattamente quale ne sia il motivo principale.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Risultato dubbio

 

         Sopra al tavolino della pasticceria che resta tra di noi, lei appoggia il vecchio libro di poesie che appena dieci minuti fa le ho regalato. Poi sorride, Angelica, nella sua maniera fredda che già in parte conosco, e forse dimostra in questo modo che in fondo non è neppure troppo interessata a quel mio piccolo dono. <<Ci sono delle novità>>, mi dice invece sottovoce all’improvviso. <<Corrado è ammalato; non si può fare niente del progetto, almeno per il momento, però dobbiamo farglielo capire senza che sospetti di quello che sappiamo su di lui>>. La guardo, vorrei dirle con una parola sola che non mi interessa quasi niente di quello che riguarda suo cugino Corrado, e mi accontenterei per il momento che lei mi vedesse come una persona, non come un semplice vicino di casa di questo suo parente. <<Quanto, ammalato>>, le chiedo invece, soprattutto per avere dei ragguagli su quello che devo aspettarmi da lui nei prossimi tempi. <<Seriamente>>, fa Angelica prendendo quasi con distrazione un nuovo sorso dalla sua tazza di caffè. <<Dobbiamo riappacificarsi; tutta la nostra famiglia con lui, e forse dimenticare le sue piccole mancanze del passato>>, prosegue come se questo fosse il nocciolo di tutta la questione. Avverto in me un tremore nelle mani; non mi piace affatto quell’argomento, vorrei parlare d’altro, anche se non so da dove cominciare.

         <<E noi?>>, le faccio di getto, come avessi già stabilito una volta per tutte che in ogni caso ci deve  essere senz’altro un seguito per noi due, per me e per lei, qualcosa che vada oltre le faccende di Corrado. Angelica spinge la propria schiena contro la spalliera della sua sedia, e si guarda attorno come per rendersi ben conto delle poche persone che sono insieme a noi dentro al locale. <<Come puoi immaginarti altro in un momento contorto come questo; e poi chi ti ha mai detto che si possa impostare un “noi” del tutto separato da mio cugino?>>. Rifletto: adesso vorrei quasi ritirare il mio libro di poesie che sopra al piano del tavolo sembra sia diventato soltanto carta straccia, e mentre osservo con attenzione i capelli di Angelica, mi accorgo che il piccolo gruppo di persone nella saletta dove siamo seduti se ne sta andando, lasciandoci da soli. Tento un gesto disperato, ed allungo una mano come per farle una carezza sui capelli, e così farle capire qualcosa a cui sembra restia, ma lei intercetta il gesto, e rapidamente fa una finta mossa, come per darmi uno schiaffo sulla faccia, forse per farmi svegliare dal torpore, immagino, oppure non lo so, perché adesso mi ritrovo terribilmente confuso. <<Pensavo ci fosse della simpatia tra noi>>, dico senza neanche credere alle mie parole, e lei resta in silenzio, come a far decantare le mie sillabe. 

Angelica si alza, sistema qualcosa del suo vestito, non torna neppure a guardarmi, come mi fossi fatto trasparente ai suoi occhi, e dalla sua espressione capisco che è già altrove, proiettata verso altri pensieri che non riguardano affatto la mia persona. Poi, con gesto rapido, quasi una mossa meccanica, lascia scivolare il mio stupido libro di poesie dentro la sua borsa, ed infine muove un passo verso l'uscita dalla saletta, non lasciandomi altra possibilità che seguirla. Pago in fretta alla cassa i nostri caffè, mentre lei tiene già una mano sulla porta del locale, ed infine ci ritroviamo ambedue sopra al marciapiede privi di qualsiasi argomento, mentre Angelica consulta con un gesto distratto ma quasi plateale il suo piccolo orologio da polso, sottolineando subito che adesso deve proprio andarsene. <<Ci rivediamo>>, le dico in fretta senza che la mia appaia una sciocca richiesta, e lei annuisce appena, come riflettendo attentamente su quella materia, ma dopo un attimo conferma: <<certamente>>, mi fa, come se tutte le cose per il momento rimaste insolute avessero bisogno obbligatoriamente di trovare un qualche risultato.

 

 

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Abitudine sedimentata

 

<<Come va oggi, signor Corradino?>>, sento dire da qualcuno sul pianerottolo davanti all'entrata del mio appartamento; perciò, naturalmente ben attento a non provocare alcun rumore, metto subito l'occhio allo spioncino della porta, giusto per rendermi conto di chi sia stato a parlare nell’ingresso condominiale, e con voce anche piuttosto alta. Vedo così che in questo momento Corrado sta rientrando in casa, e la signora Trecci del terzo piano, scendendo le scale del nostro palazzetto, si è fermata per un attimo proprio davanti a lui, probabilmente essendo già a conoscenza dei problemi di salute che tormentano il mio dirimpettaio. Lui, nel riferirsi a quella donna, fa all’inizio la sua solita risatina, sicuramente per schernirsi e togliere, com’è sua normale abitudine, almeno una parte di importanza a ciò che gli sta effettivamente capitando, e quindi le risponde cortesemente, con calma e a bassa voce, che oggi gli pare i suoi malanni si siano in parte calmati, e che si sente maggiormente in forze, senza entrare comunque in alcun dettaglio medico. La vicina, così come la vedo io dalla mia scarsa visuale, con la sua immancabile borsa al braccio e l’espressione di chi ha compreso perfettamente tutto quello che gli è stato detto e forse anche di più, a questo punto lo saluta, e poi prosegue con naturalezza verso il portone del palazzo, tre gradini più in basso, mentre Corrado, con la sua busta in mano con dentro probabilmente delle medicine appena acquistate in farmacia, gira la chiave nella serratura ed entra nel proprio appartamento.

Negli ultimi giorni lui non mi ha più detto niente, anche se ad essere sinceri non è nemmeno capitato di incontrarci sul pianerottolo, oppure per strada, e neppure tra i nostri rispettivi giardinetti; forse le sue condizioni di salute lo portano sempre più a ritirarsi in una nicchia propria di solitudine che non prevede troppi interlocutori mi immagino, e quindi credo proprio che stia compiendo quell’operazione quasi normale in un caso come il suo, cioè quella di mettersi in un angolo e di attendere gli eventi, senza stare a parlarne troppo con nessuno. Ho immaginato che con ogni probabilità la sola persona tra i suoi parenti che prosegue a chiamarlo al telefono per avere notizie fresche e dargli magari qualche conforto, ammesso che lei abbia questa capacità, sia la sua cugina Angelica; ma non c'è neppure troppo da scommettere che sia del tutto così. Perciò sentirei quasi un mio compito, in qualità di suo vicino di casa e conoscente diretto, di suonare il campanello di Corrado e tentare di portargli almeno qualche minuto di compagnia, anche se cerco di rimandare di giorno in giorno questo mio piccolo dovere, che comunque avverto come pressante dentro di me, quasi diventasse, ogni volta che ci penso, sempre più improrogabile, quasi un vero obbligo morale. In fondo, se ci rifletto meglio e considero tra me ogni cosa, proprio per aggiustare meglio questa sensazione, io non gli devo niente al signor Corrado; e poi vorrei proprio vedere a parti inverse se lui si stesse a preoccupare per me nella stessa esatta maniera come faccio io per lui.

Così, tormentato comunque da questa personale necessità, dopo mezz'ora prendo e vado a suonare il campanello di Corradino, e lui mi apre volentieri accogliendomi subito con un bel sorriso ed invitandomi ad entrare in casa sua. Poi prepara del caffè, tanto per dare sottolineatura alla mia visita, ed insiste nel farmi sedere sulla sua poltrona preferita, per poi raccontarmi, con i suoi modi spicci eppure timidi, che sta facendo una cura un po’ pesante che lo mette fuori uso almeno per un giorno o due la settimana, ma per il resto tutto gli sembra vada praticamente quasi come sempre. Poi dice, come avevo già immaginato, che di tutti quei parenti che ha, è soltanto la sua cugina Angelica a chiamarlo al telefono ogni tanto, <<ma va bene così>>, si affretta a dire, <<visto che praticamente non ho bisogno di nulla; come è sempre stato, d’altra parte>>. Dopo dieci minuti me ne vado, con le raccomandazioni del caso, che comunque mi paiono persino superflue, anche se rientrando in casa mia provo all’improvviso una pena insolita, in relazione al mio carattere, quasi una vera sofferenza; la netta sensazione, comunque la si voglia considerare, di estrema solitudine, qualcosa che, se devo dirla tutta, tra le mie tante abitudini ormai cristallizzate, non avevo mai provato o riflettuto tanto a fondo, come invece mi trovo a fare in questo preciso scorcio di giornata.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Pulsazioni in atto

 

<<Non preoccuparti troppo per me, al momento attuale me la sto cavando piuttosto bene>>, dice Corrado parlando al telefono con la propria cugina Angelica. <<Comunque se avessi proprio necessità di qualcosa, in quel caso potrei sempre fare affidamento sul mio vicino di casa. Si è offerto lui stesso di aiutarmi in questo senso, con grandi raccomandazioni oltretutto, perché il signor Domenico è proprio una persona squisita, sempre pieno di attenzioni verso gli altri; e poi è un individuo colmo di cultura, è stato un insegnante di liceo per tutti i suoi anni lavorativi, ed anche adesso che è in pensione si interessa di tutto, è curioso, vuole sempre venire a conoscenza di qualsiasi cosa>>. L’altra annuisce con una certo compiacimento, mentre ascolta queste parole all’apparecchio, anche se comprende perfettamente l’imbarazzo attuale di Corrado nei suoi confronti, ed anche nei confronti degli altri parenti, in considerazione del rapporto sempre molto distaccato che negli anni si è instaurato tra lui e tutti i suoi cugini. Però è un uomo solo, ormai con degli anni sopra le spalle, e l’insorgenza della malattia che da poco tempo lo sta tormentando, sicuramente è il motivo essenziale per un inderogabile riavvicinamento verso di lui da parte di tutta la sua famiglia, ma di cui soltanto lei può essere la migliore promotrice. Poi si dicono ancora qualcosa sulle prossime analisi mediche che deve affrontare, ed infine chiudono la conversazione, senza troppe ulteriori parole di sostegno e di incoraggiamento già sufficientemente prodigate.

Angelica, vedova prematura oramai da molti anni, sa di non poter essere troppo presente nei confronti dei problemi che sta affrontando questo suo cugino, così come sa bene che la migliore stampella per lui può mostrarsi davvero proprio quel signor Domenico, conoscente e vicino di casa da lunga data, persona dall'apparenza leggermente scostante, ma in fondo buona e piena di attenzioni; così come sa che l'attaccamento che questo signore paziente può manifestare nei riguardi di Corrado, in parte dipende anche da lei stessa, e cioè dalla propria capacità di intessere un sincero rapporto di amicizia nei confronti di quest’uomo cortese. Il loro incontro recente non ha portato a niente di particolare, però forse soltanto perché Angelica, sentendosi per un attimo sormontata dalla fretta e dai pur legittimi desideri di Domenico, si è subito irrigidita, e questo l’ha spinta immediatamente a fare un passo indietro, se non altro per lasciar trascorrere un po’ di tempo, sicuramente necessario, al fine di osservare tutte le cose in maniera più giusta e più corretta. Probabilmente nelle prossime settimane i tempi per trovare delle soluzioni apprezzabili inizieranno a stringere sempre di più, pensa adesso con determinazione, anche se lei non vorrebbe proprio correre il rischio di mescolare quella simpatia sincera che nutre verso Domenico, con la necessità che Corrado sia aiutato proprio da lui ad affrontare i suoi improrogabili malanni.

Così tutto appare in parte sospeso, proprio come se nessuno desiderasse prendersi la briga di decidere qualcosa da cui potrebbe essere difficile in seguito tornare indietro, nonostante Angelica comprenda piuttosto bene ciò di cui avverte profondamente la necessità, osservando con i propri occhi quanto l’avanzare dell’età di tutti quanti coloro che si trova attorno, ovviamente compreso anche se stessa, conduca purtroppo ciascun individuo con molti anni sulle spalle ad un proprio naturale isolarsi, cosa che lei vorrebbe evitare più di ogni altra cosa, soprattutto adesso che assiste in prima persona a quel tortuoso percorso affrontato in questo periodo dal suo amato cugino Corrado. La paura della malattia e della solitudine, ecco il morbo più forte che attacca inevitabilmente la sensibilità di ogni persona, riflette lei quando negli ultimi tempi si trova a trascorrere qualche giornata più uggiosa di altre; non ci sono cure per questo, pensa spesso Angelica in questi frangenti, ed anche se sembra profondamente egoistico un sentimento come questo, alla fine è la sensazione che a lei, come in fondo a tutti gli altri, maggiormente le torna naturale, proprio come il semplice respirare, oppure avvertire dentro se stessa tutta la forza delle proprie pulsazioni.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Presente, senz’altro

 

Sono solo, mi dico certe volte, soprattutto per convincermi che è vero, ammesso che questo sia proprio necessario. Ed il motivo per cui è accaduto che mi ritrovassi proprio così, in questa maniera che non ammette troppe compagnie, è indubbiamente dato dal mio carattere, dai miei modi piuttosto bruschi, ed anche dalla noiosa ricerca che spesso ho condotto sul senso nascosto delle cose, come se ogni particolare pur del tutto insignificante mi dovesse dare prova di sé, assumendo così valore, ma soltanto ad avvenuto disvelamento. Ma di questa condizione generale in fondo non ho mai avuto troppa paura, anzi, mi è sempre sembrato che il modo ideale per affrontare al meglio la quotidianità, fosse esattamente quello della completa solitudine. Quando poi mi sono reso conto che così facendo rinunciavo a molte cose, ormai era tardi. Adesso che sento impellente la necessità di riferirmi agli altri, non riesco più a trovare nessuno attorno a me: niente degli individui che negli anni hanno evitato di intraprendere i miei stessi percorsi intendo, o che abbiano maturato differenti punti di vista dai miei, soggetti con i quali sentirmi distante, ed in questa maniera potermi davvero confrontare, saggiando dei modi per meditare le cose ben lontani dalla mio ordinario sentire.

Se devo essere sincero, non ho mai sopportato il mio vicino di casa, misurandolo generalmente con un punto di vista molto distaccato, e peraltro con un metro di giudizio spesso dato dalla mia prima e particolare maniera di vedere le cose, anche se adesso che lui ha coraggiosamente compiuto il primo fondamentale passo, venendomi incontro in qualche modo, sento che forse è proprio lui il personaggio adatto con cui confrontarmi, a cui se serve posso dare anche un aiuto, considerata la sua fragilità di salute e le sue piccole manie che lo portano generalmente a volare piuttosto basso. E nello stesso tempo può anche essere, sempre lui stesso, quell'individuo che, senza neppure saperlo, riesce a mostrarsi capace di insegnare molte piccole porzioni di esistenza, elementi che per mia formazione fino a questo momento non ho mai troppo considerato, quasi come segmenti di un percorso minore. Ecco, questo è il mio punto di arrivo attuale, la coscienza di qualcosa che, mancando tra le mie esperienze, improvvisamente mi attira a sé, quasi una soffice calamita capace di spostare persino la rigidità del mio punto di vista.

Esco in giardino, mi avvicino alla rete del nostro piccolo confine comune, e poi chiamo per nome il mio vicino di casa, come fosse l’azione più naturale da compiere. <<Buongiorno, signor Domenico>>, dice dopo un attimo proprio lui, Corradino, mentre si affaccia al finestrone del suo appartamento, raggiungendomi subito dopo ed accostandosi alla recinzione con il suo passo malfermo, sempre conservando sopra la faccia quell’espressione innata quasi di meraviglia, ad indicare soprattutto che fino ad oggi non lo avevo mai trattato con questa sciolta familiarità. <<Volevo soltanto sapere come vanno le cose>>, faccio io con un leggero sorriso, ma senza mostrare quel senso di superiorità che normalmente mi verrebbe quasi naturale. Poi mando avanti la conversazione con piccole domande sui suoi esami clinici in corso, ed infine, anche per cambiare discorso, gli chiedo se per caso non senta la necessità di un mio piccolo aiuto. Corrado come sempre si schernisce, mi ringrazia, dice che per il momento se la sta cavando, e poi tira fuori, come già immaginavo, la notizia per cui anche sua cugina Angelica gli ha appena chiesto telefonicamente questa stessa cosa. Non domando niente su di lei naturalmente, però lo osservo adesso con maggiore attenzione, nell'attesa che me ne parli per indubbia spontaneità.

<<Dovrebbe venire domani a farmi una visita>>, dice infatti ancora Corrado; <<almeno così ha stabilito>>, ed io, che non aspettavo altro che ascoltare delle parole di quel genere, apprezzo immediatamente la novità. <<Potrebbe venire anche lei a casa mia, per prendere un caffè insieme a noi, signor Domenico>>, aggiunge dopo qualche momento; ed io naturalmente accetto, dopo qualche apparente riflessione, sorridendo dentro di me pur senza mostrare a lui alcun sorriso, ma annuendo leggermente a conferma della mia disponibilità; senz'altro.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Aiuto per gli altri

 

         Con una rivista illustrata aperta tra le sue mani, la signora Angelica attende seduta che la colorazione chimica applicata sopra ai suoi capelli ancora umidi raggiunga finalmente l’effetto desiderato, mentre dentro al negozio in cui vi sono in tutto quattro o cinque persone presenti, regna, almeno in questo momento, una calma decisamente infrequente. Nessuna tra le persone in attesa sembra quasi abbia voglia di dire una sola parola, come fossero tutte immerse nei propri pensieri, ed il silenzio di quei clienti, come anche quello dei due lavoranti impegnati sulle loro capigliature, è rotto soltanto dai ronzii dei piccoli macchinari in funzione utilizzati dentro a quel salone per le acconciature. Il giornale tratta del buon periodo di un famoso attore televisivo, e lei, scorrendo le fotografie che lo ritraggono in varie e ordinarie situazioni casalinghe, scuote leggermente la testa appiccicosa, immaginando come irrealistiche le notizie a colori riportate su quel giornale. In fondo, ad Angelica importa ben poco mostrarsi particolarmente imbellettata e ben vestita alle persone che conosce e che frequenta. Certo, quando era vivo suo marito le cose erano diverse, ma in seguito tutto ha iniziato rapidamente a mostrarsi molto più rarefatto, ed anche se oramai sono trascorsi parecchi anni da quando lui non c'è più, a lei fino ad oggi non è mai interessato provare a rifarsi delle nuove amicizie, o addirittura una relazione sentimentale con qualcuno. Forse perché non le è capitato, è lecito immaginarsi; oppure semplicemente perché, come le hanno detto qualche volta i suoi parenti, lei non ha mostrato quasi alcun interesse per questo argomento. Ultimamente poi non è certo cambiato nulla tra i suoi desideri, tanto più che i suoi anni non la portano certo proprio adesso a desiderare qualcosa di diverso dalle sue assodate abitudini, però c'è qualcosa che da qualche tempo sembra come voler sollecitare in qualche modo i suoi istinti femminili.

<<Ancora dieci minuti di applicazione e poi risciacquiamo>>, le dice Lino per rassicurarla sui tempi, ed Angelica annuisce, senza corrispondere troppo al sorriso generoso del gentile parrucchiere. Il suo carattere, come anche i suoi modi di fare, sono sempre rimasti, per tutto questo periodo, poco propensi ad aprirsi agli altri, però in fondo a se stessa lei si sente comunque altruista, anche socievole, ed anche se non dimostra facilmente di essere così, ugualmente da qualche tempo a questa parte lei prova il desiderio di mostrarsi più affabile ed espansiva di come ricorda di essere stata negli ultimi anni. Adesso sorride di soddisfazione del colore dei capelli più deciso che ha scelto oggi per dare una tonalità nuova alla sua immagine, e mentre continua a scorrere, in fondo senza un grande interesse, l’articolo che parla ancora dell’attore noto a tutti, pensa che ognuno è almeno in parte un interprete completo delle proprie giornate, ed anche in lei l’entusiasmo pur piccolo che riesce ad inserire in ciò di cui si sta occupando, alla fine potrebbe anche delineare una grande differenza. Il suo dubbio più forte rimane quello sull'unità di misura possibile con la quale conteggiare le domande che le si stagliano ogni volta irrisolte davanti ai suoi occhi, però sa che provando di nuovo ad essere come probabilmente si sentiva molti anni fa, cioè maggiormente spontanea e meno riservata almeno con le persone a lei più vicine, forse ogni sua preoccupazione potrebbe dimostrarsi facilmente superabile. Poi giunge Lino, si prende subito cura dei suoi capelli, li asciuga, li pettina, li spazzola, li rende improvvisamente, con la sua spiccata professionalità, quasi come non sono mai stati, ed Angelica, dentro allo specchio che le rimanda la propria immagine, si sente bene, appare ai suoi occhi quasi radiosa, forse come mai è riuscita a sentirsi.

Quando esce da quel salone per le acconciature immagina quasi per scherzo di essere migliore di quando vi è entrata: però veramente si ritrova in questo momento come maggiormente in equilibrio nei confronti di tutti gli altri, e non ha neppure bisogno di specchiarsi in una qualsiasi vetrina per rendersi conto che la sicurezza di sé mostrata tante volte quasi come una sfida, ora è diventata una precisa certezza, quasi un’acquisizione matura di un elemento innato e tenuto in disparte fino adesso dentro di lei; non si sente più, come per troppo tempo purtroppo è stata, quasi una succube della maschera indossata sopra la faccia, per un periodo persino esageratamente lungo, e quindi libera, spontanea, capace di mostrare all’improvviso chi sia veramente. C'è suo cugino Corrado in questo periodo di cui occuparsi, e lei riconosce che nessuno potrà prendersi cura di lui e della sua malattia se non proprio se stessa; però è pronta, non le sarà di alcun peso, confessa da sola in un attimo, non proverà alcuna fatica nel farlo, perché è il proprio equilibrio ritrovato che le permetterà di essere da ora in avanti anche un aiuto sicuro per gli altri.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Tempestive informazioni

 

Giusto ieri mi sono affacciato un momento sul retro, uscendo poi nel giardinetto di casa mia, tanto per prendere una boccata d’aria e magari osservare quel triste pezzo di cielo sopra alle case proprio di fronte al nostro palazzo alto tre piani, e naturalmente Corrado era lì, oltre la rete della mia recinzione, ad occuparsi come sempre dei fiori e delle sue amate piante. Ho fatto un po’ di rumore aprendo il finestrone della cucina, anche per mostrare così le mie intenzioni, e lui effettivamente si è accorto immediatamente della mia presenza, perciò si è voltato verso di me, e poi mi ha subito sorriso salutandomi. Così ho disceso i tre gradini del piano rialzato e sono andato verso di lui, inizialmente con un leggero senso di fastidio dato dal fatto di dovermi mostrare addirittura indulgente nei suoi confronti, considerate naturalmente le sue condizioni di salute; subito però ho sostituito questa debole uggia con una vaga sensazione di colpevolezza, a dimostrazione del periodo confuso e di passaggio che sto vivendo. Lui comunque mi è parso pallido, ma non ho voluto indagare troppo sulla situazione sanitaria che lo affligge, e lui comunque ha tirato fuori a malapena due parole generiche sui suoi malanni, parlando subito d'altro. Poi mi sono girato di fianco, e mentre Corrado a poca distanza da me continuava a parlare di tutte le piccole cose che accompagnano in questo periodo la sua giornata, io mi sono soffermato a pensare che difficilmente in altri periodi mi sono ritrovato a sostenere con qualcuno una conversazione che non avesse in qualche modo uno scopo maggiormente preciso, qualcosa che insomma valesse almeno la pena per affrontare delle chiacchiere infruttuose ed insulse in questa esatta maniera. Così ho annuito quasi senza espressione a ciò che stavo ascoltando, e poi mi sono abbassato per raccogliere qualcosa da terra, come ad evidenziare il fatto di non essere per nulla abituato ad ascoltare discorsi del genere.

Quando sono tornato a guardarlo però, mi sono accorto, o forse l’ho soltanto pensato - questo adesso non saprei dirlo -, che Corrado, improvvisamente attraversato da una preoccupazione profonda, avesse da rivelarmi qualcosa come di particolarmente importante, e nella stessa maniera in cui è suo solito comportarsi, stesse semplicemente intrattenendomi per cercare dentro di sé le parole migliori adatte a spiegarmi quanto più desiderava. Rispolverando i miei metodi che riconosco un po’ bruschi, ho interrotto i suoi farfugliamenti generici, e di getto gli ho chiesto se non mi nascondesse delle novità di una certa importanza che dovessi sapere; ma lui si è schernito, ha guardato qualcosa tra le foglie di una pianta vicina, e poi ha detto soltanto che era molto contento di avere un vicino di casa proprio come me. Certo, ho pensato: meglio di una famiglia con tanti piccoli bambini scorrazzanti e confusionari, avere un signore già pensionato, tranquillo in ogni sua manifestazione, e su cui si può anche contare per eventuali problemi logistici, è quanto di più fortunato si possa desiderare, ma dopo un momento mi sono reso conto che non era proprio questo ciò che lui aveva desiderio di farmi sapere, e che le parole pronunciate erano soltanto un preambolo. Così ho lasciato che si trovasse ancora di più a suo agio, lasciandolo parlare esattamente di ciò che voleva, ma l’impressione avuta dentro di me non se n’è andata, e lui non mi ha risolto il quesito.

Quindi, dopo qualche altro momento, in una pausa tra le affermazioni salienti sui tipi di rose coltivabili, l’ho salutato senza tentennamenti, per poi rientrare in casa mia e finalmente occuparmi con decisione delle mie faccende; ma quando mi sono trovato sugli scalini che immettono al finestrone, Corrado mi ha chiamato da dietro, e dopo una pausa durante la quale mi sono lentamente girato verso di lui, mi ha solo detto che sua cugina Angelica aveva chiesto di me. Non ho voluto dare alcuna importanza alla cosa, ma immediatamente ho riflettuto che era proprio questa la faccenda che tardava a venire fuori e che mi aveva tenuto fino adesso in una posizione di incertezza e di curiosità. Sono tornato così nelle mie stanze senza dire nient’altro, ma forse senza neppure lasciare l’impressione a Corrado di avermi rivelato la notizia più importante che desideravo sapere da lui. “Magari sa tutto”, ho pensato con un certo terrore infantile, ma in seguito mi sono confortato con la notizia che lei avesse comunque pensato un po’ a me, e che forse, per suo desiderio, ci sarebbe stato un qualche chiarimento tra noi, magari anche in tempi decisamente ravvicinati.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Cambio sicuro

 

<<Corradino è il solito debole che si nasconde per non guardare la realtà>>, dicono adesso i parenti di lui e di Angelica a proposito del loro comune cugino e della sua malattia tenuta per propria volontà quasi nel più completo segreto. Lei non ribatte, è perplessa, resta in silenzio davanti a queste affermazioni, perché comprende bene che quanto viene sostenuto in questo momento dai suoi parenti, durante il passato si è dimostrato senza dubbio vicino alla verità, anche se per cose molto differenti da quelle di adesso; ma è anche cosciente, in ogni caso, di come negli ultimi tempi lei abbia maturato l’intento di non schierarsi mai più in maniera indiscriminata dalla parte della famiglia, come forse era quasi abitudine per tutti i parenti fino a qualche tempo più addietro, - tutti contro Corrado - sviluppando ultimamente il parere che lui in qualche maniera abbia sempre conservato almeno ai suoi occhi e per la maggior parte degli anni trascorsi, delle idee personali, un proprio stile, una personalità definita, delle caratteristiche individuali insomma, che ripensandoci sopra appaiono adesso in una luce migliore, tanto che alla fine facilmente si scopre, con un semplice e leggero sforzo della memoria, che Corradino in ogni caso non si è mai abbassato a chiedere ai suoi parenti di essere compatito, oppure semplicemente tollerato, e non abbia neppure preteso un qualche aiuto morale da parte loro, al punto di mettersi addirittura da una parte, nel tentativo di evitare agli altri troppi disturbi. Ogni sostegno che a suo cugino possa giungere in un momento così difficile per le sue giornate, riflette lei di fronte ai suoi parenti che si sono riuniti dopo tanto tempo a casa sua, sa che da lui è naturalmente accettato volentieri e con gratitudine, anche se, proprio secondo i suoi modi di sempre, dimostra pure con la stessa chiarezza di non avere intenzione di chiedere in prima persona alcun appoggio. <<Sono cambiate le cose>>, dice lei agli altri cugini, ben sapendo di non riuscire certo a convincerli solo con un'affermazione del genere, ma facendo così soltanto per mostrare adesso la variazione di fondo del proprio punto di vista.

Poi tutti sembrano ora ostentare la ferma volontà di parlare con leggerezza di altre cose, e anche di ridere per delle sciocchezze che imperterriti proseguono a raccontarsi mentre fumano delle sigarette e danno fondo ad una bottiglia di vino bianco, come se non si fossero riuniti espressamente per prendere anche delle decisioni importanti per quanto riguarda le cose di tutti loro, nella strenua dimostrazione di essere forse ancora una vera famiglia unita e solidale, nonostante che la loro superficialità nei confronti di Corrado, appaia adesso del tutto contrastante ed intollerabile, al punto che Angelica, rimasta da sola a sostenere le tesi del suo cugino più in avanti di tutti con gli anni, la smette senz’altro di sostenere le proprie idee, manifestando la volontà di non dire più nulla a difesa di lui, che peraltro non è neanche stato invitato a questa riunione. Gli altri invece attendono da Angelica quasi una spiegazione ulteriore, persino una parola definitiva, e vorrebbero forse convincerla che in fondo non c’è stato mai niente di buono nelle cose che ha portato avanti da sempre Corrado, ma lei non vuole dare a nessuno una soddisfazione del genere, e tra i suoi pensieri si staglia poco alla volta la possibilità che tutto quanto debba essere rinviabile ad un momento più adatto. C’è un compratore, per quanto riguarda la vecchia casa dei nonni rimasta proprietà di tutta la famiglia, ma ciò non significa che non se ne possa trovare anche un altro, magari fra qualche tempo.

Certo, a lei piacerebbe in questo momento poter ancora parlare nostalgicamente, come molte altre volte, dei bei tempi andati, di quando erano tutti ragazzi ed andavano in quel bel cascinale di famiglia circondato dal verde, ma oggi sicuramente non è la giornata adatta per tirar fuori cose del genere, ed è meglio lasciare tutto in sospeso, senza neppure mettere in mezzo i ricordi. E’ vero, Corrado non c’era mai quando si ritrovavano tutti assieme nella casa dei nonni, ma questo non significa che adesso sia diventato soltanto uno da spedire fuori dai piedi, persino estromesso dalla sua parte di eredità, per essere poi lasciato da solo ad affrontare i propri problemi. <<No>>, dice lei sottovoce ad un tratto. <<Non ci sto questa volta>>. E i suoi cugini adesso la guardano senza il coraggio di ribattere niente, convinti anche loro che qualcosa stavolta sia cambiato davvero.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Tentativi di serenità

 

         Sento come bussare qualcuno sul muro. Forse sono rumori che provengono da chissà quali attività degli inquilini del piano superiore, penso io. Attendo un momento, ma la stessa sequenza di piccoli colpi si ripete. Poi più niente. Rifletto: potrebbe anche essere il mio vicino di casa che abita l’appartamento dirimpetto al mio ad aver provocato questi rumori, una cosa del tutto normale se ci penso bene, è sufficiente mettersi a riparare un cassetto che non scorre, oppure il tacco di una scarpa troppo allentato per fare un po’ di confusione in queste abitazioni dalle pareti sottili. Se non fosse che tutto quanto, con una persona come Corrado, diviene immediatamente contorta, complessa, mai lineare, interpretabile certo, ma soltanto a patto di scavare attentamente tra le evidenze delle sue abitudini. Attendo naturalmente che qualcosa torni a verificarsi, lo spero anche per la necessità di chiarirmi le idee, e così resto fermo senza muovere al momento alcun muscolo, ma adesso nulla sembra più intenzionato a succedere. Allora torno alle mie cose, riprendo a sfogliare un vecchio volume di storia moderna che certe volte ho il piacere di tornare a consultare, e dove so di ritrovare subito, in mezzo a quelle pagine interessanti, alcune piccole e grandi verità che mi pare di aver sempre saputo, ma delle quali avverto sempre la volontà di rinfrescare la memoria. Poi tornano i rumori, ora però leggermente diversi, come più consapevoli del loro isolamento nel sostanziale silenzio di tutto il caseggiato. Ma adesso subito mi alzo, e svelto mi avvicino alla parete divisoria che divide il mio appartamento da quello del signor Corrado, rendendomi conto che è lui che sta occupandosi di qualcosa che sembra del tutto incomprensibile da questi pochi elementi.

Apro il portoncino allora, e mi affaccio sopra al pianerottolo, ma lì non trovo niente di diverso dal solito, così suono debolmente il campanello del mio vicino, giusto per chiedergli se per caso avesse bisogno di qualcosa. Lui arriva subito, sorride mentre apre l’uscio accogliendomi, e scuote debolmente il capo come per assentire a qualcosa che sinceramente non comprendo. <<Ha sentito i miei colpi, signor Domenico, non è forse vero?>>, mi fa, con una voce divertita e timida, quasi stesse complimentandosi con se stesso per il proprio stratagemma messo su ad arte per far uscire l’animale dalla tana. <<Era un esperimento>>, dice ancora con la medesima faccia tosta, quasi da prendere a schiaffi; <<volevo rendermi conto se in un caso di necessità fossi capace di attirare in qualche modo la sua preziosa attenzione>>, confessa candidamente. Lo osservo immobile per qualche attimo senza riuscire a trovare la giusta risposta. <<In fondo non ci trovo niente di sbagliato>>, gli dico alla fine per non essere aggressivo, e cercando di  riprendermi almeno in parte dalla sorpresa di essere proprio io la cavia di quell’esperimento. <<Magari poteva dirmelo prima, caro signor Dino, così mi sarei fatto vivo con qualche minuto di anticipo, magari>>. Lui mi invita ad entrare in casa sua intanto, ma io rifiuto con un gesto della mano, poi mi spiega che comunque la stessa cosa può valere anche per me. Mi spiega cioè, che se voglio, posso tranquillamente utilizzare lo stesso sistema per richiamare la sua attenzione, naturalmente in caso di bisogno, ed io improvvisamente mi trovo così a doverlo anche ringraziare per questo. <<Sarà sufficiente dare tre colpi ravvicinati sul muro, ed il gioco è presto fatto>>. Così lo saluto e rientro a casa mia.

In fondo non ha proprio torto il vecchio Dino, rifletto una volta rimasto da solo. Bisogna essere preparati a tutto, quando si giunge ad una certa età, e senza dubbio avere un piano di salvataggio, anche se probabilmente non servirà mai a nulla, certamente fa sentire meglio e anche più protetti. Così torno a sedermi e a riprendere quel libro di poco fa, anche se mi piacerebbe fare subito la prova dei tre colpi, tanto per essere sicuro che quel sistema ideato dal mio vicino porti davvero a qualche risultato. C'è da dire che questa coabitazione sta diventando sempre più pesante, rifletto comunque dopo poco. Considerato tutto si dimostra sempre più necessario per me uscire di casa almeno tutte le volte che posso, e riuscire in questo modo a sfuggire alla stretta morsa di questo vicinato; ne va assolutamente del mio umore, della mia tranquillità, del mio starmene sereno.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Amico di famiglia

 

Ci sono molte piccole cose che possono dare il giusto senso ad una giornata qualsiasi, rifletto mentre sorseggio il gusto neutrale di un bicchiere colmo d'acqua. Certe volte addirittura mi perdo, mentre resto a riflettere dentro al mio piccolo appartamento al terzo piano di questo caseggiato piuttosto anonimo, nell'osservare con curiosità dalla finestra i diversi passanti che si muovono lungo la strada di fronte, magari proprio mentre si soffermano a scambiare qualche parola tra di loro, oppure quando in tutta fretta tirano di lungo perché sono in ritardo. In qualche caso sembrano assumere buffe espressioni con la loro faccia, in altri momenti muovono le mani come per prendere direttamente dall’aria qualcosa che sembra comunque sempre sfuggirgli: forse è addirittura il tempo, penso io, quello che tentano di afferrare, o magari anche le parole adeguate ad esprimersi in maniera corretta, per spiegare giustamente il loro pensiero del momento, come se da quello, in considerazione di quanto si affannano a mostrare, quasi dipendesse in qualche modo la loro stessa reputazione. Appoggio la fronte direttamente sul vetro, tiro un po’ dietro alle orecchie i miei lunghi capelli, e poi mi soffermo a pensare su quanto sia difficile essere esattamente come si è spesso desiderato. Non voglio ridurre tutto alle sole vicende che stanno accadendo attorno a me o dentro di me, e neppure alle decisioni che so di dover prendere fra non molto; vorrei avere adesso però delle linee-guida più chiare da seguire, come sempre ho trovato ogni volta che per me si sono stagliati degli orizzonti nebbiosi, e lasciare così, su di una base ben definita, che ogni dettaglio si azionasse quasi per un automatismo in grado di funzionare senza ulteriori interventi manuali.

Spesso mi è persino capitato di agire senza alcuna necessità di pensare, adottando in quei casi ciò che l'istinto pareva suggerirmi al momento. Ma adesso tutto è diverso: le cose che mi trovo di fronte so che vanno ponderate con calma, è del tutto evidente, avanti di provocare degli sbagli irrimediabili. Non sono neppure il tipo di donna che non affronta le cose, anzi mi sono sempre distinta proprio per questa caratteristica, però stavolta mi trovo in un certo imbarazzo. Praticamente mi sento come se qualsiasi scelta mi ritrovassi ad indicare tra quelle che vedo davanti, fosse in grado di portarmi irrimediabilmente verso l'errore. Suona il telefono: è il mio cugino Corrado che si preoccupa di tenermi informata sulle sue condizioni di salute, esattamente come gli avevo chiesto di fare. Le analisi non indicano niente di buono purtroppo, e in ogni caso sembra proprio che dovrà affrontare un periodo intenso di cure efficaci, che comunque può svolgere direttamente a casa sua. <<Verrò da te senz’altro, lo stesso giorno in cui inizi, per vedere come vanno le cose>>, gli dico senza riflettere altro. Lui mi ringrazia, <<forse non ci sarà neppure troppa necessità, visto che è già stato interpellato un infermiere>>, dice Corrado. <<Non importa>>, faccio io; <<voglio essere presente ugualmente>>. Poi ci salutiamo senza neppure troppi salamelecchi. Non so, da un lato sento di voler prendermi cura di lui, dall’altro ne ho quasi paura.

Paura di provare di nuovo quell’impotenza sotto a cui ho già soggiaciuto una volta, parecchi anni addietro, quando mio marito mi ha lasciato per sempre. Eppure sento che non potrò farne a meno: certo, soprattutto per l’affetto che mi lega a mio cugino, ma anche per il mio bisogno personale di essere esattamente per lui l’appoggio che sicuramente sta cercando, da solo come si ritrova. Infine devo affrontare me stessa per trovare le giuste risposte che voglio dare nei confronti del suo vicino di casa, questo signor Domenico così bravo, gentile, attento, che può essere per me, ma naturalmente anche per noi, ed anche per tutta la nostra famiglia, un buon amico, se lo vogliamo, e forse anche un sostegno, un alleato di questa esistenza direi; oppure, con estrema semplicità, una qualsiasi persona che ho avuto giusto il piacere di conoscere, e niente di più.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Soffice affidamento

 

<<Venga, signor Domenico, si accomodi>>, fa lui con le sue maniere da piccolo topo che annusa l'aria alla ricerca della pista più giusta. Mi siedo nel suo salottino dunque, Dino mi ha accennato che presto avrebbe avuto bisogno di parlarmi, ed io ho creduto bene di venire subito da lui, soprattutto per evitare di lasciar passare troppo tempo in mezzo, tanto da fargli credere che non mi voglia interessare dei suoi problemi. Poi però inizia col parlarmi dei suoi fiori e delle tante piante che coltiva nel giardinetto, e di come si possono curare le diverse varietà, quali stagioni prediligono, i suoi colori preferiti e così via, prendendosi in questo modo tutto il tempo che desidera, visto che io non mi sogno neppure di interromperlo o di mettergli fretta nell’esporre ciò che gli interessa farmi sapere. Infine si decide a dirmi che dovrà subire un’operazione chirurgica, niente di particolarmente grave, però lui dice che ha già iniziato a non dormire bene la notte, e ad essere preoccupato fin oltre il dovuto. Con tutto ciò mi spiega adesso che non vuole lasciare niente che sia fuori posto, e che se i suoi cugini non hanno neppure un minimo di interesse per la sua salute, va bene anche così, non sarà certo lui ad andarli a cercare, fatta eccezione naturalmente per Angelica.

Soltanto a sentire questo nome mi sento d’improvviso punto nel vivo, come se qualcosa di me riuscisse ad entrare di prepotenza nella faccenda, anche se faccio finta di niente e proseguo ad ascoltare. Si tratta di un argomento rimasto come in sospeso tra i miei pensieri, ed adesso ritrovarmi a rielaborare tale materia senza immettervi alcuna iniziativa personale, mi sembra quasi una scortesia verso lei stessa. Corradino adesso mi chiede semplicemente, come norma di buon vicinato, di dare giusto un po’ d’acqua alle sue piante, durante il periodo in cui lui sarà in ospedale; casomai di dare anche un’occhiata generale al suo appartamento, che resta di fianco a dove abito io, del quale naturalmente mi affiderebbe le chiavi; e di guardare nella cassetta della posta se per caso il portalettere dovesse consegnare qualcosa di urgente. <<Certo>>, gli dico di getto mentre continua a parlarmi sorridendo ma evitando il mio sguardo; <<su questo può stare tranquillo, non ci sono assolutamente problemi>>. Lui si ammutolisce a questo punto, prosegue a sorridere, sembra che abbia ancora qualcosa in serbo, ma che fatichi a tirarlo fuori. <<Angelica mi ha detto che verrà a trovarmi quasi ogni giorno in clinica, e che spera durante le sue visite di incrociare anche il mio vicino di casa>>. Adesso mi guarda diritto, ed io improvvisamente mi sento intimidito, come se dovessi tenere nascosta una parte di me, qualcosa che non so neanche io cosa sia.

<<Va bene>>, gli dico recuperando la mia capacità di stare sull’argomento. <<Sarà un vero piacere per me incontrarla, mentre verrò a farle una visita>>. Poi si inserisce quasi per automatismo una pausa, così penso rapidamente ad un elemento di razionalità, ed infine chiedo al signor Dino quanto tempo crede dovrà rimanere come degente. <<Non molto>>, fa lui; <<in un paio di settimane al massimo dovrei cavarmela, e poi non credo di andare incontro ad alcun problema riabilitativo, anche se avrò bisogno di stare per qualche giorno a riposo>>. Quindi si alza, prende sul mobile la chiave di casa da darmi, che aveva già precedentemente preparato, e me la consegna con un gesto impeccabile, come se mi affidasse il suo regno. <<Le scrivo su un taccuino alcune piccole note di comportamento per le annaffiature e le altre piccole cose>>, mi dice. <<In ogni caso sappia che apprezzo molto il suo aiuto. Essere soli in certi casi è terribile, ed avere qualcuno a cui affidare anche soltanto una piccola parte delle proprie preoccupazioni, è un sollievo notevole>>.

Mi alzo, sistemo la sua chiave in mezzo alle mie dentro ad un morbido astuccio da tasca, a dimostrazione dell’importanza che riesco a dare alle cose, e quindi mi avvio nel piccolo corridoio per tornare nel mio appartamento. Sulla porta lo saluto, e gli dico con espressione il più possibile seria di stare tranquillo, così lui scuote la testa sorridendo, ma senza aggiungere altro, poi attende che io varchi il nostro comune pianerottolo, ed infine così sparisco ai suoi occhi, dentro casa mia.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Degenza accurata

 

         “Ci fosse almeno una mosca che ronza in aria qua dentro, tra queste luci bianche e le superfici linde ed asettiche, a dimostrare che tutto comunque è ancora vivo, nella spiegazione chiara che definisce come sia anche una minima imperfezione a denotare l’umana salvezza, fuori di dubbio. Al contrario, mentre sto qui coltivo il mio respiro senza possibilità di far altro, tra le coltri candide indifferenti al corpo che trovano, tiepide al punto da incoraggiare a riprendere, anche se con una lentezza infinita, le forze venute a mancare appena da un giorno”. Così riflette Corrado nella sua stanza in ospedale, scegliendo con calma le parole una per una, quasi dovesse dettare una silloge in cui raccogliere in modo libero e sentito tutti i suoi pensieri finali, quelli dopo l’evento, nel superamento del muro invalicabile, per la sfida che non è stato proprio possibile evitare. Forse sorride tra sé, mentre tiene il naso nell’aria, quasi affidandosi completamente a quel semplice ricettore per l’analisi di ogni buona vibrazione che possa giungere a lui, ed infine avverte la vicina presenza dell’infermiera mentre sta osservando sia lui che le macchine attorno al suo letto, tralasciando di farle però ogni domanda diretta. “Non si parla, non si chiede niente”, pensa ancora; “si sta fermi e si soffre, nell’attesa di ritrovare almeno qualcosa di quello che si era, nella speranza snervante che le cose vadano bene, ora che tutto ormai è fatto”.

         L'orario per le visite degli amici e dei familiari giunge più tardi, quando ormai molti parametri sono già riusciti a stabilizzarsi, e gli infermieri hanno messo a punto ogni strumento, tanto che il passaggio dei medici per il controllo della cartella clinica è stato completato; quasi normale si vocifera, ed in considerazione di tutto, si potrebbe addirittura dire, in pratica, come previsto. Tra i primi che scorrono per il corridoio c'è la cugina Angelica, fedele alla parola data, mentre Corrado, nel su letto perfettamente composto, certo non si aspetta di vedere Domenico, il suo vicino di casa: troppo strumentale potrebbe apparire trovarsi lì proprio quando si può star sicuri che c'è senz'altro anche lei. Così si svolgono le solite frasi di circostanza, anche se Angelica non è mai stata una grande intrattenitrice, tutt’altro, al punto che dopo le prime informazioni tirate fuori come da base per una conversazione seguente, già non sa più cosa dire, anche se evita di guardarsi troppo attorno per prendere spunto dagli altri presenti nella cameretta da tre. A Corrado comunque fa un grande piacere avere davanti la rappresentante della sua parentela, che adesso gli tiene la mano, lo incoraggia a pensare che oramai il peggio è alle spalle, e che tutto sta per tornare alla normalità.

         Infine va via, e <<sono contenta che le cose siano andate come dovevano e l’intervento sia pienamente riuscito>>, gli fa sorridendo mentre lo saluta con garbo, prima di riprendere la sua borsetta ed uscire nel corridoio. <<Tornerò domani>>, gli dice quasi come una simpatica sfida, ma dopo appena cinque minuti arriva anche Domenico, proprio quando l’orario di visita sembra ormai già terminato. Un sorrisetto di complicità, un piccolo saluto e poi basta, che tanto uno che ha subìto un’operazione chirurgica è bene non stia a strapazzarsi, lo sanno tutti, figuriamoci lui che è un professore di liceo da poco andato in pensione. Corrado sorride, una volta rimasto da solo, con la faccia sotto al lenzuolo del letto per non farsi vedere troppo allegro da chi lo circonda. “Chissà se si sono incontrati nel corridoio”, si domanda. “Forse no, appena sfiorati”, riflette. Ma non importa, non ci vuol fretta in cose del genere, si tratta di attendere con calma il momento adeguato per mostrare con un certo tatto ed una leggera gentilezza, quel che davvero si vuole, o meglio desidera.

         “Fossi io quella mosca ronzante nell’aria, potrei aver visto chiaro già tutto quanto”, pensa ancora Corrado. “In ogni caso questo al momento rimane il mio unico punto di osservazione; per il resto scoprirò tutto a tempo dovuto, sempre che qualcuno abbia la volontà coraggiosa di parlarmene, spiegandomi bene che cosa possa essersi mai manifestato, considerando pure che alla fine, a me personalmente, non cambia poi molto”.

 

          

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Errori esistenziali

 

         La chiave, nella porta dell’appartamento di Corrado, entra subito senza alcun intoppo, e compie un primo giro in modo del tutto naturale, anche se, subito dopo, quel meccanismo interno al serramento provoca uno scatto vagamente insolito, ma tutto sommato qualcosa di un tipo che ancora ci si potrebbe facilmente attendere da un ingranaggio, ma che lascia a Domenico la sgradevole sensazione da intruso che avrebbe proprio voluto evitare, e quando, dopo il secondo giro di serratura, lui imprime una leggera spinta a quell’uscio per aprirlo, mettendo finalmente piede nel piccolo corridoio dell’abitazione, mostra comunque, proprio per questo, una calma al momento quasi meticolosa nei suoi gesti, come se fosse del tutto impaurito da quell’insolito ritrovarsi da solo in casa d’altri, e senza far niente di più annusa per qualche momento l’aria vagamente stantia di quelle stanze, timoroso persino di provocare, con la sua sola presenza, qualche improbabile danno, oppure anche dei nuovi rumori insoliti, quasi qualcuno là attorno fosse in ascolto. Ad un primo sguardo dato in giro comunque tutto gli appare ordinato, a posto, peraltro come evidentemente lo ha lasciato colui che fuor di dubbio ci tiene molto alla propria abitazione, e dove vive ormai da molti anni, anche se adesso momentaneamente ricoverato in ospedale, e lui, misurando i propri passi leggeri fino al finestrone della cucina che si apre sul giardinetto del retro, non nota niente fuori posto nell’arredamento e in tutto il resto, tanto che si sofferma soltanto per qualche attimo dentro le stanze, giusto per sincerarsi, proprio come promesso, che tutto sia ordinato, e senza comunque trarre delle particolari impressioni negative o di sorpresa. Poi esce all’aperto, dopo aver preso il foglio di carta lasciato appositamente sul tavolo da Corrado: alcune note segnate con un certo scrupolo, degli appunti in fondo semplici e accurati, in cui vi sono riportate le diverse raccomandazioni che Domenico trova in questo momento quasi superflue, ma che riesce a comprendere assolutamente, nel loro mettere in risalto lo stato d'animo generale del vicino.

Così cerca i vasi giusti da annaffiare subito per primi, proprio come suggerito, poi saggia il rubinetto dell’acqua, prepara l'innaffiatoio, il tubo flessibile, e quindi regola la forza del getto che deve essere minima, ed anche il sifone che deve rompere il flusso spolverandolo in una leggera doccia diffusa. Segue a puntino le diverse direttive riportate sul foglio scritto fitto, e poi va avanti, riconoscendo l'attenzione con cui sono state raggruppate le varietà vegetali presenti nelle aiuole. Toglie qualche foglia secca che nota qua e là, e poi sistema, usando dei guanti, anche qualche rametto della fitta siepe fiorita, limitandosi a spostare leggermente qualche vaso, per evitare che le piante con la brezza finiscano per intrecciarsi tra di loro, e da ultimo rimette tutte le attrezzature al proprio posto, esattamente come le ha trovate al proprio arrivo. Per un momento si sente quasi un'altra persona, lui che non si è mai interessato di giardinaggio, e questo improvviso semplice incarnarsi in una persona che sente così diversa da sé come Corrado, lo porta quasi a misurare pur in maniera grossolana i limiti della propria personalità. Forse ha perduto molto mostrando sempre una certa indifferenza, se non direttamente aperta ostilità, nei confronti di tutti gli argomenti evitati dai percorsi di tutte le sue scelte. Eppure, forse per il semplice personale carattere che si ritrova, a lui in passato è continuamente sembrata la cosa più giusta da mandare avanti, considerato che le materie di cui si è ritrovato a interessarsi durante tutto un lunghissimo lasso di tempo, non permettevano quasi la possibilità di contaminazione con delle altre discipline.

Forse per il suo vicino di casa invece, il problema posto dall’affrontare ogni aspetto della realtà senza grandi distinzioni, è sempre apparsa la maniera migliore di comportamento, e la mescolanza di colori e di varietà dei fiori e delle piante in terra o nei vasi di quel suo giardino, dimostra adesso con una grande chiarezza il bisogno suo di riferirsi a tante cose anche tra loro molto differenti, tentando un comportamento il più possibile ordinario e mai specializzato, lasciando mescolare con grande facilità vari argomenti, ed evitandone perciò ogni approfondimento, forse giudicato nello specifico quasi deviante, evidenziando in questo modo, che pensare ad una cosa sola, e per un tempo decisamente troppo lungo, fosse alla fine l’errore più grande da evitare.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Esame di stato

 

         Senza alcun indugio sono entrato dentro uno di quegli spaziosi ascensori d’acciaio che portano ai vari piani e ai reparti di questo immenso ospedale cittadino. Non ho dei particolari pensieri in mezzo alla mente, non mi sono neppure preparato qualcosa da dire a Corrado, e contrariamente a quanto faccio come è mio solito, magari per una ordinaria deformazione professionale maturata durante i lunghi anni di insegnamento al liceo, in questi ultimi minuti non ho voluto né immaginare, e neppure rifletterci sopra, alla concreta possibilità di ritrovarmi finalmente faccia a faccia con Angelica, correndo il rischio così di non sapere neppure come comportarmi nel caso fosse davvero venuta a far visita proprio oggi al suo cugino. Mentre tutti quasi in silenzio si continua a salire, mescolato come sono in mezzo a questo gruppo eterogeneo di parenti e di visitatori dei vari ammalati,  realizzo improvvisamente però che forse in un momento così non riesco ad essere neppure capace  di affrontare un’eventualità di questo genere, e la voglia di tornarmene indietro, ancora prima di arrivare fino alla corsia dove è ricoverato Corrado, mi prende con forza, quasi come fosse una risaputa paura adolescenziale per un esame, o anche il comprensibile timore per una complessa interrogazione scolastica. Il fatto è che non ho riflettuto, non mi sono preparato adeguatamente ad un momento del genere, e provo il terrore improvviso di mostrarmi impacciato, privo di argomenti, per nulla a mio agio, e rovinare in questa maniera un’occasione che forse con lei non sarà più ripetibile.

Arrivo al mio piano, e prima di entrare nel corridoio delimitato da una grande porta a vetri opachi, al di là della quale si aprono le tante camerette, mi soffermo per raccogliere i pensieri che mi girano sparsi, sedendomi su una delle tante sedie bianche collegate tra di loro fino a costituire una fila disposta praticamente ad angolo retto, quasi una specie di sala d'attesa, in questo momento comunque occupata soltanto da due o tre persone. Tiro fuori dalla tasca un piccolo temperino che spesso porto con me, ed estratta la lama minuta lo osservo a lungo mentre provo dentro di me l’assurdo desiderio di incidere con questa punta affilata una superficie qualsiasi tra quelle che ho attorno, e scrivere in bella vista con caratteri tremolanti la sola parola a disposizione che possa mostrarsi come un mio messaggio chiaro e inequivocabile per Angelica. Sorrido da solo delle mie assurdità da ragazzino, e mentre ripongo il coltello, penso al comportamento pavido e vile di cui sto dando inequivocabile prova, incapace come mi sto dimostrando persino di affrontare ciò che maggiormente sarebbe magari mio desiderio. Mi alzo quindi, osservo qualcosa di imprecisato attorno a me, come a cercare un sostegno, ma poi torno a sedermi. Infine mi decido, imbocco in modo risoluto la porta ed il corridoio che mi trovo di fronte, e in un attimo giungo davanti alla camera dove sta ricoverato Corrado. Angelica, al fianco del letto, mi nota senza che lui si accorga di niente, difatti sta coricato con la faccia rivolta verso l’alto senza fare alcun movimento, e lei mi fa un cenno misurato con una mano, e poi mi viene incontro mentre io mi blocco esattamente ad un passo dalla soglia di entrata. <<Oggi non sta molto bene>>, mi dice subito; <<forse un'infezione che è ancora in corso gli ha tolto le forze, e lui adesso non ha voglia d'altro che riposare con gli occhi chiusi: sembra molto spossato, non riesce neppure a sostenere la presenza di qualcuno>>.

<<Va bene>>, dico io, <<non importa; magari torno domani>>. Angelica mi mette una mano su un braccio, si vede che ha voglia di piangere, ed io mi sento completamente sfasato, come se non sapessi più neppure in che direzione guardare. Usciamo, ed andiamo a sederci esattamente dove ero io poco fa. <<Devo chiederti scusa>>, fa lei subito, con voce bassa. <<Tu sei una persona buona, e forse io neppure merito il fatto che ti stia interessando anche di me>>. Apro la bocca per dire qualcosa, ma poi resto in silenzio, forse per non sciupare in qualche maniera questo momento. Angelica adesso mi guarda con occhi profondi, e questo mi pare già sufficiente. <<La mia è una famiglia un po' strana>>, aggiunge alla fine con un filo di voce, <<in ogni caso ho compreso, grazie anche a te, che essere capaci di stare vicino l’uno all’altro sia la cosa più importante di tutte>>. Annuisco, non so assolutamente che dire, o anche cosa rispondere, perché lei adesso mi accarezza una mano, e forse in fondo è sufficiente così: non mi pare neanche ci sia bisogno di altro.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Solidarietà, soprattutto

 

         <<Sto bene adesso, non vi dovete preoccupare troppo per me. Il mio caro amico Domenico, che è persino venuto qualche volta a farmi visita in ospedale, in tutto questo periodo da quando sono rimasto ricoverato, mi ha anche annaffiato le piante, e poi si è preso cura della mia casa, perché lui abita proprio qui accanto a me, e con i suoi modi cortesi e attenti mi ha fatto sentire particolarmente tranquillo per tutto questo periodo>>. Uno dei cugini, insieme ad Angelica, si è sentito alla fine anche lui in obbligo di farsi vedere, ora che Corrado finalmente è rientrato nel suo appartamento, ormai guarito sembra, anche se dovrà tenersi parecchio sotto osservazione, affrontando una serie di cure e di terapie ad iniziare da subito. Probabilmente è stata proprio la cugina Angelica ad insistere per farlo venire oggi di persona, sottolineando come non fosse moralmente sufficiente apprendere le notizie sulla sua salute soltanto tramite lei. E poi adesso nessuno dei loro parenti sembra abbia più voglia di vendere davvero la vecchia casa di campagna dei nonni, almeno per il momento, e semmai questo succederà, Corrado comunque avrà la sua parte di spettanza, esattamente come gli altri cugini, ed una decisione del genere, presa tra loro, qualcuno era il caso che la venisse a riportare anche a lui. Siamo giunti alla fine di un lungo percorso, sembra pensare Angelica con la sua espressione seria, anche se pare non intenda più esprimere su questo argomento neppure una sola parola, e la sola cosa che sembra interessarle in questo momento è quella di proseguire col tenere la sua mano sopra la spalla di Corradino, il suo cugino più anziano, mentre lui resta avvolto in una spessa coperta da ammalato, seduto su una delle sue comode sedie, voltata naturalmente verso il finestrone da cui si vede il suo giardino fiorito. 

Domenico oggi sembra proprio non si trovi a casa sua, ma forse è uscito addirittura di proposito, proprio per evitare situazioni imbarazzanti con Angelica e soprattutto nei confronti di Corrado, anche se il suo vicino di casa ha già compreso tutto benissimo, e probabilmente si sente persino contento della situazione che sembra delinearsi tra loro due, soddisfatto che tutti coloro che maggiormente gli sono stati accanto negli ultimi tempi, sembrano come volersi più bene. E poi il fatto che Corrado si comporti in modo sempre più amichevole nei confronti di Domenico, superando anche le forti iniziali diffidenze del suo dirimpettaio, alla fine è un buon segno, significa che almeno qualcosa delle sue maniere rispettose e gentili sono riuscite a dare anche dei frutti. <<Mi piacerebbe trovarmi nelle condizioni ideali per poter essere utile a Domenico nella stessa maniera come lui è stato utile a me in questa fase>>, dice adesso Corrado con convinzione. Angelica annuisce, anche a lei sono piaciuti i modi di Domenico, e proprio la comprensione che lui è riuscito a dimostrare nei propri confronti, ha dato atto tangibile e chiaro della sua indubbia sensibilità. Poi se ne vanno, i cugini, prodigandosi in raccomandazioni e accortezze, e quando Corrado alla fine resta solo, nell’attesa che giunga più tardi il servizio infermieristico per iniziare le cure a domicilio, si perde per qualche momento nel pensare a quanto tutto sia capace certe volte di mostrare un volto migliore di quello che spesso ci si può immaginare.

Qualcuno suona il campanello di casa, e Corrado, ancora debole e malfermo sulle proprie gambe, stenta ad alzarsi da quella sedia dove si è piazzato sin da subito, cioè da quando finalmente è rientrato nel suo appartamento, ma dopo un attimo sente che qualcuno sta facendo girare la chiave del portoncino, e Domenico, con espressione seria, e poi fermandosi immediatamente, ancora prima di mettere un piede all’interno, gli chiede con garbo dallo spiraglio dell'uscio il suo permesso prima di farsi avanti. <<Certo Domenico>>, fa subito Corrado, <<entri pure; in questa casa “il professore” sarà sempre il benvenuto>>. Domenico sorride, gli è rimasta la chiave di casa del suo vicino dai giorni in cui si trovava in clinica, e Corrado adesso gli ha chiesto di tenerla ancora con sé, proprio per usarla ancora in certe occasioni tipo questa. <<Le ho portato qualcosa di semplice per il pranzo>>, dice Domenico, e Corrado lo ringrazia, gli dice che nella sua vita non è mai stato tanto viziato da qualcuno come in questo momento. <<Non esageriamo>>, dice Domenico, <<in fondo tutti quanti cerchiamo di fare soltanto qualcosa di utile; peraltro, credo che la solidarietà sia la cosa più giusta e importante. E gli altri comportamenti, al suo confronto, rimangono soltanto delle sparute sciocchezze.

 

Bruno Magnolfi

 


Cantiere edile

 

 

 

 

 

 

 

Argomento scottante

 

Probabilmente lui non ha neppure bisogno di guardare il quadrante del suo orologio per rendersi conto di ciò che già percepisce, ed in effetti adesso vedere che le due lancette maggiori sono andate inesorabilmente a segnare l'orario che già immaginava ampiamente da svariati minuti, non fa che confermare quanto precedentemente intuito. Dal suo ufficio esce in quel momento il suo capo, un foglio ed una busta dentro una mano, e col solito modo sgarbato di porsi, gli chiede a cosa mai si riferisca quella fattura di cui in questo momento non ha alcuna memoria. Lui prende un faldone, scorre delle carte, tira fuori degli inserti, poi senza neanche rispondere, mette con garbo sopra quella carta un ordine firmato proprio dal titolare.

“Va bene, va bene”, dice il signor Chelli mentre riprende la carta dal piano della scrivania, “in ogni caso facciamo sempre attenzione a tutte le spese incontrollate, che si fa presto poi a perdere il controllo anche del resto”. Maruzza a quel punto si alza dalla scrivania, si abbottona rapidamente la giacca e mette in ordine, come fa sempre prima di andarsene, allineando le matite e gli altri oggetti sopra al suo piano di lavoro; poi, ancora leggermente titubante, prende con lentezza il suo soprabito dall'attaccapanni vicino, quasi pronto per uscire, proprio mentre il titolare rientra nella sua stanza parlando a voce alta nel cellulare. Gli fa cenno di attendere, e lui si blocca, come quasi ogni sera succede.

Passeggia nel piccolo corridoio, il signor Chelli, ridendo di qualcosa col suo interlocutore telefonico, poi, prima ancora di tornare dentro al suo ufficio, dice a bassa voce che comunque là dentro ci vorrebbe proprio un responsabile agli acquisti, per verificare sempre i prezzi di tutti i fornitori, e soprattutto la qualità dei materiali. Lui fa cenno di sì con la testa, - è un vecchio argomento quello, che ogni tanto ritorna a galleggiare, - e resta ancora immobile come nell’attesa di ulteriori istruzioni, ma il suo titolare rientra rapidamente nella sua stanza, lasciandolo in qualche maniera nel dubbio.

“Vado, signor Chelli”, dice lui dopo alcuni minuti, bussando lievemente alla porta semichiusa del suo capo, e l’altro, immerso in chissà quali nuove preoccupazioni dietro allo schermo del suo elaboratore, come altre volte risponde: “non preoccuparti, ci penso io a chiudere e ad inserire gli allarmi”, come gli facesse un favore. Già, perché ogni sera a tarda ora c’è da inserire quegli allarmi maledetti, per poi disinserirli al rientro di ogni mattina, costituendo così un’area notturna ben protetta in quella sede da piccola impresa edile, dove a conoscere le parole d’ordine e ad avere le chiavi di tutto quanto, sono soltanto in quattro: lui, il suo capo, il geometra, e poi la segretaria, che però rispetta un orario completamente differente.  

Va da sé che alla mattina presto, come anche alla sera tardi, uno di loro tre ci deve essere per forza, per aprire o chiudere il magazzino agli operai, per dare loro le chiavi dei mezzi, e per fornire le specifiche sui cantieri da allestire. Il geometra, per un motivo o per l’altro, riesce costantemente a mettere avanti delle ottime scuse per non essere presente, ed il titolare generalmente lo lascia perdere, riponendo la sua fiducia sul suo fedele Maruzza.

Così anche stavolta lui esce, mette in moto la macchina, e accende subito i fari, visto che oramai si è fatto buio. Poi, con tutta calma, se ne va guidando verso la sua abitazione, dove sua moglie gli farà notare immediatamente che anche stasera ha fatto piuttosto tardi, e che ormai è giunto il tempo per lui di affrontare con il suo capo l’argomento di quegli orari: “a muso duro, però”, gli ripete.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Piano ben levigato

“Ti ho messo le misurazioni sul tavolo”, dice il geometra. “Quando le avrai sviluppate ci daremo assieme un'ultima occhiata, prima di stamparle una volta per tutte”. A lui non piace quando il geometra assume quell'atteggiamento di superiorità. In fondo, a quel tecnico esperto, risulta facile andarsene a spasso dentro i cantieri a scarabocchiare un po’ di cifre confuse su dei pezzi di carta spiegazzata e anche sporca, visto che poi è il fedele Maruzza in ufficio a doverle con pazienza rimettere in ordine, riportarle al pulito, svolgendo in qualche caso anche un lavoro di interpretazione dei segni e dei numeri. Quando è stato assunto gli erano sembrati tutti simpatici quei personaggi là dentro gli uffici, d’altra parte lui in quel momento non aveva neppure molta esperienza, però gli era stato detto che avrebbe affiancato il geometra, per imparare poco per volta il mestiere. E invece Maruzza si è ritrovato in breve tempo ad essere quasi succube di quel geometra, e anche del titolare, e spesse volte persino della segretaria, che tutti insieme in certi casi lo trattano senza tanti complimenti, quasi fosse uno straccio.  

Lui cerca generalmente di passare al di sopra di quanto gli dicono, assumendo spesso un'espressione vaga di indifferenza; in fondo ne va di quel suo lavoro, che a lui in fondo piace, così come si sente a posto quando è da solo alla sua scrivania; e poi qualche volta nel corridoio il signor Chelli gli assesta una debole pacca sopra la spalla, quasi a mostrargli che va tutto bene quello che lui sta facendo, e che forse è proprio la persona che ci voleva, quella che loro cercavano, e che in questo momento è necessario che lui si senta uno di loro. Ma invece persino gli operai probabilmente si accorgono di come viene trattato, anche se poi arriva il geometra sempre svagato, e gli dice di nascosto, senza farsi sentire da nessuno, che certe cose devono sempre restare in ufficio, perché con le maestranze non si può proprio essere troppo amichevoli.

Il caposquadra invece è una persona perbene, Antonio si chiama, ed è sempre pronto a recepire le spiegazioni che Maruzza si sforza di dargli. Gli risponde con calma, fornisce la propria opinione se serve, poi trascina facilmente gli operai nelle varie attività di lavoro. Al geometra ovviamente non piace: sostiene che riesca a rubacchiare il gasolio, che non sia molto affidabile, che secondo lui non sia il caso di infondergli troppa fiducia, forse proprio perché gli altri operai sono sempre pronti a seguirlo, e teme che offuschi così la sua immagine di capo supremo. Poi tutti i lavoratori rientrano nel capannone del magazzino a fine giornata, e quando sono pronti per andarsene via, si vede benissimo che a loro non interessa un bel niente di tutti quei fili che legano le persone che stanno là dentro.

Lui sa benissimo che prima o poi dovrà scegliere da quale parte schierarsi, anche se il suo desiderio di facciata resta quello di fare tutto quello che gli viene richiesto, senza tirarsi mai indietro. Probabilmente si sente un po’ fuori luogo tra quelle persone, però Maruzza non vuole che qualcuno di loro si accorga di una cosa del genere, ed è per questa ragione che tira avanti, che cerca di stare allo scherzo, che sopporta in silenzio tutto quello che gli può capitare, lasciando che tutto scivoli, come su un piano ben levigato.

 

 

 

 

 

 

Con nessuno di loro

Maruzza arriva al cantiere per primo. Disinserisce l’allarme, si guarda per un attimo attorno, poi infila la chiave di sicurezza nella porta blindata, ed entra nella piccola costruzione separata dai magazzini ed adibita ad uffici, accendendo le luci interne ed esterne. Alle sue spalle, appena qualche minuto più tardi, arriva di fretta il geometra, con il solito pacco di carte sopra le braccia, che subito lo saluta, ma quasi di sfuggita, ed entra difilato nella sua stanza, con la perenne sigaretta accesa che gli esce di bocca. “Tu non hai visto per caso la mia borsa di pelle”, gli chiede facendo capolino nel corridoio dopo un minuto, con il tono di chi non sta facendo una vera e propria domanda; e lui fa cenno di no con la testa, anche se l’altro prosegue a guardarlo, in una maniera a dir poco insistente. “Non ha importanza”, dice dopo una pausa il geometra, usando un'inflessione della voce ancor più particolare, come se il fatto dipendesse in qualche misura dallo stesso Maruzza; “dentro non mi pare ci fosse alcunché di importante”.

Trascorrono alcuni minuti, poi iniziano ad arrivare alcuni operai, che entrano dal cancello principale e si ritrovano tutti sul piazzale di terra battuta davanti al magazzino principale. Hanno le mani sprofondate dentro le tasche, qualcuno fuma, sembrano svogliati, ma soltanto perché nessuno ha ancora detto loro cosa ci sia realmente da fare. Esce di fretta il geometra dall'edificio, mentre arrivano gli altri, e tutti proseguono a darsi tra loro il buongiorno, alcuni allungando anche qualche blanda battuta di spirito, ma subito, con poche parole, vengono incaricati di mettere il carburante negli autocarri che servono, e di allestire i macchinari da usare, caricandoli sopra ai pianali che serviranno per affrontare la giornata lavorativa. Niente di particolare, qualcuno inizia a mettere in moto i mezzi assegnati, ed altri a sistemare utensili e attrezzi, mentre il geometra senza aggiungere altro rientra in ufficio.

“Guarda tu se va tutto bene”, dice al Maruzza mentre transita dal corridoio, nello stesso momento in cui arriva dalla porta principale anche il titolare dell'impresa. Lui allora esce, girella in mezzo a tutti quegli operai indaffarati, quindi si ferma a controllare la ghiaia, che improvvisamente gli sembra più grossa come pezzatura di quanto dovrebbe. “È un po’ sporca”, gli fa il caposquadra come interpretando i suoi pensieri, “ma per quello che stiamo facendo va bene anche così”. Maruzza sorride e annuisce, in fondo non sa definire esattamente i parametri di giudizio da adoperare, per cui si affida spesso a quello che dicono gli altri, almeno quando riescono ad essere più convincenti. Rientra un momento per prendere i fogli del piano previsto per la giornata, così ne scorre i dettagli trovando tutto coerente e lineare.

Gli operai continuano a caricare quanto dovrà servire nella giornata, poi iniziano a manovrare con i mezzi per uscire dal recinto ed andarsene verso il loro luogo finale di lavoro. Maruzza torna per un attimo sopra al piazzale e fa un cenno di saluto verso il caposquadra seduto dentro al furgone degli utensili manuali. Quando rientra in ufficio sa perfettamente che il titolare gli dirà tra un minuto di andargli dietro in macchina il prima possibile, in modo da controllare ogni particolare, così lui lo anticipa: prende le chiavi dalla rastrelliera, si piazza sottobraccio l’intero faldone costituente le copie del progetto da portare avanti, e poi saluta tutti con queste semplici parole: “vado con loro”.

        

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Questioni sospese

 

         Già diverse volte nei mesi scorsi è capitato, dentro la sede dell’impresa edile per cui lavora da un anno, che lui sia rimasto da solo insieme soltanto con la segretaria, che in genere svolge solo durante le ore della mattina le proprie mansioni presso la ditta; ma ognuno di loro due, in quei pochi casi, ha proseguito con solerzia a svolgere il proprio mestiere senza lasciarsi andare ad alcuna confidenza, o ad intavolare qualche chiacchiera differente dalle strette informazioni sul loro lavoro. Forse proprio per questo a Maruzza non piace molto questa persona: troppo ingessata dentro al suo ruolo, troppo lontana dal mostrarsi una donna capace di guardare anche attorno a se stessa, e magari adatta persino a rendersi conto in qualche misura degli affanni degli altri.

Perciò anche stamani lui rimane in silenzio a mettere in fila le contabilità che gli ha passato il suo superiore, senza che gli venga in mente di alzarsi anche per un solo momento dalla sua sedia, o addirittura affacciarsi nell'altro ufficio, tanto per dirle qualcosa. Ma ad un tratto invece è proprio la segretaria, con in mano alcune fatture che probabilmente deve ancora registrare, che si presenta davanti a lui, e senza preavviso gli chiede come gli stiano andando le cose. Maruzza solleva lo sguardo dalla scrivania, d’un tratto sorride, anche cercando di dissimulare la propria timidezza evidente, e poi le risponde: “bene”, immediatamente attraversato dal sospetto che lei stia tentando una qualche manovra, forse sollecitata direttamente dal titolare dell'azienda, o magari dal geometra, soltanto per assumere su di lui delle informazioni il più possibile dirette.

“Pensavo non ti trovassi molto bene a lavorare con il nostro grande responsabile tecnico”, dice la segretaria con ironia; e prosegue: “lui ha un carattere veramente impossibile, e per me la fortuna maggiore è soltanto quella di incontrarlo abbastanza di rado”. Maruzza annusa subito il trabocchetto, perciò annuisce, bofonchia che a suo parere in fondo è una brava persona, ed altre cose il più possibile neutrali. Ma la segretaria insiste, dice che secondo lei non è molto bravo neppure nel suo lavoro, e che si dà un sacco d'arie “semplicemente perché il signor Chelli lo ritiene, spesso sbagliando, un gran professionista”. Lui non risponde, osserva per un attimo, come per diluire l’argomento, i conti su cui sta lavorando, poi fa: “del suo carattere non saprei dire, però il suo mestiere secondo me lo sa portare avanti piuttosto bene”. Lei adesso sorride a sua volta, forse si sente scoperta, così senza aggiungere altro torna quasi frettolosamente nell'altra stanza.

Maruzza allora prende coraggio, attende qualche minuto, ed infine si alza in piedi, passeggia rumorosamente lungo il corridoio come occupandosi di qualcosa, e poi dice verso di lei a voce alta: “credo che le cose vadano meglio, comunque, se cerchiamo tutti di sentirci come una specie di grande famiglia”. Immediatamente si rende conto però di aver detto qualcosa quasi di offensivo nei confronti della segretaria, che difatti non ribatte niente, perciò aggiunge subito: “forse perché a me piace molto sentire attorno una certa armonia”. Ma anche questa frase non pare mostrarsi esattamente correttiva rispetto alle altre parole, perciò spiega alla fine: “in fondo passiamo così tanto tempo insieme, che ognuno di noi deve per forza convivere con i difetti degli altri”.

La segretaria sembra comunque pressoché indifferente al pensiero di Maruzza, perciò prosegue con impegno a registrare le sue fatture senza dire nient’altro, tanto che lui torna alla sua scrivania e riprende ad occuparsi della contabilità. Poi però lei, direttamente dal corridoio, gli dice che purtroppo deve fare un salto in una banca, anche se le piacerebbe proseguire quell’argomento. Ma proprio in quell’attimo giunge il signor Chelli, il titolare dell’azienda, che saluta tutti con i suoi soliti modi, e così chiude, almeno per il momento, ogni questione sospesa.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Definizioni insolite

 

“Stamattina dobbiamo effettuare un sopralluogo”, dice il geometra in maniera piuttosto decisa. Perciò Maruzza, in silenzio e con grande attenzione, inizia subito a preparare tutti quegli strumenti che potrebbero in qualche modo servire, quindi attende soltanto che l’altro gli dia un semplice segnale prima di sistemare tutto quanto dentro la macchina. Il geometra però sembra prendere ancora del tempo, gira per le stanze guardando lo schermo del suo telefono, oppure consultando qualche cartella piena di fogli, ma senza decidersi, quasi come non avesse nessuna voglia di dare davvero seguito a quanto ha stabilito lui stesso. Infine, senza aggiungere neppure una sola parola, prende la sua solita giacca ad alta visibilità, e fatto cenno all’assistente di cantiere di salire sull’auto accanto a lui, ne avvia il motore. “C’è qualcosa di strano in ufficio”, gli dice subito, ma come sovrappensiero, appena effettuata la manovra per imboccare la strada provinciale. “Sembra quasi che là dentro si sia persa la normale serenità”.

Maruzza resta zitto, in fondo non comprende neppure a che cosa si possano riferire quelle parole; ma soprattutto a lui non pare proprio che sia cambiato qualcosa in ufficio, anzi, gli sembra esattamente che tutti cerchino di conservare perfettamente i propri ruoli. Poi nessuno di loro due dice più niente sull’argomento, anche perché il geometra viene continuamente chiamato al telefono da qualcuno, fino a quando, dopo quasi un’ora, arrivano ad un grosso complesso rurale abitativo che deve essere ristrutturato. Scendono, salutano una persona che è lì per illustrare i lavori da effettuare, poi Maruzza inizia a fare i rilievi e a scattare fotografie, mentre il geometra prende in consegna le copie delle planimetrie ed il capitolato relativo. Girano a lungo per tutti gli edifici prendendo degli appunti su qualsiasi dettaglio, infine salutano il tizio che li ha accompagnati e tornano indietro verso la sede della loro impresa.

“Offriremo un ribasso minimo”, dice il geometra come parlando tra sé. “C’è da perderci la testa là dentro per portare avanti un lavoro fatto per bene”. Lui annuisce, ha messo nella sua cartella tutta la documentazione che sono riusciti ad acquisire, però quel luogo gli è piaciuto parecchio, gli piacerebbe molto lavorarci insieme agli operai della loro impresa, e farlo anche bene, in modo da restituire alla proprietà un oggetto utile e bello come merita, secondo il suo parere. Il geometra qualche volta gli ha anche detto che non bisogna mai affezionarsi ai luoghi dove ci si trova a lavorare, ma per Maruzza in certi casi è un comportamento quasi automatico.

“Credo che la nostra segretaria sia prossima a prendere il volo”, dice d’un tratto il geometra mentre continua a guidare. Immagino che tu non avverti una sensazione del genere, ma forse hai qualche dettaglio che a me magari è sfuggito”. “No”, fa il Maruzza, “io non ne so proprio un bel niente, e poi con me praticamente lei non parla neanche. Si limita qualche volta a chiedermi qualcosa di tecnico su di un cantiere o sull’altro, ma niente di più”. Il geometra sembra sorridere: “non ti rimane molto simpatica”, dice in modo diretto. “Forse preferiresti una ragazza che magari ti allunga ogni tanto qualche confidenza sulle cose che conosce di più dell’ufficio”. Maruzza resta in silenzio: ritiene quello un argomento così scivoloso, che per nessuna ragione ha voglia di dire anche una sola parola. L’altro comprende benissimo il suo disagio, così resta in silenzio fino al momento in cui finalmente giungono in sede. Poi rientrano e basta.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Forza di sopportazione

 

         Lui certe volte si sente debole. Si chiude nel suo ufficio e dice alla segretaria che ha da fare, che deve prendere degli appuntamenti, dar corso a delle telefonate importanti, fare dei conti urgenti ed altre cose del genere, ma poi rimane immobile sulla sedia, con la porta chiusa, soltanto a pensare. Le cose in fondo non vanno tanto male. La sua impresa edile riesce a galleggiare abbastanza bene in questo periodo, le commesse ci sono per mandare avanti le cose, ed il personale non è dei peggiori. Però il signor Chelli si sente ugualmente preda di forti dubbi sulle scelte da fare, come sugli investimenti a cui dare corso, e poi sulla fiducia da assegnare a chi sta alle sue dipendenze.

Non è facile, si ripete come per giustificarsi, trovare il giusto equilibrio tra tutti gli elementi che stanno in gioco: anche soltanto fidarsi di alcune conoscenze all’interno degli enti appaltatori, oppure appoggiarsi ad imprese più grosse sperando di ricevere da loro qualche commessa, o ancora partecipare alle gare d’appalto con percentuali di ribasso fasulle per favorire quello o quell’altro, nella speranza di ricevere prima o dopo lo stesso trattamento da loro, sono tutte cose che non possono essere fatte con piena tranquillità, a meno che non si sia individui senza alcuno scrupolo.

Lavorare onestamente rispettando tutte le leggi è difficile in questo campo, lui lo sapeva già prima di fondare l’impresa, eppure in molti casi si sente orgoglioso di portare avanti la sua attività, vedere le cose compiersi, le opere edificarsi, i manufatti restare in piedi, quasi come un miracolo di buona volontà e di impegno da parte di tutti. Certo, si ripete, non si può sempre essere positivi ed ottimisti quando si mandano avanti aziende del genere: ci sono dei giorni in cui tutto appare nero e sembra quasi privo di significato, e poi tutto il bilancio di anni su anni di duro lavoro, che sembra solo una grande sciocchezza che a volte non ripaga neppure tutto lo sforzo fatto.  

Poi torna a farsi vedere, il signor Chelli, magari con un’espressione ancora leggermente ombrosa, ma con la faccia di chi in fondo sta trovando finalmente intorno a sé delle ragioni precise per non abbattersi troppo; e così magari asseste un colpo bonario sopra le spalle del suo geometra, perché alla fine sa che le cose anche stavolta fileranno come sempre, ed anche se qualche contabilità è andata in perdita, sa che alla fine ce ne sono altre che livelleranno le entrate aziendali; e si rallegra del lavoro portato avanti dalla sua segretaria circa la burocrazia a cui le banche sottopongono chiunque; ed infine anche sugli operai non ha molto da dire, se non che resistono nella sua ditta anche loro, a portare avanti quella battaglia comune.

Forse l’unico che sembra ancora fuori da tutto il contesto è l’assistente di cantiere, un tipo sempre troppo sulle sue, poco propenso a lasciarsi andare ad una qualsiasi battuta di spirito anche quando qualcosa sembra andare per il verso giusto. Così il signor Chelli percorre tutto il corridoio dell’azienda, e va ad osservare proprio lui, che resta chino come sempre sui suoi conteggi. “Quando i conti non tornano la colpa è di chi li sta facendo”, gli dice con sciocca ironia. Lui alza la faccia, lo guarda con espressione indecifrabile, poi dice: “forse”, riprendendo i suoi conti. L’assistente ha compreso da tempo che in quell’azienda sarà sempre colui che pagherà anche per tutti gli altri, anche per cose nelle quali non ha niente a che fare. Però stanno così i rapporti di forza, ormai lo ha capito perfettamente, e lui dovrà sempre lasciare che le cose proseguano su questa strada, almeno fino a quando avrà la forza di sopportarle.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Spirito forte

 

         A volte il geometra sembra nervoso. Arriva in ufficio già con lo sguardo un po’ troppo in basso, e poi lascia nell’aria appena un cenno di saluto per il suo assistente, se proprio lo incrocia, altrimenti anche nulla. L'assistente in questi casi sa perfettamente come comportarsi, proseguendo con indifferenza a fare quello che stava facendo fino a quel preciso momento, nel tentativo di dimostrare una completa dedizione al proprio lavoro, anche se magari avrebbe da chiedergli qualcosa. Si concentra invece anche di più, piegandosi verso il piano della sua scrivania ad esempio, e per nessun motivo si lascia distrarre da qualcosa che possa avvenire, né da qualche rumore curioso, né dal silenzio completo che in questi casi pare regnare nella stanza immediatamente vicina alla sua. In qualche caso la situazione si protrae anche un po’ troppo a lungo, ma lui per nessuna ragione si alza dalla sua sedia per andare come a molestare il suo superiore. Lascia semplicemente che quella leggera tensione creata si sgonfi, e che all'altro dipendente della loro impresa venga per primo la voglia di dirgli qualcosa, senza cambiare di niente il suo atteggiamento.

Più tardi, quando invece arriva la segretaria, tutto pare rapidamente variare. È come se lei ogni mattina scoprisse, già mentre entra nell’edificio, una novità di cui meravigliarsi, con espressioni entusiaste che suonano sempre un po’ false, anche se i suoi saluti sparsi fin dal corridoio riescono davvero ad alleggerire l'atmosfera di tutta la loro piccola azienda, specialmente se il titolare non c'è. Anche il geometra normalmente con il nuovo arrivo sembra cambiare d'umore, nonostante ne dia prova semplicemente iniziando a girare per le stanze con il suo fare sornione e mantenendo comunque il silenzio. Ancora qualche minuto per prendere il ritmo, e poi tutto inizia il suo corso normale di qualsiasi altro giorno. Ed è proprio durante una mattina di questo genere che l'assistente ad un tratto si è alzato semplicemente dalla sua sedia, e silenziosamente è giunto fino davanti alla porta dell'altro ufficio, quando dallo spiraglio rimasto inavvertitamente socchiuso, ha visto con chiarezza che la segretaria ed il geometra si stavano baciando.

Lei naturalmente è sposata, e lui ha una storia importante con una tizia, una convivenza che sembra vada avanti ormai da molti anni; evidentemente però tutt'e due hanno qualcosa che non va nelle loro rispettive vite sentimentali. In fondo, all’assistente non interessa affatto che si sia innescata una tresca del genere sul suo luogo di lavoro, però soltanto ora riesce a mettere insieme tanti tasselli di un mosaico di cui fino adesso non poteva neppure immaginare il progetto d’insieme. Il modo in cui lei certe volte parla in modo distaccato del geometra, ad esempio; o l’indifferenza con cui lui in molti casi si riferisce alla loro segretaria, e così via: tutti aspetti forse creati ogni volta con grande perizia, onde sviare il più possibile qualsiasi sospetto. A lui tutto ciò non riguarda, e per nessuna ragione al mondo vorrebbe costituire un sensore di moderazione nelle rispettive giornate più o meno ottimistiche dei due. Non soltanto non sono affari suoi la loro relazione, ma oltretutto lui tende a conservare ogni rapporto che intrattiene con loro, su di un piano strettamente lavorativo. Forse soltanto per un attimo gli passa per la mente la superiorità che gli può fornire quanto di cui si è reso conto, anche in virtù di un possibile minuto ricatto dinanzi al giudizio superiore del titolare dell'azienda. Ma subito dopo lascia perdere del tutto questa possibilità: non è da lui stare dentro a queste cose, e nella sua natura non sono previsti mai sotterfugi.

Le cose proseguono così come sempre, e l’attività dell’azienda comunque va avanti, senza che niente subisca delle variazioni di sorta. Però adesso l’assistente conserva dentro di sé come un leggero sorriso, quasi una lieve inflessione agli angoli della sua bocca, un cenno praticamente del tutto senza importanza, che solo lui sa bene da cosa derivi, ma che gli fa affrontare ogni prossimo giorno lavorativo con uno spirito senz'altro più forte.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Miglioramenti lavorativi

 

         Gli operai dicono che così non si può più andare avanti. Nelle mansioni che seguono, loro sostengono di mettere sempre tutto l’impegno che serve, ma da qualche tempo spiegano anche come il geometra della ditta sia diventato praticamente intrattabile: si comporta piuttosto male con chiunque di loro, alza la voce, volta le spalle ad ognuno, e poi dice continuamente che le opere a cui sono stati destinati non procedono mai come dovrebbero, e che tutti quanti in quel cantiere battono la fiacca, mostrano indifferenza nei risultati, e non producono neppure per quanto sono pagati.

Per questo gli operai tendono sempre di più a rivolgersi all'assistente di cantiere invece che al geometra, a volte semplicemente per lamentarsi con lui dei comportamenti dell’altro, in altri casi per insinuare alla loro maniera delle velate quanto pacate ed innocue minacce. Di tutto questo il proprietario e titolare della piccola impresa edile, sembra non accorgersi mai di un bel niente, probabilmente anestetizzato dai frequenti contatti, e forse persino eccessivi, coi vari personaggi che stanno notoriamente al servizio degli enti appaltanti, sempre pronti ad accettare l'offerta di un pranzo, di un regalo, o anche di un sopralluogo in mezzo a cui darsi una certa importanza.

Ci sono giorni in cui non sembra neppure che le cose possano proprio andare avanti ancora così, ed il nervosismo che circola tra i dipendenti che lavorano in quel cantiere, lo si palpa immediatamente, basta stare per un po’ insieme a loro per rendersene conto. Poi arriva l’assistente, con il suo fare timido, dimesso, di colui che non prende mai una posizione precisa, e forse qualcuno tra gli operai pensa con chiarezza che sia proprio un inetto, uno che vive soltanto alle spalle dei suoi superiori di grado, ed è per questo che non c'è molto da fidarsi di lui, anzi, forse bisogna scansarlo, trattarlo come si merita e basta, dicono già alcuni di loro.

Lui invece, se cerca soltanto di non prendere posizioni precise, lo fa per non entrare in contrasto mai con nessuno, anche rendendosi conto sempre di più, che prima o dopo dovrà pur fare una scelta, e decidere una buona volta a chi dare ragione. Gli operai lo guardano, parlano con lui, gli chiedono qualcosa, ma non credono affatto potrà mai davvero aiutarli, anche se loro proseguono a fare il loro dovere, impegnandosi nei lavori manuali a cui sono destinati, dando proprio il meglio di loro, come sempre hanno fatto. Perché ad esempio, prendersela soltanto con il geometra, probabilmente non è neppure la maniera migliore per dimostrare la loro amarezza: forse tutti quanti sono soltanto delle rotelle di un ingranaggio che porta ognuno a comportarsi in una definita maniera. L’assistente di cantiere forse è soltanto un altro disgraziato messo peggio persino degli stessi operai: è da solo, nessuno può davvero aiutarlo, se non da sé, assumendo un comportamento di basso profilo, restando neutrale, a cavallo tra una definizione del lavoro e quell’altra.

Il geometra non si rivolge quasi mai a lui direttamente: lascia che allarghi le carte, i progetti, gli appunti, che annoti a sua volta tutte le misure che servono, i dati, le quote, i numeri, e poi forse il suo superiore si abbassa a dirgli qualcosa, ma con voce bassa, senza farsi sentire dagli altri, e lascia che lui scuota la testa, probabilmente già pronto per fare anche quest’ultima cosa a cui è demandato. E’ giovane, deve ancora imparare molto di questo mondo, soprattutto deve capire una volta per tutte che non potrà mai dire qualcosa pensato individualmente da lui, almeno fino a quando non avrà acquisito una certa autorevolezza; e per far questo ci vorrà ancora del tempo: tutto quello che serve, fino a riuscire a far sentire agli operai la sua voce decisa, il suo parere convinto, la sua opinione invariabile, sottesa da un pensiero soltanto: questa adesso, è la cosa migliore da fare.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

  Proprie occupazioni

Il caposquadra ultimamente si dimostra un tipo tosto, uno che sa interpretare benissimo i malumori degli operai, e soprattutto farli suoi, affrontando così a muso duro, quando c'è da rivendicare qualche diritto per tutta la squadra, anche i tecnici presenti sul cantiere di lavoro. Mentre era in atto un sopralluogo della direzione lavori difatti, lui ha detto a voce sufficientemente alta, in modo da farsi sentire da tutti, “che gli operai sanno bene come portare avanti le opere e i manufatti affidati a loro”, e nessuno si è sentito in grado di contraddirlo.

L'assistente di cantiere è rimasto perplesso mentre teneva ancora in mano le piante progettuali, ed ha provato comunque un inconfessabile brivido di piacere, essendo al corrente peraltro del valore del lavoratore che aveva parlato. Il geometra, fermo poco più avanti, ha mostrato invece una completa indifferenza, anche se si capiva benissimo conoscendolo, che in quel momento fosse furente, almeno dentro di sé. Poi tutto è parso rientrare nella normalità, ma più tardi il titolare dell'impresa, venuto a sapere dei fatti accaduti, ha voluto approfondire l'argomento, mettendo a sedere davanti alla sua scrivania sia il geometra che l'assistente.

“Sono soltanto sciocchezze”, ha detto subito il geometra cercando in questo modo di sminuire le cose. Ma il titolare non è parso per nulla soddisfatto di queste parole, soprattutto per aver dovuto subire, come impresa edile, una evidente brutta figura davanti alla direzione lavori dell’ente appaltante. Perciò ha assunto immediatamente un’espressione seria e scocciata, poi ha chiesto con serietà all’assistente se ne sapesse qualcosa di più di tutta la faccenda. “Non molto”, ha risposto lui, “però è certo che sta covando del malumore tra gli operai, e forse sarebbe il caso di parlare con loro per comprendere meglio la cosa”.

Il geometra allora si è alzato dalla sua sedia con un modo di fare scocciato, ed ha detto senza mezzi termini “che gli operai devono stare sempre dalla propria parte; che non c’è neppure un’altra impresa sul territorio dove vengono trattati così bene come in questa; e che se qualcuno di loro ha voglia di andarsene, bene, si accomodi pure”. Ma il titolare non ha gradito troppo questa presa di posizione, anche se ha annuito ascoltando un punto di vista che reputava con evidenza piuttosto vicino al suo; ha spiegato con poche parole che lui comunque si fida di queste persone, che tutti quanti fanno parte della sua ditta da parecchio tempo, e che quindi se ci sono dei problemi è bene cercare di conoscerne la natura, per trovarne in qualche maniera una rapida soluzione. Il geometra a questo punto forse aveva voglia di uscire dall’ufficio, tanto appariva furioso, ma è rimasto comunque seduto, senza aggiungere niente né fare commenti.

“Tu”, ha detto poi il titolare all’assistente; “puoi cercare di parlare con loro per comprendere che cosa c’è che non va, e quale sia la vera origine del loro malumore; e puoi anche dire a tutti gli operai che rimane la ferma volontà da parte nostra, di superare una volta per tutte queste divisioni, e trovare al più presto una linea d’intesa”. L’assistente lo ha guardato senza ribattere niente, ma ha annuito mostrando la piena comprensione del problema posto; poi tutti si sono alzati dalle loro sedie, e senza tornare a guardarsi hanno ripreso le proprie occupazioni.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Altro a venire

 

         A lui piace stare seduto in silenzio senza pensare a delle cose troppo definite. Anche quando è in ufficio, e sa di avere molto tempo per occuparsi delle sue attività principali, certe volte si lascia scivolare con la mente verso cose che rimangono ordinariamente anche molto lontane dal suo mestiere. In fondo non c’è proprio niente di male se uno come lui divaga per qualche minuto dai pensieri che normalmente lo assillano. Si tratta di fantasticare, di uscire momentaneamente con il pensiero da quegli uffici, allontanare la testa dai compiti di sempre, forse soltanto per evitare la trappola del troppo lavoro, di quello stare sempre con la mente pressata dagli impegni che spesso superano come numero quello che sembra essere il semplice necessario.

Poi c'è sempre un momento in cui tutto torna prepotentemente di fronte, e basta una porta sbattuta, la parola di qualcuno che vuole farsi ascoltare, in qualche caso anche un oggetto mal riposto che cade non del tutto casualmente da un ripiano, ed ogni cosa sembra crollare in un attimo, per riportare subito alla mente le attività ordinarie, ed a lui anche quel suo mestiere consueto, quegli indiscutibili rapporti di lavoro ormai ben assodati con le persone da cui è circondato ogni giorno. Il titolare dell'impresa, che si vede di rado, ultimamente non gli ha chiesto più niente a proposito dei rapporti con gli operai, ed il geometra da qualche giorno sembra impegnato in attività piuttosto distanti da quei problemi, quasi non avesse più tempo per le pallide sciocchezze, come sicuramente pensa, che sembra stiano tanto a cuore al suo assistente di cantiere.

A lui in fondo non interessa, a volte gli pare addirittura che gli operai lavorino meglio e di più se non hanno attorno i propri dirigenti d’impresa. Ha battuto persino una mano sulla spalla ad un caposquadra, non più tardi di due o tre giorni fa, ed era la prima volta che faceva una cosa di quel genere. L'altro lo ha guardato appena per un attimo, e con il suo leggero sorriso è parso voler momentaneamente annullare tutta la distanza istituzionale che c'e tra di loro, lasciando emergere un profilo più umano per tutt’e due. All'assistente è sembrato di avere fatto un gesto importante, e forse anche perfino giusto, qualcosa che mostrava in un certo modo persino la crepa che in qualche caso può apparire più evidente proprio dentro a quei loro uffici aziendali, dove tutto deve trovare un suo svolgimento e anche una propria spiegazione, e non ha voluto aggiungere nulla, proprio per non annacquare con delle stupidaggini di rito, ciò che pareva sufficientemente schietto e quasi normale.

In ogni caso comprende benissimo che non possono certo scaturite da un semplice gesto le precisazioni e i chiarimenti che paiono oramai sempre più necessari all’interno della loro ditta, ed il clima in cantiere è naturalmente rimasto quello della vigilanza armata. Il geometra sostiene che è salutare per tutti tenere gli operai così, piuttosto sotto pressione, e all'assistente di cantiere in fondo non importa proprio un bel niente: a lui basta che tutto fili liscio con tutti, fare sempre in modo di non trovarsi a dover difendere una posizione che magari non sente neppure come propria. Il suo ruolo a volte è sfuggente, lo sa bene, e la cerniera che forse dovrebbe rivestire affrontando i suoi compiti, qualcosa che probabilmente non comprenderà mai fino in fondo. Poi resta immobile di nuovo, seduto alla sua scrivania, un'altra volta ancora, come spesso accade, allontanando lentamente la testa da quei pensieri e da tutto ciò che ne può derivare; e quando infine torna a guardare con una certa speranza il quadrante dell'orologio, sa che tra poco, anche per oggi, sarà certamente terminata anche quella giornata di lavoro. Il resto poi si vedrà.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Sfiorare di corpi

Quando esce da casa per andare al lavoro, lei ha già un pensiero fisso che le attraversa la mente. Ha scelto con cura gli accostamenti tra i colori dei suoi elementi di vestiario, ed anche se sono soltanto delle gonne e dei maglioncini che ha comperato a poco prezzo sopra a qualche bancarella, sa che ogni capo si deve saper indossare con stile, come fosse qualcosa creato apposta per lei da qualche sarto importante. Anche la pettinatura ed il trucco leggero le portano via ogni mattina un certo impegno davanti allo specchio, ma quando poi si ritrova lungo la strada dentro alla sua utilitaria, tutto questo improvvisamente è come dimenticato, perché adesso fa parte di lei, visto che lei si sente proprio così, esattamente come si è vista riflessa una volta pronta, ed il resto è come lasciato alle spalle, scordato, almeno per un certo periodo di tempo.

Osserva con attenzione ogni cosa davanti alle ruote della sua macchina, mentre continua ad imboccare le solite vie del percorso usuale, fino ad attraversare il grande cancello dell’impresa dove lavora, generalmente lasciato aperto quando c’è qualcuno all’interno, e parcheggiando poi nel medesimo posto, lasciato libero ogni giorno in pratica apposta per lei. E’ una piccola ditta, quella dove è impiegata, e forse proprio per questo lei quando è là dentro si sente importante, come se molte delle cose presenti tra quegli spazi, smettessero di funzionare regolarmente, se soltanto la segretaria non si presentasse in orario.

Peraltro ogni giorno si sente come chiamata a portare una ventata di novità quando arriva, e siccome qualche volta ha provato un piccolo senso di frustrazione per non essere stata accolta con slancio da chi era già presente all’interno di quegli uffici, è lei adesso che cerca di provocare negli altri una reazione positiva quando entra, proprio per non lasciare alcun dubbio sul fatto che lei, in questo esatto momento, sia veramente arrivata. Il valore aggiunto di tutto quanto naturalmente è il geometra: l’unica personalità tra quegli individui che a suo parere potrebbe davvero in qualche modo tenerle testa, capace anche soltanto guardandola in una certa maniera, di farla sentire immediatamente una donna. Per questo l’unico modo per far procedere in modo positivo le cose, fin da quando ha iniziato a lavorare là dentro, è stato quello di cercare una specie di alleanza con lui, fino a concedersi in diverse occasioni anche in modo fisico e completo, naturalmente a patto che tutto restasse un  segreto tombale tra loro. 

C'è un'intesa che sembra aleggiare, senza che altri possano mai neanche sospettarne qualcosa, tanto che è sufficiente uno sguardo tra loro due, per dirsi molte più cose di quanto si potrebbe mai immaginare. Il lavoro procede, e qualche volta forse hanno pensato che lui e lei da soli, avrebbero potuto mandare avanti le cose senza bisogno di altri, ma poi sorridono, senza spiegare perché, e le loro mansioni sembrano come galleggiare su uno strato di attività del tutto ordinarie. Non si dicono mai niente di particolare, si limitano spesso a scambiarsi semplicemente le carte e i dati che servono a mandare avanti l’impresa, ma nel loro intimo con probabilità nascondono delle diverse intenzioni, delle voglie segrete che forse trasformano a volte quei semplici uffici da piccola impresa, in un duro carcere, un luogo che in certi giorni, quando i loro corpi si sfiorano, può trasformarsi in un vero e proprio supplizio.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ragioni da farsi

Certe sere lui si sente stanco, e dopo la cena poco impegnativa consumata in casa con la sua compagna, una volta portato fuori il loro simpatico cagnolino di piccola taglia per una buona mezz'ora, passeggiando lungo il giardinetto proprio di fronte al palazzo dove abita, e dopo aver fumato in questa maniera l'ultima sigaretta di tutto il giorno, e magari scambiato due parole con qualche vicino che sta per l’appunto rincasando, rientra infine anche lui, per iniziare lentamente a prepararsi, lavandosi e spogliandosi, ed andare da lì a poco a coricarsi nel suo letto.

Però si sente stufo di queste giornate spesso persino troppo simili l’una all’altra, tanto da assomigliarsi quasi tutte. Certe volte crede proprio di essere del tutto sprecato per il lavoro che svolge: uno con la sua esperienza potrebbe aspirare a qualcosa di migliore, riflette spesso. In fondo non sarebbe neppure troppo difficile cambiare occupazione, figure professionali come la sua sono piuttosto ricercate in certe grandi imprese, e qualche volta parlando con dei colleghi di qualche altra azienda più importante, ne ha avuto una conferma più che diretta.

La ditta di cui fa parte da diversi anni, oramai si è fatta troppo piccola per uno come lui, con le sue competenze: là dentro, per un responsabile tecnico, non ci sono grandi prospettive, e non si può neanche aspirare a qualcosa di meglio finché lui rimane a lavorare lì, visto che i compiti che si ritrova a far svolgere a quei suoi operai, sono praticamente quasi sempre gli stessi, senza neppure delle possibili variazioni. Il titolare sicuramente è proprio una brava persona, ma anche uno che si accontenta, ed anche lui è un tipo grigio, noioso, sempre pronto a chiedere e a parlare delle solite cose, a preoccuparsi anche troppo delle medesime faccende, quasi come suonasse una melodia continuamente ripetuta.

Però c'è lei, la segretaria, con la quale a furia di velati complimenti lanciati verso i suoi modi e l'abbigliamento sempre di classe, tramite qualche parola detta perlopiù di sotterfugio, è riuscito alla fine, con una certa fatica a dire il vero, ad intessere una relazione piuttosto intrigante, anche se tutta giocata sempre un po’ troppo in punta di piedi e con poche prospettive. Lei non è male, sicuramente è una bella donna, forse anche lei sprecata per un posto di lavoro di quel genere, anche perché spesso appare come l'unica cosa viva dentro quell'impresa. "Buongiorno geometra", gli dice lei con slancio mentre sta arrivando, e lo fa con un tono di voce che sottintende già un gran numero di cose, almeno per uno come lui. Lui le sorride, e lascia all'immaginazione qualsiasi commento gli passi per la testa.

Però anche con lei, che è sposata ed ha anche un figlio, non c’è proprio futuro: basta accontentarsi divertendosi qualche volta alle spalle del loro titolare dell’azienda, passarsi qualche messaggio piccante sopra le scrivanie, sfiorarsi una mano di nascosto, e dopo basta, nient’altro, se non fare qualcosa che si esaurisca in fretta senza lasciare alcuna traccia. Non è molto per accettare di restare ancora a lavorare lì, ed è per questo che il geometra ha cominciato a parlare in giro della possibilità in tempi brevi di rendersi disponibile per un'altra occupazione. Non dirà niente a nessuno, naturalmente, almeno fino al momento in cui toglierà il disturbo. E la segretaria in qualche modo dovrà pur farsene a quel punto una ragione.

 

 

 

 

 

 

 

 

         Impegni seri

 

         Stamani in azienda c’è stato un battibecco tra gli operai mentre stavano preparando il materiale e le attrezzature da portare sul posto di lavoro. L’assistente di cantiere si è avvicinato per comprendere quale fosse il motivo di tutta quella confusione, ma loro proseguendo a spintonarsi come scolaretti, hanno alzato le spalle senza dare alcuna spiegazione. Il signor Chelli, titolare dell'impresa, è arrivato in sede proprio durante quegli attimi, e non riuscendo a comprendere neppure lui cosa stesse succedendo, si è fatto l'idea, non si sa come, che la colpa in qualche modo fosse tutta dell'assistente, richiamandolo nel suo ufficio mentre era in preda ad una forte irritazione. Il fatto che il geometra non si fosse ancora fatto vedere, naturalmente non ha giocato un ruolo favorevole per nessuno, tantomeno per la soluzione del problema, e le cose hanno preso rapidamente una piega molto negativa, al punto che l'assistente sotto reazione emotiva davanti al proprietario dell’impresa che lo rimproverava di non riuscire a tenere a freno gli operai, ha mormorato che probabilmente da lì a poco sarebbe andato via da quella ditta.

         Più tardi, con una scusa piuttosto discutibile circa il suo orario, è arrivato il geometra, con la sua solita aria svagata di chi ha la testa tra le nuvole. Messo al corrente dei fatti si è schierato subito naturalmente dalla parte del signor Chelli, sostenendo però al contempo che non sarebbe stato quello il momento per lasciar andare via il loro assistente, difendendo di fatto con due parole il suo valore e la piccola esperienza maturata in azienda. Si è anche assunto l’onere davanti al titolare, di parlare con lui nel corso della medesima giornata, e di prendere senz'altro dei provvedimenti nei confronti di tutti gli operai, secondo il suo parere andati oramai quasi fuori controllo.

L'assistente di cantiere al contrario pensa che se la situazione è giunta fino a questo punto, lo si debba imputare espressamente a ciò che è riuscito a seminare ultimamente il geometra, con il nervosismo continuo che è stato capace di trasmettere praticamente a tutti sul posto di lavoro, anche se comprende benissimo che non potrà mai sostenere di fronte ad altri una cosa di quel genere. Così si mette a fare le solite cose di ogni giorno, aspetta circa un’ora in ufficio, poi dice al geometra che adesso prenderà il furgoncino della ditta per andare sul cantiere a visionare il proseguo dei lavori. Il geometra gli dice di attendere soltanto un attimo, ed infine, raccolte alcune carte nell'ufficio della segretaria, va con lui, come per tentare una via di salvezza per tutti quanti.

“Non è il momento per andartene”, gli fa senza preamboli una volta in macchina. Poi trascorre qualche minuto senza che i due tornino a dirsi qualche cosa. La strada corre, l’assistente guida impegnandosi nel non mostrare nervosismo, ma poi tira i freni bruscamente quando un uomo in bicicletta gli attraversa la via. “Perché?”, chiede innestando di nuovo la marcia e ripartendo. “Forse ci potrebbero essere, tra non molto, un passaggio di livello ed un’ acquisizione di mansioni più alte, proprio per te”. L’assistente resta colpito, avrebbe voglia quasi di ridere, tanti sono i cambi di scena in così poco tempo, ma resta serio aspettando che il geometra si spieghi meglio. Ma quello al contrario si mette a fare delle telefonate, e prosegue così fino a quando non giungono in cantiere, dove gli operai stanno lavorando come sempre a testa bassa.

Il geometra allora raduna tutti, e dice senza mezzi termini che non sopporterà un’altra vicenda come quella appena successa, e che nel contratto nazionale dell’edilizia è previsto il licenziamento in tronco per rissa sul cantiere. Tutti restano in silenzio, con gli occhi bassi, le mani sporche della polvere dei laterizi e del cemento. Infine riprendono ognuno le sue mansioni, senza aver detto praticamente ancora niente, e solo accennato, con il loro inequivocabile atteggiamento remissivo, che le cose sin da adesso, proprio per il loro impegno, sicuramente andranno meglio.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Fallimento delle idee

 

Ci sono delle sere in cui lui si sente triste. Saluta volentieri il geometra quando fuori, sul piazzale sterrato dove riposano gli autocarri e gli escavatori, ormai si è fatto buio, e con una scusa qualsiasi rimane da solo nella sua azienda, davanti alla scrivania che ne ha viste tante, a ripensare alla giornata, a quel periodo, o anche a tutto quanto insieme. Se anche ci riflette a fondo non è mai del tutto convinto di aver fatto delle scelte giuste, e in ogni caso non riesce ad isolare con facilità quali siano stati i suoi veri errori. Perché spesso si è visto semplicemente costretto a intraprendere certe strade, anche se non sarebbero state quelle che lui prediligeva. Per certi appalti ha pagato, non c'è dubbio, ma non poteva proprio fare altrimenti.

“Signor Chelli”, gli dicono quando a volte si ritrova lungo alcuni corridoi. E poi gli spiegano con un sorriso che si potrebbe fare questo, e che forse si potrebbe fare quello, e che non ci vuole poi molto, basta una piccola spinta, una percentuale, insomma un regalino, e l'appalto è subito suo, signor Chelli. "Andiamo a pranzo in un posto qui vicino, ne possiamo parlare con più calma", gli dicono con certe facce di bronzo quasi incredibili. Non c'è niente da fare, bisogna comportarsi come dicono loro, anche se non si vorrebbe, perché lui pensa all'impresa, ai suoi operai, alla sede dell'azienda, e capisce ogni volta che quel sacrificio va comunque fatto, mentre tutti insieme si deve continuare a ridere di fronte ad un tavolo del ristorante.

Si sente colmo di alcuni segreti che spartisce parzialmente soltanto con il suo geometra, e per il resto ritiene il suo comportamento esattamente in linea con quello di parecchi altri, anche se la brama di lavoro, di soldi da reinvestire nell’azienda, e di quel poco di potere che gli fornisce il suo mestiere, lo fanno sentire quasi bene, importante, come chi riesce ad avere il fiuto e lo sguardo più sottili di altri imprenditori con i quali sa di aver da sempre intavolato una vera competizione, senza alcuno scrupolo. A volte si ritrova a fingere, con tre o quattro di loro con cui spartisce la medesima sorte, e che generalmente sente per telefono, di non avere mai collegamenti con nessuno tra coloro che tengono in mano ciò che conta veramente nel settore, forse perché sa che è normale dire sempre così, in qualsiasi caso.

Mentre è da solo il signor Chelli pensa anche al futuro, anzi soprattutto a quello: ma mai a qualcosa che vada oltre al prossimo mese, grossomodo. Dopo si vedrà, riflette, ci sarà il tempo per escogitare qualcos’altro, magari per trovare degli alleati giusti con cui condividere le sofferenze eventuali, i momenti più difficili. L’importante è adesso: pagare le prossime fatture che arriveranno, ammorbidire il direttore della banca per avere ancora del credito, consegnare nel giorno giusto le buste paga agli operai; e poi farsi vedere sempre serio da tutti quanti, ma mai davvero preoccupato, perché nella sua ditta tutto procede bene, proprio come è stato già ampiamente previsto. Ci sono davanti ancora tanti anni di lavoro per me e per questa azienda, pensa ancora; basta avere sempre il giusto equilibrio tra tutti gli elementi che compongono l’insieme. Il resto poi è dato soltanto da un pizzico di fortuna, almeno quando tutto sembra proprio mettersi bene; oppure esattamente il contrario, sfortunaccia maledetta, quando non resta proprio altro che quella parola così lontana dalla mente ma così paurosa: fallimento.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Sconforto evidente

 

         “Le cose stanno andando sempre peggio”, dice quasi con ironia il geometra riferendosi alla segretaria dell’impresa, durante un momento in cui paiono rimasti da soli negli uffici dell’azienda. "Le commesse favorevoli purtroppo sono sempre di meno, le spese sembrano moltiplicarsi ogni mese che passa, e in mezzo a tutto questo gli operai si sono messi a fare gli imbecilli". La segretaria con mezzo sorriso sulla faccia continua a scartabellare le sue fatture da registrare, tenendo costantemente gli occhi bassi; poi esce per un attimo da dietro la sua scrivania e lui la prende per un braccio, la tira leggermente verso di sé, lasciandosi respingere con semplicità, sia pure con una certa delicatezza nei comportamenti. "Le cose si sistemeranno", gli dice lei un attimo dopo, guardandolo fisso come per evidenziare che a lei farebbe anche piacere, lì su due piedi, concedere a lui qualche smanceria, ma che non è proprio possibile. "Il signor Chelli saprà sicuramente trovare la strada giusta, come sempre è successo anche in altri periodi critici".

In quell’attimo rientra in sede l'assistente di cantiere, percorre il breve corridoio vetrato senza fare troppo rumore, poi entra nel suo ufficio, ed appoggia la sua borsa sopra ad una sedia. Non dice niente, sa che  sicuramente c’è qualcuno a lavorare nelle altre stanze degli uffici, ma a lui non interessa, sa che deve preparare e mettere in ordine la contabilità degli ultimi giorni, ed è disposto a portare avanti il suo lavoro, indipendentemente da tutto il resto. Fa capolino il geometra alla sua porta, ma soltanto per dirgli: “il signor Chelli ci vuole vedere più tardi, tutt’e due, e non penso sarà per qualcosa di semplice soluzione”. L’assistente lo osserva per un attimo, fa un cenno affermativo con la testa, infine si rimette immediatamente a svolgere quei suoi conteggi.

Intanto anche il magazziniere si è fatto vedere lungo il corridoio, ma soltanto per un attimo, giusto per spiegare in fretta alla segretaria che ci sarebbe da ordinare un certo materiale di cui sono quasi terminate le loro scorte, e tutto quanto velocemente viene da lei annotato, fino a far ripiombare subito dopo i locali nel silenzio. L’aria è tesa, inutile anche dirlo, e chiunque in casi come questi abbia voglia di dire qualcosa, lo fa a suo rischio. Infine il geometra va via, dice che deve andare a visionare non si sa che cosa, così accende una sigaretta prima di uscire, e poi sbatte quasi la porta, come per un improvviso effluvio di nervosismo.

Dopo qualche minuto la segretaria, quasi per uno sbaglio nel cercare qualche cosa, si fa vedere sulla soglia della porta dell’assistente. “Ciao”, gli dice, usando però una voce calma e bassa, quasi quella di un’amica che cerca di fargli qualche confidenza: “sembra proprio che tiri una certa ariaccia in questi uffici; a te non so che cosa sembri, però il geometra pare piuttosto agitato, come se gli girasse per la testa qualcosa che resta piuttosto difficile da comprendere, quasi se avesse delle novità che non riesce proprio a condividere con gli altri”.

“Non so”, fa lui con l’espressione di chi sta riflettendo seriamente; “però a me risulta che i problemi dell’azienda in questo momento siano tutti facilmente superabili, si tratta soltanto di qualche stato di avanzamento dei lavori che deve essere ancora liquidato, ma niente di più”. “Ma tu allora credi forse che il geometra abbia magari dei problemi propri, qualcosa che vada oltre il suo lavoro in questa ditta”. “Non so proprio che dire”, fa l’assistente, “però lui non mi pare il tipo di individuo che se la prenda troppo per le difficoltà aziendali; per cui è strano che sia agitato, forse ha soltanto qualcosa di personale che a noi non è dato di conoscere”. La segretaria a questo punto esce dalla stanza, e nel gesto che compie ritirandosi, mostra evidente una certo sconforto.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Conoscenze dirette

Il senso di liberazione che lui prova ogni sera, quando riesce finalmente a venir via dagli uffici aziendali dove ha lavorato per tutto il giorno, e quindi raggiungere la sua abitazione, si stempra velocemente e con semplicità nello smarrimento che avverte quando si ritrova da solo nelle sue due stanze fredde, buone soltanto nello spingerlo ad aprire il frigorifero per accorgersi immediatamente di non avere quasi appetito di fronte alla prospettiva di dover obbligatoriamente cucinarsi qualcosa di poco invitante. La riserva di entusiasmo messa da parte in tutta la giornata per quel preciso momento, diventa in questo modo una nuova delusione, tanto da spingerlo soltanto verso le notizie quotidiane della televisione, lontane ed impersonali.

Così decide rapidamente, come spesso succede, di indossare di nuovo la giacca ed andarsene fino al bar sotto casa, dove farsi scaldare un paio di tramezzini e fare magari due chiacchiere con qualcuno che sfoglia svogliatamente il giornale sportivo, o che osserva le persone che passano sul marciapiede fuori dalla vetrina dello stesso locale. Ha degli amici con cui qualche volta si vede di sabato sera o durante la domenica, ma abitano tutti piuttosto lontano, e non è il caso di telefonare a qualcuno di loro soltanto per stemprare quel suo senso di inutilità. 

Poi dice al cameriere, quasi con un automatismo, che non ne può più del suo lavoro, e che si sente sempre di più preso nel mezzo, esattamente tra la logica degli operai e quella dei proprietari. L'altro lo guarda, è difficile stare in una posizione del genere pensa, però si limita ad annuire, come volesse aggiungere che ognuno comunque ha i propri guai, e che forse bisognerebbe mostrare il coraggio di rifiutare delle situazioni del genere. L'assistente di cantiere sembra intuire il suo pensiero, così mentre continua a masticare il suo panino, dice che nella scelta lui per sua indole starebbe sempre insieme ai lavoratori manuali, ma che purtroppo non è mai conveniente. L’altro sorride, poi va dietro al banco a preparare un caffè.

Non posso rifiutare questo lavoro al punto in cui sono, pensa lui con più calma; proprio adesso che sto imparando davvero qualcosa, che riesco a sentirmi abbastanza a mio agio mentre sono sui cantieri, ed ho anche assimilato la maniera migliore per stilare le varie contabilità. Devo soltanto imparare ad essere più indifferente alle cose che avvengono intorno a me, andare dritto allo scopo senza perdermi dietro le faccende che non mi riguardano. Forse non devo mostrare neppure che tengo troppo a questo posto di lavoro: potrei dare l’impressione di uno che si affeziona ai luoghi in cui si viene a trovare, che ha paura di non riottenere in futuro un lavoro del genere, così comodo ed anche piacevole, così come si immagina il nostro capo.

In ogni caso durante una discussione in merito, posso sempre tirar fuori al momento più adatto qualcosa di ciò che sono riuscito a sapere sugli appalti truccati e sugli affidamenti diretti avuti con una percentuale; potrei farne appena un accenno leggero, giusto di passata, come fa chi sa molto di più di quello che vuole spiegare, e che non può certo essere trattato come un pivellino che non conosce come si sta in questo mondo. Oppure potrei stare zitto, ed ascoltare senza battere ciglio tutto quello che mi viene spiegato: anzi, forse è più facile fare così, in fondo ci sono delle cose che proprio fino in fondo non si riescono mai a sapere davvero.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Rivelazioni

 

         Lui si siede, ma nonostante si senta leggermente fuori asse per riuscire a guardare bene in faccia il signor Chelli, ugualmente, come per mostrare l'accettazione completa della realtà che gli viene imposta in qualche modo, non sposta la sua sedia, restando insieme ad essa in una posizione leggermente voltata da una parte, quasi fosse poco interessato all’argomento di cui probabilmente si parlerà tra un attimo. Il geometra al contrario, come spesso in queste occasioni, prosegue a trastullarsi ancora un po’ nell'osservazione di qualche pagina riguardante chissà cosa, tenendo in mano un fascicoletto spillato già prima di sedersi, e poi continuando a sfogliare anche dopo, ma con maggiore sufficienza, quelle carte che adesso tiene sulle gambe.

"Che le cose non vadano benissimo", dice il signor Chelli, "lo sapete anche da voi. In ogni caso questa ditta ha visto momenti anche molto peggiori di questo, e sicuramente ha in sé tutti gli anticorpi giusti per reagire e per trovare la soluzione ad ogni problema venga sollevato". Il geometra sorride, forse trova questo preambolo assolutamente superfluo, oppure ne sa già talmente tanto che vorrebbe velocemente e con semplicità andare al sodo di tutta la faccenda.

L’assistente di cantiere comprende soltanto adesso che con evidenza questa chiacchierata è stata messa in piedi soltanto per lui, probabilmente per affibbiargli qualche ulteriore responsabilità, forse qualche nuovo compito, riflette subito, o magari solo per chiarirgli di nuovo quali siano i suoi doveri anche nei confronti delle squadre degli operai; oppure per comunicargli in modo morbido che lui non è la persona adatta a svolgere ancora quel ruolo per cui è stato assunto, e che nonostante sia già trascorso più di un anno da quando è entrato a lavorare in quella azienda, adesso si è verificata la situazione giusta per cui lui rassegni le dimissioni e lasci libero l’incarico.

Sa che a fronte di una riflessione di questo genere, gli prende normalmente un certo tremore nelle mani, così va a nascondere velocemente le dita sotto alle gambe, incaponito a rimanersene in silenzio. Poi torna a voltare la faccia verso la scrivania. “Dobbiamo parlare con tutti gli operai”, fa il signor Chelli, “e chiarire a tutti che non è proprio il momento di mostrare della fiacca sul lavoro. Vanno seguiti, dobbiamo far sentire loro che noi ci siamo, che li stiamo controllando, che saremo inflessibili con chiunque non porti avanti degnamente la propria funzione”.

Sa di retorica tutto quanto, ma ci deve pur essere un sostanziale punto di arrivo di quelle parole messe in fila, pensa l’assistente di cantiere mentre è ancora concentrato su ciò che possa riguardare qualcuno dei suoi compiti. "Dobbiamo affrontare un periodo”, prosegue il signor Chelli, “in cui il loro impegno, e naturalmente anche  il nostro, devono essere portati ai massimi livelli, se vogliamo risollevare le sorti dell'azienda; e per fare ancora meglio tutto questo, ho pensato di assumere una nuova figura, un specie di aiutante apprendista che si occupi delle parti maggiormente burocratiche della certificazione di qualità, delle annotazioni degli orari e degli strumenti di controllo del lavoro, e anche di qualche contabilità minore. Certo, sarà una spesa in più, ma sono convinto che le cose potranno filare meglio se saremo maggiormente presenti sui cantieri e se le nostre squadre di operai avranno una guida più decisa”.

Niente da dire, pensa l’assistente: una mossa a sorpresa che comunque fa già trapelare qualcos’altro che probabilmente sarà chiarito nei prossimi giorni dal geometra. In ogni caso va di sicuro tutto bene, forse anche troppo per quanto riguarda le sorti aziendali, sempre che queste novità non coprano qualcosa che per il momento forse è prematuro venga rivelato.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Tendenze negative

Immobile, sopra ad un solaio della futura abitazione ancora imbrigliato nelle casseforme, il geometra dell’impresa controlla con sguardo attento il corretto proseguire delle lavorazioni in corso. L'assistente di cantiere, mediante uno strumento ottico, raccoglie intanto le misure di tutti i manufatti già pronti, e va a segnarle su di un elenco che qualche giorno addietro ha predisposto con una certa cura, una griglia dove le quote adesso vengono sistemate in un ordine molto preciso e razionale. Gli operai oggi indossano ogni dispositivo di protezione individuale previsto dai responsabili della sicurezza, e qualsiasi manovra che compiono viene effettuata con attenzione e nel pieno rispetto di ogni regola. Nonostante tutto questo, si potrebbe dire, ieri si è verificato un incidente, non grave fortunatamente, ma ugualmente serio, ed evidentemente anche indice e spia di un certo nervosismo serpeggiante tra chi sta lavorando.

Il cantiere in ogni caso deve andare avanti, ed anche se con ogni probabilità ci sarà nei prossimi giorni un'ispezione dell'autorità per la sicurezza sul lavoro, ugualmente si procede con le operazioni che sono già state previste. L'assistente comunque è sempre rimasto convinto che chiunque svolga bene la propria attività non abbia mai nulla da temere, ma adesso in ogni caso forse nutre qualche dubbio sulla nota indole del geometra, sempre pronto a falsificare qualche cosa per trarne un certo utile. Giunge invece sul cantiere il direttore dei lavori, si accosta subito al responsabile tecnico, ed insieme annotano tutto quanto ciò che serve per una relazione dettagliata. Poco distante sta manovrando con pazienza una betoniera carica di calcestruzzo miscelato, e si comincia poco dopo con l'effettuare una nuova gettata di cemento.

L’operaio ferito infatti ha spiegato che non si è proprio accorto che dietro di lui si stava manovrando con la gru per sistemare un carico di mattoni forati per i tamponamenti delle pareti, e quando è caduto, spinto dalla massa del laterizio in leggero movimento, si è fratturato il braccio con cui ha cercato di proteggersi finendo a terra. Niente di speciale, ha detto subito il geometra, e comunque chi si fa del male sul cantiere d’ora in avanti verrà inserito in una lista composta da coloro che risulteranno in questo modo i meno affidabili. Qualcuno tra gli operai ha stretto i denti per non dare una risposta un po’ balorda, ed altri hanno alzato le spalle, come per mostrare che lavorando più lentamente e con maggiore attenzione ad ogni dettaglio a loro sicuramente non capiterà mai un bel niente, anche se ne risentirà la produzione.

Il clima quindi non è molto favorevole, come ha pensato diverse volte nella stessa giornata l’assistente di cantiere, e l’unica speranza che rimane per qualche positiva novità, è proprio l’introduzione della nuova figura di apprendista tecnico promessa dal titolare della ditta. Ha già visto passare dall’ufficio, nei giorni scorsi, alcuni ragazzi sicuramente freschi di diploma, ma forse i colloqui che sono stati fatti non hanno ancora dato l’esito sperato. Nessuno si fida ad informare il sindacato di quello che sta succedendo in questa impresa: la perdita del lavoro con una scusa o con l'altra sembra costantemente dietro l'angolo, e tutti pensano che non potrà essere di certo la presenza di altri burocrati sul posto di lavoro ad invertire la tendenza.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Nervi scoperti

 

         Appena l’ha intravisto, nel corridoio tra gli uffici, probabilmente gli è parso un tipo sveglio, ma contemporaneamente anche sfuggente, uno che non si sofferma per nessun motivo su qualche sciocca formalità, ma va direttamente al nocciolo delle cose. Proprio per questo ne è rimasto favorevolmente colpito, bisogna dire, anche se ha provato subito un forte senso di frustrazione, immaginando se stesso, in un confronto del tutto inevitabile con lui, incapace di stare alla sua stessa altezza, almeno per ciò che riguarda il proprio generale spessore di personalità, che ha considerato subito, almeno nei suoi confronti, piuttosto inadeguato. Gli ha stretto la mano sorridendo, quando il signor Chelli ha fatto le dovute presentazioni, poi si è messo sottovoce a spiegargli qualcosa, ingarbugliandosi un po' nella improvvisa consapevolezza di non aver mai descritto a nessuno i propri compiti lavorativi, almeno dal momento in cui è stato assunto presso quell'impresa.

Naturalmente è subito sopraggiunto anche il geometra, che con grandi complimenti ha preso sottobraccio il nuovo arrivato, mostrando così di possedere soltanto lui dentro di sé i segreti fondanti del mestiere, e con un atteggiamento insolito, a dire la verità anche piuttosto finto, lo ha portato insieme a sé, facendolo salire sulla sua macchina e dirottandolo verso il cantiere di lavoro in cui l'impresa edile è impegnata in questo periodo, sicuramente per aver modo di presentargli personalmente i caposquadra e tutti gli operai dell’impresa. La segretaria invece è parsa quasi completamente indifferente al nuovo arrivo, peraltro come è suo solito fare per tutto ciò che non la riguarda in modo diretto, e in ogni caso, cercando un qualsiasi argomento, ha avuto subito da lamentarsi, appena giunta in azienda, per il troppo lavoro accumulatosi in quegli ultimi tempi.

Forse le cose in generale potranno anche migliorare per l’azienda, ha pensato l'assistente di cantiere mentre riprendeva fedelmente da solo il suo lavoro alla scrivania; però è evidente che ci vorrà qualcosa in più di qualche semplice spartizione dei vari compiti. Lui, a dire la verità, non saprebbe indicare cosa sia in questo momento a non funzionare bene nelle tante attività della ditta, però è chiaro come nessuno possa dichiarare di avere delle soluzioni pronte in tasca. Forse i giorni prossimi mostreranno qualcosa di diverso per tutti quanti, ha pensato senza troppa convinzione; però secondo il suo parere la necessità maggiormente impellente è quella di una collaborazione migliore tra tutti, e soprattutto meno verticistica.

Quando l’apprendista ed il geometra sono poi rientrati in sede, non molto dopo, è parso che svariati aspetti tra i più importanti dell’azienda fossero ormai stati chiariti, e per questo motivo è stato deciso dal signor Chelli, com’era naturale, di far affiancare il nuovo arrivato, almeno per i primi tempi, proprio all’assistente di cantiere. Per questo loro due si sono messi subito insieme a studiare i progetti da portare avanti, e l'apprendista è sembrato attento e silenzioso mentre seguiva i dettami delle varie lavorazioni. "Sono forse in atto dei piccoli conflitti in questa azienda", ha detto improvvisamente il ragazzo dopo una mezz’ora, usando un tono basso ma già di perfetta convinzione, e dando alle sue parole anche un risalto da domanda diretta, nel mentre  persisteva un momento di silenzio dentro l’ufficio. E l'assistente, meravigliato, che avrebbe quasi voluto dire di colpo tutto quello che realmente gli passava per la testa, e che per tanto tempo aveva tenuto solo per sé, ha invece preferito, almeno sul momento, rispondere di no. Però probabilmente non è riuscito ad essere del tutto convincente, e l'altro si è subito reso conto comunque di aver toccato un preciso ed evidente nervo scoperto di quella loro ditta.

 

 

 

 

 

 

 

 

         Equazione della parabola

 

         Certo, la segretaria non appare troppo contenta di avere attorno a sé, da ora in avanti, un nuovo tecnico, nonostante si tratti di un giovane apprendista; proprio perché lo immagina, magari con piena sicurezza di sé, già pronto a girare tra quegli uffici della loro azienda curiosando probabilmente tra elementi già assodati, e magari traendo più di altri delle facili conclusioni sulle persone che là dentro vi lavorano. Le parevano sufficienti quegli impiegati già presenti in quella sede, visto che alla fine il geometra, l’unico vero professionista riconosciuto di tutta l’impresa, le sembrava avesse soltanto bisogno di un piccolo aiuto, quasi di un braccio fattivo che concretizzasse in reali attività le trovate della sua mente, di fatto incarnatosi già un anno prima nell’assistente di cantiere che era stato assunto, e non addirittura in due come invece è avvenuto. Però la sua forse è soltanto una forma di puro egoismo, visto che a lei in fondo piacerebbe in assoluto ci fosse il minor numero di preoccupazioni tra quegli uffici, e soprattutto che là dentro regnasse, almeno per tutto il tempo che ci trascorre, un po’ più di calma e di tranquillità. Invece questa importanza concessa dal signor Chelli al suo responsabile tecnico, assumendo per lui un altro aiutante, bisogna dire che alla segretaria prima di tutto fa montare una certa rabbia, come una specie di gelosia, che certe volte non riesce neppure a contenere troppo.

         Il geometra peraltro non si è più soffermato a bisbigliarle qualcosa di carino negli ultimi tempi, e lei, con il suo modo di fare in apparenza superiore ed indifferente a tutto ciò che circonda la sua scrivania, ha invece registrato perfettamente queste sue piccole mancanze, quasi uno scivolare inevitabile verso un possibile futuro disinteresse. In fondo lei sa benissimo che se al signor Chelli va mostrato il miglior lato timido e sognante per averlo completamente dalla propria parte, al tecnico invece non si può certo far vedere qualcosa di così etereo. Non c’è stato molto tra loro, questo è vero, però il sottinteso che serpeggia tra quelle stanze nei momenti in cui è ancora possibile lanciare uno sguardo o una piccola parola appena sussurrata, diventano spesso per lei quasi il motivo essenziale per proseguire ancora a portare avanti il proprio lavoro. In certi giorni si strugge, deve confessarlo, ma lo fa in silenzio, senza mostrare assolutamente niente di sé.

         Sembra quasi una piccola forma teatrale, quel loro piccolo segreto, così tenuto ben stretto in ognuno, almeno nella maggior parte dei casi, salvo certe volte lasciar andare tra loro qualcosa di infinitesimale ed oscuro, ma soltanto in casi sporadici, in attimi del tutto inaspettati, forse addirittura motivati molto semplicemente dal bisogno di tenere in qualche modo ancora accesa la fiamma. A lei certe sere le è persino venuto in mente qualche tentativo per incuriosirlo, lanciargli dei piccoli segnali per vedere quale fosse la reazione dell’altro. Ma non è proprio il suo stile, e nei confronti del geometra deve dire che ha sempre avuto l’atteggiamento di colei che resiste il più possibile alle sue lusinghe, e non può certo cambiare posa improvvisamente.

         Così le giornate lavorative proseguono, e se qualcuno nutre la speranza che questo nuovo ragazzo si trattenga il meno possibile in ufficio, trascorrendo la maggior parte del suo tempo con gli operai sui cantieri di lavoro edile, di fatto anche quel poco che probabilmente trascorrerà alla scrivania potrà dimostrarsi un vero impiccio per chi non vorrebbe mai avere qualcuno intorno, a meno che tutto questo per ragioni al momento inaspettate, non si dimostri un aiuto, una spinta, una possibilità in più per rilanciare una relazione del tutto clandestina, che sembra forse stia percorrendo una fase da parabola discendente.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Novità in vista

 

         “Non è più aria per me”, dice lui sorridendo ad un amico che incontra certe sere mentre porta fuori il suo cucciolo canino. “Al capo della ditta ho fatto assumere un paio di ragazzi che al momento non sanno fare quasi niente, ma poco per volta impareranno senz'altro qualcosa, e tra non molto saranno più o meno pronti per portare avanti le cose anche da soli. L’impresa poi è piccola, non ci vuole molto per gestirla. Contemporaneamente io mi guardo in giro, faccio qualche telefonata, sondo il terreno, ed appena scappa fuori la proposta più allettante circa un posto di lavoro per capo geometra di cantiere, magari in qualche grosso appalto nel circondario di questa città, immediatamente me ne vado, senza mettere in mezzo troppi preamboli”.

La serata è bella, il cane continua a fiutare strane piste lungo file di angoli e di alberi intorno a tutto il vicinato. Lui è sereno, i suoi posti di lavoro li ha sempre visti come momenti di rapida preparazione a qualcos’altro, fin da quando ha iniziato da giovanotto col portare la borsa a quei palazzinari degli anni buoni, quando certi personaggi avevano un grande potere incontrastato, talmente potenti da farsi vedere solo raramente sui cantieri, dei veri miti, tanto supremi dirigenti del lavoro da riuscire a rendere la loro presenza tra gli operai praticamente inutile.  

“Non me ne è interessato quasi niente fin da subito delle sorti di questa azienda”, dice ancora. “Certo, ho cercato di far andar le cose per il verso giusto, ho avuto sempre un occhio di riguardo per gli utili di impresa nelle mie contabilità, per lasciare costantemente dei soldi in banca al nostro capo, e forse qualche volta ho strizzato un po’ la mano d’opera, tagliando via agli operai qualche straordinario dalla busta paga, dimenticando ed omettendo dei rimborsi, facendoli dormire in qualche ruvida baracca quando c’era da lavorare in luoghi di trasferta. E poi ho sempre lesinato su tutte le sicurezze di cantiere e sui vari corsi antincendio, tutta roba inutile, senza alcun seguito”. 

Intanto si accende una sigaretta, richiama il cane con un fischio, si volta e torna a sprofondare le mani nelle tasche. “Fanno tutti così”, dice in un soffio al suo amico. “Non c’è mai da meravigliarsi; tutto quello che è possibile fare per fregare qualche quattrino al prossimo, se conosci l’ambiente, è messo bene in evidenza soprattutto sui cantieri di edilizia. Piccole cose, se l’azienda è piccola. Enormi cifre se invece è grande”. L’altro sorride, immagina che il suo vicino di casa certe volte esageri, però gli piace sentirlo parlare delle sue esperienze di lavoro, perché si rende conto sempre più che c’è tutto un mondo ignorato completamente da chi non fa parte del settore.

“Primo o dopo comunque, dovrò iniziare a pensare al mio secondo futuro”, prosegue il geometra. “Non posso certo proseguire fino alla pensione a stare con i piedi dentro alle scarpe antinfortunistiche, e a trattare ogni giorno con operai che a volte non sanno neanche scrivere. Mi troverò un ufficio come tutti i miei predecessori, e mi ci infilerò dentro a passare il tempo al caldo durante tutto l’inverno, consultando progetti e sezioni di impalcati, senza dannarmi più l’anima per tenere testa a qualche piccolo imprenditore con idee talmente grandi da non riuscire a contenerle. Non c’è niente di male in tutto ciò, il mio è un mestiere da nomade: stare fermo in un posto solo fino a quando è necessario, e poi via, al più presto, verso altri luoghi il più possibile diversi”.

L’amico sorride in silenzio, in sostanza senza riuscire a comprendere fino in fondo quelle scelte così particolari; il cane in quel momento torna indietro e si accosta ai due nella luce dei lampioni, praticamente dopo aver annusato tutto il territorio circostante; poi si fa rimettere il guinzaglio come per una sorta di abitudine, con normalità, senza minimamente protestare, quindi si prepara esattamente come il suo padrone a rincasare: la serata ormai è finita, sembra riflettere; domani forse ci potranno essere persino delle fresche novità.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Spinta in avanti

 

         Dentro all’ufficio del signor Chelli, nel corso degli anni, sono state anche prese delle decisioni importanti, in considerazione di una piccola impresa come la sua. Ma a lui generalmente non piace cambiare le cose da cui è circondato, preferisce sia la cruda realtà, in qualche maniera, a suggerire quali siano le piccole variazioni da apportare in azienda volta per volta, e in ogni caso nulla, per chi lo conosce, pare creargli una sofferenza maggiore che dover forzatamente modificare le piccole abitudini che nel momento attuale caratterizzano quasi tutto il suo mondo. Perciò le poche parole del suo geometra, in piena onestà bisogna concedere, con cui improvvisamente e senza preavvisi gli ha riferito che probabilmente tra qualche tempo potrebbe avere un’offerta per un posto di lavoro di maggiore spessore per la propria carriera, lo hanno gettato di colpo in una condizione quasi di prostrazione, nonostante abbia subito deciso di non parlarne assolutamente con nessuno, almeno fino al momento in cui riesca a restare segreta in azienda una notizia del genere.

         Va da sé che le attività sul cantiere, nel periodo seguente, sono rimaste esattamente le medesime quasi in qualunque dettaglio, ed anche il geometra stesso, che forse si sarebbe potuto immaginare meno determinato da quel momento in avanti nello svolgere il proprio lavoro, in realtà si è dimostrato estremamente fedele come sempre alle proprie funzioni, tanto da far dimenticare allo stesso signor Chelli, nel giro di poco più che una manciata di giorni, quello che le stesse orecchie del titolare dell’impresa avevano ascoltato nel corso dell’alba rosata di quella mattina, quando dentro alla sede aziendale a quell’ora non c’era ancora nessuno, ad esclusione di loro due. Né lui, e neanche l’altro comunque, nel periodo immediatamente seguente, è più rientrato parlando neppure per sbaglio su quell’argomento, lasciando tutto quanto come in sospeso, e le cose poco per volta sono sembrate scorrere avanti senza né strappi né ulteriori sorprese.

L’apprendista invece, negli ultimi tempi, è riuscito comunque a dimostrarsi all’altezza di tutte le aspettative, e l’assistente di cantiere, ormai con il suo piccolo bagaglio di esperienza e di conoscenze, sempre disposto a portare in avanti il proprio lavoro, tanto da riuscire a fare quasi a meno degli altri, compreso il suo superiore diretto. La segretaria ha proseguito come sempre con i suoi atteggiamenti da lavoratrice impegnata, e niente quindi è sembrato mostrare apprezzanti variazioni. Forse il signor Chelli è parso invecchiato in qualche maniera, però ogni impressione che è sempre riuscito a dare di sé anche in tante altre occasioni, non ha mai fornito strumenti adeguati per far interpretare in qualche maniera le sue vere preoccupazioni.  

Il magazziniere poi se ne è uscito improvvisamente, mentre beveva dell’acqua lungo il corridoio della sede aziendale, con una strana battuta, quasi sapesse qualcosa di più rispetto a chiunque di loro: "prossimamente saremo più soli", ha detto senza specificare meglio qualcosa, e se nessuno gli ha chiesto spiegazioni, lasciando cadere la frase nel completo silenzio, tutti di certo hanno comunque fatto qualche considerazione personale sopra quelle parole, anche se nessuno si è spinto così tanto in avanti da comprendere bene cosa intendessero. L'aria che circola adesso in quella ditta non è certo la migliore possibile, ma in ogni caso niente pare del tutto compromesso o irreparabile: il lavoro comunque procede, i cantieri ogni giorno sono totalmente in attività, ed ogni lavoratore impegnato in azienda spinge in avanti come sempre il proprio mestiere.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Giri di parole

Della vendita al dettaglio di sabbia, ghiaia, cemento, leganti vari per edilizia ed affini, si occupa quasi in autonomia il magazziniere dell'impresa, che rilascia fatture, scontrini e documenti di trasporto, ai clienti che giungono fin lì, manovrando i dati e le carte che servono, all’interno del piccolo ufficio ricavato in un box posto in mezzo al piazzale, dove sotto le imponenti tettoie costruite intorno, stazionano quasi tutti i materiali. Raramente qualcuno dell'ufficio va da lui, più facile il contrario, almeno quando non ci sono clienti. Perciò la segretaria sa benissimo di fare qualcosa di strano approfittando di quel momento in cui in azienda non è presente nessun altro, e quando arriva presso la sua postazione e gli chiede con fare amichevole come gli vadano le cose, le è chiaro perfettamente che l'altro soltanto nel caso ne abbia davvero voglia forse potrà dirgli, ammesso lo sappia, qualcosa di cui è a conoscenza, e che lei evidentemente vorrebbe sapere.

"Tutto a posto", risponde; "le cose vanno più o meno come sempre". Lui non sa se dietro a questa uscita insolita della segretaria ci sia o meno lo zampino del signor Chelli, e in ogni caso sa che è bene restare sulle sue per evitare dei problemi. “Mi chiedevo se tu fossi a conoscenza di qualcosa di nuovo”, dice lei senza dare troppa importanza alle sue parole, e l’altro, che invece comprende perfettamente che c’è qualcosa in ebollizione, cerca di riflettere velocemente per riuscire ad arrivare alla sostanza del problema. “Mi pare che il nuovo arrivato, questo ragazzo fresco di studi, si stia rapidamente adattando alla situazione; però non vorrei che ciò significasse altri spostamenti”. Lei si sente subito punta sul vivo, lui lo sa benissimo, ed anche se il magazziniere non la sta guardando direttamente, avverte l’improvvisa concentrazione di ogni attenzione della segretaria su di sé, come per percepire dalle sue espressioni qualsiasi possibile sottinteso. Poi sorride, e guarda qualcosa oltre il vetro, sopra al piazzale polveroso.

“Che cosa vuoi dire”, chiede sottovoce lei ma con modi diretti; “forse che ci saranno a breve delle variazioni d’organico, o che qualcuno magari andrà ad occuparsi di altri settori dell’impresa?”. Anche il magazziniere adesso sorride, proseguendo a mettere a posto qualcosa tra tutte le sue carte, ma alla fine si alza dalla scrivania dove sta il registratore di cassa ed il suo elaboratore, e guardando fissa l’impiegata le dice: “magari qualcuno potrebbe aver sistemato la strada per andarsene rapidamente da qualche altra parte”. Lei subisce il colpo, il magazziniere si accorge della situazione e così si volta per non imbarazzarla ulteriormente, ma la segretaria stringe i pugni come per allontanare da sé la cascata di pensieri che le stanno turbinando nella testa. "E perché mai dovrebbe essere così", dice quasi per allontanare il concetto, evitando di porre la domanda, ma quasi dando alle proprie parole il senso di una chiusura netta. Ma lui riprende subito il filo, e con voce apparentemente più debole, ma anche più insinuante, spiega: "perché qualcuno forse è venuto semplicemente a riferirmelo".

Basta, per la segretaria tutto questo è già più che sufficiente, così chiede distrattamente qualcosa su alcuni materiali presenti in magazzino, e poi rientra velocemente nell’edificio degli uffici, nello stesso momento in cui arrivano in ditta anche i tecnici dell’impresa. “Serve un poco di elaborazione”, pensa lei mentre torna sedersi alla sua scrivania. “E forse anche qualche domanda secca, che non presupponga proprio alcun giro di parole”.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Parole giuste

Il lavoro procede, anche se le giornate spesso riescono a dimostrarsi infinite. Ogni impresa edile ha senza dubbio una storia propria, un percorso preciso, un indirizzo tramite il quale le cose al suo interno prima o dopo sono andate manifestandosi nell’arco del tempo, generalmente tutte quante di derivazione diretta delle persone che hanno partecipato sia alla sua fondazione, antica o recente che sia, che alla sua esistenza, più o meno tormentata, rendendo piccolo, grande, o certe volte anche inutile, l'intero sforzo di tutti.

L’assistente di cantiere sembra contento della nuova situazione: seguire gli operai per lui adesso è diventato molto più leggero, da quando è arrivato l’apprendista a dargli una mano, nonostante sia soltanto un ragazzo. Anche il geometra, pur non concedendo mai alcuna soddisfazione a nessun altro dipendente dell'impresa, in questo periodo sembra piuttosto tranquillo, e forse anche maggiormente comprensivo persino nei confronti degli operai.

In fondo l’organismo complessivo della ditta è come una specie di macchina nella quale ogni ingranaggio svolge il suo ruolo, importante o meno che sia. Il signor Chelli conosce perfettamente questa struttura, ed è per ciò che prima di cambiare qualcosa riflette a lungo sull’opportunità di qualsiasi variazione. Che il geometra se ne vada, ormai è una notizia quasi di dominio pubblico, anche se ufficialmente nessuno ne sa niente, e soprattutto è poco chiaro a tutti il momento quando questo realmente accadrà, ed in quale maniera.

La segretaria più di tutti finge completa indifferenza, ed anche se dentro di sé vorrebbe affrontare a muso duro direttamente il geometra, invece riesce, nei limiti del possibile, a manifestare in ufficio un comportamento, anche nei suoi confronti, distaccato e professionale. Perfino lui, con una certa malcelata vigliaccheria, non ha neppure cercato di spiegare la sua nuova posizione, fingendo una normalità che probabilmente si tirerà dietro fino all’ultimo giorno di lavoro là dentro, limitandosi a salutarla dal corridoio, nelle ultime settimane, senza alcuna enfasi, ed evitando con cura di entrare nella sua stanza. La segretaria attende il momento opportuno, questo è chiaro, mentre lui cerca di spostare quell’incontro in avanti nel tempo.

Forse è proprio così che ci si comporta in certi ambienti, riflette la segretaria adesso, in qualche occasione: si usano le persone per renderci più piacevoli certe giornate pesanti, più interessanti le lunghe ore di lavoro monotono, più intriganti certi momenti, e poi alla fine si lascia tutto cadere da qualche parte, come un abito smesso, o la giacca di cantiere ad alta visibilità, gettata momentaneamente su una sedia dietro la porta, per essere ripresa magari solo nel momento in cui possa ancora servire. Probabilmente il geometra pensa questo adesso di lei: che si è divertita con lui qualche volta, naturalmente dietro le spalle del signor Chelli, e che è stato divertente, almeno fino a quando è potuto durare.

Ma la segretaria non si sente in questo modo, ed anche se capisce benissimo che non ha niente da chiedere in questo momento, e che se anche volesse sollevare la questione sarebbe soltanto lei a rimetterci qualcosa, ugualmente desidera puntualizzare la faccenda, ed anche se questa storia segreta tra loro due si può considerare già tramontata definitivamente, per lei adesso è importante almeno chiuderla bene, con le giuste parole.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Appalti al massimo ribasso

 

         L’orario è quello di ogni giorno, il magazziniere spegne il suo elaboratore ed anche la lampada sopra il piccolo tavolo dentro al box, poi prende tutti gli incartamenti che si sono accumulati là sopra durante la giornata, e dopo averli messi bene in ordine li porta nell’ufficio della segretaria, all’interno della sede. A quell’ora in genere lei è già andata via, e rimangono in giro soltanto il titolare ed i tecnici dell’impresa, normalmente intenti a preparare il lavoro per il giorno seguente, così lui appoggia i documenti sopra al piano della scrivania, dove in seguito verranno registrati, e poi con tutta calma se ne va. Mentre sta per uscire, naturalmente dopo aver salutato il signor Chelli seduto dentro la sua stanza con la porta aperta, il geometra però lo affianca in silenzio, quasi lo attendesse, come se avesse qualcosa da comunicargli, però da solo.

Lo accompagna senza dire niente fino alla sua utilitaria, lungo il parcheggio sterrato di fronte all’edificio, e dopo essersi acceso con calma una sigaretta, gli chiede in modo diretto se sia stato lui a spifferare a tutti le faccende che in questa fase lo riguardano. L’altro nega naturalmente, alza anche le spalle, spiega che lui è uno che si fa sempre i fatti propri, e non è usuale tra i suoi modi preoccuparsi d’altro, ma il geometra lo incalza, gli dice guardandolo deciso che sembra strano che oramai tra quegli uffici tutti lo sappiano che tra poco se ne andrà da quell’impresa, mentre era soltanto lui ad aver avuto questa confidenza. Il magazziniere lo guarda diritto a sua volta, ma non replica niente, come si fosse già spiegato, e non ci fosse altro da aggiungere; ma l’altro gli dice subito che in fondo non gliene importa neanche molto, visto che prima o dopo tutti quanti lo dovranno pur sapere. Il magazziniere sembra tirare un sospiro di sollievo, ed a quel punto gli fa: “comunque a me dispiace”, come se questo giustificasse altri comportamenti. Poi i due si separano, ed il geometra rientra dentro la sede dell’impresa.

Lui ha pensato di scrivere una lettera alla segretaria, o meglio lasciarle un messaggio da qualche parte, poche parole sintetiche che possano illustrare il proprio stato d'animo, ma così forse sarebbe come dare troppa importanza alla loro piccola storia, quell'importanza che fino adesso secondo lui non c’è mai stata. Ma anche incontrarla fuori da lì, dandole un appuntamento, a suo parere non andrebbe bene: magari si ritroverebbe ad affrontare una scenata, forse dovrebbe promettere qualcosa, e poi scusarsi e anche giustificarsi dei suoi comportamenti. Lui si sente profondamente una persona libera, e come tale giudica liberi anche coloro che gli stanno intorno. Perciò non farà niente, oramai ha deciso: prenderà tutte le sue cose uno di questi giorni, e chiuderà quella porta dietro le sue spalle, per andare ad intraprendere la nuova strada lavorativa che gli si sta delineando, con nuovi compiti, altre persone attorno, ed un’occupazione maggiormente interessante.

Il signor Chelli lo osserva dalla finestra mentre sta rientrando dal parcheggio, e forse in quello stesso momento comprende tutto quanto già con quella sua semplice occhiata: a lui non piacciono i segreti, le trame, i complotti sciocchi, e forse da quando il geometra gli ha manifestato la volontà di andarsene, ha iniziato lentamente a considerarlo un po’ di meno, come fosse già un esterno alla sua ditta. Però ancora di più non vorrebbe che le sue dimissioni portassero qualche altro scompenso nel resto del personale, perciò si affaccia lungo il corridoio, e mentre passa il tecnico gli chiede se per caso ci fosse qualcosa di cui sarebbe meglio fosse a conoscenza. “Niente”, dice il geometra già sulla difesa, “se non le solite piccole accortezze di lavoro che certe volte vengono dimenticate”. Il titolare annuisce, rientra lentamente dentro la sua stanza, torna ad interessarsi come prima della gazzetta, degli annunci di gare, degli appalti vinti al massimo ribasso da un’impresa o da quell’altra, ma non rimane affatto persuaso dalle parole che ha ascoltato.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Vicende discutibili

Quando viene via dal suo posto di lavoro lei si sente subito un'altra persona. È come se già avviando il motore della sua utilitaria, ed uscendo con attenzione dal parcheggio sterrato davanti alla sede dell'impresa edile, lei perdesse quasi tutte le sue caratteristiche di segretaria, per riprendere appieno i propri compiti di moglie e di madre di famiglia. Non perché in quella ditta non stia bene, oppure si trovi ad assumere dei compiti che non le sono congeniali: tutt’altro. Il suo è un atteggiamento puramente caratteriale, quello di chi veste semplicemente una maschera per affrontare certe cose, per poi cambiarla quando non le serve più. La sua vicina di casa da quando si è sposata si occupa soltanto della propria casa e del marito, e quando la segretaria rientra si fa quasi sempre trovare con la scopa in mano davanti al pianerottolo esterno al condominio, in modo da poterla salutare, per poi scambiare con lei qualche confidenza.

“Tutto a posto oggi”, le dice sorridendo, lasciando che l’altra magari le riferisca qualcosa del suo lavoro, degli incontri fatti durante il giorno, delle discussioni eventuali avute con i suoi colleghi. Lei le ha sempre spiegato almeno qualcosa del suo mondo lavorativo, quasi tutto si può dire, anche se qualche dettaglio ha lasciato semplicemente che se lo immaginasse. Anche la storia col geometra le è stata passata sottovoce, con parole misurate e guardando attentamente attorno, e la vicina adesso sa perfettamente che per lei non è un momento facile. Per questo cerca subito lo sguardo della segretaria quando questa scende dalla sua vettura di ritorno dal lavoro. E’ quasi una specie di solidarietà quella che si è stabilita tra loro due, e forse la loro amicizia non avrebbe quasi senso in mancanza di tutto ciò. "Oggi non c'era", ha risposto lei negli ultimi giorni con un tono basso, quasi distrattamente. L'altra annuisce, per il momento non ha bisogno d'altro.

La sua vicina è premurosa, essendo molto spesso a casa le fa molti favori, e poi sta dalla sua parte, fa il tifo per la segretaria sempre e comunque, ed in cambio le chiede soltanto le poche confidenze che lei spesso le regala. Ma stasera a lei non le va proprio di parlare, perciò mentre sistema l’auto al fianco del marciapiede e la intravede con la coda degli occhi sul portone, avrebbe già voglia di sbuffare, di evitarla in qualche modo, e soprattutto di sviare quelle sue domande dirette ed ammiccanti. Ma poi scende come sempre, maneggia le chiavi di casa con l’espressione seria, e quindi si sofferma un attimo: “Ciao”, dice prima che l’altra le chieda già qualcosa; “oggi è successo di tutto. Ho affrontato il geometra, e lui mi ha detto che non era il caso di prendersela tanto. Ed io ho gli detto solo che è una persona squallida, uno che sa solo giocare coi sentimenti delle persone. Poi sono venuta via dall’ufficio”.

L’altra non sa che cosa dire, la guarda, si accorge che probabilmente ha pianto, e comprende subito che quella storia nata quasi per la noia sul lavoro, forse ha assorbito la sua vicina più di quanto le fosse consentito, e che adesso questo crollo potrebbe addirittura portare delle conseguenze. Perciò si limita a metterle una mano sulla sua, guardarla in fondo agli occhi senza dire niente, e poi lasciarla entrare nel portone. Inutile per lei qualsiasi commento: anche se, vista così dall’esterno, tutta quella storia potrebbe sembrare soltanto una vicenda squallida.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Residuo attaccamento

Mentre resta seduto alla scrivania del suo ufficio per riflettere sui problemi della propria ditta, il titolare dell'azienda spesso è anche consapevole di tutti i limiti suoi e della sua impresa, ed è per questo che quando si sente proprio arreso di fronte a qualcosa di particolarmente complicato che riguarda con evidenza la sua attività, ricorda subito ai suoi dipendenti, in modo bonario e un po’ paternalistico, che fanno tutti quanti parte di una stessa famiglia; salvo tornare rapidamente ad essere colui che decide le cose essenziali senza neppure farsi consigliare, appena si sente leggermente più sicuro di se stesso. Sono oramai svariati anni che questa segretaria lavora nella sua azienda, e se anche certe sue impennate di carattere lui non le ha mai del tutto digerite, in ogni caso sa perfettamente che l'esperienza che ha maturato là dentro, e la conoscenza approfondita dei vari dettagli del proprio lavoro, rimangono sempre un importante valore aggiunto per lei come per qualsiasi altro lavoratore. Per questo anche se adesso storce la bocca immaginando qualcosa che non gli piace affatto, ugualmente non se la sente di affrontare o prendere delle decisioni al riguardo. Preferisce fingere di non sapere niente, di non essersi mai accorto di niente, in modo da non dover assumere una posizione particolarmente precisa.

Anche dal suo geometra non si sarebbe mai aspettato esattamente una cosa di quel genere, nonostante negli ultimi giorni si sia sentito gradualmente sempre più distaccato da lui; forse perché, nella considerazione di quella abilità che ha sempre registrato e cercato di mettere in evidenza da quando lui lavora per la sua ditta, probabilmente data anche dalla pregressa esperienza maturata da questo dipendente in una grossa impresa molto in vista in quella zona, cosa della quale come titolare si è sempre mostrato particolarmente orgoglioso, adesso, specialmente ripensando a certi casi dubbi verificatisi nel tempo, probabilmente non appare più ai suoi occhi il responsabile tecnico che aveva sempre desiderato e accettato con gioia all’interno del proprio organico. E peraltro, proprio questo geometra, anche negli ultimi giorni, in pratica non ha fatto proprio niente per cercare di smontare quel disegno antipatico e da menefreghista che si è venuto via via a modellare attorno alla sua figura. Lui se ne va, pensa adesso il suo capo, e forse non c’è addirittura alcun bisogno di augurargli qualcosa di brutto.

Per quanto riguarda la sua segretaria invece, le cose indubbiamente stanno in maniera diversa. Lei manipola soldi sotto forma di finanziamenti bancari, fatture da riscuotere, contabilità da portare all’incasso: per lei tutta l’impresa, a fronte di questi motivi, deve coltivare una indubbia fiducia, non è proprio possibile un comportamento diverso. Per questo motivo lui, il signor Chelli, intestatario e responsabile di quella barca della quale la navigazione certe volte appare un po’ oscura, non può fingere indifferenza rispetto a qualcosa che non gli pare assolutamente possibile tenere nascosto. Perciò il suo proponimento, fin da quando si potrà presentare l’occasione maggiormente propizia, è esattamente quello di affrontare con lei precisamente quel tema, senza alcuna finzione o parola di riguardo, andando subito al sodo, cercando di comprendere le motivazioni sotterranee del suo comportamento, e soprattutto valutando l’attaccamento residuo all’azienda di cui almeno per il momento lei ancora fa parte.

 

 

 

 

 

         Timidezze perse

 

In fondo non me ne importa proprio niente, dice tra sé il geometra mentre guida con leggerezza l’auto aziendale che a breve peraltro dovrà restituire. L’impresa se la caverà benissimo anche senza di me, ne sono certo, ed il signor Chelli molto presto saprà ben scegliere a chi dover destinare dopo di me la propria fiducia. Se soltanto la segretaria fosse stata meno sciocca in questa fase, per noi adesso potrebbe essere l’occasione per vedersi ancora almeno qualche volta fuori da là dentro, ma purtroppo lei non ha forse tutto il cervello adatto per comprendere che le mie scelte di lavoro non possono dipendere da una qualsiasi storiella tra gli uffici, anche se forse non immagina quanto a me in fondo dispiaccia che in questo momento lei cerchi di evitarmi quasi del tutto. Magari basterà far trascorrere qualche tempo, lasciar depositare un po' di polvere, ed anche lei forse riuscirà a cambiare idea, a sentirsi meglio, perché alla fine anche se non le ho certo spiegato questo aspetto, a me indubbiamente non fa certo piacere perderla del tutto. Probabilmente tra due o tre mesi inizierò a telefonarle qualche volta, mettendo avanti una scusa oppure un’altra, e magari lei a quel punto si sarà già completamente tranquillizzata nei miei confronti.

Adesso mi dispiace fare il duro, pensa ancora il geometra, e la mia indifferenza nei suoi confronti evidentemente è soltanto una reazione, però in questo momento sono anche uno sciocco nel credere che avrei potuto spiegarmi con la segretaria, almeno prima che lei venisse a sapere che me ne andavo da questa ditta dalla bocca di chissà chi, magari direttamente da quella del signor Chelli, il quale certamente non avrà mancato di guardarla bene in fondo agli occhi per comprendere quale effetto facessero su di lei le sue parole. Sicuramente lui ha intuito tutto quanto già da un certo tempo, ma come è suo costume ha senz'altro sospeso ogni giudizio. Comunque non vedo l'ora di andarmene da questa azienda, riflette ancora il geometra; troppa monotonia si respira là dentro, troppe giornate, gesti, discorsi, discussioni tutte identiche, come fosse del tutto impossibile aprirsi un po' a qualcosa di diverso. E poi anche questa segretaria, che d'improvviso tira fuori tutta una maschera di sentimenti feriti quando era evidente da sempre che il senso delle cose tra noi due stava soltanto nel divertirsi un po', fare qualcosa di proibito alle spalle del nostro capo e un po’ anche di tutti gli altri, giusto per ritrovare in mezzo alla noia di ogni giorno una certa libertà, un pizzico di autonomia dai ruoli ingessati appena consentiti dall'impresa.

Non posso neppure considerare questa storia che si spezza con un vero e proprio rimpianto, pensa il geometra. Il mondo del lavoro è fatto in questo modo: ognuno approfitta quanto può di ogni occasione che si presenta, inutile fare tanto i sentimentali. Anzi, se ti mostri agli altri come un debole, è proprio il momento in cui tutti, in un modo o nell’altro, approfittano di te, fino a ridurti ad un poveraccio che si trascina nei corridoi cercando da qualcuno una parola di conforto. No, è escluso, non fa per me. Bisogna sempre anticipare i tempi, approfittare di tutto ciò che si presenta fin quando il momento è quello giusto, e poi mollare subito ogni cosa, senza neppure guardarsi indietro. Sono stato anche troppo buono nel costruire poco per volta il tecnico, pur ancora un po’ giovane, che in questo momento può iniziare già a sostituirmi, e prendere in mano il difficile ruolo di quello che sta in mezzo tra il titolare e gli operai. Ce la può fare, se segue a puntino tutto quello che gli ho spiegato, e se la può cavare bene se tira fuori la grinta che ci vuole. E forse può anche sostituirmi persino con la segretaria, magari per cercare di consolarla un po’ di certe sue amarezze. Si, è vero, forse è un po’ giovane, ma in fondo l’elemento più importante in queste cose è non andare mai troppo nel sottile, e buttarsi sempre in avanti, senza alcuna timidezza.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Dati segreti

 

         Esistono molti pensieri che riescono a girare nella mente di un lavoratore nell’attimo in cui percepisce che qualcosa potrebbe cambiare nella sua attività. E magari far migliorare tutte le sue giornate, facendogli assumere un ruolo più determinante, magari salire di grado nella gerarchia dei dipendenti, ritrovandosi quindi a fine mese con uno stipendio migliore, più potere, e forse ad avere anche più libertà nei suoi compiti, e addirittura persino negli orari di lavoro da rispettare. Lui perciò si limita ad attendere, e sorride a tutti, fa del proprio meglio riguardo qualsiasi cosa si debba occupare, e poi cerca di stare molto ben attento a tutto quello che avviene intorno a lui, come se dipendesse proprio da quello il suo futuro. All’assistente di cantiere gli è giunta la voce che il geometra è prossimo a dare le dimissioni ed andarsene in un’altra impresa edile, ed anche se ha finto di non credere alle chiacchiere di corridoio, ha subito iniziato a pensare alle possibilità che gli si possono offrire per la sua carriera. Per certi versi gli pare tutto anche troppo affrettato, ma quello che soprattutto non comprende è il motivo per cui il titolare della ditta dove lavora non lo abbia ancora interpellato, almeno per fargli sapere che cosa stia succedendo, visto che lui svolge in quell’impresa il ruolo più vicino al presunto congedante.

         Non ci vorrebbe poi neppure molto, almeno per lui, per assumere il ruolo di quel suo capo diretto, il responsabile tecnico della ditta; si tratta quasi esclusivamente di comprendere bene che cosa gli venga offerto nel cambio. A lui non interesserebbe neppure guadagnare molto di più, oppure avere l’auto aziendale a disposizione al posto della vecchia utilitaria che è costretto ad adoperare in questo momento per recarsi sui cantieri. Però in quell’ambiente sembra proprio che tutto abbia un prezzo, e colui che non riesce ad ottenere il corrispettivo maggiore anche per una qualsiasi sciocchezza, viene subito svalutato, tenuto poco di conto, come uno che non riesce a farsi valere. Non ha le idee troppo chiare l’assistente di cantiere, questo è evidente, e comunque tutta la mole di pensieri che sembrano così riottosi ad abbandonarlo, gli pongono continuamente il quesito fondamentale, e cioè se davvero tra poco sarà tutto proprio come immagina, o se per un qualche motivo che adesso lui non ha considerato, le cose al contrario si metteranno in tutta un’altra maniera. Per questo cerca di decodificare qualsiasi segnale possibile, specialmente in relazione ai comportamenti del signor Chelli, anche se niente fino adesso pare dargli una qualsiasi spiegazione.  

         Poi, in un momento in cui lui resta in ufficio per sistemare la programmazione dei lavori, lo avvicina la segretaria con una scusa riguardo un conteggio, e gli chiede poi sottovoce ma in modo diretto se sa qualcosa del loro geometra. L’assistente scuote la testa, gli pare quasi assurdo che sia proprio lei a venirgli a chiedere qualcosa di quella faccenda, ma gli sembra subito che le cose stiano girando anche troppo velocemente per permettergli una comprensione più chiara. “Si dice che vada via”, fa lei ad occhi bassi; “però non si sa come potremo fare noi nel futuro”. “Il titolare assumerà qualcuno per sostituirlo”, gli viene da dire all’assistente come per togliersi un peso da dosso, però immagina subito di aver compiuto in questa maniera un passo falso, come a mostrare che lui non se la sentirebbe neppure di prendere il suo posto. La donna adesso lo guarda, si allontana di un passo, poi si volta con rapidità tenendo ancora davanti a sé i fogli che aveva fin dall’inizio nelle sue mani, e mostra così di aver stillato perfettamente ciò che intendeva sapere.

 

        

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Soluzioni favorevoli

 

         Alla sera, quando rientrano in sede, gli operai dichiarano sempre di essere troppo stanchi per parlare, e di avere perciò poca voglia di trattenersi presso la ditta. Inutile attenderli nei magazzini per farsi spiegare qualcosa del lavoro che hanno portato avanti nella giornata. Rispondono sempre a monosillabi e sono a dir poco sfuggenti. Soltanto un caposquadra qualche volta si ferma un momento per spiegare all’assistente di cantiere di che cosa probabilmente ci sarà bisogno per il giorno seguente. Poi basta, va via anche lui con la sua divisa sporca e le mani dure, callose, come quelle di tutti gli altri. Certe volte sono decisamente insopportabili con la loro maniera semplicistica di affrontare le cose. Ma in altri casi all'assistente piacciono: con poche parole mostrano già il loro pensiero, e in qualche caso è sufficiente comprenderli persino con una singola espressione.

Ci sono stati anche dei momenti difficili in tempi recenti, il geometra agli operai li ha sempre trattati tutti in maniera decisamente pesante, con il pugno duro, e loro qualche volta si sono persino ribellati, almeno fino al punto che in qualche modo ritenevano consentito. Adesso però che il capo dice di andarsene, probabilmente le cose potranno mostrarsi molto diverse: saranno forse possibili altre soluzioni, oppure degli accomodamenti differenti. L'assistente non sa se quella usata dal geometra sia l'unica maniera di comportarsi con loro, o magari se invece è possibile essere più morbidi ed anche comprensivi. A lui non riesce fare quello che se ne frega degli altri, che non è mai interessato ai problemi che possono avere tutti, ed all'altrui sensibilità: per il geometra ciò che ha avuto valore è stato sempre soltanto il risultato, e che fosse un operaio dell'impresa, oppure anche un subappaltatore a dover svolgere un certo compito, per lui è sempre stato fondamentale ciò che doveva essere fatto, e nient'altro.

Certo che ci possono essere altri modi di comportarsi, l'assistente di cantiere lo ha sempre pensato, specialmente nei momenti in cui è stato costretto ad essere presente durante qualche pesante lavata di testa. Ma adesso che probabilmente toccherà a lui assumere la responsabilità dei lavori, non sa più se sia quella la maniera migliore di comportarsi, o se invece sia possibile un modo almeno genericamente più comprensivo. Probabilmente a lui non riuscirebbe affatto tenere un contegno paragonabile a quello del geometra, ci sono dietro delle motivazioni di personalità, e forse è proprio questo l'elemento più rilevante di tutta la faccenda. Non si può balbettare davanti agli operai per poi dirgli che sono degli inetti o peggio dei fannulloni. Si può soltanto schierarsi con loro, in quel caso, se si sa che non sarà mai possibile tenere loro testa. Si può adottare un metodo più ruffiano, se si vuole, e mostrare il proprio potere evitando di sbatterlo sul muso a qualcuno, anche se resta l'incognita dei risultati.

A questo punto forse hanno saputo anche loro che il vecchio geometra lascerà presto l'impresa, e molti tra questi operai tireranno sicuramente un sospiro di sollievo. Però qualcuno tra loro si sarà già chiesto chi sarà nominato al suo posto come responsabile tecnico: forse l'attuale assistente di cantiere, avrà suggerito qualcuno, oppure verrà assunta una nuova figura professionale, avranno detto altri. Alcuni poi avranno sorriso pensando alla prima soluzione, altri si saranno sfregati le mani immaginando un futuro tranquillo e privo di quegli ammonimenti severi a cui erano stati abituati. Tutti hanno iniziato a guardare l'assistente con nuovi occhi, ma il solito caposquadra avrà pensato anche per gli altri: “siamo noi che portiamo avanti le cose, avrà detto, e in un modo o nell'altro saremo noi a dover portare avanti l'azienda”. L'assistente non conterà nulla se decideranno in questa maniera; oppure sarà il loro alleato se proprio questa appare la soluzione migliore.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Acquisizione di fiducia

 

         Sono già tre giorni che il geometra non si fa vedere nell’azienda. Nessuno dice niente, ognuno prosegue semplicemente a svolgere le proprie funzioni come sempre. Gli operai sul cantiere, peraltro, ultimamente sono andati avanti piuttosto spediti con i lavori, e c’è stato addirittura bisogno di ordinare una nuova betoniera di calcestruzzo con la pompa per iniettarlo nelle casseforme, così da effettuare la gettata di un solaio già perfettamente armato e pronto: l’assistente ha cubato in modo corretto le quantità di materiale che servivano, ed alla fine tutto è andato bene. L'apprendista più volte ha chiesto qualcosa sottovoce, forse preoccupandosi per l’assenza del responsabile tecnico, ma poi si è dato da fare per ciò che lo riguardava, e si è reso conto anche lui che in quel momento non c'era proprio bisogno di nessun altro.

Il signor Chelli in questi giorni è sempre rimasto chiuso dentro al suo ufficio, e in ogni caso tutto quanto nell'impresa è parso filare nel solito modo, senza particolari scossoni. Ma l'assistente di cantiere sicuramente adesso sta meditando di affrontare per primo l'argomento: andare da lui con modi cortesi ed in punta di piedi come è suo solito, ma senza mezze parole chiedergli se per caso d'ora in avanti tutti in azienda si ritroveranno a fare a meno del loro geometra, proprio come sembrerebbe. Non è una differenza di poco conto, secondo il suo parere; le responsabilità che ricadono sulla testa di tutti gli altri impiegati ed operai è piuttosto grande senza la sua figura, ed almeno una parola di chiarezza da parte del titolare in questo momento potrebbe essere utile, quasi necessaria. A fine mattinata perfino la segretaria è stata vista parlare a bassa voce con il magazziniere, e sicuramente l'argomento affrontato non era molto distante da quello che sta passando dentro alla testa anche di tutti gli altri lavoratori dell’impresa.

Il signor Chelli con i suoi modi pacati e un po' oscuri potrebbe comunque rispondere che non c'è niente di non detto, che bisogna soltanto avere un poco di pazienza, che le cose si aggiusteranno, e di lavoro per l’azienda sembra proprio che ce ne sia ancora tanto nel prossimo futuro, e che basta stringere un po' i denti, impegnarsi a fondo, e che tutto si sistemerà. La segretaria si muove nel corridoio tra gli uffici tenendo gli occhi bassi: probabilmente anche lei è sorpresa della situazione; il geometra sembra evaporato, e senza spiegare niente a nessuno è andato via, forse già in un'altra impresa, magari in una ditta concorrente, e chi rimane in questa azienda adesso è costretto a farsi carico di tutto, anche di quelle che erano le sue specifiche attività.

Poi, a fine giornata, quando gli operai sono già andati via e dentro la sede è rimasto soltanto l’assistente di cantiere e il signor Chelli, arriva il geometra con la sua solita espressione sulla faccia. “Adesso tocca a te”, dice al suo subalterno mentre sono da soli. “Però non preoccuparti: se hai dei dubbi riguardo qualche lavorazione, puoi sempre telefonarmi, in qualsiasi momento, e per il resto hai tutte le capacità per affrontare in maniera adeguata qualsiasi problema. Sei in gamba, te la puoi cavare bene, gli operai impareranno presto a rispettarti se ti fai sentire più deciso, e al signor Chelli fra qualche tempo potrai anche chiedergli un piccolo aumento di stipendio, considerato tutto quanto. Non ci sono preoccupazioni, tutto filerà per il verso giusto, ed in fondo da ora in avanti anche per te le cose potranno soltanto migliorare”. L’assistente non trova niente da ribattere: ora si è alzato in piedi, lo ha guardato negli occhi appena per un attimo, poi ha mosso qualcosa con le mani sopra al piano della sua scrivania, e poi, dopo una specie di lungo sospiro, quasi per decidersi ad una risposta meditata, dice soltanto che va bene, e in fondo non c’è proprio altro da aggiungere.

 

Bruno Magnolfi

 

 

 

 

 

 

 

 

 


Bionda, naturalmente

Bionda, naturalmente

 

 

 

 

Il mare era immobile, e muovendosi lentissimamente una nave petroliera lungo la linea dell’orizzonte, dava traccia di sé solo per un esile filo di fumo bianco e sembrava solcare esattamente il limite di quel mare, come fosse una sagoma grigia di cartone a strisciare lungo uno sfondo di carta celeste e luminosa. Nonostante l’ora mattutina e la sabbia che aveva conservato il fresco e l’umido della notte che persisteva sotto ai piedi di quei pochi che erano già in spiaggia, guardando con occhio esperto il colore chiaro del mare, si intravedevano già le righe scure di brezza che di lì a poco sarebbero sopraggiunte svogliatamente dal largo, proprio lungo la linea immaginaria che congiungeva quella stessa spiaggia con la nave petroliera all’orizzonte, attraversando risolutamente tutto lo spazio fino al bagnasciuga. In tutta quella calma le proporzioni degli spazi aperti apparivano appiattite, quasi che un senso di ristretto, come aver tutto a portata di mano, avesse ridotto le lingue di terra, di mare, le case, le colline e tutto quanto attorno, in proporzioni più umane, come di una stanza dipinta di colori e sfumature meravigliose.

La balza scura di sabbia bagnata alla fine dell’arenile delimitava perfettamente la linea orlata in cui i due elementi si fondevano, e già pochi metri più addietro l’esercito di sedie a sdraio e di ombrelloni dai colori identici per il momento perfettamente allineati, si lasciavano immaginare scompaginati durante la mattinata da mani e da gusti diversi, alla ricerca di posizioni migliori per la tintarella, o per la lettura di un quotidiano o di un giallo di moda. Di lì a poco, molte signore oltre la mezza età avrebbero finto di sfogliare una rivista illustrata commentando gli argomenti del giorno ed attaccando interminabili conversazioni con la vicina di ombrellone, mentre i rispettivi nipotini avrebbero inevitabilmente ripreso a lavorare con i secchielli e le palette alle buche e a quei castelli di sabbia, poco più che immaginari, già tentati il giorno avanti.

“Buongiorno, signora bionda…”, aveva detto simpaticamente il bagnino abbronzantissimo sorridendo e passando con piena dedizione alle proprie occupazioni quotidiane pur conservando il suo solito sguardo deciso di chi ha già capito tutto o quasi ed ha il pieno controllo della situazione; il suo rimanere in bilico tra il concedere confidenza e familiarità appena quanto serve e mai concederne una briciola di troppo, ne faceva subito, agli occhi dei più, un professionista serio, uno che non si dà certo la pena di preoccuparsi dei problemi altrui, ma che al momento giusto scatta e ti è subito d’aiuto. “La vita è bella…”, pareva avesse scritto in fronte, “…e sentirsi liberi dagli impegni e dalle preoccupazioni, anche se non è del tutto vero, la rende senz’altro ancora più bella”. Sicuramente ai suoi occhi la maggior parte delle persone che gli passava davanti ogni giorno appariva identica, composta di unità addirittura interscambiabili tra loro. Probabilmente, se si esclude le ragazze carine e appetibili, solo con difficoltà riusciva a memorizzare qualche faccia o addirittura ricordarsi di qualche nome. Una strana legge della giungla portava gli abituali dello stabilimento balneare ad un comportamento che sacrificava gli introversi, gli incolore, i timidi, per relegarli ad un vago isolamento, a tutto vantaggio dei simpatici per forza, dei chiacchieroni, dei tormenti della tranquillità, che regnavano beati tra l’arenile e il bar, salutando tutti e dimenandosi pieni d’importanza. Evidentemente nel caso della persona appena salutata qualcosa era diverso.

Il suo vero cognome era “Biondo” a dire la verità, ma avendovi peraltro adattato fin da ragazza il colore dei capelli, adesso che aveva passato, anche se da poco, la soglia dei quarantacinque anni e conservava una linea invidiabile (ad essere sinceri con un certo sforzo dato da qualche digiuno e da alcune cure dietetiche), il suo appariva un vezzo assolutamente non trascurabile. Al liceo per tutti era sempre stata “la bionda”, di nome e di fatto, e questo appellativo, pur non essendo lei una bellezza mozzafiato, l’aveva caratterizzata dandole un certo seguito, anche se marginale. Era una ragazza taciturna, si capiva quanto le piacesse stare con gli altri, e anche se a volte la sua presenza diventava quasi inquietante, con i suoi silenzi, lo sguardo freddo, nei vari gruppi di ragazzi che allora si formavano era lei quasi sempre la prima ad essere ricordata, forse proprio per i suoi capelli vistosi. Molto tempo dopo si era sposata, probabilmente anche grazie a quell’elemento accessorio, indossando in quel giorno un radioso color platino, ma per quanto le sfumature di colore delle sue acconciature fossero sempre state il frutto alternato dei suoi umori mescolati alla volontà del parrucchiere di turno, aveva sempre e comunque conservato una fedeltà di fondo a quella tinta che contrastava ovviamente con il suo naturale e natio castano.

Nella sua vita non si erano mai manifestate grandi caratteristiche: anzi, il suo cruccio era stato spesso quello di rimanere sprofondata in una routine troppo ordinaria e scontata. Avrebbe tanto voluto essere estroversa, simpatica, particolare, ma la sua personalità tendeva ad appiattirsi in atteggiamenti poco brillanti. Sua mamma era quasi uscita di senno quando lei aveva vent’anni, e Giulia si era immaginata fosse accaduto per quella vita di famiglia troppo monotona, per quelle giornate tutte identiche. Non voleva fare la stessa fine, certe volte dentro di sé sentiva un ribollire di cose che non trovavano alcuno sfogo. Sin da quei giorni aveva cercato di essere diversa, anche se raramente ci era riuscita.

Nel primo giorno di mare dapprima si era rannicchiata sulla sedia a sdraio, e più tardi si era adagiata sul suo asciugamano a contatto con il caldo della sabbia, ma sempre in modo da essere poco notata, ad evitare sguardi indagatori sul pallore del primo giorno e sulle piccole smagliature della pelle. Poi si era cosparsa di crema abbronzante e con l’andare delle ore si era sentita più sciolta e tranquilla. All’inizio le era parsa una sciocchezza e una scelta masochista venirsene al mare in pensione da sola: non le piaceva starsene isolata, e senza alcuna persona in appoggio le pareva che le sue giornate risultassero infinite e prive di qualsiasi contenuto. Con tutti coloro con i quali ne aveva parlato aveva finto interesse per quella vacanza solitaria, ma non perché ne fosse attratta veramente, solo per dare una dimensione di se stessa diversa e sfuggente. Ma nei suoi pensieri si era sentita preoccupata, le sembrava di isolarsi, di cadere in una dimensione non sua, di affrontare in questo modo un periodo quasi da incubo. Al contrario le erano bastati solo pochi giorni per farle scoprire quanto era riposante e piacevole rimanersene tutto il giorno avvolta soltanto dalle sue riflessioni. Si era sentita bene a contatto con quel mare amico e sotto al sole che poco alla volta pareva distendere le sue perplessità. Non era vero che avesse bisogno degli altri: da sola si sentiva forte, sicura di sé, dei suoi pensieri, adagiata in quell’osservazione contemplativa del mare e del sole. C’era stato anche un momento nei giorni precedenti la partenza, in cui probabilmente avrebbe potuto decidere di rimanere in città, ma le era parsa una prova d’orgoglio importante quella sua scelta, come un dimostrare anche a se stessa che certe volte poteva fare a meno degli altri, e che riusciva a portare avanti i suoi programmi in ogni caso, ed adesso sentiva proprio di aver fatto bene.

Quella prima vacanza senza Ernesto, suo marito, auspicata da lui per una riflessione sulla loro vita coniugale, di fatto arrivava dopo un doloroso percorso che, visti i loro rapporti ormai da diverso tempo sempre più freddi e distaccati, avrebbe probabilmente portato ad una loro separazione, almeno così immaginava: nelle sue storie del passato era sempre stata lei ad essere lasciata. Essere arrivati a questo passaggio, avendo sempre confidato in un miracoloso miglioramento del loro vivere assieme, a Giulia in un primo momento era parso terribile, e la sua solita paura della solitudine si era subito fatta sentire, lasciandola fiaccata e priva di qualsiasi forza per reagire, per quanto almeno in apparenza avesse conservato un comportamento equilibrato. Mantenendo un atteggiamento il più possibile naturale aveva lasciato che tutto scorresse con tranquillità nonostante il forte nervosismo dato dalla situazione, e anche nei giorni precedenti alla sua partenza era riuscita a non rivolgere al marito alcuna domanda diretta, quasi come si sentisse disinteressata ai suoi veri programmi.

Aveva preparato con cura e con una certa tristezza le valigie, e parlando al marito in maniera un po’ indiretta aveva detto assaporando di fatto una certa amarezza: “…mi piace andarmene da sola; sento che non avrò bisogno di niente…”. Confidava in qualcosa, per far trascorrere al meglio quel periodo, di cui non sapeva spiegare la natura, ma che sentiva dentro di sé, come qualcosa che avrebbe variato in meglio addirittura la sua vita. Generalmente non si sentiva mai ottimista, ma in quell’occasione era come se le sue sensazioni, il suo intuito, le suggerissero qualcosa di cui non capiva a fondo la natura ma che la incuriosiva. Dalla sua mamma aveva ereditato qualcosa che non riusciva a spiegarsi: sensibilità, introspezione, riuscire a vedere cose che agli altri non apparivano affatto. Quando era piccola la mamma le aveva parlato di qualcosa, poi non aveva più affrontato quell’argomento. Anche del futuro qualche volta aveva avuto immagini sconcertanti: c’erano dei personaggi che si muovevano nella sua mente in modo autonomo, le indicavano qualcosa, suggerivano percorsi, comportamenti. Fantasie, aveva pensato lei la maggior parte delle volte, anche se qualcosa di inquietante restava sempre in aria, ogni volta.

Ernesto, con le sue maniere anche troppo cortesi, aveva insistito per portarla in quel paese di mare con la sua auto, inevitabilmente al primo giorno del mese di agosto, rispettando certe tradizioni; e quel giorno avevano pranzato assieme, in un bel ristorante in riva al mare, senza fretta, come se niente li turbasse, poi lui l’aveva salutata ed era ripartito. E a Giulia, già da quel primo momento interamente da sola, il mare calmo del mattino era sembrato assorbire ogni tormento che più forte che mai le era parso di essersi portata fino lì, anche se lo schiamazzare dell’arenile aveva mostrato degnamente di quanta gente il mondo fosse composto, senza possibilità alcuna di annoiarsi. Peraltro quella specie di spazio teatrale così come appariva a lei lo stabilimento balneare, comprendeva una varietà discreta di personaggi e di situazioni, sufficiente per chiunque avesse il tempo e la voglia e di osservare attorno a sé, tanto che noia e solitudine parevano subito scomparire, come magicamente scacciati da un caleidoscopio di minute espressioni e di piccoli avvenimenti che si svolgevano autonomamente da ogni parte. Il suo star da sola durante quei giorni di mare era subito stato anche come ricostituire delle forze di cui in passato aveva avuto rarissime volte una vera e propria necessità, e sapere di poter far leva soltanto su di sé in un frangente del genere, per molti versi la spronava a reagire dandole un assurdo senso di benessere e di serenità, quasi di completezza. La quasi scelta di starsene in disparte e di non cercare durante la giornata alcuna compagnia, se non osservando gli altri da dietro ai suoi occhiali scuri, indubbiamente denotava carattere e personalità, e per la prima volta se ne sentiva estremamente orgogliosa, tanto che all’improvviso tutto questo la rendeva forte e convinta di poter dimostrare il proprio valore, di saper fronteggiare la situazione senza alcun bisogno di qualcuno con cui parlare o confidarsi. Un unico compagno si era portata fin lì: il suo piccolo e fedele quaderno per appunti (in realtà ne aveva molti con le copertine di svariati colori a seconda del suo umore), su cui scriveva in fretta le sue frasi e i suoi pensieri spesso quasi senza senso, ma che le mostravano nel tempo una traccia delle idee e degli avvenimenti. Una specie di diario delle sensazioni e delle piccole cose non dette, un quaderno insomma, al quale si era abituata fin dai tempi del liceo, forse per una forma di sostegno ai suoi pensieri ed alla sua memoria.

Durante gli anni seguenti al matrimonio con Ernesto l’estate era sempre stata l’occasione per dei viaggi verso luoghi interessanti e particolari, generalmente frutto della curiosità di lui per culture molto differenti dalla propria, ma questa volta, stante una situazione lavorativa particolare, suo marito aveva previsto di non potersi quasi muovere da Siena, per essere il più possibile disponibile in qualità di avvocato, a seguire certe cause in corso di alcuni clienti, e così aveva chiesto a Giulia di sacrificarsi e trascorrere un periodo di vacanza in un luogo di mare il più possibile vicino alla città, in modo da poterla raggiungere, sempre che questo si fosse dimostrato possibile. Lei non aveva sollevato alcun problema, ma l’idea di rimanere diverse settimane da sola le era parsa subito poco piacevole. “Sai…”, aveva detto fingendo, “…l’idea di starmene per conto mio per un po’ non mi dispiace affatto; posso leggere, pensare, rilassarmi appieno…”, ma già solo dirlo le creava un certo timore. Poi tutto aveva preso un suo corso, e Ernesto le aveva prenotato l’albergo in quel delizioso paesino di mare dove Giulia era già stata altre volte anche da bambina, assieme ai suoi genitori, senza che le fosse saltato in mente, nonostante il suo assecondare la situazione, di mostrare la pur minima perplessità.

Sul suo quaderno, come per iniziare un diario del periodo, aveva annotato:  “…Primo giorno di mare. Da vera moglie che lascia in città il marito. Da sola ho più paura, però sono più forte…”. Mentre scriveva ripensava al matrimonio e alla sua vita incoerente. Costantemente, fin da quando era bambina, aveva sempre avuto la sensazione di qualcosa che nel percorso ordinario delle sue giornate non collimava con l’idea stessa che si era formata della vita, e neppure con i pensieri che le attraversavano la mente quasi in modo autonomo. Pensieri divergenti, la maggior parte delle volte, non in linea con la realtà. Sensibilità, capacità di osservazione, erano sempre state queste le qualità per lei importanti, anche se spesso la facevano sentire un po’ diversa. Il piacere di stare con gli altri era dato in lei semplicemente dal bisogno di sentirsi come loro. Le bastava poco per vedersi strana, stonata, differente da tutti. Erano sensazioni che le venivano dal profondo, non riusciva a controllarle. Era come se non riuscisse ad essere come tutti, era di questo soprattutto che soffriva. Mai era stata capace di tenere a sé un’amica, o un fidanzato, una conoscenza, qualcuno che le fosse rimasto fedele abbastanza a lungo. Invariabilmente tutto s’incrinava, gli altri si allontanavano, lei pareva destinata a rimanere sola. “…La mia solitudine sarà sempre la mia forza”, qualche volta aveva scritto, proprio per togliersi il più possibile da dosso quell’amaro senso di abbandono che gli altri prima o poi le facevano assaporare.

L’ombrellone che le era stato assegnato si trovava in terza fila rispetto al litorale marino, ma la sua posizione era abbastanza centrale, vicino al camminamento di legno che attraversando l’arenile portava fino al bar-ristorante dello stabilimento balneare. La sua cabina pareva particolarmente fortunata essendo la numero tredici, ma di fatto era angusta e scricchiolante proprio come le altre. Sotto agli ombrelloni vicino al suo c’erano in genere tranquille famiglie composte da persone non particolarmente curiose o ciarliere, per cui, oltre qualche saluto ordinario, fino ad allora non si era manifestato né il modo né la voglia di allacciare qualche rapporto di confidenza da spiaggia. Il barista invece, con grande esperienza, aveva notato fin da subito la sua solitudine, e già al primo caffè consumato da Giulia, seduta davanti al grande bancone di lucido legno marino, aveva attaccato bottone con argomenti triti ma modi simpatici. Sergio aveva detto di chiamarsi, e non negava di fare il barista in quel bagno dopo aver provato a fare molte altre cose nella vita, naturalmente con scarsi risultati. Non si notava in lui però alcuna tristezza per le mete mancate, ed anzi pareva aver ben conservato la curiosità e l’interesse per gli altri proprio di chi sa dentro di sé di avere ancora molto da conoscere e da scegliere. Il viso di cinquantenne, quando la sua espressione era a riposo, non impegnata a dare un senso ed una faccia alle uscite e alle battute spiritose con i clienti, assumeva una leggera ombreggiatura triste, quasi una sua nascosta e inconsapevole anima. Il suo parlare era semplice e diretto, mai pesante, ed i suoi occhi vivissimi parevano continuamente scrutare negli altri l’effetto delle sue parole e delle sue espressioni, e chissà cos’altro. La caratteristica migliore rimaneva comunque quella di apparire serio anche raccontando cose divertenti.

Con Giulia Sergio si era subito vantato in maniera esagerata della bontà del suo caffè, facendola sorridere con modi decisi e plateali; poi, abbassando il tono della voce, le aveva chiesto per quante settimane aveva intenzione di rimanere lì da loro. “Non so”, aveva risposto Giulia cercando di interpretare quale tranello si potesse nascondere dietro a quella domanda, “forse qualche giorno, forse di più…”

“Glielo chiedo…”, aveva subito aggiunto Sergio abbassando la voce ulteriormente come per metterla al corrente di un segreto, “…perché così posso indicarle via via le persone da scansare, così, tanto per evitarle qualche rompimento di scatole, scusi l’espressione; sa, tante persone che lei vede qua attorno sono gli stessi di ogni anno, ed oramai credo di avere una certa pratica nel riconoscere la gente…”

Naturalmente quel discorso nascondeva diversi sottintesi, ma Giulia lo ringraziò cercando di usare il suo stesso tono di voce come per mostrargli un collegamento da assurda società segreta. “Vede, quel signore all’angolo, per esempio…”, proseguì lui ammiccando da un lato, “…quello lascia la moglie sotto all’ombrellone, e con la scusa che la sabbia lo infastidisce resta sempre qua attorno al bar ad offrire aperitivi e ad attaccare bottone con tutti; se poi c’è in giro una bella donna come lei non se la lascia certo sfuggire...”.

Il quadro era chiaro, e a Giulia parve davvero utile la collaborazione di Sergio, così quando terminò il suo caffè e lui le disse il suo nome, lei gli strinse la mano, un po’ per la presentazione, un po’ per suggellare la loro società. Tornata in spiaggia riprese il suo piccolo quaderno, e in fretta annotò, con quel suo modo di scrivere minuto e quasi incomprensibile: “Giornata comune, calma piatta all’orizzonte, forse urge calarmi in una parte e recitarla a fondo…”

Il bagnino aveva finito di aprire gli ombrelloni e adesso armeggiava attorno alla propria postazione di avvistamento, poco lontano, mentre lentamente i bagnanti, accompagnati dai loro “buongiorno” di prammatica irradiati tutt’attorno, raggiungevano le sedie a sdraio. Lontano da lì, ufficialmente, Ernesto con molta probabilità si stava preparando ad uscire da casa per curare quegli affari di lavoro “inderogabili”, come aveva sostenuto al telefono. “…ma tu divertiti, prendi tanto sole, ed io magari ti raggiungo domenica, ci mangiamo assieme una bella frittura di pesce fresco, e stiamo bene…magari riusciamo a parlare un po’ e a prendere qualche decisione…”

Era quello il modo professionale di lui per addolcire delle pillole amare, e con quel modo spesso riusciva a convincere gli altri di cose inaudite. Ma già il giorno seguente al telefono aveva iniziato a dire “Scusa, Giulia; tutto a volte sembra imbrogliarsi da solo, senza che neppure ce ne siano dei motivi…”, e insomma non era potuto venire, neppure “per parlare” come aveva tenuto a sottolineare, e tutto pareva oramai messo su ad arte per lasciarla da sola tutto il mese, quasi come per farla abituare. Per parte sua era difficile da ammettere; forse non ne avrebbe parlato neppure alla sua migliore amica, sempre che ne avesse veramente avuta una, però, quell’accorgersi di essere stata scaricata poco a poco, senza che neanche se ne fosse resa troppo conto, di essere rimasta lì da sola, vivere quel periodo in modo così inedito, assieme ad un naturale disagio, le faceva provare anche un brivido di piacere, una novità che nella sua vita non si era mai concessa. Non poteva rimproverare molto a quel marito che nei primi tempi di matrimonio aveva bruciato quasi tutta la sua voglia di stare assieme a lei: era stato gentile, innamoratissimo, sempre pieno di attenzioni, e lei non si era mai sentita in vita sua così al centro del mondo come in quel periodo. Però, poi, lentamente, tutto si era diluito in ordinarie consuetudini.

Prima di sposarsi aveva avuto una serie di sogni premonitori, durante i quali sua mamma sorridente l’aveva incoraggiata, le aveva fatto capire solo con i gesti delle mani che non era il caso di aver paura, o di tirarsi indietro: al contrario, doveva andare avanti, seguire il percorso indicato, cercare all’interno di quello le nuove possibilità di cui farsi forte. Una grande leggerezza, un senso forte di libertà e di piacere le era derivato da quegli incontri segreti con sua mamma, e aveva allontanato dalla sua mente il dubbio e l’insicurezza, abbracciando con convinzione la nuova vita che le si prospettava.

Anni più tardi, sul suo quaderno certe volte aveva scritto frasi del tipo: “Mi sento ansiosa, ma non per il domani. E’ il ruolo che ho al quale non riesco ad abituarmi. Mi dico e mi convinco d’essere solo me stessa, ma poi ricado nei miei angoli bui, e certe volte spero solo che nessuno se ne accorga…”

La maggior parte delle volte i suoi appunti le sembravano un insieme di sciocchezze, però si sentiva legata a quelle parole, come se fossero una traccia vera e indicativa di tutte le peripezie della sua vita. Era con il tempo che quelle frasi sul quaderno diventavano importanti, anche se le pareva sempre un po’ così superfluo andarsele a rileggere.

La nave petroliera era uscita lentamente dal campo visivo principale, ed al suo posto, anche se più ravvicinata, era apparsa una grande vela candida. In quella specie di spazio teatrale lei si sentiva contemporaneamente attrice e spettatore, partecipando all’azione con tutti i suoi pensieri che, come natanti silenziosi, solcavano da un capo all’altro quel campo visivo. Anni addietro lei e Ernesto avevano trascorso un’intera settimana con degli amici di lui su una grande barca a vela, e lei era stata bene, almeno nei ricordi di adesso, magnificamente. Il tempo bello e la navigazione quasi sempre poco impegnativa aveva portato all’instaurarsi di rapporti stretti e a tratti quasi intimi, e Giulia, ascoltando gli altri che parlavano di se stessi e delle proprie brillanti esperienze, pur sentendosi sempre un passo indietro, si era ritenuta doppiamente fortunata nel trovarsi in quella dorata situazione. L’elemento debole del suo stato d’animo era ovviamente il non sentirsi veramente parte di quel mondo cui l’aveva traghettata il marito, e restarsene in modo forzato su atteggiamenti vagamente apatici era a volte esattamente il tentativo di dimostrare il suo presunto scarso interesse per le cose belle da cui era stata circondata.

Di quella settimana aveva tenuto, più che in altre occasioni, un diario preciso e dettagliato, e certe volte era andato in seguito a rileggerlo. Aveva scritto cose tipo: “Abbiamo costeggiato l’Elba, lungo la parte che guarda l’isola di Capraia; poi ci siamo fermati per mangiare, e abbiamo gettato l’ancora sotto ad una roccia a strapiombo che ci sovrasta minacciosa. Ernesto è gentile, sopra qualsiasi aspettativa, ma io gli sfuggo, mi chiudo in cabina appena posso e mi lascio cullare dal mare e dal mio quaderno. Michelle vorrebbe parlarmi di sé, delle sue cose, e così mi fa delle domande a cui non so rispondere. Le sorrido, guardo il mare, rispondo a monosillabi. Durante il tramonto bellissimo di ieri si vedeva il profilo netto della Corsica, ed io mi sono sentita sbagliata. Nel porto di Marciana sembrava tutto perfetto, ed invece ero triste. Vorrei dormire di giorno e stare in coperta durante la notte, per rimanere da sola il maggior tempo possibile…” . E ancora “Il mare grosso di oggi mi piace. Ci sono difficoltà da affrontare, la natura fa la sua parte. Vorrei abbracciare tutti per i loro visi preoccupati. Vorrei comportarmi come se fosse il nostro ultimo giorno…”. Le pagine di quel periodo erano poi zeppe di apprezzamenti sulle sue immersioni in acqua, spesso da sola, su quei bagni sottocosta in un mare di vetro trasparente, così come le piaceva immaginarlo. Quando era finita quella vacanza aveva pensato che nessuno degli amici di Ernesto avrebbe parlato bene di lei. Non se ne era sentita preoccupata, ma era come cosciente di aver tirato fuori il peggio di sé. Per lei era stata un’altra esperienza della sua vita, da accantonare come e assieme a tutte le altre cose, senza chiederne il senso o il valore. Aveva scritto: “I sorrisi delle persone con le quali sono stata per tutti questi giorni adesso mi scivolano addosso senza rimanere minimamente impressi. Mi sembrano tutti falsi e distanti. Mi chiedo: perché qualcuno dovrebbe sorridermi? A che cosa sono servita? Che cosa vorrebbero da me? Sorridono solo per incoraggiarmi ad essere come loro?…”. Quando andava a rileggere le sue cose le sembravano sempre più buffe e divertenti di com’erano quando le aveva pensate.

Adesso, davanti a quello spazio su cui allungare lo sguardo per lasciarlo riposare nell’ abbagliante luce azzurra, tutto sembrava diverso e lontano, e lei si sentiva bene, forse soltanto perché era da sola, anche se di questo provava come sempre una paura folle. Le veniva spesso voglia di ricordare la propria giovinezza, i tempi in cui era ancora tutto da decidere. Era stata una vera figlia unica, e durante la sua infanzia si era spesso sentita circondata d’affetto e da attenzioni da parte dei suoi genitori, forse un po’ troppo anziani, ma con lei sempre tanto dolci e comprensivi. Avevano trascorso due vacanze estive in quello stesso paesino di mare al tempo dei suoi sette o otto anni, e adesso ne provava un sottile senso nostalgico. Non ricordava molto, se non l’apprensione di sua madre per il mare, per le onde, per quell’elemento che non conosceva e che reputava ostile, subdolo, per se stessa e per gli altri. Al contrario, e forse anche per questo motivo, Giulia era rimasta affascinata dal mare, e l’attrazione che aveva iniziato a provare per quell’enormità liquida, mobile e sfuggente, per la possibilità di immergersi in quell’acqua così azzurra e infinita era stata una sensazione profonda e indimenticabile.

Non ricordava molti altri particolari di quella sua giovinezza così confusa durante la quale non aveva saputo trovare veri punti di riferimento, e, a doverla riconsiderare tutta assieme, le pareva priva di un’unità formale, sfrangiata nelle tante vaghe idee che ogni giorno le passavano per la testa senza una linea univoca di condotta. Gli svaghi e le vacanze erano state poche, e la vita in casa le era sempre apparsa monotona, priva di stimoli, in contrasto evidente con quello che avveniva in altre case e in altre famiglie. Quando ebbe l’età per farlo, era sempre riuscita ad andare da qualche amica a studiare, o a giocare, e qualche volta a dormire, non tanto per affetto per quella amica o quella famiglia, quanto per il desiderio profondo di uscire di casa, di respirare un’aria diversa da quella che le pareva così asfissiante. La vita vera le era sempre apparsa come un qualcosa che esisteva soltanto dopo aver varcato il portone di casa, ma non riusciva mai a sentirsi convinta di quello che faceva, e così cercava sempre di affiancarsi a qualcun altro che avesse delle idee, delle proposte.

Sua madre qualche volta le chiedeva della scuola, dei compagni, dei suoi comportamenti, ma Giulia fin da subito aveva imparato chissà da chi un comportamento evanescente, risposte che portavano fuori strada, argomenti che non entravano mai in merito a ciò che voleva tenere nascosto. Ma l’impressione che aveva sempre avuto era che sua mamma interpretasse esattamente i suoi giochi di parole, e con i suoi modi silenziosi e pungenti sapesse andare sempre al di là dei discorsi fatti, riuscendo sempre a sapere la verità nonostante i suoi goffi tentativi per depistarla. Certe volte da piccola aveva pensato che sua mamma le leggesse i pensieri, e in seguito se ne era propriamente convinta. Era sempre stata strana la mamma, fin da quando Giulia poteva ricordarsi; certe volte pareva fosse altrove, come se niente di ciò che abitava la sua stessa casa la potesse distogliere da un suo pensiero, una propria riflessione, da un qualcosa che pareva avesse in mente; e in altri momenti al contrario sembrava onnipresente, continuamente alla ricerca degli altri, quasi un nutrirsi degli sguardi, dei gesti, dei comportamenti di ognuno che avesse attorno, asfissiando l’aria con le sue attenzioni, quasi fosse impossibile liberarsi da quel suo sguardo penetrante. Poi si era ammalata, senza che ne avesse dato dei sintomi precisi in precedenza, e lentamente aveva quasi smesso di parlare con tutti, chiudendosi con lentezza ostinata nella malattia mentale, e iniziando contemporaneamente quell’estenuante andirivieni tra la stanza di casa in cui passava le ore, e la clinica dove, con alti e bassi, speranze e ricadute, cercavano di curare il suo disagio. Suo padre in poco tempo si era ridotto ad uno straccio, disinteressato di tutto, e la famiglia di Giulia, se aveva poca coesione precedentemente, quando lei ebbe compiuto vent’anni, si ritrovò praticamente dissolta. Non fu un grande dolore per lei, solo un dato di fatto. Sapeva di avere sempre avuto un rapporto speciale con sua mamma, ed era sicura non sarebbe cambiato.

Qualche volta pensando a quel periodo si era immaginata troppo fredda, distaccata, incapace di provare sentimenti veri e forti. Però aveva sempre saputo accettarsi, convincendosi che ognuno nasce già con una natura predefinita, ed è inutile tentare cambiamenti. A volte aveva scritto: “Non vorrei essere guardata, o almeno non vorrei che chi mi guarda cercasse come sempre mi succede di cogliere i sentimenti dalla mia semplice apparenza. Forse non vorrei che qualcuno cercasse di conoscermi. Vorrei tanto essere sconosciuta a tutti…”.

In un’altra pagina di un suo quaderno, scritto dopo molto tempo cercando di ricordare le sensazioni del periodo in cui sua madre stava male e si trovava in clinica, una volta aveva annotato: “Tornai, un giorno, a casa, senza avvertire, non so cosa cercassi, aprii il portone con la chiave, quasi meravigliandomi che funzionasse ancora. Qualcosa di mia madre era tra le stanze, ma lei era in ospedale. Trovai invece mio padre, seduto, da solo, davanti al tavolo di cucina con la tovaglia addoppiata, a coprire solo metà del piano. Davanti a sé un piatto con delle bucce di frutta dentro, e poi un bicchiere vuoto, le posate, la bottiglia con ancora un po’ di vino rosso. Dentro di me qualcosa urlava di dolore. Era troppo tardi per fuggire e probabilmente non avrei voluto. Finsi indifferenza e mi sedetti assieme a lui. Forse mi sentivo veramente indifferente, ma non volevo che lui lo immaginasse. Mi disse qualcosa della mamma, ma era chiaro che avrebbe voluto parlarmi anche di sé, era evidente. Non avevo mai considerato mio padre fino allora, non avevo pensato che potesse soffrire, che quella solitudine forzata fosse così terribile. Quando andai via ebbi la sensazione che tutto fosse rimasto come se non fossi veramente stata lì…”.

Al secondo giorno di mare, con la testa confusa da tutti questi pensieri, aveva fatto una lunga passeggiata a piedi scalzi lungo il bagnasciuga, giusto per allontanarsi un po’ dai curiosi dello stabilimento balneare ed osservare qualcosa di diverso. Il litorale da quella parte era costituito da diversi altri bagni con le loro file di ombrelloni colorati, e subito dietro la spiaggia e il largo viale alberato la prospettiva era accompagnata da villette e palazzine monotone e senza caratteristiche, che si immaginava destinate a seconde case tirate su qualche decennio addietro assieme al favorevole periodo economico del paese. Aveva camminato a lungo ripensando al suo periodo di matrimonio, ma per quanto cercasse di essere autocritica, non le veniva in mente alcun momento del quale dispiacersi per un proprio comportamento scorretto o conflittuale verso il marito. Al contrario, la sua arrendevolezza, la voglia di tranquillità, lo scarso orgoglio forse, l’avevano spesso portata a farsi piccola nei confronti di Ernesto, e quel vago e generalizzato senso di gratitudine, pur inconfessabile, che aveva provato fin dal primo giorno per quel matrimonio che risolveva così bene la sua vita, l’aveva resa fin troppo passiva in ogni situazione, pronta ad accettare qualsiasi compromesso, anche se poi le piaceva convincersi di essere semplicemente equilibrata.

Dopo il matrimonio, a qualche mese di distanza, finito quel periodo in cui non avrebbe neanche saputo dire di essere veramente se stessa, aveva scritto: “Devo trovare degli elementi che mi appartengono. Ho bisogno di far forza su qualcosa che posso riconoscere come mia, a dispetto di tutto. Devo lasciare che Ernesto scopra lentamente qualcos’altro di me, che non aveva immaginato prima… Devo trovare la maniera di essere felice, oltre che fuori di me, anche all’interno…” E poi, “Mi diverto veramente solo se mi distacco da tutto e guardo le giornate come dall’esterno. Mi piace questa situazione, però è spiazzante, e non so affatto come controllarla…”.

“Buonasera Giulia”, le diceva lui con identico modo distaccato ma divertente rientrando a casa; la sua calvizie avanzata amplificava ancor più nell’immagine di sé la tendenza ad essere leggermente cicciottello, e la cravatta generalmente annodata su impeccabili camicie bianche ne sottolineava il carattere bonario e l’espressione sempre tesa a socializzare con gli altri. Spesso, come a dar seguito alla giornata, si lasciava andare con Giulia a raccontarle di fatti e di persone che punteggiavano il suo mondo lavorativo, tra il tribunale e lo studio di avvocati associati, con storielle divertenti e paradossi giudiziari, per poi immancabilmente chiedere di lei, di cosa aveva fatto, di come avesse trascorso a sua volta la giornata. Ed era lì il punto dolente: il vuoto, quasi la vertigine, che provava in quel momento Giulia di fronte a quella cortese e immancabile domanda era inspiegabile, perché qualsiasi cosa pur importante l’avesse occupata anche completamente, all’improvviso le pareva una sciocchezza, una stupidaggine da niente. Tanto che da un certo periodo in poi aveva iniziato in alcune occasioni ad inventare qualcosa di interessante da raccontargli, saltando da un particolare all’altro, tanto da rendere ciò che diceva il più possibile verosimile. Da sola si giustificava spiegando quelle sue piccole fantasie come momenti di divertimento innocente, ma di fatto nei periodi di leggera depressione le sue costruzioni mentali le erano apparse come un’offesa anche a se stessa.

Era chiaro che adesso, trascorrere così come stava trascorrendo una vacanza in perfetta solitudine, voleva dire ricollegare tra loro le tante immagini che aveva di sé e della sua vita, e dare a ciascuna di esse una collocazione ed un valore che in altri casi magari era stato impossibile definire. Nei suoi pensieri le pareva quasi che tutto adesso si rimodellasse, e i fatti, i gesti, le azioni e le parole di ieri sembravano mutare valore, forma, significato. Le sembrava di aver guardato alcune volte Ernesto con quel modo pungente e penetrante che tante volte lei stessa aveva subito da sua madre. In tanti casi si era sforzata di allontanarsi il più possibile da quei modi, e quasi sempre le era sembrato di esserci riuscita, ma adesso non ne era più così sicura come nel passato.

Era sempre stato un divertimento spontaneo dare un carattere realistico alle sue fantasie. Non ci voleva molto, bastava restare sul generico, omettere ogni particolare e lasciare immaginare più che spiegarsi. Certe volte nel passato aveva fantasticato anche con se stessa, modulando la realtà attorno a linee di pensiero immaginarie che qualche volta aveva poi scambiato per la verità. Certe sere le era piaciuto rannicchiarsi nel letto prima di dormire, e ripensare agli anni della scuola trasformando i propri comportamenti e quelli di chi aveva attorno in quei periodi. Si era immaginata un mondo senza invidie, e solidarietà con chi frequentava, e ancora comprensione reciproca e volontà di amicizia vera con tutti. Era facile sostituire le parole dei dialoghi ai quali aveva partecipato qualche volta, o dei quali più spesso era stata passiva spettatrice, con frasi azzeccate e ricche di significati e immediatezza. A nessuno veniva in mente di ribattere qualcosa, e se una replica veniva fuori era subito redarguita con parole finali nette e decise. Poi, sul suo quaderno, scriveva: “Non riesco ad essere presente come gli altri. Rifletto, so cosa dovrei dire, ma c’è una distanza incolmabile tra le parole che penso e quelle che pronuncio, così resto in silenzio…”

Qualcuno le aveva detto che lei creava spesso del disagio attorno a sé, soltanto con la sua presenza, e lei aveva fantasticato a lungo su quel particolare. Qualche volta si era inventata un potere strategico sugli altri, la capacità di ammutolire chi utilizzava argomenti triti e inutili, ed il dar voce, al contrario, ai più introversi. In certi casi, per conseguenza di forti antipatie nate con qualcuno, aveva desiderato fortemente il male nella sua forma più embrionale, fino a vedere nella sua mente quasi dei risultati tangibili dettati dai suoi profondi desideri. Spesso la realtà le era parsa un materiale flessibile, capace di adattarsi in funzione di desideri forti e determinati. Quando diventò soltanto un po’ più grande seppe di poter avere in certi casi un controllo su alcune cose che gli altri non sospettavano neppure. Assieme a questo una certa consapevolezza, seppure inconscia, delle sue doti strane e non comuni l’aveva probabilmente maturata, anche se la paura di sentirsi troppo diversa dagli altri ne aveva sempre frenato ogni sua manifestazione.

Da sola, custoditi dietro ai suoi occhi a volte vuoti, i pensieri assieme alle sue fantasie avevano vorticato quasi senza controllo. C’erano state certe volte che Giulia era tornata da scuola con qualche brutto voto. Sua mamma non aveva detto niente, l’aveva solo guardata entrare in casa con il suo solito mutismo, già sapendo tutto senza bisogno di chiedere, e Giulia dentro di sé ne era stata più che consapevole. Anche questa consapevolezza era un elemento che lei non poteva controllare, arrivava così, all’improvviso, poi svaniva. Come il materializzarsi di un’idea che folgora la mente e fa immaginare tutto chiaro in un lampo, salvo poi svanire dileguandosi in niente. In qualche caso soltanto essere rimasta per alcuni minuti vicino a qualcuno, le aveva permesso di sapere alcune cose di quella persona, senza che neppure lo volesse.

Aveva saputo così del segreto di Arturo Pirrone, senza neanche conoscere questa persona. Ne aveva avuto coscienza un giorno, mentre viaggiava con decine di altre persone in autobus, in forma confusa e articolata, come di una mente sconvolta, e solo dopo essere rientrata a casa e aver riflettuto su tutto, alcune tessere del mosaico si erano posizionate. Aveva cercato questo nome sui suoi dizionari enciclopedici, tra i nomi delle persone illustri, sopra l’elenco telefonico, senza risultati. Però aveva capito quale segreto fosse legato a quel nome. Arturo Pirrone aveva guardato una persona morire, una donna, forse un’amica o la sua fidanzata, senza intervenire per salvarla. Avrebbe potuto, probabilmente, ma non aveva fatto niente. Nessuno aveva saputo di quella verità, nessuno aveva sospettato qualcosa, ma Arturo Pirrone stava consumando la sua vita  in quella angoscia e in quel rammarico, e lei lo aveva percepito. Si era guardata attorno, aveva cercato di individuare, nella concitazione del momento, da quale parte potessero arrivare quella specie di onde magnetiche che la facevano tremare. Ma era impossibile, le persone erano tutte le solite di sempre, e tutte avevano un comportamento ordinario, come ogni giorno. Giulia, in seguito, durante tutti gli anni che erano trascorsi da quel giorno, non era mai riuscita a parlarne con nessuno.

Ernesto aveva preparato con cura quel mese di agosto. Ne aveva riflettuto a lungo, per molto tempo, e in ultimo aveva scelto le parole adatte con Giulia, senza alcuna insistenza, in modo da indurla a prendere, con decisione quasi autonoma, l’iniziativa di passare le vacanze al mare, da sola, in quel paesino perfetto. Era andato sul posto, lo aveva studiato, aveva scelto la pensione più idonea allo scopo e lo stabilimento balneare più adatto per farle trascorrere bene le sue giornate di mare,  una coreografia perfetta in cui far muovere in modo curato il suo personaggio. Aveva parlato in modo vago con diverse persone fingendosi apprensivo e pignolo, infine aveva dato dei soldi al barista dello stabilimento balneare, a Sergio, affinché lo tenesse aggiornato con delle telefonate giornaliere su tutto ciò che Giulia avrebbe fatto durante quel periodo, “Come se fosse i miei stessi occhi, mi raccomando…” Anche un cameriere del ristorante, Nicola, aveva ricevuto un trattamento economico analogo per le informazioni che avrebbe potuto rilevare, e anche per controllare le notizie fornite da Sergio, e tutto questo, naturalmente, a completa insaputa di lei.

Ernesto era avvocato perché suo padre, ugualmente avvocato, lo aveva voluto. La sua volontà di fuggire da lui si era limitata negli anni giovanili a fantasie di poco conto e a qualche viaggio in paesi lontani. Finiti gli studi, avuto un ufficio per sé nel grande studio di suo padre, e anche una volta intraprese le prime cause in tribunale, aveva comunque continuato a sentirsi addosso quella presenza asfissiante. Si era sposato quasi per cercare una fuga, ma, con una moglie proveniente dallo stesso ambiente, la via d’uscita utilizzata era stata puramente aleatoria. Si era guadagnato una maggiore autonomia dalla sua famiglia, certo, ma il senso di oppressione era rimasto. L’inevitabile separazione consensuale seguita dal divorzio, ottenuto in brevissimo tempo, non aveva neppure lasciato strascichi, se non la volontà di trovare per la sua vita una compagna più adatta. Gli anni erano passati con una fretta inspiegabile, senza che nulla fosse accaduto, poi era arrivata da un mondo assolutamente distante e in modo casuale quella bionda completamente diversa da tutti. Ernesto era alla soglia dei cinquant’anni, non si sarebbe potuto permettere di perdere la testa così, suo padre non glielo avrebbe mai perdonato, e forse fu proprio per questo che si gettò a capofitto in una storia con lei.

Adesso si era pentito quasi subito di ciò che aveva ordito nei confronti di Giulia. Tutto era scaturito da una pesante discussione che aveva avuto con suo padre qualche tempo addietro. Essendosi ritirato poco a poco dall’attività di avvocato, il padre cercava di conservare un potere strategico all’interno dello studio che aveva fondato tanti anni prima. Spronava Ernesto continuamente a seguire le cause così come avrebbe fatto lui, tanto che il figlio non aveva più tempo per nulla: niente svaghi, niente famiglia, nulla. Nella discussione la colpa di tutto era ricaduta, come già successo altre volte, su Giulia: distante, non comprensiva, inadatta a ricoprire quel ruolo di moglie, giudizi in parte condivisi anche da Ernesto. Ma adesso, se pur era partito convinto di ciò che faceva, gli sembrava sempre più che lei non meritasse un trattamento del genere.

Quando l’aveva conosciuta aveva perso la testa per quei suoi modi così insoliti, quelle espressioni profonde, quella maniera di trattare le cose appassionatamente ma con distacco. Pareva che qualcosa di lei continuamente sfuggisse, di non riuscire a conoscerla mai: impossibile capire cosa pensasse, quale sarebbe stata la sua opinione su una cosa o sull’altra. Non era riuscito neppure a farsi spiegare bene il suo passato, tanto che tutti quei frammenti di vita che certe volte Giulia lasciava affiorare nelle sue conversazioni, parevano incredibili, a volte addirittura falsi, mescolati e confusi tra presente e passato, e comunque disarticolati da un pensiero lineare. Di nascosto era anche andato a leggere qualche pagina dei suoi preziosi quaderni lasciati qua e là per casa senza  particolare riserbo, scritti con quel carattere minuto e poco comprensibile, ma non vi aveva trovato niente di nuovo, se non l’annotare instancabile di sensazioni e pensieri. Era chiaro che per abitudine lei non indicava quasi mai nei suoi quaderni i nomi delle persone, sicché spesso era quasi impossibile scoprire qualcosa leggendo quelle righe. Solo delle iniziali, A.P., venivano fuori dai quaderni più vecchi, e per di più mescolate a pensieri estremamente confusi ed oscuri. Frasi del tipo: “Ancora A.P., non so da dove sia arrivato, ma continua nella mia mente…”. Oppure: “Più ci penso, più sento che continua ad allontanarsi, ad essere imprendibile. Non so come, devo dimenticare A.P. in fretta”. E poi: “Non ho ricevuto più niente da A.P., solo quella volta, e quel poco va avanti dentro di me ormai da tanto tempo”.

Una sera Ernesto aveva affrontato l’argomento con Giulia in modo circostanziato, senza scoprirsi. Le aveva chiesto, come altre volte aveva fatto, dei suoi amori del passato, e lei si era spiegata senza neanche lesinare sui nomi, ma nessuno pareva avere le iniziali giuste, così tutto era rimasto nell’oblio. D’altronde tra gli appunti più recenti quelle iniziali scomparivano, e nessuna allusione a quei fatti passati si riusciva a riscontrare, così era impossibile scoprire di più. Tante volte Giulia avrebbe voluto confidare ad Ernesto il suo segreto, le sue doti, parlargli liberamente di se stessa, ma non gli era mai stato possibile: troppo normale suo marito, troppo forte la paura di apparire solo una sconclusionata e sciupare tutto.

Ernesto non si era mai sentito veramente geloso di Giulia. Solo certe volte percepiva una sua distanza poco chiara, o che non riusciva a spiegarsi. Il suo mondo sembrava fittizio, formato di elementi trascurabili, un piccolo spazio teatrale dal quale i personaggi della commedia erano come stati allontanati, e fosse rimasta solo lei con i suoi quaderni. Aveva bisogno degli altri, ne era sempre alla ricerca, ma poi si allontanava, si richiudeva, e difficilmente parlava di sé, persino con lui. Le piaceva perdersi tra le persone, nei luoghi affollati, fingendo di avere qualcosa in comune con tutti, qualcosa che la legava a tutte le persone che incontrava. Si percepiva di lei qualcosa di insolito, ma era difficile se non impossibile scoprire cosa fosse.

Il bar del bagno, a fianco della veranda-ristorante, era un elemento fondamentale nella vita da spiaggia dei villeggianti. Durante la giornata tutti, chi prima e chi dopo, passavano da lì, e dietro al bancone si alternavano tre o quattro persone, ognuna con i propri orari. Sergio lo si trovava quasi sempre durante il pomeriggio, fino a sera inoltrata. A Giulia non piaceva rimanere immobile a lungo nello stesso posto, così tendeva a girellare in lungo e in largo per tutto l’arenile, e spesso a passare dal bar per un’acqua minerale o un caffè rigorosamente senza zucchero. Dopo qualche altra chiacchiera e qualche saluto con Sergio si sentiva ormai in confidenza, e lui le strizzava l’occhio da lontano come a sottolineare il loro divertente patto di solidarietà. Era stato imbarcato sopra a delle navi mercantili Sergio, ed anche se non ne parlava molto, si capiva che quegli anni lo avevano formato, fino a dare giusta importanza alle persone e ai loro stati d’animo. Lei, tanto per parlare, lo aveva punzecchiato: “Sono sempre un po’ troppo sola, vero?”, aveva chiesto, e lui, che non era sprovveduto, le aveva risposto con noncuranza che poteva essere bellissimo trascorrere dei periodi da soli ogni tanto, “In un mondo pieno di gente come questo, stare un po’ per conto proprio può essere una vera fortuna…”. Lei ovviamente aveva apprezzato quel ragionamento, e Sergio, forte della espressione compiaciuta di Giulia, aveva continuato con indifferenza, “Se poi ne vogliamo parlare in modo più approfondito, domani sera sarei libero…”. Dopo un po’ si erano salutati senza prendere alcun accordo, ma a Giulia faceva sempre più piacere trovare in Sergio un alleato, almeno così le appariva.

La cena alla pensione Orchidea era un altro piccolo teatrino di personaggi più o meno pittoreschi. Sapeva bene che di lei qualcosa già si mormorava tra i tavolini; troppo bionda e troppo sola per non incuriosire, ma a questo si sentiva indifferente. Aveva cercato di vestirsi in modo sobrio, poco appariscente, ma capiva che il suo atteggiamento, pur non volendo, era quello di attesa di qualcosa o di qualcuno, e, anche se non era del tutto vero, questo sicuramente dava materia per i discorsi sottovoce. La prima sera a quel tavolo da sola, Nicola, il cameriere, aveva cercato di metterla a suo agio, lasciando andare qualche frase spiritosa, di chi conosce bene il mestiere di stare tra la gente, e lei aveva addirittura riso troppo, mostrando così il suo nervosismo; in seguito era riuscita a controllarsi meglio. Capiva bene che con qualcuno avrebbe dovuto allearsi, forse sedersi ad un tavolo assieme ad altri, altrimenti la sua situazione sarebbe inevitabilmente peggiorata, ma guardandosi attorno non riusciva proprio a trovare nessuno a cui dare confidenza; se Ernesto fosse rimasto almeno la prima sera assieme a lei, e si fosse fatto riconoscere come marito, adesso la situazione sarebbe stata diversa.

La prima sera stessa Nicola, il cameriere, come da accordi presi, aveva telefonato al signor Ernesto, spiegando che aveva individuato la persona e che tutto sembrava scorrere in modo normale, senza particolari di rilievo. “La signora non sembra neanche troppo a suo agio, così da sola…” aveva detto, ”…però durante la cena è stata attenta solo a ciò che aveva nel piatto, senza preoccuparsi di nient’altro. Mi è sembrata spiritosa, simpatica…e non ha mangiato molto, anzi si è limitata giusto ad assaggiare, ma questo lo trovo abbastanza normale..; ha ricevuto una telefonata, a fine cena, piuttosto frettolosa, nient’altro che mi abbia colpito…”.

“Ciao Ernesto…”, aveva detto lei rispondendo il più possibile sottovoce al suo cellulare che suonando aveva fatto voltare tutti nella sala del ristorante. “…si, tutto bene…”, aveva detto varie volte, rassicurando il marito come meglio poteva; poi, dopo qualche altra frase di prammatica, aveva spento il telefono assieme agli ultimi saluti. Attorno tutti avevano finto indifferenza, tutte facce ordinarie con comportamenti ordinari. Nessuno pareva interessato a lei, e anche se questo era abbastanza tranquillizzante, per il resto pareva estremamente noioso. Difatti, giusto per giocare, aveva iniziato a fantasticare sui personaggi che aveva intorno, ed a stilare una specie di classifica secondo la quale comportarsi con i suoi compagni di vacanza: avrebbe potuto sorridere in maniera indubbia alla prima persona gentile che le avesse usato una qualsiasi cortesia, per esempio. Oppure, se avesse incontrato sulla porta della sala per le colazioni un certo signore col nasone che la fissava sempre, avrebbe potuto chiedergli l’ora, o notizie sul tempo o sulla giornata, così, come per rompere il ghiaccio. Si sarebbe potuta slanciare chiedendo a voce alta se qualcuno avesse una sigaretta, o anche se era buona la cena, o che cosa c’era di migliore per dessert. Quella vita da vecchia pensionante adagiata su ricorrenze e piccole abitudini sedentarie pareva quasi comica, ma la calma che si provava in una situazione del genere era veramente fuori dall’ordinario. Attaccare conversazione con qualcuno in fondo era la cosa più semplice di tutte, ma l’improvviso forte senso di riservatezza che provava la lasciava quasi indifferente a tutti gli altri.

Sul suo quaderno aveva appuntato qualcosa: “Cena piatta e triste; sentito Ernesto distaccato e frettoloso. Domani voglio essere più sorridente, e soprattutto stupire tutti con la mia capacità di iniziare conversazioni a caso…”. Aveva sottolineato le ultime parole sorridendo, come a convincersi di quello che presumibilmente pensava veramente; poi di fretta aveva aggiunto: “Allearsi con il cameriere, farmi dire qualcosa sui clienti, rompere quest’ordinarietà pesante, ecco…”.

Prima di sposarsi quasi una decina di anni prima, aveva avuto un periodo complicato in cui aveva dovuto cambiare diversi lavori, raccomandandosi a chiunque possibile per riuscire a non rimanere disoccupata. Poi era stata assunta dal proprietario di un negozio di abbigliamento femminile, e pur guadagnando poco, per un po’ si era sentita al posto giusto. Era stato per arrotondare lo stipendio che aveva accettato di farsi fotografare da un certo amico del proprietario che continuava a sostenere che era una “bellezza particolare”, ed era cascata nel tranello della fotomodella proprio come una sciocca, anche se i suoi venticinque anni di allora giustificavano bene la sua inesperienza. Da lì a doversi spogliare davanti all’obiettivo difatti il passo era stato brevissimo, tutto per la sua difficoltà a dire di no in modo deciso, e gli occhialoni scuri che le si erano incollati perennemente sulla faccia per paura di essere riconosciuta da qualcuno, ne erano stati il risultato più importante, visto che quei pochi soldi che era riuscita a mettere assieme le erano giusto serviti per tirare avanti solo per un po’ dopo che era stata costretta a licenziarsi per smettere di farsi fotografare.

Aveva deciso che non era il caso di farsi vedere a passeggio con Sergio: le inutili malignità che sarebbero inevitabilmente scaturite non avrebbero portato niente di buono; però Sergio le piaceva, avevano iniziato a darsi del tu come tra vecchi amici, e lei continuava, durante l’ora del pomeriggio in cui al bar non c’era quasi nessuno, a dedicargli un po’ di tempo sedendosi su uno sgabello davanti al bancone con un immancabile caffè. Dentro al locale di legno riverberava assieme alla luce abbagliante di agosto, quel rumore cantilenante della risacca del mare a pochi metri, e, oltre ad una immancabile musica poco impegnativa di sottofondo, non si sentivano quasi altri rumori ad incrinare gli equilibri. Sergio in genere parlava di sé, delle sue vicende di vita vera, vissuta, delle scuole interrotte fin da ragazzino e della sua perenne ricerca di un lavoro o di un lavoro migliore di quello che era riuscito a trovare.

“Sai Giulia, eravamo in tre amici…”, diceva, “…e si cominciò per gioco una volta uscendo dalla finestra in fondo all’aula del primo piano della scuola, senza farsi scorgere, in silenzio, calandoci lungo lo sgocciolatoio dell’acqua piovana fino al cortile, e poi saltando svelti le inferriate della recinzione. Una corsa, e si era liberi. Tante altre stupidaggini seguirono questa, e in quel periodo qualsiasi scusa era buona per non andare a scuola. Adesso di noi tre uno fa il musicista anche con un certo successo, l’altro è impiegato di banca e a tempo perso attore di teatro. Con gli anni ci siamo persi, ma io mi sento ancora quello più vero, quello che ha pagato tutto, che non aveva alle spalle una famiglia con i soldi pronta a tirarmi fuori dai guai, come invece era per loro. Così ho pagato la mia irrequietezza giovanile con il resto della vita, e sono sempre stato alla ricerca di un lavoro migliore, di una situazione più accettabile. E pensare che quando mi espulsero dalla scuola mi parve una liberazione, ed iniziare a lavorare a dodici anni un’esperienza che mi rendeva grande…”.

Giulia annuiva dietro al suo caffè, e si immedesimava in quei ragazzi, in quelle vicende, con un senso di vicinanza per quei racconti che scarse volte aveva provato. Poi Sergio parlava del mare, e di come la sua decisione di imbarcarsi fosse nata per sfuggire a qualcos’altro, così com’era destino della sua vita. “Sopra le navi si parlava un linguaggio assurdo e incomprensibile a qualsiasi altro, composto da un inglese elementare storpiato dallo spagnolo e dall’italiano. Però ci si capiva subito e si imparava tutto in due o tre giorni. Con le petroliere si andava alle mille isole, o in Giappone o nel mare della Cina, per mesi di mare e di burrasche che parevano interminabili. Avevamo sempre paura del fuoco e degli incendi perché erano il pericolo maggiore, e il mare la maggior parte delle volte sembrava tutto uguale. Poi si tornava con tre soldi e tutto intanto era cambiato…”.

Giulia aveva cercato di parlargli un po’ di sé, ma le era sempre stato difficile con chiunque tirar fuori le sue piccole cose, e poi amava ascoltare, come se un po’ delle esperienze degli altri fossero capaci di percolare in mezzo a quelle sue per arricchirle. Annuiva ed ascoltava tutto, poi arrivava qualcuno per i primi aperitivi della sera e lei e Sergio si strizzavano un occhio di nascosto come a sospendere tutto e salutarsi alla loro maniera, senza troppi e inutili convenevoli. Lei si spostava ad un tavolo ed annotava qualcosa: “Mi piace stare al bar con Sergio, ma devo evitarlo di più”, scriveva. Devo cercare della compagnia femminile, che mi faccia passare inosservata; devo svagarmi, forse divertirmi, nient’altro…”.

Il giorno seguente aveva acquistato un quotidiano dall’edicolante poco lontano, tanto per darsi un tono serioso, ed era passata dallo stabilimento balneare ancora prima di fermarsi a colazione, giusto per vedere quella distesa piatta e chiara del mare e la sabbia fresca ancora deserta. Tutto le sembrava identico, ma non noioso. Poi era tornata indietro e si era seduta davanti alla sua pensione ad un tavolino sopra al largo marciapiede. Una macchina lenta aveva finito col fermarsi proprio davanti a lei, ed un uomo senza particolari caratteristiche le aveva chiesto dal finestrino se conoscesse un certo albergo. Aveva risposto di no, naturalmente, considerato anche il fatto che non lo sapeva davvero, e l’auto aveva ripreso la sua marcia lenta e indecisa. Svogliatamente lei aveva scorso le notizie di prima pagina, e poco dopo, quando aveva quasi deciso che non c’era niente d’importante da leggere, la macchina era tornata, fermandosi davanti a lei. L’uomo era sceso e aveva detto in modo impersonale: “Pare proprio che qui nessuno conosca l’albergo che cerco…”, con un tono vagamente seccato.

L’auto era anonima, una station wagon grigia di recente costruzione, e l’uomo era magro con i capelli tagliati così corti fino quasi a mostrare la forma del cranio, tanto da apparire facile immaginarsi come nelle stagioni più fredde questi per uscire si calcasse sul capo un cappello, un cappello grigio, probabilmente, senza orpelli, magari di una foggia demodè anni ’50 assolutamente adatta al personaggio. L’espressione del suo viso era seriosa, ed i suoi modi secchi e frettolosi. Fumava sigarette senza filtro, e si sarebbe potuto dire di lui che era una persona silenziosa, integerrima, forse di fiducia. Avrebbe potuto essere rappresentante di commercio, oppure impiegato come capufficio in chissà quale meandro dell’amministrazione, e in tutti i casi i rapporti con le persone non parevano un problema per uno come lui. Probabilmente sapeva capire gli altri con una certa velocità, riusciva ad interpretarli, ad estrapolarne il senso dalle espressioni, avrebbe potuto essere un ottimo capo del personale, per esempio. Non sembrava spaesato nella situazione contingente, ma neppure troppo deciso su ciò che cercava o che voleva fare, e a guardarlo troppo si sarebbe potuto sorridere dei suoi comportamenti e dei suoi gesti convinti fintamente e convincenti per scelta.

Poi era entrato nella pensione Orchidea e probabilmente si era fatto dare una camera dall’albergatore, visto che di lì a poco era tornato fuori, aveva preso una piccola borsa dall’auto ed era rientrato, lasciando andare un “Andrà benissimo anche qui…” indiretto e impersonale come la prima frase, forse a completamento di un modo chiaro e completo di fare le cose, almeno dentro di sé. A Giulia era venuto leggermente da sorridere, e aveva immaginato che nella scelta dell’albergo ci entrasse un po’ anche lei, con i suoi modi, lì fuori a leggere, come se la sua presenza fosse parte dell’arredo. Probabilmente a lui non interessava niente dell’albergo in sé, piuttosto delle persone che ci poteva trovare dentro. Sicuramente di lei aveva subito pensato qualcosa, chissà cosa, e forse un filo esilissimo di intesa poteva anche essere passato dall’uno all’altra. Giulia aveva aperto il suo quaderno sopra al giornale, e in una pagina sinistra aveva annotato: “Mattina fresca e dolcissima…; modesta entrata in scena per un personaggio fuori di cornice; però…”. Poi aveva richiuso tutto, si era ancora guardata attorno come alla ricerca di un altro respiro di quell’aria così piacevole lì sulla strada, e aveva atteso ancora un altro po’ prima di andare in sala colazioni, dove peraltro aveva trovato il solito clima e le persone di ogni mattina; aveva frugato nella sua enorme borsa da mare prima di appoggiarla su una sedia, e si era resa perfettamente conto che tutto era al posto giusto. Poi era tornata in spiaggia.

Il mare era stupendo, ma alla lunga poteva risultare noioso se non si trovavano degli stimoli per godere appieno di quella natura; Giulia sapeva nuotare bene, ed il contatto con l’acqua le piaceva, però farsi il bagno da sola, o noleggiare un pedalò, o qualsiasi altra cosa da fare in acqua le rimaneva estranea e faticosa. Si era fatta gonfiare un materassino ad aria dal bagnino il giorno addietro, ed era stato piacevole galleggiare sdraiata sulle deboli onde del mattino, ma poi si era resa conto che diventava una manovra antipatica gonfiare e sgonfiare ogni giorno quell’attrezzo, soprattutto perché non poteva approfittare così del povero bagnino, e quindi, considerata la sua indolenza classica, aveva pensato di lasciare il materassino sgonfio nella cabina, senza usarlo.

Quando aveva avuto la sua prima ciambella per fare il bagno, all’età di cinque o sei anni, sua madre si era voltata dall’altra parte per non vederla sguazzare nell’acqua e forse per la paura di vederla scomparire sotto la superficie. “Giulia…”, le diceva sottovoce, “…non ti allontanare, stai qui con noi…”, ma la sua curiosità e la voglia di provare e di provarsi la portavano regolarmente a comportarsi in altro modo. Suo padre sorrideva leggermente, con quel suo sguardo stanco, e non diceva niente, lasciava che tutto si concludesse con naturalezza, così come veniva, senza forzature. A Giulia non pesavano, non le erano mai pesate, le parole di sua madre: erano come una cantilena ordinaria, un rituale stanco e privo di senso che sentiva sussurrato ogni volta nelle orecchie. Rideva, Giulia, come se fossero parole inutili o parte dei suoi giochi di bambina, e correva via senza lasciarsi dire altro, restando lontana, forse proprio per non farsi raggiungere ancora da quelle parole sussurrate. Se avesse già iniziato ad annotare i suoi appunti, probabilmente avrebbe scritto: “La sabbia calda, il mare fresco e accogliente, il cielo grande. Con la mia ciambella posso andare dappertutto, sono salva, tutto va bene…”. 

A metà mattinata si era alzato un vento alquanto fastidioso, e in spiaggia si era già ricorsi a qualche stratagemma per evitare che cappelli e giornali se ne volassero via. L’uomo del mattino aveva attraversato l’arenile per saggiare l’acqua del mare con i piedi scalzi; poi l’aveva notata e salutata con una buffa smorfia del viso. Giulia all’improvviso si era sentita non protetta nella sua esagerata solitudine, e di colpo aveva tanto desiderato aver attaccato discorso nei giorni passati con qualcuna delle signore vicine di ombrellone; poi aveva un po’ spostato la sua sedia a sdraio, sistemato meglio l’asciugamano e gli altri oggetti, e aveva trovato così la maniera per non continuare a guardare avanti a sé. L’uomo se n’era andato verso la direzione del pontile, camminando lentamente sul bagnasciuga, ed il resto attorno era rimasto tutto come sempre.

Giulia aveva ripensato  molte volte, specialmente agli inizi, a quel certo Arturo Pirrone che pareva nato solo dalla sua fantasia. Avrebbe potuto parlarne con qualcuno, ma la maniera in cui aveva avuto quelle informazioni era inspiegabile. E poi, come sempre, non voleva parlare di sé, delle sue cose. Per cui niente, quella strada era impercorribile. La sensazione più inquietante presente fin dall’inizio, pur assieme allo sconcerto della situazione, era che fosse venuta a conoscenza solo di un lembo della realtà, e che solo con coraggio, con determinazione, con impegno soprattutto, sarebbe riuscita ad avere in qualche modo altre informazioni. Invece il tempo era trascorso senza che null’altro si fosse aggiunto a quello che aveva sentito la prima volta. Tanto che tutta la storia pareva solo fantasia, e anche quel nome stesso pareva inventato.

Aveva pensato che concentrandosi fortemente su quel nome sarebbe riuscita ad immaginarsi qualcosa, ma per tutti quegli anni non era stato così. Aveva cercato quel nome anche sui libri e nelle pubblicazioni che le erano capitate via via sottomano, di qualsiasi natura fossero, ma senza risultati. Esistevano delle omonimie in altre città, questo si, ma era sicura che non fossero quelle le persone giuste. A volte si chiedeva perché fosse venuta a conoscenza di qualcosa che non portava da nessuna parte. Non ne afferrava il senso. Oltretutto non capiva a cosa potessero servire tutti i suoi sforzi anche una volta trovato compimento, eppure sapeva che doveva andare avanti in qualche modo, evitare di dimenticarsi di quel nome e di quei fatti. Ed ancora tornava a chiedersi se avesse fatto tutto quanto era in suo potere, tutto il possibile, e alla fine, stremata dai suoi sforzi, si ripiegava su poche sensazioni certe, lasciando che la coscienza di quell’avvenimento diventasse ogni giorno di più una fantasia da niente.

C’erano stati dei giorni in cui Arturo Pirrone aveva oppresso oltremodo i suoi pensieri. A tratti il suo volto ignoto e indecifrabile pareva aver riempito l’aria circostante senza che niente fosse stato utile a scacciarne l’incombenza. In altri momenti, al contrario, incognite e interrogativi le erano apparsi ridicoli, ed il suo personaggio fantasia di poco conto. Spesso Giulia aveva evitato di proposito che i suoi pensieri si fissassero su di lui, ma non sempre questo le era stato possibile, e c’erano state delle volte che non aveva potuto fare a meno di farsi accompagnare dalla sua presenza come da persona vera. Sentiva quella storia vicino a sé, vedeva un volto incongruente che bramava per essere riconosciuto, forse aiutato; non sapeva dove cercarla la verità, però doveva provarci continuando a tirare verso di sé quei fili ingarbugliati.

Il pontile si allungava sul mare ad una distanza dal bagno Orchidea di non più di un chilometro, e i suoi grandi piloni affondati nella sabbia sott’acqua sopportavano da decenni il peso di un largo camminamento rettilineo di legno, assieme a diverse costruzioni, di fatto piccoli baraccamenti, anch’esse di legno edificate sui fianchi della stessa passerella, e dove trovavano sede un caffè, l’associazione dei pescatori locali, e diverse società che noleggiavano barche e barconi. Ogni sera tutto il pontile risultava circondato da imbarcazioni di ogni misura attraccate ai bordi, e il piccolo faro bianco sulla sua estremità ne rammentava la posizione a chi si fosse attardato durante la notte. Osservandolo da una certa distanza l’interruzione della prospettiva non era sgradevole: rimaneva per tutti un punto di riferimento quel pontile sul mare, ed il legno a vista del fasciame e delle strutture lo faceva sembrare una gran nave ottocentesca insabbiata di prua.  Giulia ricordava di esserci andata sopra anche da bimba con i suoi genitori e di essersi divertita ad osservare con meraviglia dall’alto i piccoli pesci che nuotavano nella trasparenza dell’acqua in mezzo a quei piloni solidi.

Agli inizi, dopo che si erano conosciuti, Ernesto aveva iniziato a portarla ad ogni occasione ai concerti, a teatro, a cena in ristornati importanti, e a Giulia tutto era apparso bello, ma quasi normale, pur sentendosi lusingata dalle attenzioni di lui: non aveva mai dubitato che qualcuno lì, dietro l’angolo, sarebbe arrivato un giorno a cambiarle la vita, o perlomeno a darle un significato maggiore. Non si era mai sentita sola neanche nei periodi più neri. C’era sempre stato qualcuno a darle una mano, a prendersene cura in un modo o nell’altro, e si era sempre adattata a ciò che le era stato proposto. Ernesto con lei era stato estremamente gentile, comprensivo, l’aveva messa  a suo agio in ogni occasione, e lei se ne era sentita molto felice. L’ambiente agiato che era arrivato con lui, Giulia lo aveva considerato solo un’altra esperienza, o meglio una delle tante possibilità a cui si era sempre sentita disposta, e da quel mondo si era sentita subito attratta non perché lo reputasse migliore, ma perché le tornava naturale abbracciare con entusiasmo una fase nuova della sua vita, come qualsiasi altra esperienza.

Aveva annotato molte frasi in quel periodo, a volte pensieri strampalati, senza nesso. In certi casi, la sua necessità di rimanere da sola, era stata accompagnata da alcuni pensieri i quali normalmente confortavano i suoi piccoli dolori. Tra le altre stramberie, aveva immaginato una specie di conversazione scritta con Arturo Pirrone, in quel periodo. Senza mai nominarlo, aveva iniziato a riferirsi a lui, chiedendogli piccole informazioni su di sé e su quella orribile esperienza che lo aveva segnato. Naturalmente si limitava solo a simulare degli abbozzi di risposta che lui avrebbe potuto dare, ma già questo fantasticare le sembrava una maniera per avvicinarsi alla verità. Giulia scriveva: “Eri in casa, probabilmente, e c’era silenzio. Solo dopo un po’ quel silenzio è diventato una presenza terribile. Quando l’hai pensato sei corso da lei, ma sei rimasto paralizzato…”. E ancora: “Perché non aiutarla, non chiamare aiuto, perché…”. Non c’erano risposte, però lei immaginava i suoi comportamenti, la sua corsa fino a rimanere bloccato là davanti. “Lei era dolce…”, diceva lui; “…ci volevamo bene e niente pareva doverci separare. Eravamo giovani, vent’anni, tutta la vita da costruire…”. In seguito questa specie di conversazioni diventarono sempre più rade, anche per mancanza di idee attorno a quel solito argomento, e quel nome con i fatti che si portava dietro rimase sospeso nell’attesa di qualcosa che potesse chiarirne gli aspetti più oscuri.

Durante un’estate, quando Giulia aveva ventitre o ventiquattro anni ed abitava ancora con i suoi genitori, insieme alla sua amica Franca con cui le capitava di andare a ballare qualche sabato sera, causa la loro cronica mancanza di soldi, decisero di farsi una gita in autostop. Pigiarono qualche vestito e il sacco a pelo in uno zaino, misero una minuscola tenda canadese presa in prestito da un amico dentro a un sacco da portare a tracolla, e partirono per raggiungere Venezia, senza altra idea in testa se non la voglia di cambiare aria. Presero strade secondarie per evitare guai con la polizia, e dalla metà mattina in poi avevano già scambiato diversi passaggi, ma tutti di pochi chilometri, tanto che alla fine del pomeriggio capirono che per quel giorno non sarebbero arrivate. Le caricavano solo uomini giocosi su piccole macchine scarburate, e quasi tutti facevano i gentili fino allo svenevole, senza che loro li degnassero di un briciolo di confidenza. Per ultimo le aveva tirate su un signore taciturno che aveva spiegato di fermarsi a Rovigo. Entrate in città, si fecero lasciare lungo una strada larga e abbastanza movimentata, salutarono il signore e con i loro bagagli girarono un po’ per la città. Trovarono un bar quasi vuoto, si sedettero a un tavolino con tutta la loro roba e si fecero portare qualcosa da mangiare.

Ridevano, si guardavano attorno esagerando i loro modi indifferenti a tutto e parlavano tra loro di cose frivole, spesso di sciocchezze. Decisero che avrebbero trascorso la notte nei loro sacchi a pelo sull’erba del parco che avevano intravisto entrando in città, magari un po’ nascoste da qualche cespuglio, e nel frattempo lasciarono gli zaini al bar per fare un altro giro a piedi. Ignorarono con circospezione gli schiamazzi di tre o quattro ragazzi spiritosi che cercavano di richiamare la loro attenzione, girarono in lungo e in largo per il piccolo centro città, poi andarono a sedersi ad un gradino della piazza principale.

Mentre la sera continuava ad inoltrarsi, il loro umore si faceva più serioso, e il tono delle loro voci più pacato. Gli argomenti da estremamente frivoli e leggeri com’erano stati per tutta la giornata, si erano fatti più circostanziati e seri anch’essi. Franca parlava adesso della sua famiglia e dei difficili rapporti con suo padre che in quel periodo si trovava all’estero per lavoro. “Certe volte ho pensato di fargliela pagare per quelle botte e le tante violenze senza motivo che rifila a me e a alla mia mamma. Poi guardo lei e scopro oltre la pena che comunque provo, di disprezzarla ancora di più di suo marito. Mi chiedo come si faccia ad abbassare la testa sempre e comunque, senza ribellarsi mai, ma l’abitudine è lì, tra le pareti di casa, a volte è fortissima, domina su tutto…”.

Non era la giornata adatta per fare un bagno, visto che il forte vento aveva alzato molte onde spumeggianti, e Giulia aveva continuato a leggere il suo libro con il massimo di noncuranza. All’ora di pranzo era andata al ristorante del bagno, e si era fatta servire un’insalata di foglie di lattuga, pomodori tagliati, rucola e mozzarella. Nel giro di pochi minuti la veranda si era riempita di gente vociante, e dal tavolo d’angolo dove si era seduta aveva potuto osservare tutti quanti coloro che arrivavano e prendevano posto, anche se in quel momento non si sentiva né attratta né incuriosita dagli altri. Le pareva che tutti, chi più chi meno, fossero caratterizzati da una piccola dose di sgradevolezza che lei avvertiva prepotente nella sua solitudine, e questo fatto, piuttosto che spingerla ad integrarsi, la lasciava rinchiudere in se stessa. Nel suo atteggiamento non c’era alcun tentativo di contrastare i comportamenti ordinari, solo il bisogno di ritagliarsi un piccolo, proprio mondo, inaccessibile a chiunque. Al contrario di tutti che continuavano a ridere e a parlare a voce alta lei aveva aperto il suo libro riprendendo la lettura dal segno, ma con leggera noncuranza, continuando a spizzicare qualcosa svogliatamente dal suo piatto. La fase d’attesa forzata non la sconvolgeva affatto; tanti periodi della sua vita erano stati caratterizzati da quella sensazione, e lei quella vita l’aveva sempre presa con estrema leggerezza, come se nessuna barriera potesse mai contrastare il concatenarsi degli eventi. Non aveva mai trovato troppo interesse nel dare un seguito preciso al suo presente, ed anche nei periodi neri nei quali si era ritrovata senza soldi e senza prospettive, al di là dei problemi immediati e contingenti, era come cosciente che una sistemazione ai suoi problemi si sarebbe trovata, era lì, forse proprio dietro l’angolo ad aspettarla, e sarebbe uscita fuori da sola, all’improvviso, senza alcun affanno o ricerca. Pensare la vita in positivo, la fiducia negli altri, la semplificazione sistematica di ogni segnale interpretativo, ecco, erano questi i pochi strumenti con i quali era sempre andata avanti in modo coerente e senza depressioni. Ciò che non avrebbe mai saputo perdonare ad Ernesto era di averla piazzata da sola in un angolo, sistemata in una pensione nell’attesa del verdetto finale, come se la sua solitudine non fosse già in qualche modo un verdetto. Non era spaventata, era solo irritata della sua costrizione, senza strumenti per contrastare la sua situazione.

Con Franca era difficile parlare: i suoi argomenti erano chiari, fin troppo, ed il quadro della situazione familiare così definito da essere invidiabile. Per Giulia al contrario ogni particolare sfumava invariabilmente in qualcosa d’altro, ed era difficile dire quale fosse il problema vero con la sua famiglia. Anche i sentimenti che provava per suo padre e sua madre, molto differenti per ciascuno di loro, erano frutto dei periodi alterni con cui si manifestavano atteggiamenti e situazioni. Per sua madre spesso provava pena, a volte rabbia quando appariva forte sia il suo disprezzo per il mondo che la sua chiusura in sé. Con lei nessuno poteva permettersi di dire cose sbagliate, come aveva spiegato bene il professore, e quindi le conversazioni risultavano tutte ammaestrate, lisce e zeppe di convenevoli, tanto da apparire false, inutili, a volte odiose. Suo padre si ripiegava al massimo in quel ruolo, diventando sempre più un elemento indistinguibile in quel piccolo teatrino familiare. Le finestre sempre chiuse e le luci basse in casa completavano il resto del quadro. Anche il silenzio denso e trionfante che regnava tra le mura, in realtà appariva vigile, pronto a scattare al più piccolo richiamo che indicasse una ricaduta della malattia. Nessuno si poteva concedere il lusso della tranquillità, e questo era snervante.

Era stato solo un attimo di distrazione, e alzati gli occhi dal libro come richiamata da uno sguardo insistente, aveva volto lo sguardo verso il tavolo accanto al suo: “Beata lei che si è trovata qualcosa da leggere di così interessante…”, aveva detto la signora con bambina decenne al seguito già diffusamente notata in svariate occasioni e naturalmente evitata fino ad allora con astuzia. “… io non riesco mai a finire un libro, per quanto mi possa concentrare; è come se ogni volta che vengo interrotta nella lettura, mi si cancellasse dalla mente tutto ciò che ho letto prima…; mangia, Miriam, dai, per favore…” aveva concluso rivolgendosi alla figlia. Giulia si era stampata sul viso il suo sorriso classico, e con gesto semplice e vagamente scortese aveva rivolto il libro verso la signora in modo da permetterle di leggere il titolo. Ormai non sarebbe stato più possibile evitare la conversazione, e questo le dava all’improvviso una sensazione di massimo fastidio; la signora aveva detto altre due o tre cose, dirette impersonalmente a chiunque attorno, conservando quel magnetismo sfacciato di cui faceva sfoggio, ma improvvisamente era arrivata un’amica, o sua vicina di ombrellone, e Giulia era stata ignorata, come per magia.

Ripensò a Franca, e di quella volta in autostop. Il giorno seguente, dopo Rovigo, avevano raggiunto Venezia, e con fatica e impegno avevano infine trovato il piazzale Roma come fin dall’inizio avevano previsto. Si erano fatte a piedi tutte le calle e i ponti dell’itinerario turistico classico, ed erano giunte a piazza San Marco senza più  parole, come se il compendio di tutto si fosse agglutinato in quella visione di spazio e di bellezza. I loro stracci, i loro sacchi a pelo, niente aveva più significato, se non l’essere lì, insieme a tanta gente differente, come se la vita in quella piazza affacciata sull’acqua e sulla storia riscattasse all’improvviso qualsiasi insulsa e penosa esistenza tirata avanti in qualche modo, stupidamente indifferente ai valori più alti. Franca si era lasciata andare ad uno sciocco ballo improvvisato sulle pietre della piazza, dopo aver abbandonato a terra ogni fagotto, e la sua felicità aveva trascinato Giulia come in un bisogno immediato di esplicare il loro esserci, il loro essere vive. ”E’ così bello che mi verrà da piangere tornando indietro…”, disse Franca, e il senso di forte struggimento prese ambedue fin nell’intimo.

Certe volte Ernesto, agli inizi del loro matrimonio, le aveva parlato, pur in termini tecnici ed evitando di porre accenti emotivi sull’argomento, della possibilità, per coppie come loro in età un po’ avanzata, di adottare un bambino. Giulia aveva cercato in quei casi di tenere una posizione equilibrata e neutrale, però ci aveva fantasticato sopra qualche volta, nelle lunghe giornate da sola, ma quel bambino già grande, che arrivava in mezzo al loro equilibrio con la sua carica di bisogni, più che attrarla realmente la spaventava in modo tangibile. All’età di venticinque o ventisei anni era rimasta incinta una volta. Per errore, o disattenzione, adesso aveva come rimosso ogni particolare di tutta quella storia. Non ricordava quasi neanche la faccia di quel lui di turno, rammentava solo il gran pianto che le era preso quando si era trovata in ospedale, con l’infermiera ad accompagnarla nella sala per l’intervento. Forse era stato stupido quel suo comportamento, ma era come se all’improvviso avesse sentito qualcosa sfuggirle per sempre, la consapevolezza di una possibilità che non si sarebbe più riproposta. Dopo, al risveglio, in quell’anonimo letto di ospedale, aveva pensato alla sua mamma e al parto da cui lei stessa era nata, e una volta di più le era parso tutto brutto, o al più insignificante, come la sua vita scialba e senza prospettive. Il matrimonio con Ernesto le aveva tirato fuori tante emozioni sopite che non aveva mai veramente affrontato e risolto, ma adesso, cercando di riassumere tutto con un pensiero unico, ecco, riusciva soltanto a ricordarsi di quanto spesso si fosse sentita decisamente scoraggiata.

Ripiombò come per massima difesa sulle sue pagine aperte, senza peraltro riuscire subito a ritrovare la frase su cui si era interrotta, per sollevare la testa solo dopo molto tempo, quando le era passato vicino il ragazzo che serviva ai tavoli, giusto per farsi portare della frutta fresca ed un caffé. Non aveva voglia di andarsene da lì, non che si trovasse particolarmente bene, solo che le pareva di trovare rispondenze di sé in ciò che leggeva, e le sue riflessioni si mescolavano continuamente con le frasi del libro, procurandole una specie di sopore mentale, di calma, un’apparenza di microsistemazione di ogni cosa. Suonò con una melodia cantilenante il telefono portatile, sperso tra i tanti oggetti della sua enorme borsa da mare, e quando rispose la realtà riprese ogni consistenza. “Ciao”, diceva suo marito, come parlasse da una distanza enorme, con un timbro di voce innaturalmente basso e rallentato, almeno così pareva a lei. “Come stai?”, sembrava chiedesse senza un vero interesse. E poi: “Come va la tua vacanza?”; un po’ come si informasse della sua salute. E ancora: “…la vita in pensione procede bene?”; e “…sei contenta?; “…ti trovi a tuo agio?”, fino a continuare con domande quasi senza senso, come salmodiando attorno alla propria cortesia e al proprio incontestabile altruismo.

Il marito al telefono le spiegava poi in due parole che era in viaggio per chissà dove, il suo lavoro di avvocato l’aveva risucchiato completamente nonostante i suoi programmi fossero stati diversi, così almeno sosteneva, ed in mezzo a questi discorsi le aveva spiegato in fretta di aver già compilato domanda per la loro separazione, e al suo ritorno tutto si sarebbe compiuto velocemente. Lei aveva detto “…si…” alcune volte sentendosi arrossire il viso, poi aveva aggiunto che andava bene, e non aveva più trovato niente da dire, e dopo un “…ciao…” formale aveva quindi riattaccato. A posto. La frittata era conclusa.

Alzandosi avrebbe voluto avere un capogiro e cadere sulle tavole di legno della veranda, giusto per preoccupare tutti e farsi coccolare dai più solerti. Invece era scesa di nuovo lungo l’arenile per tornare a sedersi sotto l’ombrellone spettinato dal vento. La prima moglie di suo marito lavorava in magistratura, ed il loro matrimonio era stato sicuramente facilitato dal lavoro. Per reazione, dopo parecchio tempo, lui si era andato ad innamorare di una donna che fosse solo quello, bionda e senza altri orpelli o intellettualità, era evidente il percorso. L’aveva circondata di attenzioni e aveva finto anche a se stesso che la sua curiosa ricerca degli altri avesse con lei trovato compendio finale e completo. Lei, con mille esperienze alle spalle, si era lasciata trascinare in quel rapporto con tutto il piacere di sentirsi finalmente completata da un soffuso benessere borghese e dal carattere piacevolissimo di lui, che non le chiedeva altro che essere se stessa.

I primi tempi erano stati bellissimi, anche se era entrata in punta di piedi in un mondo già molto completo, forse anche troppo, dove suo marito, sempre preso dal lavoro, le lasciava lunghe giornate di completa disponibilità di se stessa. Usciva per negozi, oziava in casa, si dedicava alla cucina cercando qualche sorpresa da tenere in caldo per le ore impossibili in cui lui rincasava. Le giornate realmente libere da impegni venivano come per incanto riempite dalle mille curiosità di lui, che riusciva a trascinarla nei luoghi più impensabili come per la necessità interiore e fondamentale di sconfiggere la noia. Certe volte si sentiva fuori luogo, ma il comportamento del marito riusciva sempre a disinnescare qualsiasi piccolo accenno di malumore.

Se ripensava alla sua vita precedente al matrimonio le pareva quasi inconsistente, senza alcuna importanza, come se durante tutti quegli anni non avesse veramente vissuto. Doversi ricollegare a quella parte della sua esistenza era adesso un fatto sconcertante, le pareva quasi impossibile. Era come se avesse vissuto proiettando in avanti ogni possibilità, ed anche se durante la vita matrimoniale non era ugualmente riuscita a trovare una vera identità, almeno calma e  pacatezza erano riuscite ad entrare con maggiore solidità dentro le sue giornate.

Le venne da piangere, ma riuscì a trattenersi. Poi cercò dentro di sé qualcosa che la divertisse, ma non trovò niente di adatto. Invece le venne un insolito struggimento ripensando a quella volta, tanti anni fa, che aveva cercato di gettarsi giù da un ponte. Tempo prima un suo compagno di classe del liceo si era tagliato un polso con una lametta, una di quelle che si usavano alla lezione di disegno, e lo aveva fatto un po’ per scherzo, un po’ sul serio, non si era capito, e aveva lasciato gocciolare il suo sangue sopra al banco. Lei lo aveva come sentito alle sue spalle, ma non si era voltata, se non dopo che tutti lo avevano fatto. C’erano state scene del tutto superiori al fatto quella volta, e il suo compagno era finito sul giornale senza neanche rendersene conto, con larghe spiegazioni, inedite per chi lo conosceva a scuola, circa le difficoltà della sua famiglia ed altre cose di quel genere. Per lei non sarebbe stato così, aveva subito pensato Giulia. Niente nei suoi gesti, niente di scritto da lasciare. Si sarebbe lasciata scivolare giù dalla spalletta del ponte dopo essere rimasta là seduta per un po’ di tempo. Nessuno avrebbe realmente pensato ad un suicidio. Un incidente, nient’altro, questo tutto ciò che desiderava quella volta. Si sarebbe lasciata cadere sopra ai grandi massi al bordo del fiume, appena sulla riva, e con l’impatto immaginava il suo corpo straziato dalle pietre, striato di sangue e con le ossa spezzate sotto alla pelle. Chi si fosse affacciato dal parapetto avrebbe visto un corpo informe, inguardabile, e una capigliatura bionda, scomposta solo dal vento e dalle avversità.

“Non mi interessa che qualcuno pianga per me. Non voglio niente dagli altri. Mi basta lasciare intatta dietro di me la mia personalità, le mie caratteristiche. Forse qualche volta ho avuto paura del futuro, ma solo perché qualcosa mi ci ha fatto pensare troppo. Mi piace il presente. Fosse possibile, nella vita non vorrei nient’altro…”.

Sopra allo scafo del pattino rosso di salvataggio, arenato sul bagnasciuga e pronto ad ogni evenienza, si era seduto l’uomo del mattino, che mangiando un panino avvolto in un tovagliolo di carta guardava il mare con espressione neutra, quasi comica. Lei gli aveva lasciato terminare anche l’ultimo boccone, poi si era alzata bagnandosi i piedi con la schiuma bianca che arrivava dal mare spinta dall’ultima energia di ogni onda infranta sul bassofondo di sabbia degradante, e lentamente si era avvicinata. “Avrebbe una sigaretta?”, aveva detto quasi senza guardarlo, e l’altro, alzandosi di scatto, scuotendosi le ultime briciole di pane, passandosi una mano sulla camicia alla ricerca del taschino e contemporaneamente cercando di darsi un contegno, le aveva finalmente offerto il pacchetto aperto. Accenderla era quasi impossibile per il forte vento, così, dopo alcuni tentativi a vuoto e la concitazione del momento, ne accese lui una per sé mettendo la mano a bicchiere attorno alla fiammella, per poi lasciarne accendere a lei un’altra direttamente dalla sua.

Il fumo scompariva nel vento in un momento, e piuttosto che rimanere lì esposta agli sguardi di chiunque lei aveva detto: “Le va di camminare?”, indicando la direzione del pontile. Probabilmente lui doveva avere quattro o cinque anni meno di lei, e lei risultava solo leggermente più piccola di statura. “Mi chiamo Giulia, sono di Siena”, aveva detto, sentendosi sfacciata forse come mai era stata nella vita. Lui era Alfredo, abitava a Firenze. Disse qualcosa, argomenti leggerissimi senza alcuna domanda, come fosse già chiaro quasi tutto, poi continuarono a camminare in silenzio per un po’. Più avanti c’era un bar sul mare e si sedettero ad un tavolino sotto alla veranda per un caffé; Alfredo aveva modi nervosi pur non essendo nervoso, ed il suo sguardo era sfuggente, come alla ricerca di qualcosa più lontano. Forse non aveva mai curato troppo la superficie dei rapporti casuali con le persone, forse non aveva mai nutrito un vero interesse per le chiacchiere insignificanti, oppure si interessava solo ad argomenti che valessero la pena di essere trattati per un motivo o per l’altro; o forse semplicemente non sapeva bene quale discorso intavolare, così lei gli venne in soccorso: “La Pensione Orchidea effettivamente non è il massimo…”, disse come riferendosi a se stessa e riallacciandosi a quanto era accaduto durante la mattina; “…però se si cerca un’esagerata tranquillità e la compagnia delle famiglie più ordinarie del mondo, allora ci troviamo nel posto giusto”, spiegò con evidente ironia accompagnata da un mezzo sorriso.

Alfredo aveva fumato fino in fondo la sua sigaretta gettandone il mozzicone lontano con un gesto studiato, poi aveva sorriso vagamente senza guardarla e cambiando discorso aveva chiesto: “Sarà facile qui noleggiare una barca, secondo lei?”. “Certo”, aveva detto Giulia con finta sicurezza, “nei giorni scorsi qualcuno mi aveva dato una pubblicità di una compagnia che si occupa di cose del genere e che fa capo laggiù, al pontile, se non sbaglio…”. Le era piaciuta quella frase tutta appoggiata su quel “secondo lei” che apriva e tirava in primo piano. Poi aveva continuato: “Non sono un grande esperto di mare…”, aveva detto, “…ma se c’è una cosa che mi infastidisce è lo starmene in spiaggia sopra ad una sedia senza fare niente”. “Ci vuole una certa esperienza e capacità di adattamento”, gli aveva risposto Giulia con ironia senza sorrisi. “Si può leggere, osservare gli altri, il panorama, pensare…”. “Ecco”, aveva ripreso Alfredo, “forse è proprio quest’ultima la cosa che soprattutto vorrei evitare…”. Poi si era come morso le labbra, forse per aver toccato l’argomento sbagliato. “Vorrei evitare di stare in mezzo alla gente, ecco, in fondo non chiedo molto”. “La capisco”, aveva detto Giulia, “ci sono persone che ti guardano ed hanno subito bisogno di capire tutto di te, magari proprio quelle cose che tu non vorresti mai rivelare, e solo vedere l’insistenza con cui certe volte ti osservano ti fa uscire matta…”.

Alfredo si era girato verso di lei a queste parole, e per un attimo l’aveva guardata negli occhi, come probabilmente non era solito fare, poi voltandosi aveva cambiato nuovamente argomento: “Per lavoro disegno fumetti per alcuni giornalini da bambini, neanche troppo noti. Le storie le scrivono altri, io disegno soltanto. Non ho studiato per farlo, mi veniva naturale disegnare, fin da piccolo, e fino a qualche anno fa non credevo proprio che ci avrei mai tirato fuori dei soldi, poi mi ci sono ritrovato. Non guadagno male, ma la mia passione vera sarebbe fare ritratti, solo che non ho la tecnica per i colori ed il resto, l’unica cosa che riesco ad usare è la matita. Mi piace scavare nell’espressione di qualcuno, riuscire a tirare fuori una personalità con pochi tratti di matita. Così non è che la gente non mi piaccia, è che vorrei incontrare le persone solo poco per volta, e con le facce serie, le espressioni sincere. A volte vado a qualche mostra d’arte, ed osservo a fondo le persone attorno a me mentre sono intente ad osservare le esposizioni; così le fotografo mentalmente e poi quando torno a casa cerco di ritrarle”. “Se vuole posso impegnarmi a fondo a guardare il mare”, disse Giulia in modo semiserio, “così assumo un’espressione seria, lei mi osserva e così mi fa il ritratto, che ne dice?”. “Si potrebbe fare…”, disse Alfredo osservando il mare quasi come alla ricerca dell’ispirazione, “…lei ha una faccia interessante, disegnarne l’espressione sarebbe bello, forse un po’ difficile…”.

Per un attimo a Giulia era tornato a mente suo marito accompagnato da una sensazione amara, poi, chissà per quale concatenazione mentale, le era passato davanti agli occhi un ragazzo della scuola, un suo compagno di liceo. Mariotti si chiamava, bello da far girare la testa a tutte quante le ragazze, e lui, come seguendo un copione estremamente logoro e scontato, rimaneva sempre leggermente in disparte con il suo dolce sorriso appena abbozzato, quasi una smorfia, senza lasciarsi coinvolgere da nessuna delle sue compagne. Avevano provato di tutto loro, dai bigliettini anonimi alle improvvisate nei luoghi che frequentava dopo la scuola, per cercare di farlo uscire fuori da quel suo guscio impenetrabile, e non riuscendo, l’avevano infine lasciato perdere con la considerazione finale che probabilmente non valeva i loro sforzi. Giulia poi, una volta l’aveva incontrato in una discoteca, si erano salutati abbastanza affettuosamente ed avevano ballato assieme; poi si erano seduti ad un tavolino in disparte e avevano parlato di alcune cose, senza troppo impegno, quasi svogliatamente. “Qua non ci vengo quasi mai”, diceva lui con distacco. “Giusto se non ho proprio nient’altro in programma…” Il suo atteggiamento appariva veramente distaccato da tutto pur conservando una certa cortesia affettata. Lei cercava di non avere comportamenti che denotassero pregiudizio, ed annuiva alle parole di Mariotti come convenendo senza entusiasmo alla normalità dei comportamenti che le venivano spiegati. “In genere mi annoio nelle discoteche, non c’è mai niente di nuovo… Preferisco le feste private dove non conosci quasi nessuno ma riesci in fretta, magari con qualche occhiata in più data in giro, a renderti conto del tipo di gente che c’è, e a spostarti verso le persone più interessanti…” Mentre parlava continuava a guardarsi attorno, come se il suo interesse fosse veramente altrove, o come cercando qualcosa nelle zone più nascoste del locale. Giulia era a suo agio, e nella poca luce dell’ambiente confusa da faretti multicolori e intermittenti, guardava le unghie delle prprie mani e il basso tavolino avanti a sé, leggermente confusa dalla musica ad alto volume. Mariotti parlava ad alta voce, sicuro di sé, e pur dipanando le parole senza fretta, cercava di non lasciare mai alcuna sospensione e di non rimanere senza argomenti. Così, con leggerezza, continuava a svolazzare da un tema all’altro senza mai porre domande dirette e senza chiedere l’opinione di lei.

Poi, d’un tratto, si era sentito annoiato da quel posto, “Dai, andiamocene via”, aveva detto con i modi di chi ha già deciso tutto. Così erano usciti dalla discoteca in quel tardo pomeriggio domenicale, con i lampioni della strada già accesi, e nel grigiore identico alla sensazione provocata dalle cose già fatte o già pensate, lui dopo pochi metri, ancora vicini all’insegna rossa della discoteca, all’improvviso l’aveva baciata, fermandola con un gesto svogliato mentre camminavano lungo il marciapiede, senza mettere in mezzo alcuna parola, come fosse inutile, nessuna espressione particolare, niente. Giulia l’aveva lasciato fare, non tanto per curiosità sugli sviluppi di quel gesto, quanto per l’incapacità mentale di obiettare qualcosa, una noncuranza che spesso le tornava del tutto naturale. Poi aveva abbassato gli occhi lasciando le braccia e  le mani abbandonate lungo ai fianchi, e si era sentita completamente vuota, senza voglia né di parlare né d’altro; così aveva ricominciato a camminare lentamente, quasi come fosse sola. Alle sue spalle sentiva lo sguardo di chi sicuramente mai avrebbe immaginato una tale mancanza di ogni reazione, e ora probabilmente si sentiva confuso, impreparato, senza alcuna possibilità per recuperare, già molto più lontano di quanto fosse in realtà, perso dietro a idee confuse e inconcludenti, come i suoi argomenti. A Giulia era parso un film d’altri tempi, un po’ patetico e un po’ assurdo, quasi da ridere, così aveva allungato il passo in una improvvisa e inedita voglia di rimanersene completamente da sola. Infine aveva attraversato la strada e si era sentita bene quando aveva preso perfettamente coscienza che era meglio così, per tutti. Erano questi i comportamenti in cui più si ritrovava, lo sapeva fin troppo, ma  provava paura per la loro assurdità, perché erano dettagli incomprensibili anche a se stessa.

Si rese conto in un lampo che non aveva mai raccontato a nessuno questa storia, ed ebbe voglia di farlo con Alfredo, quella buffa e interessante persona che aveva davanti a sé, conosciuta solo mezz’ora prima. Valutò velocemente che il bisogno di alleanze era solo debolezza, e non ebbe alcuna voglia di sentirsi così, anche se era divertente essere sotto osservazione. Era dolce e piacevole piuttosto quel silenzio di argomenti, e in mezzo agli sguardi di tutti, ed il respiro dei loro pensieri ronzanti senza un vero centro a cui riferirsi, lei non trovò niente di meglio che iniziare a canticchiare una vecchia canzone tra sé, come per farsi compagnia.

Intanto avevano servito i loro caffè a quel tavolino della veranda, e Alfredo si era concentrato sulla sua tazzina, rigirandola come per gioco sopra al piattino ed evitando di mescolarvi dentro lo zucchero. Giulia aveva smesso di cantare e si era voltata di nuovo verso il mare, poi, tenendo la sua tazza con la mano, si era spostata al tavolino a fianco, senza dire niente e continuando ad osservare fuori. Alfredo aveva tirato fuori da qualche tasca un pezzo di carta e una matita, e quasi in accordo con la sua modella improvvisata aveva cominciato a tratteggiare qualche linea, poi si era interrotto.  “No”, aveva detto; “così è impossibile, non mi riesce”. Giulia aveva sorseggiato il caffè e sorridendo era tornata a sedersi al posto iniziale. “Ha ragione”, aveva detto, “in fondo neanche a me interessa molto essere ritratta così. Vede, la mia espressione, sono sicura, rispecchia abbastanza, in genere, le mie emozioni, ma è impossibile per chiunque adesso comprendere gli stati d’animo che mi passano per la testa, è un momento così complesso che neppure io riesco a sapere cosa mi affligge più del resto, e anche se non sono tranquilla mi sento come se stesse per inaugurarsi una nuova stagione della mia vita, e questo mi fa sentire quasi bene, viva”.  Tra sé Giulia pensava che avrebbero potuto darsi del tu e che usare distanze e sussiego forse era stupido, poi come in un lampo ebbe voglia di annotare tutti quei suoi pensieri e quelle sue riflessioni che aveva maturato durante quei giorni in solitudine sotto al suo ombrellone, ma accantonò subito questo pensiero scortese.

Sorseggiarono ancora a lungo i loro caffè dimenticandosi del tempo e restandosene in silenzio, poi Alfredo disse: “Per me è come se la caratteristica delle mie giornate fosse l’attesa. Non so neppure io di che, ma è come se mi aspettassi qualcosa dal futuro, o meglio, dal momento immediato che segue il presente, senza sapere bene cosa o in che forma si dovrebbe concretizzare; il senso di attesa spesso lo sento molto forte dentro di me…”. Giulia intanto si era alzata di nuovo dalla sua sedia per andarsi ad appoggiare alla ringhiera di legno che delimitava il bar sul lato verso la spiaggia, come attratta da qualcosa, poi, restando in piedi, si era voltata verso Alfredo: “E’ naturale che ci si aspetti un miglioramento dal futuro, sarebbe assurdo non pensare in questo modo, però provare questo sentimento così forte probabilmente alla lunga diventa deprimente”. Non parlava per sé, naturalmente; era come se cercasse di dire qualcosa che aveva letto, o che valesse per tutti. “Si, è un po’ così”, soggiunse Alfredo a mezza voce; quindi con uno scatto rapido si alzò dal tavolino per accostarsi al bancone del bar e pagare i caffè, e quando tornò verso Giulia la trovò pronta per uscire dal locale. “E’ quasi buffo pensare a quanto continuamente ci si accontenta di ciò che si ha e di ciò che siamo; ci si convince che non può essere altrimenti che così, e che va bene, non potrebbe andare in altro modo. Ma se ci si discosta anche di poco da questa apparenza delle cose si scopre che spostando un piccolo elemento, un accento o una sottolineatura messa in altra posizione, ecco che tutto cambia magicamente, anzi, meglio: tutto, pur rimanendo così com’è, ci appare però diverso, sotto una luce del tutto differente…”

La sabbia del litorale era calda e morbida nella parte asciutta, e il sole continuava ad essere brillante e avvolgente nei confronti del mare, dell’arenile, del cielo chiaro e luminoso. Alfredo, continuando a camminare, svogliatamente immerse un piede nella risacca leggermente schiumosa dell’acqua, poi si volse verso Giulia: “A volte penso che continuiamo tutti a fare le stesse cose solo invertendo un po’ le priorità, e questo pensiero mi fa sentire stupido, come se stessimo continuando a girare in tondo e a dannarci solo per trovare una via d’uscita che non c’è...”. Improvvisamente Giulia provava un senso di superiorità nei confronti di Alfredo, anche se non sapeva captarne il motivo, così non rispose niente anche se in fondo non si sentiva affatto in disaccordo con l’opinione che aveva ascoltato. “Cercare di essere contenti o addirittura felici di ciò che siamo è una falsità, un assurdo umano” disse come tra sé ma con convinzione. “Siamo sempre alla ricerca di qualcosa, anche se spesso non sappiamo cosa sia, ed è il percorso che ci riempie le giornate…”.

Per il resto della passeggiata restarono in silenzio, come cercando di recuperare ognuno la propria individualità, ed alla fine ambedue si sentivano bene, come avessero condiviso qualcosa d’importante, così sfuggente da non apparire e non dare memoria di sé. Quasi non ci fu necessità di salutarsi: prima dello stabilimento balneare lui tagliò verso la strada, e lei raggiunse l’ombrellone dove raccolse le sue cose per tornarsene alla pensione Orchidea. Si sarebbero rivisti, era evidente, ma non c’era da darsi appuntamenti: sarebbe successo così, senza prenotazione.

Alfredo, era chiaro, aspettava qualcuno, pensava Giulia rimasta sola; probabilmente un’amante, che chissà con quanti e con quali stratagemmi avrebbe potuto dividere con lui una notte o due, o forse soltanto poche ore. Appariva buffo tutto quel rincorrersi e dividersi, star male o riempirsi di piacere, come se la stasi fosse l’elemento da sconfiggere ad ogni costo, e lei, immobile, lì, in quella pensione per famiglie, si sentiva adesso l’elemento più comico. Rientrata nella sua camera, dalla finestra dell’albergo il mare di fronte appariva scuro, striato continuamente da brevi righe chiare che spumeggiavano ora qua ora là su tutta la superficie in un rumore bianco di sottofondo potente e continuato. Avrebbe dovuto prendere delle decisioni, tornare in città, telefonare a qualcuno, qualsiasi cosa era permessa, ma il senso di piacevole paralisi di cui era preda rimaneva più forte di qualsiasi altra cosa.

Una volta ad Ernesto aveva raccontato di un’incontro casuale con una sua ex compagna di liceo. Naturalmente non era vero, ma quella sera le era venuta la voglia di parlare di sé, così aveva inanellato una serie situazioni, a cominciare dalle grandi feste con cui era stata salutata dall’amica. Avevano camminato assieme, aveva sostenuto nel suo racconto sbadato e privo di particolari, e lei era stata trascinata dalla simpatica insistenza dell’altra dentro a un caffè. Si erano sedute ed ambedue si erano sentite a proprio agio parlando dei vecchi compagni di scuola, come non fosse passato tutto quel tempo. L’amica era rimasta in contatto con molti di loro ed era felice di poterla aggiornare. “Ti ricordi di Carlo?”, diceva lei, “Timido com’era, adesso è un apprezzato geologo e gira per il mondo come se fosse nato per questo…”. “E Caterina, pensa, lavora in ospedale come ostetrica…”.  Giulia con Ernesto parlava di loro e di quella sua amica come se una sacca segreta e inspiegabile fosse nascosta dentro di sé, come se quelle varie realtà avessero assunto aspetti invidiabili, e tutti avessero trovato la loro strada maestra, i loro scopi migliori verso cui indirizzarsi. Non c’era invidia, solo una rassegnazione vaga e dolente al suo sentirsi diversa e così apatica, sofferente e incapace a costruire uno scopo, inadatta ad essere reale e concreta. “Hai fatto un ottimo matrimonio”, diceva l’amica, “non capisco il tuo stato d’animo così triste e dimesso”. Non ne faceva carico al marito di quei suoi sentimenti, questo era chiaro, però aveva necessità di essere capita e che una maggiore tolleranza le permettesse di trovare il filo che probabilmente aveva smarrito o forse non aveva mai avuto. Ernesto era rimasto in silenzio per un po’, poi avevano parlato d’altro. Lei certe volte aveva sentito la necessità prorompente di uno spessore maggiore del suo passato, e le pareva che solo inventandosi qualche caratteristica avrebbe potuto mostrarsi ancora interessante agli occhi di lui. Odiava i dettagli, e lui non la incalzava, quel suo raccontare a volte sfumava nel vago, ne era cosciente.

Un’altra volta si era inventata un viaggio realizzato in estate quando aveva ventisei o ventisette anni. Era vero, in effetti, era partita con il suo fidanzato del momento, sistemandosi in una cuccetta di un treno che partiva alla sera e dopo una corsa disperata di notte in mezzo alle campagne e ai piedi dei monti, al mattino lasciava risvegliare tutti i passeggeri a Parigi, come in un sogno realizzato. Però le era venuto da raccontare questa storia come fosse inventata, fingendo di non ricordarsi bene una cosa o l’altra. Si erano sistemati in un hotel che si apriva su una strada importante, indifferenti ai pochi soldi racimolati con sacrificio, e in quei pochi giorni si erano girati la città non rispettando alcun itinerario turistico, camminando spesso a caso per le strade e discutendo tra loro in italiano colorito o qualche volta in francese scolastico con conoscenze occasionali nei bistrot e nei locali pubblici. Fin da quando aveva iniziato a parlargli di quel viaggio aveva provato, come in tante altre occasioni,  la sgradevole sensazione di non riuscire a spiegarsi, di non rendere sufficientemente partecipe suo marito di quelle atmosfere, di quelle forti impressioni; si giustificava con se stessa dicendosi che forse era più divertente lasciare tutto nell’oblio del vago, del fantasioso. Ma quella volta si sentiva lontana da lui, diversa, ed era come non potesse farci niente.

Oltre a questo era quel senso di indifferenza che a volte provava per tutto ciò che c’era attorno a metterle addosso un po’ di paura. Le si costruiva dentro una catena stravagante di sensazioni, senza che lei potesse veramente controllarla, uno stato come di assuefazione al presente, tanto da spingere i suoi pensieri verso fantasie scollegate tra di loro e non rapportabili a niente. La paura nasceva assieme al senso di impotenza che provava: quel suo stato era senz’altro più forte della sua volontà, non poteva farci niente, così certe volte era pienamente cosciente di apparire assente agli altri, stretta da chissà quali pensieri o svagata da svolazzanti fantasie. La domanda odiosa e ricorrente che generalmente in quelle occasioni le veniva posta era “Giulia, ma a cosa stai pensando?…”, ed era in quel frangente che si sentiva ancora più scostante ed impotente, attraversata da parole inadatte a spiegare, quand’anche fosse stato possibile, quei suoi stati d’animo incomprensibili persino a se stessa.

Cosa c’era stato a Parigi che lei non riusciva a raccontare? Non lo sapeva, una catena di sensazioni, di particolari indistinguibili e importanti, di voglie e di emozioni concatenate fino a saldarsi in qualcosa di diverso, che forse lei aveva continuato a cambiare nei suoi ricordi, con la voglia di pensare e ripensare tutto fino a trasformarlo, fino a dare un senso nuovo anche alle cose scontate ed evidenti. I suoi quaderni erano pieni di frasi e annotazioni come un mosaico di parole che solo nell’insieme e tutto in una volta rendeva l’idea di fondo, ma più si andavano a leggere i dettagli, più l’insieme appariva semplicemente incomprensibile.

Più difficile di tutto era spiegare a un marito che probabilmente l’amava, o che l’aveva amata fino ad allora, che lei ne era incapace, che i suoi sentimenti si fermavano sempre prima di superare quella soglia fatidica, come una sorta di meccanismo automatico a cui lei si era abituata da sempre. Non amava nessuno, non aveva mai amato nessuno, e non l’aveva mai confessato, forse neppure a se stessa.

Fece una doccia e si coricò sul letto con il piccolo televisore acceso su un canale qualsiasi; poi si addormentò, forse per un’ora. Quando tornò ad uscire dall’albergo l’intensità del vento si era abbassata. Sulla strada lungomare c’era già parecchia gente in passeggiata e lei si perse in mezzo agli altri continuando a camminare e ad osservare le vetrine dei negozi. C’era stato un ragazzo, tanti anni prima, che le aveva fatto perdere la testa. In pochi giorni lei si era sentita come trasportata in un'altra dimensione, ed il senso di intimità profonda che aveva respirato era rimasto indelebile per tantissimo tempo, anche se la loro relazione era durata troppo poco. Aveva trascorso con lui un fine settimana magico, e lei durante quel paio di giorni, aveva annullato dentro di sé tutto il resto, forse restando persino troppo immobile, incantata ad osservarne gesti e maniere, mentre lui, al contrario, nelle sue frenetiche costruzioni mentali, si era probabilmente stancato presto di una persona con pochi stimoli. Ripensandoci ricordava tantissimi particolari che adesso le parevano quasi nostalgici. Mauro, così si chiamava quel ragazzo moro, magro, con gli occhi brillanti di intelligenza e di passione, si era fatto prestare quella piccola casa di campagna da un amico, e ci aveva portato Giulia per il fine settimana giusto per fare qualcosa di diverso. Lungo la strada si erano fermati a comperare delle provviste, e così si erano divertiti a cucinare e ad aprire gli sportelli della grande dispensa alla ricerca di pentole e stoviglie. 

“Giulia”, diceva lui, “è una gran bella dote quella di riuscire a diluire tutto nel tempo, far durare ogni piacere ed ogni gioia a lungo, fino a saziarsene, senza brusche variazioni. Ma è un comportamento che non è possibile imparare, lo si ha dentro, oppure no, non ci sono vie di mezzo, ed io non ce l’ho…”. Dopo quel fine settimana non si erano più cercati, naturalmente, lei per la paura di sentirsi sbeffeggiata, lui perché perso dietro a chissà quali altre cose, e quel piccolo dolore, quella sottile sofferenza per un distacco peraltro annunciato, non l’aveva più abbandonata. Non era Mauro che le mancava, era la perdita di contatto, quell’impotenza nel cambiare la realtà, la solitudine forzata o semplicemente la distanza incolmabile da qualcuno, inestirpabile, nonostante tutti gli sforzi possibili. A volte pensava a sua madre, a tutti quegli anni avanti e indietro dalla clinica. Si sentiva bene quando andava a farle visita, solo per starle vicina, seduta, lasciando dipanare nel silenzio il filo dei pensieri mentre tracciavano nell’aria un legame vero ed ininterrotto, vibrante, non razionale che rimaneva tra loro, forse, come un dono di senso alle loro vite per ragioni diverse così contorte. Quando sua madre era tornata a casa, durante i periodi migliori, la commozione spesso in famiglia aveva preso il sopravvento su qualsiasi logica materialità, e tutto era parso oscillare dietro a sentimenti sfuggenti di affannosa ricerca della norma, di una regola, di qualche elemento almeno privo di oblio, di sogno o incubo lattiginoso e distorto. Poi tutto, nel giro di poco, si era sempre disperso nell’ordinarietà strampalata di sempre.

Di quei periodi aveva annotato molte cose: “Mia madre è bella quando non la si osserva. E’ fatta così, va guardata con occhi d’immaginazione…”. E poi, “…non mi è mai mancata, forse perché so che è dentro me; con le sue mani, quel suo torcersi le mani nell’attesa di chissà che cosa…”. “..non ha pensato niente di me, non ce n’è mai stato bisogno…”. E infine: “…non si deve mai voler bene, siamo tutti persone divise…”.

Intanto si era fermata al chiosco delle informazioni turistiche, ed aveva preso uno di quei depliant che aveva già intravisto e su cui erano segnati tutti gli orari delle barche in partenza dal pontile per le isole vicine. Adesso era lei che voleva distaccarsi, ne sentiva una necessità profonda. Forse era propriamente questo il percorso della sua vita: riuscire a completare se stessa senza necessità di alcun altro, anzi, lontano dagli altri, conservare freddezza e imparzialità in ogni rapporto. Era proprio quando ripensava a sua madre che le sembrava possibile quel percorso. Lei si era distaccata da tutti, richiudendosi in se stessa e lasciando filtrare appena un’ombra di ciò che era stata un tempo, lasciando solo un flebile filo di speranza a contorno della sua personalità rimasta forte comunque. Certo, andarsene in gita sopra ad una barca per mezza giornata non era certo una soluzione, ma per i suoi esperimenti di socializzazione frenata era quanto di meglio si potesse cercare. Era la cura per la sua psicologia ammalata, e forse lasciarsi trasportare in giro in mezzo ad altra gente poteva anche aiutarla a trovare qualche soluzione. No, non era vero, questa era solo la facciata che cercava di costruire attorno a se stessa. La sua era una vera prova di fuga, qualcosa che somigliasse a quella di sua madre, ma non così perversa: andar via, questo era l’elemento opprimente e liberatorio insieme; voltare le spalle ed andarsene, senza nessuna spiegazione. Adesso aveva voglia di sentirsi così, senza pensieri e ripensamenti, lungo una strada da percorrere anche se priva di scopo, di meta finale. E’ chiaro che la sua tristezza era profonda, ma l’afflizione provata per la prima volta non la portava verso gli altri, ma al contrario a staccarsene, e questo era il formidabile nutrimento alle sue riflessioni.

Non riusciva a pensare a fondo qualcosa su Ernesto, se non dei particolari isolati che non davano neppure un quadro dell’insieme. Non le riusciva neppure di capire quanto davvero c’entrasse lui in questi suoi nuovi sentimenti; e soprattutto non riusciva ad odiarlo, oppure a disprezzarlo adesso che la stava scaricando: era come una presenza nella sua mente che aveva un suo peso, una sua importanza, forse anche eccessiva in certi momenti, e lei adesso stava prendendo coscienza di come poco a poco avrebbe imparato a fare a meno di lui, di tutti gli altri, ed egli stesso  le aveva mostrato il percorso per arrivare a questo, poteva anche essergli grata.

Una domenica mattina, qualche tempo prima, erano rimasti a casa senza programmi; lui era sceso fino all’edicola ed era ritornato con i suoi giornali, il passo calmo, la mente svagata in una delle rarissime giornate non organizzate. Si era seduto nel tinello ed aveva aperto il quotidiano nella fresca luce primaverile che entrava dalle finestre accostate. Giulia l’aveva osservato a lungo, senza scopo, quasi per giocare; si era seduta alle sue spalle ed aveva continuato ad osservare i suoi pochi, piccoli gesti, le sue mani, la sua espressione seriosa e così attratta dalle parole scritte sul giornale tanto da dimenticarsi quasi di lei. Si era alzata allora per andargli vicino, come per riempire un vuoto che sentiva, ma aveva provato un brivido, un senso inaspettato che l’aveva fatta desistere: d’improvviso le era parso un estraneo, quasi un perfetto sconosciuto, come se osservandolo troppo avesse perduto i contorni conosciuti, consueti. Si era avvicinata alla finestra allora, ed aprendola si era appoggiata al davanzale per sporgersi ad osservare fuori, in un gesto proiettato alla ricerca di qualcosa che forse non era nella casa. Erano trascorsi così alcuni momenti, poi lui, senza distogliere troppo, almeno in apparenza, l’interesse per la lettura, le aveva detto: “E’ una giornata bellissima, potremmo fare un giro senza meta, giusto per godere del sole e dell’aria tiepida; oppure, se vuoi, potresti uscire tu e farti una bella passeggiata…”.

Giulia aveva cercato di rimanere impassibile per avere il tempo di pensare a quelle parole; era la prima volta che suo marito le proponeva, pur in alternativa, qualcosa da non fare assieme, e questo era senz’altro singolare. Pensò che forse era solo una piccola provocazione per sondare le sue reazioni, ma questo pensiero la gettò ancor più nello sconforto perché significava che c’era qualcosa di strano in lei che Ernesto non sapeva decifrare, ma che neppure lei, a dire la verità, sapeva cosa fosse. “Potremmo andare a pranzo fuori in una trattoria senza pretese…”, disse lei in fretta, senza scostarsi molto dalla finestra e girando solo un po’ la testa verso di lui, ma non le parve di essere stata convincente. Di fatto si sentiva estremamente colpita da quelle parole, tanto da non trovare una giusta reazione, sempre che avesse dovuto trovarne qualcuna. “Ottima idea”, aveva invece detto Ernesto, e più tardi, si erano preparati separatamente per uscire.

Erano scesi, avevano tirato fuori l’auto dal garage ed erano partiti quasi senza più parlare. Ernesto aveva sempre un posto dove andare, era inutile chiederglielo, ma quel senso di allontanamento tra loro due, quasi di straniamento che aveva provato Giulia, era ancora in atto, continuava a profondere la sua scia negativa e silenziosa dentro di lei, tanto da lasciarla in silenzio, senza argomenti. Ernesto appariva leggermente nervoso, aveva telefonato per avere il numero della trattoria, poi alla trattoria per chiedere una prenotazione, infine aveva parlato al telefono con un suo collega dello studio che aveva bisogno di qualcosa di urgente, e appena arrivato fuori città, ai piedi della collina, aveva parcheggiato l’auto davanti ad una vecchia costruzione in pietra con le tendine bianche alle finestre. La trattoria era alla mano e il cameriere aveva salutato i nuovi arrivati con un sorriso indicando un tavolino libero. All’interno si respirava un’aria fresca e piacevole, e il locale appariva semplice e con pochi orpelli. Si erano seduti, e lui aveva detto: “Allora, che ne pensi di questo posticino?”. Giulia si era guardata attorno, aveva posato la sua borsa su una sedia libera, e con gesto consueto aveva sollevato il menù, quasi per soppesarlo, poi aveva detto: “E’ delizioso, esattamente il tipo di posto che avevo in mente”, mostrando sicurezza di sé. Il cameriere era arrivato quasi subito per le ordinazioni e aveva consigliato i piatti del giorno che, spiegati da lui, apparivano gustosi e stuzzicanti.

“Credo proprio che tu abbia ragione”, disse Giulia un volta rimasti soli e tranquilli al loro tavolo cercando un tono di voce come se non avessero mai smesso di parlare. La sua espressione e i suoi modi rimanevano bonari, ma fino a un certo punto. “A che cosa ti riferisci?”, le rispose invece Ernesto come al di fuori completamente dall’argomento principale rimasto nell’aria tra loro. Spesso il suo modo nel porre le questioni era disarmante: il suo pensiero prontissimo, e la maniera di rigirare ogni questione del tutto professionale. Giulia deglutì un sorso di vino bianco che le era stato versato nel bicchiere, poi osservò senza interesse qualcosa in un angolo del locale, quindi riprese, con una calma quasi forzata: “Nei giorni lavorativi della settimana è vero che rimango da sola per un tempo a volte lunghissimo, ma la mia attenzione per ciò che faccio è sempre in tua funzione, o meglio, per me è come se fossimo in due comunque, quasi tu potessi arrivarmi vicino l’attimo dopo la conclusione di ogni mio pensiero, ecco. Sei una presenza indelebile dentro di me, e ti sento accanto, e nelle mie azioni quotidiane inserisco incoscientemente anche quello che potrebbe essere un tuo commento, o la tua opinione, e continuo a scambiare con te persino i pensieri che mi passano per la mente. Mi viene naturale, tutto questo, sono fatta così. Però sbaglio; questo comportamento è del tutto sbagliato, hai perfettamente ragione, devo al contrario cercare di allontanarmi da questa impostazione, pensare di più a me stessa, dimenticare di sentire tutto come coppia…”.

“Sono aspetti di personalità”, disse Ernesto quasi sottovoce ma deciso; “per quanto tu possa impegnarti però è molto difficile cambiare effettivamente queste impostazioni anche se è già molto importante prenderne atto…”. Giulia si sentì leggermente irritata da questa conclusione, e pensò che comunque quella era la solita maniera di Ernesto per punzecchiarla, per provocarla bonariamente, ma la cosa non le piacque, così chiese scusa con indifferenza e si alzò per andare in bagno. Aveva bisogno di tempo, avrebbe voluto pensare di più a quegli argomenti anche se tutto le pareva un po’ surreale. Altre volte le sue giornate le erano parse vuote, prive di occupazioni e di interessi, anche se non se ne era mai lamentata, ma adesso si sentiva scoperta, come smascherata da Ernesto, proprio lui che aveva sempre insistito in ogni cosa per non farla preoccupare di  niente, incoraggiandola a riposarsi, a rilassarsi, a fare soltanto ciò che le piaceva. Era terribile, all’improvviso le pareva di aver bruciato, per il lieto vivere in due, tutte quelle opportunità che aveva semplicemente osservato passarle sotto al naso, e oltretutto come se, non interessandosi di nulla fuorché del bene della coppia, ne avesse invece trovato il limite. Quando tornò al tavolo Ernesto stava telefonando con il suo portatile, e a lei, pur furiosa nel profondo dei suoi pensieri, parve per un attimo di avere una personalità inferiore a quella del marito, inconfrontabile quasi, senza trovare in sé, adesso che erano arrivati così allo scoperto, nessun elemento di riscatto. Poi parlarono d’altro, anche per non appesantire la giornata, ma lei sentì dentro di sé che qualcosa andava incrinandosi, irrimediabilmente.

In quei giorni le note sui suoi quaderni si fecero brevi e astratte: “Musica, albero, sedia, presenti e lontanissimi…”. “…vorrei tornare piccola per giocare ancora spensieratamente…”. “…ho sentito mio papà, e non ho saputo dirgli niente che non fosse banale…”. “…non ho pensato il futuro, non voglio…”.

Fece un ampio giro a piedi, sul lungomare e lungo le strade dell’interno del piccolo paese turistico, spingendosi fino al pontile tanto per rendersi meglio conto delle barche su cui era possibile viaggiare. Cercava di svagarsi, questo era il punto, e contemporaneamente sperimentare i suoi nuovi punti di vista. Si sentiva attratta dal mare, dall’azzurro profondo, dalle onde, da quella coltre che copre tutto e tutto inghiotte restando uguale a se stessa, indifferente. Provava un’ansia di fuga, di isolamento, e se guardava sull’acqua all’orizzonte era per scrutare non il mare in sé, ma quel puntino disperso, quel piccolo elemento così ininfluente, ancora più lontano di qualsiasi altra cosa. Tornò alla pensione Orchidea, lesse qualcosa sdraiata sul suo letto e quando scese per la cena scoprì che stava bene, che si sentiva più equilibrata. Tornò indietro, ad un tratto, quando aveva già socchiuso la porta della sua camera d’albergo, aprì il solito quaderno sfogliandolo velocemente come per ripassarsi tutto quanto vi aveva annotato, e alla prima pagina vuota con grandi caratteri scrisse di getto: “Oggi, voglia intensa di andar via, di partire, di perdermi senza che nessuno sappia più niente di me. Lontano, fuori da tutto ciò che sono oggi; oggi…”. Lasciò tutto così sopra al piccolo tavolino, sorridendo in sé della probabile curiosità della cameriera, poi uscì.

 Le venne di nuovo da sorridere nel trovare Alfredo ad un tavolo con quella donna che doveva essere la sua amante, o la sua fidanzata, ma finse assoluta indifferenza. Lui appariva tutto ripiegato dentro a quel rapporto, come se non avesse altri occhi che per lei, ma poi Giulia osservò meglio i suoi atteggiamenti, visto che quel tavolo le rimaneva nel campo visivo quasi di fronte, e si rese conto che lui sembrava più debole, e immaginò che la loro relazione fosse improntata su un confronto continuo, su una ricerca perenne di un inesistente equilibrio. Naturalmente non poteva sentire le loro parole mentre discorrevano, però lei appariva decisa, seriosa, con un mezzo sorriso che, quando si accennava sulle sue labbra, mostrava un senso vago quasi di disprezzo per tutto ciò che aveva attorno. Lui era ossequiente, al contrario, ed il suo argomentare pareva piegato a tranquillizzare, a calmare le cose tra di loro.

Ripensò a suo marito, ed osservando il suo telefono vide che le aveva fatto una chiamata a cui lei non aveva risposto. Provò un senso di nausea e di disinteresse, e spense il telefono per evitare di ascoltare ulteriori parole sciocche e probabilmente ipocrite. Terminò di cenare ed uscì dall’albergo, giusto per andare al bar dello stabilimento balneare. Volse una sedia della veranda verso il mare calmissimo che specchiava gruppi di luci in lontananza e seppe di nuovo di star bene, di non aver bisogno di alcuno, anche se forse il suo era solo orgoglio. Poi il suo umore cambiò improvvisamente; le venne da piangere, d’improvviso, ma riuscì a trattenersi. Ripensò ancora a quel compagno di liceo che tanti anni prima aveva cercato di tagliarsi le vene dei polsi in quella maniera così plateale.

Per qualche motivo le era sempre stato difficile togliersi di mente quell’immagine. Era come un elemento ricorrente. Rivedeva il sangue sopra al banco, la disperazione nello sguardo assente di quel ragazzo, l’istante in cui tutti gli saltavano addosso, per salvarlo, per strappargli dalle mani la sua autodistruzione, in atto chissà da quanto tempo dentro la sua mente. Vedeva la stanza bianca, i banchi allineati, i colori delle foderine dei libri e dei quaderni. Poi elencava di nuovo con la memoria le espressioni stupite dei suoi compagni. Di loro aveva scritto: “Dal sorriso alla disperazione in un attimo. Come qualcosa che può succedere a chiunque. Che succede a chiunque. Che è successo. Stupore. Via da lì, fuori, dentro, c’è altro, tanto altro…”. Non riusciva a capire, come del resto anche i suoi compagni, cosa potesse essere passato nella mente di quel ragazzo: voglia di protagonismo? Necessità interiore di aiuto da cercare nel modo più evidente possibile sottolineando la propria debolezza per sentirsi diverso da tutti, o distante, o altrove, invece che lì, con gli altri? E poi l’immagine, immediatamente correlata, come un incubo ricorrente: lei sopra al ponte, in piedi, in alto sopra la spalletta di pietra, e qualche curioso con la macchina che rallentava per cercare di capire le sue intenzioni. C’era una debole corrente che si trasferiva in quei pensieri; non riusciva a pensare a quel ragazzo senza pensare anche a sé, a quel ponte ormai immaginario. Debole vento tra i capelli, e nella testa niente, come un generalizzato disinteresse di tutto. Una o due persone che lentamente si avvicinano, con circospezione, cercando di capire, chiamando senza grande impegno verso quella figura assurda, una bionda nel vento sul ponte, e il niente che aleggia sopra la spalletta. Infine pochi passi, pochi metri, la concretezza di qualcosa di intangibile, ed il silenzio di quel tuffo senza impegno, come un lasciarsi cadere, svogliatamente, e la dolce e repentina chiusura come soluzione del problema. “…non come una beffa; ma come una pacatezza improvvisa dei sentimenti, un risvolto possibile tra i casi, un allargarsi di un orizzonte soltanto mio…”.

 Accanto a sé una ragazza giovane che aveva già visto altre volte allo stabilimento balneare le aveva sorriso, poi le aveva chiesto se voleva fare una partita a carte, ed a lei piacque notevolmente l’idea, così si sedettero ad un tavolo facendosi portare quanto occorreva ed iniziarono a giocare. Al bancone del bar Sergio serviva i gelati e i caffè con la sua abituale professionalità. Al telefono aveva risposto alla chiamata quotidiana del signor Ernesto dicendo: “Tutto regolare, nessuna novità, sua moglie si diverte, ma pacatamente…”. Lei sentiva i suoi occhi spaziare attorno ai tavoli e fermarsi sulla sua nuca, sui suoi capelli; per lei era come se un fluido invischiante unisse le loro presenze. La ragazza si chiamava Franca e pareva spigliata e simpatica. Si dissero qualcosa, si impegnarono quanto bastava, e dopo tre mani decisero di smettere. Giulia aveva perso e così offrì una bibita a Franca, che sorseggiando disse che stava aspettando il suo fidanzato.

Quando questi sopraggiunse Franca andò con lui. Da sola, Giulia cercava di pensare senza minimamente riuscire a concentrarsi. Forse aveva voglia veramente di piangere, oppure i suoi erano solo sentimenti di rabbia, non riusciva a capirlo. Sergio, da dietro, le aveva portato un caffè come una mano distesa in suo aiuto, senza guardarla negli occhi, e lei avrebbe voluto abbracciarlo per questo, per questa sua capacità comprensiva senza necessità di alcuna spiegazione. Quando si alzò dal tavolino raggiunse senza guardarsi attorno, il retro del locale dove erano stipate le casse di birra e bibite, e quando lui la raggiunse si lasciò baciare a lungo come fosse un bacio d’addio, senza sapere perché.

Molte volte Giulia aveva inventato qualcosa per suo marito al fine di mostrare la sua giornata meno piatta di com’era veramente, ma nelle sue fantasie c’era sempre qualcosa di vero, come nei suoi quaderni, dove c’erano tante parole scollegate e sospese, ma che tutte assieme formavano un quadro completo. Di fatto l’incapacità a trovare degli interessi che le occupassero davvero il tempo era un elemento intrinseco alla sua personalità, così il suo mondo rimaneva confinato nell’osservazione dei personaggi che incontrava normalmente: il portiere del palazzo, i vicini di casa, i negozianti in fondo alla strada, e per il resto si affidava completamente alla sua capacità di fantasticare. Non che inventasse davvero tutto quanto, il suo era soltanto un modo per colorare un po’ ciò che vedeva attorno a sé, dando un’importanza maggiore alle cose in modo da farle apparire più interessanti o più uniche. Suo marito l’ascoltava, seguiva volentieri i suoi svolazzi a volte anche divertenti e piacevoli, e questo era tutto quanto ci fosse d’importante. 

Ad attendere di salire sulla grossa imbarcazione a motore erano soltanto sette o otto persone sopra al pontile, ma presto se ne sarebbero aggiunte molte altre, come le aveva detto il marinaio che adesso stava ultimando le operazioni prima di prendere il largo. Lei prese posto in uno dei sedili in coperta, riparata dalle onde e dal vento che immaginava potessero alzarsi forte come il giorno avanti, ed appoggiò il suo zainetto in uno scomparto che conteneva già dei salvagente di sicurezza. Nel quarto d’ora seguente molte persone si aggiunsero al primo gruppetto, e la barca, in tutti i suoi posti a sedere, si riempì quasi del tutto. Il comandante si presentò parlando dentro ad un megafono ed il motore ronzò sotto ai piedi di tutti, una volta mollate le cime di attracco, quasi a dimostrare che stavano partendo. In un attimo il pontile sfilò via, ed il borgo marinaio, allontanandosi, mostrò già ad una distanza di poche centinaia di metri le sue macchie di colore composte di case, di alberi e di lunghe file di ombrelloni lungo la battigia.

Il percorso della gita consisteva in un’escursione lungo la costa con piccole fermate nelle baie più caratteristiche, quindi l’arrivo ad un isolotto disabitato dove avrebbero attraccato per mangiare con calma dei pranzi freddi che la società organizzatrice aveva fatto preparare. La parte migliore era fare un tuffo tutti assieme nei pressi di una grotta dove il mare era un vetro azzurro sopra ad un fondale mozzafiato, così diceva il marinaio che forniva spiegazioni e informazioni. Per il resto la giornata di sole appariva bellissima ed effettivamente a bordo tutti si godevano il viaggio. Alcune persone avevano già fatto comitiva tra loro, altre, da Giulia già notate allo stabilimento balneare, si raccontavano barzellette e storielle divertenti; i bambini naturalmente schiamazzavano tra loro e tutti apparivano piacevolmente occupati mentre la barca filava via dondolando sopra l’acqua. Alla prima sosta qualcuno si era tuffato tanto per farsi vedere, ed una donna aveva chiesto un salvagente per stare più sicura. A bordo regnava la tranquillità, adesso che i motori erano spenti; Giulia aveva scambiato solo qualche parola con una coppia di ragazzi che le sedevano vicino.

Aveva lasciato in albergo sia il telefono portatile che il quaderno, come per staccarsi da qualsiasi contatto. Si era imbarcata all’ultimo quasi per un dovere nei confronti della decisione ormai presa, ma quel senso profondo di tristezza la faceva sentire disperatamente sola anche in mezzo a tanti turisti. Dentro di sé, una volta sedutasi a bordo del battello, avrebbe voluto che quella barca potesse davvero portarla lontano, via da quelle poche cose che adesso peraltro le parevano insignificanti, via dal marito con le sue giornate sempre piene di mille attività e mille impegni, distante da lei, così diverso, come se quel distacco fosse il proseguo naturale e ordinario delle loro cose. Avrebbe voluto scappar via dalla sua vita, della quale adesso non ricordava neppure un dettaglio importante o saliente che fosse degno di essere ricordato, via dai suoi pochi ricordi, confusi e indefiniti, senza un elemento di unione che ne legasse il senso. Nei suoi pensieri invidiava Alfredo, che riusciva a perdere la testa per una donna che probabilmente neppure lo meritava; invidiava Sergio, il barista dello stabilimento balneare che aveva sempre presenti tutti gli ingredienti della sua vita, come fossero oggetti da pesare e da considerare ogni giorno, continuamente. E poi invidiava tutti, che ridevano e si divertivano di un qualcosa che a lei stava sfuggendo, che forse poco a poco non riusciva più a comprendere.

La navigazione poi era ripresa e qualcuno aveva continuato a scattare fotografie mentre, una volta attraversato un braccio di mare di due o tre miglia, l’imbarcazione si avvicinava sempre più alla sagoma imperiosa di un’isolotto scuro, alto di rocce e di vegetazione cespugliosa, quasi misterioso, andando infine a gettare l’ancora nella parte più calma, sottovento. Il momento del pranzo, pur frugale, naturalmente aveva mescolato gli animi lasciando socializzare tutti attorno al riso freddo, alle insalate di pomodori e ai salumi vari. Giulia aveva aiutato una bambina simpaticissima che le raccontava tutto di sé e dei suoi genitori che intanto continuavano a sorridere e ad annuire del carattere estroverso della loro figlia.

Poi tutti o quasi erano scesi a terra usufruendo di un pontiletto di legno levigato dal mare e dal vento. Con qualche ritrosia anche Giulia era scesa, giusto per muovere le gambe e togliersi dal naso quell’odore pungente di gasolio. L’isolotto era venato di sentieri che portavano verso una costruzione in parte diroccata distante un centinaio di metri. Lei si era seduta su una roccia piatta, e, trovato dentro lo zainetto il depliant della gita, di colore giallino, in una pagina vuota di fotografie e descrizioni, aveva scritto: “Non si sta bene in nessun posto. Si cercano gli altri e poi la solitudine, in alternanza infinita. Il futuro non è un problema interessante…”, poi la parte di foglio prima libera non le aveva permesso di scrivere nient’altro. La roccia scottava di sole, e i fili d’erba assieme ai cespugli dalle foglie dure sembravano una sfida alle avversità. Immaginava un faro, all’apice dell’isola, con il suo compito estremamente importante e più utile di notte che di giorno. Le burrasche, i giorni di bonaccia, la pesca incoraggiante e le navi all’orizzonte, con il loro carico di vita, la loro presenza importante, lo scorrere lente lungo quella linea d’orizzonte, silenziose. Un teatro per pochi personaggi e nessuno spettatore. Uno scarabeo nero aveva faticosamente raggiunto la parte orizzontale sulla sommità di una pietra, ed adesso pareva godersi la vittoria. Il vento, dall’altra parte dell’isola aveva preso a tratti a muggire e a spettinare la vegetazione rada e secca tra i sassi. La costruzione in alto doveva essere stata un rifugio per gente senza spirito, per inetti, privi di qualsiasi forma di socialità, unico e vero bene umano.

“Sprofondarsi in una passione, qualsiasi essa sia. Trovare dentro sé un motivo trascinante per cui vivere. Scoprire un  lato nascosto di qualcosa, finalmente vero e importante, degno di tutto…”, avrebbe scritto se avesse avuto con sé il suo fedele quaderno. Il profilo della terraferma formava un’onda sinuosa oltre il mare. Milioni di persone erano morte nella ricerca di cavalcare l’onda, alla scoperta di qualcosa che valesse la pena di vivere, e forse nel viaggio per mare avevano trovato il compendio vero alla loro voglia, a quell’urgenza. Non importava ciò che avrebbero trovato, se non se stessi, moltiplicati in un gesto senza fine, specchiati dentro ad occhi increduli di gente perennemente in attesa della loro venuta, come eroi da immortalare.

Tutto era da definire, sempre che la definizione fosse stata una meta da raggiungere. L’isola era un elemento mentale dentro al quale proteggersi come all’interno di una scudo morbido. Le ricordava l’infanzia, la sicurezza della famiglia, della casa, quel senso di protezione che via via si era perduto con la crescita. C’era un giardinetto, dietro casa sua, e nel sole arroventato di luglio a volte era rimasta lì, lei e suoi i coetanei vicini di casa, seduti nell’erba, a raccontarsi le grandi e piccole scoperte di ogni giorno. Parlavano sottovoce, nel frinire delle cicale d’estate, e si svelavano importanti segreti che nella loro semplicità mascheravano le caratteristiche di ognuno di loro, già preponderanti, dettagliate. Lei rimaneva sempre un passo indietro, e se gli altri si appassionavano di un racconto o di una storia, lei restava indifferente, non per posa, ma solo perché si sentiva così. Le piaceva stare sull’erba, assieme agli altri, in quella luce accecante di sole caldo, ma non aveva niente da dire agli altri, se non stiamo qui, stiamo assieme, dividiamo i nostri pensieri, le nostre piccole intuizioni; era sufficiente un gesto, uno sguardo, non importavano parole. A volte si trovava a dover parlare proprio perché interrogata, ma la sua voce le pareva uscire da una bocca non sua, come per uno scollamento profondo tra le parole e i pensieri. Era come se oltre la superficie del suo corpo ci fosse un confine al di là del quale tutto assumeva altra proprietà, si trasformava in elemento quasi autonomo, mutava in organismo incontrollato. Le sue stesse mani, ad osservarle, non pareva fossero del tutto sue: era come se, davanti agli occhi, uno scafandro spesso di materiale trasparente si interponesse tra lei e tutto.

Qualche volta aveva fatto un gioco, durante certe serate in casa caratterizzate da una radio gracchiante che faceva compagnia alla mamma. Mancava mezz’ora o poco più ad andare a letto, e Giulia nascondeva un oggetto nella stanza mentre la mamma la guardava con occhi spenti, senza interesse. Poi lei girava per la stanza, muoveva altre cose, altri oggetti, confondeva un po’ tutto con il gusto di toccare e ritoccare le cose. Poi si fermava, si concentrava sopra al tavolo centrale e lasciava trascorrere qualche minuto. Infine tornava a riprendere l’oggetto iniziale lì dove l’aveva messo, ma con gran divertimento scopriva sempre che l’oggetto non c’era più. Qualche volta lo scovava da tutt’altra parte, dopo aver rovistato di nuovo tutto ciò che aveva toccato, in altri casi non lo trovava per nulla, se non nei giorni seguenti, riordinando la stanza o occupandosi di altre cose.

Non avrebbe potuto parlare con nessuno di una cosa del genere, lo sapeva bene, e d’altra parte non avrebbe proprio saputo come spiegarsi, e peraltro non le interessava neppure dire ad altri le proprie cose. Restava sua mamma, che forse era complice o partecipe di tutto pur con la sua assenza, la sua distanza profonda. A volte la sentiva vicina la mamma, pur con il suo sguardo identico e vuoto, altre volte ne avvertiva solo la presenza. Del gioco degli oggetti perduti probabilmente solo lei conosceva la chiave, pur lasciando i risultati come sospesi. A Giulia restava la curiosità e lo stupore di tanti piccoli eventi inspiegabili. Da allora non aveva più provato quel gioco, forse perché non si erano più riproposte situazioni simili a quelle di quel tempo, forse anche perché tutto quel mondo si era allontanato da lei gradualmente e inesorabilmente, lasciandone soltanto delle sensazioni vaghe e imprecise.

Adesso, davanti a sé, lungo il filo dell’orizzonte, si muoveva lentissima una nave petroliera, forse la solita dei giorni passati, forse una nuova. I pensieri di Giulia ora si muovevano con la stessa intensità della nave, trasferendo altrove la sua mente, e tutto pareva scomparire come dietro ad un enorme sipario di luce e di trasparenza. Le sue mani erano ancora davanti a lei, ma a lei pareva di non averne più, di essersi fusa con la roccia, con le piante coraggiose dell’isola, con lo scarabeo annaspante sulla superficie ruvida. Il suo gioco la portava dentro alla costruzione in alto, assieme a persone solitarie e silenziose, per girare dentro a stanze circondate dal vento, e da nient’altro. Un uomo si era seduto allo scrittoio, e aveva cercato di mettere assieme, senza riuscirci, le parole giuste per una lettera che sapeva non avrebbe mai spedito:

“Caro fratello…”, diceva; “…forse ho desiderato con tutto me stesso un mondo piccolo e chiuso, tutto per me, fatto solo per dimenticare il mio segreto, ma forse solo perché non sapevo cosa volesse dire veramente. Adesso le mie giornate sono infinite, e rimpiango inesorabilmente tutto ciò che non ho…”. Lentamente Giulia si era intanto incamminata verso la casa in alto, aveva scansato le rocce e i cespugli spinosi camminando a piedi scalzi lungo uno stretto sentiero, e si era fermata sulla soglia di ciò che restava della porta principale, spalancata e divelta dai cardini. Gli altri erano lontani, tutti assieme sullo spiazzo di fronte al molo. Per un attimo aveva pensato che quell’uomo fosse Arturo Pirrone, e tutto le era parso correre velocemente verso la conclusione. Si era tolta i capelli dal viso, con un gesto stanco e forzato, e aveva respirato l’aria fresca dei muri scrostati e cadenti. Quell’uomo era lì, davanti a lei, voltato verso un’altra direzione e ancora occupato con la sua lettera. Lei si era spogliata, come per un automatismo, e infine l’uomo aveva sentito la sua presenza, si era voltato e l’aveva osservata, quasi senza interesse. Lei avrebbe voluto darsi a lui, salvarlo, ma in un attimo ebbe la coscienza che tutto era ormai perduto e l’uomo stava svanendo nell’aria, perduto chissà dove, come nei suoi giochi infantili. Attese lunghi momenti, poi si rivestì  per tornare dagli altri.

Fu al momento del ritorno che si presentarono i problemi. In poco tempo il vento si era messo ad infuriare, ed il mare era ingrossato in modo notevole, senza che fino ad allora nessuno si fosse reso conto di niente, neppure l’equipaggio della barca, con la loro sicura esperienza di mare. Il comandante della barca, una volta che ebbe chiara la situazione, non nascose i suoi timori, e parlando a voce alta nel megafono obbligò ognuno ad indossare il salvagente di sicurezza, a rannicchiarsi nelle postazioni più sicure e a tenere un comportamento responsabile per sé e per gli altri. L’imbarcazione si lasciava sbattere dalle onde mentre il motore arrancava nello spingere il natante controvento; soprattutto i marosi sulla prua non lasciavano sperare niente di positivo. Difatti una volta attraversato il braccio di mare dall’isolotto fino alla prossimità della terraferma con le onde che si scagliavano contro la fiancata della barca, la rotta che si imponeva da quel momento, pur il più possibile sottocosta, risultava esattamente controvento e soprattutto avversata dallo spumeggiare di onde enormi che lasciavano beccheggiare la barca in maniera impressionante. La paura inevitabile per l’incolumità di ognuno prese alcuni più di altri. Una signora iniziò a dire ad alta voce che lei voleva scendere in qualche maniera, qualsiasi fosse, e che non avrebbe potuto resistere così fino all’arrivo; altri, colpa dell’inevitabile mal di mare, iniziarono a dare di stomaco, e la situazione, un po’ per tutti, ma soprattutto per chi aveva dei bambini con sé, iniziava ad essere realmente complicata.

Giulia, reggendosi a tutto ciò che di stabile c’era in coperta, aveva raggiunto con grandi difficoltà il comandante impegnato tra la radio che pareva rimandargli solo notizie poco rassicuranti, ed il suo timone spinto a dritta e a sinistra dalla forza del mare. “Se posso fare qualcosa…” cercava di dire Giulia con la difficoltà data dal rumore del mare e dai movimenti repentini della barca, “…per aiutare la situazione…, ecco, …io non ho paura, … e …so nuotare bene…, tutto sommato non ritengo neanche di aver molto da perdere…, non so…, se posso fare qualcosa…”. Il comandante non aveva abbandonato la sua espressione preoccupata, continuando al contrario a guardare il mare avanti a sé, ma dopo qualche secondo aveva detto a voce bassa: “Va bene, cerchi di tenere calme le persone più agitate”.

La costa, composta da rocce e scogliere più o meno frastagliate, non permetteva nessun attracco, ed il navigarle in prossimità alla ricerca disperata di un mare un po’ meno burrascoso, lasciava i turisti ancora più impauriti nel constatare quanto la forza delle onde, infrangendosi sopra le grandi pietre, potesse danneggiare con il suo impeto tutto quello che poteva trascinare con sé. Proseguendo con fatica, si apriva un tratto in cui la costa si abbassava, fino ad arrivare in prossimità di una zona dove si allargava una specie di piccolissima baia. Il comandante, probabilmente anche per far riprendere fiato al motore, aveva accostato all’interno del piccolo golfo, dove il mare appariva un po’ più spianato e meno battuto dalle onde, proprio perché protetto. Subito diverse persone, constatato che poco lontano passava la strada costiera, chiesero di scendere dalla barca, ed all’opposizione del comandante che sosteneva la pericolosità di gettarsi in acqua per raggiungere a nuoto la rampa di cemento che veniva probabilmente usata per alare qualche piccola imbarcazione, sette o otto persone decisero che valeva la pena tentare, e appena vicini, si gettarono in acqua. Ad ogni attimo il moto ondoso pur contenuto della baia pareva inghiottirli e tutti gli altri rimasti a bordo con grande apprensione seguirono quel loro dimenarsi pur sorretto dai colorati salvagente.

Solo dopo lunghe decine di minuti uno per volta raggiunsero la riva, con la capitaneria di porto che continuava a chiedere per radio al comandante la precisa posizione della barca per mandare qualcuno a raccogliere tutte quelle persone. Terminato lo sbarco la navigazione riprese, con tutte le difficoltà precedenti, ma con un senso di solidarietà maggiore tra chi era rimasto. Giulia si era sistemata accanto al comandante che era sempre rimasto incollato alla ruota del timone, informandolo continuamente di ogni piccola novità che percepiva, sia a bordo che fuori. Le onde da sopravvento continuavano a spazzare interamente la coperta, e tutti i turisti, bagnati fradici, si stringevano ai loro panni per resistere al freddo, e alle attrezzature fisse della barca per evitare di cadere o essere scaraventati in mare . Poi un rumore forte e improvviso dall’interno avvisò che il motore stava cedendo. Difatti in pochi attimi si spense, proprio mentre il comandante e il marinaio di bordo, con mosse rapidissime, si erano gettati sulla prua e avevano iniziato a calare l’ancora, ed il silenzio che aveva avvolto tutto d’improvviso, aveva dato subito il senso sinistro degli accadimenti.

Giulia aveva contato il numero degli imbarcati, così come le aveva chiesto di fare il comandante, e aveva annotato alla meglio, sopra un foglio bagnato, quelli che si erano gettati a mare, e coloro che erano rimasti. L’ancora pareva si fosse incagliata bene sul fondo, e tutta la corda che c’era a bordo era stata mollata al seguito in modo da dare la maggior elasticità possibile a tutto l’insieme. Il comandante e il marinaio si erano detti sottovoce qualcosa di terribile, che Giulia aveva intercettato e che adesso la lasciava quasi senza respiro: la cima in acqua poteva cedere sotto agli strattoni terribili di ogni colpo di mare, ed in quel caso l’imbarcazione con tutti i suoi occupanti sarebbe andata inevitabilmente a rovinare nell’arco di pochi minuti sopra quegli scogli a picco sul mare poco distanti. “Dobbiamo informare tutti della situazione…”, aveva detto Giulia al comandante, “…dobbiamo chiarire a quali pericoli andiamo incontro”.

Intanto alla radio la capitaneria di porto aveva detto che una grossa imbarcazione aveva salpato per raggiungerli, ma ci sarebbe voluto quasi un’ora, e in quel lasso di tempo poteva anche accadere il peggio. Il comandante si era rivolto a tutti allora, e ad alta voce aveva chiarito tutto quanto usando parole tranquillizzanti e fingendo un controllo della situazione che in realtà non aveva affatto, peraltro omettendo il problema della cima dell’ancora, in modo da non creare panico. Giulia sottovoce aveva invece detto ad un paio di persone che la corda si sarebbe potuta spezzare ed oramai tutti volevano sapere cosa fare e come comportarsi. Qualcuno appariva paralizzato e altri piangevano dalla paura, mentre la barca era un fuscello sballottato dalle onde: sei persone a bordo non sapevano nuotare, per cui in caso di naufragio si sarebbero affidate al solo salvagente che avevano indosso.

Il comandante con il suo megafono chiarì soltanto che se lui avesse detto “In acqua!”, per un qualsiasi motivo, tutti si sarebbero dovuti gettare in mare al più presto possibile, e questo fu tutto. Quasi non aveva finito di dire questo che un tonfo sordo parve squarciare la barca, e in un attimo, senza più ancoraggio, quella girò di novanta gradi la sua prua, prestando al vento e alle onde la fiancata e sbandando paurosamente. Alcuni volarono in mare senza alcun altra possibilità, ed agli altri il comandante urlando impose di farlo immediatamente. Nell’arco di pochi minuti la barca orami vuota finì di rovesciarsi, lasciando emergere soltanto un fianco ed una serie infinita di oggetti e attrezzature attorno a sé. Tutti urlavano agitandosi nella schiuma delle onde, cercando di non farsi allontanare tra loro dalla forza del mare, meno che Giulia che si era ritrovata attaccata ad una panca di legno volata in acqua assieme a tutto il resto e senza volere era stata spinta un po’ più lontana. La sua lotta con le onde che non le permettevano di vedere nient’altro attorno durò per un tempo che parve infinito, e sorretta alla tavola di legno che mossa dal vento l’aveva spinta chissà dove, vide ad un tratto che gli scogli erano oramai vicinissimi, e le onde sbattevano contro di essi con forza inaudita, spruzzando schiuma e acqua dappertutto. Con il coraggio della disperazione spinse avanti il pezzo di legno a cui era attaccata saldamente, e grazie a quello riuscì a salire sopra ad uno scoglio senza ferirsi. In fretta percorse ancora qualche metro per arrivare ad un punto dove le onde non potevano arrivare, e sopra ad uno scoglio piatto e riparato, si tolse il salvagente e si adagiò a riposare.

Aveva il fiato grosso e tossiva per l’acqua salata ingoiata, mentre il mare lì a pochi metri continuava ad infuriare, ma la sua spossatezza si dimostrò superiore a ciò che avrebbe immaginato, lasciandola semisvenuta per un lungo lasso di tempo. Sdraiata sopra agli scogli si addormentò, pur senza volerlo, e nel turbinio delle emozioni provate le parve di trovarsi lontano, in una situazione del tutto diversa. C’era la mamma, in disparte, silenziosa, voltata di spalle. Giulia voleva andar via, uscire da casa, raggiungere qualcuno che forse la stava aspettando. Ma la porta di casa appariva lontana e gli spazi sempre più grandi e vuoti di tutto. Una forza smisurata era necessaria per smuoversi anche solo di un passo, era come sentisse sua madre riempire gli spazi con tutta se stessa. Non era la mamma ad impedirgli di uscire, era lei stessa che non riusciva a staccarsene. Infine una finestra si apriva e la luce si riversava all’interno.

Da piccola non aveva mai avuto compagni di gioco con i quali stringere particolari amicizie. Più di ogni altra cosa le piaceva stare da sola, immaginare dei giochi fantastici e divertirsi con quelli, magari fantasticando di camminare seguendo quel filo immaginario disegnato da una semplice crepa del marciapiede, o stravolgendo la forma di un’ombra. Una bambina, forse di un anno più grande di lei, certe volte veniva a chiamarla, abitando nella casa vicina alla sua. Andavano assieme lungo la strada di casa poco frequentata, e quella bambina le parlava delle sue piccole cose. Giulia ascoltava senza aver niente da dire a sua volta, e l’unica cosa che riusciva a proporre nelle giornate piene di nuvole, era quella di andarsi a sdraiare su un prato vicino, e immaginare le forme più belle. Un giorno le chiese se sua mamma fosse una strega, e Giulia si chiuse ancora più dentro a se stessa.

Quando riaprì gli occhi il sole stava ormai calando, dovevano essere trascorse alcune ore, i capelli e i vestiti le si erano completamente asciugati, e nessuno era venuto a cercarla, forse perché nascosta dagli scogli, forse perché nessuno aveva contato esattamente le persone mancanti all’appello, pensò. Si alzò con fatica dalla sua posizione, e arrampicandosi sopra la scogliera arrivò in alto, dove passava la strada. Cercò di riordinare i capelli con le mani, si sistemò alla meglio i calzoncini e la maglietta che aveva indosso, ed alla prima vettura che transitava lungo la strada fece un cenno con la mano.

“Ha bisogno di un passaggio?”, aveva detto il giovanotto che si era fermato, e lei era salita sul sedile della piccola macchina senza dare alcuna risposta, visto che le pareva fin troppo evidente il suo stato di necessità. Si era resa conto che la direzione era contraria a quella che avrebbe dovuto prendere, ma il suo stato di afasia le rendeva questo particolare assolutamente secondario. “Vado verso il Lido…”, aveva aggiunto il giovanotto ripartendo, forse con qualche meraviglia per quel silenzio misterioso, “…sono soltanto sette o otto chilometri da qui; ma se vuole per un pezzetto in più la posso accompagnare…”. “Non importa”, aveva allora detto Giulia, “…qualsiasi posto va bene”.

Le risposte poco chiare, la capigliatura arruffata e l’abbigliamento spiegazzato dovevano aver lasciato pensare al giovanotto chissà quali scenari, così lei lo anticipò con una frase che non lasciava dubbi: “Mi scusi…”, disse, “…ma ho litigato da poco con il mio fidanzato, e questa volta credo proprio sia stata l’ultima…”. Trascorsero diversi secondi in cui il motore forte dell’auto e le curve della strada costiera sembravano il giusto sottofondo di tutti i pensieri, poi lui riprese il discorso: “Ma…sa adesso dove andare?”, aveva chiesto con un realismo ineccepibile, e lei aveva lasciato correre via la domanda, evidenziando così la sua condizione disperata. Intanto si erano dovuti accendere i fari della macchina, ed il sole era andato tramontando già da diversi minuti, lasciando in aria un bellissimo color aranciato sfumato nel viola. Altre curve lungo la strada praticamente deserta, continuavano a rincorrersi quasi per gioco, ed i pensieri di ambedue probabilmente cercavano una direzione possibilmente razionale.

“Vuole una sigaretta?…”, aveva detto lui con gentilezza, aggiungendo senza soluzione di continuità: “…se vuole posso ospitarla per stasera, abito una casa grande, c’è anche la mia famiglia, magari domani i pensieri appariranno più sereni…”. “Va bene”, aveva risposto lei senza aggiungere nient’altro.

Così, dopo poco, avevano lasciato la strada principale per immettersi in un vialetto sassoso, ed una volta attraversato un grande cancello aperto, erano entrati all’interno della recinzione di un giardino un po’ polveroso per andare a parcheggiare la macchina tra alcune aiuole curate che fronteggiavano una villetta decorosa e modesta costruita su due piani. Lui aveva spento il motore dell’auto ed era sceso. “Siamo arrivati”, aveva detto, e le aveva aperto il portone di casa. All’interno l’ingresso era come si poteva immaginare e al momento in casa pareva non ci fosse nessuno. Giulia chiese del bagno e Andrea, accompagnandola al piano di sopra, le prese un asciugamano pulito. Una volta rimasta da sola le era quasi venuto da piangere, un po’ per la tensione accumulata, un po’ per il disagio di non aver chiarito subito la sua esatta situazione ad una persona così generosa, e forse, in generale, anche per un assurdo piccolo sfogo che non indicava un motivo preciso, ma anzi, appariva un metro di misurazione per quel momento così innaturale, quasi di sbando della sua vita; poi, con calma, aveva deciso il da farsi, e dopo una doccia veloce aveva cercato di rendersi il più possibile presentabile. Non le andava di tornare alla Pensione Orchidea come niente fosse successo; non perché qualcosa essenzialmente fosse cambiato dopo quella avventura di mare, ma perché l’idea di sparire anche solo per una giornata, pur nella tristezza che adesso provava, era un’occasione che la faceva sentire d’improvviso protagonista della sua vita, come non si era sentita da innumerevoli anni.

Nella cameretta che Andrea le aveva indicato, Giulia aveva trovato dei fogli di carta e una penna, così aveva scritto: “Rigenerarsi in un’altra persona, sostituire se stessa con qualcosa di fresco, di nuovo, da inventare…”. Era Ernesto il suo vero motivo di fuga, era chiarissimo; la delusione provata era forte, ma se per un verso pareva soffrirne, dall’altro si sentiva rinascere. Ernesto era forse solo uno strumento qualsiasi che riusciva a metteva a nudo, inserendo la luce negli angoli rimasti al buio da tanto tempo. “…come da piccola, nascondere qualcosa e non ritrovarlo, se non da altre parti, dopo tanto tempo…”. “…anch’io mi nascondo, e mi perdo così, ritrovando qualcosa di me di cui avevo perso memoria…”. Ebbe un brivido per quell’ultima frase, e sua madre le parve vicina, in qualche maniera. Poi si mosse dentro alla stanza, nascose quei fogli dentro una tasca, si osservò in uno specchio e si vide diversa. C’era qualcosa dentro alla casa, un senso di caldo e accogliente, una sensazione di consapevolezza profonda, come per averci abitato in un altro momento, o aver conosciuto qualcuno che fosse passato da lì e ne avesse portato con sé un ricordo, per chissà quale motivo.

L’arredamento della casa, per quello che aveva potuto sbirciare, appariva sobrio ma non elegante, ed anche il bagno era confortevole ma senza ornamenti di facciata. Andrea aveva detto che per qualsiasi cosa avesse avuto bisogno lui sarebbe stato ad aspettarla di sotto, e quando era scesa aveva trovato l’intera famiglia ad attenderla. Tutti si sarebbero presentati con gentilezza, aveva già immaginato Giulia, e nessuno avrebbe avuto sguardi curiosi o parole imbarazzanti, le pareva normale, e sapeva già dentro di sé che si sarebbe trovata a suo agio. Era quasi l’ora di cena, ed era parso naturale anche a lei come a molti, come un comportamento di rito, andarsi a sedere in sala da pranzo, come lo avesse fatto anche ieri, o il giorno prima, senza alcun convenevole. La stanza peraltro appariva confortevole, luminosa e come proiettata all’esterno attraverso delle grandi vetrate, colorate dal verdeggiare frondoso di alcuni alberi del giardino. La tovaglia era bianca e senza ricami, e le stoviglie posizionate con cura, con senso dell’ordine, e qualcuno aveva sistemato sul tavolo due piccoli vasi di vetro con dei fiori freschi. Anche le sedie allineate attorno, apparivano tutte ben disposte, sistemate in un modo sorprendentemente ordinato. A lei quasi dispiacque che tutto fosse già così preparato: avrebbe voluto andar lei a raccogliere i fiori, o affettare del pane, sistemare piatti e posate; un senso diffuso di confidenza sincera e pacata aleggiava attorno agli oggetti, e lei, nella sensazione di un attimo, si sentì al posto giusto, dove avrebbe voluto essere se non fosse stata già lì. I mobili, gli oggetti, le pareti imbiancate, tutto sembrava parlare, e quella dolce atmosfera di cose già dette e già viste spandeva su per le scale mentre Giulia scendeva, un richiamo al quale era impossibile rimanere indifferenti. “Buonasera a tutti…”, aveva detto senza troppo disagio, “…scusate l’involontaria invadenza, ma Andrea è stato così gentile…che non ho proprio saputo come rifiutare il suo invito…”. C’erano soltanto quattro persone davanti a lei, compreso Andrea che l’aveva portata fino lì, e parevano tutte consuete, già conosciute chissà quale volta, e forse la stavano aspettando, ma senza mostrare alcun segno di impazienza o di curiosità fuori luogo, anzi sorridendo al suo indirizzo, ma senza invadenza, con espressioni cordiali e comunque non false o affettate.

Quello era un momento che pareva, per qualche ragione, allungarsi nel tempo, come un procrastinare qualcosa, un dilatare i movimenti e le frasi, le espressioni e i pensieri, come una dimensione diversa dove tutto si dipana in maniera soffusa e assopita, e dove le cose importanti si snodano senza alcuna nevrosi, e chiunque può comprenderne il peso e soppesarne il valore, concedendosi il lusso del visitatore ad una mostra di quadri, che non cambiano affatto, e rimangono lì, fermi, a farsi ammirare.

La madre di Andrea si era mossa verso di lei, le aveva strinto sofficemente la mano e aveva detto soltanto: “Buonasera, io sono Esther, e gli ospiti inattesi in questa casa sono spesso i più graditi…”. Il suo sguardo era profondo, sincero e sfuggente, come se il suo orgoglio per quella casa e quella famiglia celasse qualcosa. La sua espressione tradiva una non completa sicurezza di sé, ma era del tutto impossibile stabilire dove, dietro al suo viso convinto, stesse la crepa che lanciava qualche stridore. Si era avvicinata a lei con molto buon garbo, ma le aveva subito cercato negli occhi qualcosa che Giulia non sapeva di avere, lasciandola vagamente perplessa, restia a concedere troppo di sé. Le sue mani erano calde ma c’era qualcosa di freddo dietro all’espressione curiosa, come se un tassello dei suoi anni di donna matura non fosse tornato al suo posto, e fosse arrivata una bionda ancora poco abbronzata, uscita fuori in una strana maniera, con chissà quale storia alle spalle, a ricordarle, senza che fosse richiesto, qual’era il tassello sbagliato. Esther si era sposata quasi di fretta, trent’anni più addietro, con un uomo conosciuto da poco che le era sembrato simile al padre, taciturno e sornione, il contrario di lei, estroversa e solare. La sua vita era stata riempita di cose da fare: il marito, quell’unico figlio, e ancor prima i genitori sempre più anziani e ammalati morti ambedue l’anno prima del suo matrimonio; e le era sempre comunque avanzato del tempo per occuparsi di tante altre cose. Forse, in certe giornate, era andata da qualche amica per giocare a carte, puntando dei soldi, aveva pensato Giulia, e forse aveva perso delle somme che con difficoltà chissà quanto grandi era riuscita a non farsi scoprire. Forse, quando era rimasta da sola, aveva sfogato la tristezza della sua solitudine con una bottiglia nascosta, chissà. La mancanza improvvisa dei suoi genitori doveva averla gettata in un enorme sconforto da cui forse aveva trovato riparo solo in quel matrimonio, organizzato di fretta e in tono minore. Adesso tutto questo era meno importante rispetto al presente, ma certo era che da quegli anni nella sua espressione complessa si era inserito qualcosa che non era più stato possibile eliminare.

Anche Andrea era andato incontro a Giulia con moto spontaneo; le aveva stretto la mano guardandola fissa, quasi con la stessa espressione che aveva avuto sua madre, e in fretta aveva presentato Laura, la sua fidanzata. Facendosi avanti con sguardo pungente, questa aveva mostrato quasi una certa riottosità nel conoscere la nuova arrivata, non come se fosse gelosa dell’altruismo dimostrato dal suo compagno, vista anche la differenza di età tra lui e l’ospite, ma come di chi volesse capire esattamente dove poteva portare quel gesto del suo fidanzato. Giulia, per un riserbo poco chiaro anche a lei stessa, aveva detto di chiamarsi Lilia, accogliendo dentro di sé una personalità che non conosceva e che avrebbe cercato di interpretare da attrice, e quella piccola bugia l’aveva subito fatta sentire meglio, come se incarnando un personaggio diverso da se stessa potesse avere maggiore spontaneità e naturalezza. Provava ancora quel senso di accoglienza che la casa pareva trasudare, ma qualcosa era già cambiato dalla prima impressione. “La nostra curiosità potrebbe essere tanta…”, aveva detto Laura come ad affrontare il principale argomento, “…ma naturalmente non ti chiederemo niente dei tuoi problemi se non sarai tu a volerne parlare…”. Giulia aveva sorriso trovando carino quel modo diretto di Laura, e aveva subito detto: “D’accordo, ma veramente non c’è proprio niente di me di così interessante…”. Poi, cercando una maniera per ammorbidire i pensieri più che gli atteggiamenti della sua interlocutrice, aveva proseguito: “…ho litigato una volta di più con il mio fidanzato, e non ho nessuna voglia di rivederlo, è tutta qua la mia storia. Andrea è stato molto gentile ad invitarmi qui da voi, e a me fa immenso piacere conoscere nuove persone che non mi ricordino lui, almeno stasera…”

Laura era giovane, ma l’impressione che si aveva di lei, anche solo guardandola, era di una persona pronta a difendere se stessa e ogni elemento della sua vita con tutti i mezzi che riusciva ad avere. Una battagliera, ferma di idee, convinta di avere ogni giorno un compito giusto e importante al quale dar seguito. Di lei Giulia avrebbe scritto sul suo quaderno: “Mi guarda, e cerca di vedere di più, oltre la maschera…”. Loro due non apparivano affini, ma in qualche maniera ci poteva essere accordo: il senso leggero di ostilità che si poteva ricavare da Laura, era velocemente stemperato da una vaga dolcezza che esprimevano alcune espressioni del suo viso, mosso nella ricerca continua di serietà e di applicazione verso ogni quotidiano problema.

Il marito di Esther, al contrario di tutti i presenti, appariva chiuso e ombroso, un uomo magro, scavato da chissà quali incertezze, serio nell’affrontare la realtà, e che in quell’attimo dilatato fatto di sguardi e impressioni leggere, era parso restarsene in bilico tra le cose da cui era circondato ogni giorno, e i suoi pensieri che fondevano il nucleo di una vita ordinaria e monotona. Era rimasto indietro, forse preoccupato soltanto di trovare una via alternativa all’immediatezza evidente, indaffarandosi, ma con gesti lenti e misurati, nell’attività sicuramente più sciocca, ossia togliere il tappo ad una bottiglia di vino. Poi, quando più niente poteva distrarlo, si era voltato dalla parte di Giulia, e fatti i pochi passi a colmare lo spazio da cui erano divisi, le aveva stretto la mano, con un gesto dimesso e pesato: “Salve; sono Mario; molto piacere…”, quasi senza guardarla, ma non per timidezza, e neppure per una sorta di mancanza di curiosità, ma solo per un normale atteggiamento, per un comportamento dettato dalla stratificazione di chissà quali e quante esperienze, tutte di minuta importanza se prese singolarmente, che in un attimo parvero risprofondarlo di nuovo nel dedalo dei suoi pensieri e della sua personalità chiusa.

Qualcosa lo aveva alterato già da quando aveva sentito le ruote dell’auto di Andrea scricchiolare sopra la ghiaia, anche se non c’era niente che avesse avvertito come diverso dal solito. Nel giardino sul retro, indaffarato a preparare il barbecue per il pesce, aveva intravisto scendere dall’auto una bionda, una donna qualsiasi peraltro, vestita in modo leggero, che non conosceva, ma che per qualche motivo lo aveva inquietato. Non si era chiesto per nulla quale fosse il motivo ad averla portata fin lì, ma sapeva dentro di sé che qualcosa sarebbe cambiato da quel momento in avanti, perciò era rimasto ad occuparsi delle sue cose, ma aveva intuito che quella donna avrebbe sparigliato le carte. Forse la sua era una posizione di difesa che da molto tempo gli veniva ormai naturale verso qualsiasi novità, ma più probabilmente era il colore di quella capigliatura a lasciarlo perplesso.

Giulia gli aveva stretto la mano già con un leggero sentore di qualcosa, intuendo in pochi attimi di trovarsi davanti ad una personalità per lei non comune, ma fu solo quando le loro mani si toccarono davvero che in lei si scatenò una specie di scarica elettrica imprevedibile e inaspettata. Finse un capogiro del tutto ordinario e fu fatta sedere. Si riprese immediatamente, ma con una nuova coscienza. Si era seduta con la consapevolezza di avere appena stretto la mano ad Arturo Pirrone. Non riusciva a spiegarsi come potesse saperlo, neppure come fosse possibile, visto che si era presentato con il nome di Mario, però all’improvviso aveva la completa convinzione che tutta la storia che si portava dietro da tutti quegli anni fosse lì, davanti a lei, e si sentiva tremare solo all’idea.

Aveva raccolto i suoi capelli dietro la nuca trattenendoli con un elastico che aveva trovato nel bagno al piano di sopra, ed adesso le pareva di aver assunto un comportamento anche troppo dimesso per quella situazione così particolare, e per contrastare questa sensazione cercava mentalmente degli argomenti per non sfigurare nei confronti della gentilezza con cui era stata accolta. “Scusate tanto questa mia intrusione…”, aveva cominciato con un sorriso forse inadeguato ma che cercava di essere aperto e cordiale. Le frasi di sostegno di tutti l’avevano costretta immediatamente a interrompere quel tipo di discorso, ed i suoi sguardi, pur non sapendo bene dove posarsi, parevano cercare una certezza imprendibile. Giulia avrebbe voluto relegarsi in un angolo, ascoltare le conversazioni di tutti soppesandole come le più naturali possibile, restare all’esterno di quella loro curiosità così evidente e invischiante, e cercare così, con tutta la calma necessaria, di capire quale segreto celasse quella famiglia così apparentemente ordinaria.

Poi, all’improvviso, la pesantezza di quel momento era come svanita. Tutti, meno che Esther, sparita in cucina, si erano seduti davanti alla tavola, e l’argomento si era spostato su discorsi comuni. Si era parlato così della costa, di quel tratto di mare, e di quanto la loro famiglia amasse quei luoghi, tanto da aver fatto costruire la casa per le loro vacanze estive già più di trent’anni prima. Era un preambolo, e in quei pochi minuti Giulia si sentiva in dovere di trovare argomenti, coinvolgere tutti nel suo conversare, incuriosire o parlare di sé per quanto possibile, proprio per incoraggiare quel Mario a spiegare qualcosa della sua identità, proprio per riuscire a capire qualcosa di più di quella rivelazione incredibile. Soltanto confusamente, nel tumulto dei suoi pensieri e dei suoi sentimenti riusciva a rendersi conto della situazione che si trovava di fronte, però l’enorme illuminazione data dalle sue piccole doti segrete era tale, le lasciava così scarsi margini, da non permetterle altra possibilità se non quella di prestarsi a quel gioco e cercare di carpire qualsiasi spiegazione potesse scaturire in un modo o nell’altro. Doveva sapere, era vitale, ne andava della sua stessa esistenza, ne sentiva l’importanza estrema dentro di sé, e d’improvviso era quello, per un motivo ora sfuggente, il perno principale attorno a cui avevano ruotato in maniera così singolare tutti quegli anni.

“Non c’era quasi niente qua attorno quando siamo arrivati..”, diceva Esther una volta tornata dalla cucina; “…ed anche i paesi della zona, quelli che stanno sulla costa, che adesso sono pieni di alberghi e di pensioni per le vacanze, erano composti solo da case di pescatori e nient’altro…”.

“Dovevano essere magnifiche le scogliere e i golfi di sabbia senza bagnanti e ombrelloni…”, aveva detto Giulia, ma si era subito pentita di aver dato fiato a quell’argomento che poteva portare ad argomenti diversi. Così, guardandosi attorno per giustificarsi, aveva aggiunto in fretta: “…molto bello anche il vostro giardino, si vede che è davvero ben curato...”.

“Grazie…”, aveva spiegato Esther togliendo qualsiasi enfasi da quell’argomento; “…la casa era stata costruita dai miei genitori che non hanno potuto goderla, neanche per poco, ed il giardino, come anche il resto, è rimasto così come lo avevano pensato per loro e per me quando ero ancora ragazza…”.

Giulia assorbiva quei discorsi avvertendo come altre voci all’interno di sé che ne forzavano il senso, trascinando i pensieri che turbinavano nella sua testa verso una direzione o quell’altra. Era lì il succo di quel rompicapo, il momento della scomparsa di quei genitori e l’arrivo di quel matrimonio di Mario e di Esther. Giulia sentiva di essere preda di una conversazione segreta nella sua testa, rivelazioni che le si riversavano dentro in modo alternato, come dei lampi di verità, e ne era sicura, avrebbe ricevuto molte più notizie da queste che non dalle parole che riusciva ad ascoltare, anche se tutto ciò la impegnava in maniera profonda, chiedendole la massima concentrazione.

 “Ognuno di noi porta dentro di sé dei dolori più o meno forti…”, aveva detto con calma, cercando di misurare ogni parola, “…ma avere vicino Mario sarà stato per lei un grande conforto…”.

“Mario non c’era…”, aveva prontamente risposto Esther con una certa secchezza, “…ci siamo conosciuti quando ancora vestivo di scuro per il lutto, come si usava una volta…”. Poi, con una pausa, considerato il discorso ormai chiuso, era tornata in cucina. Giulia però non voleva cambiare argomento, qualcosa la spingeva a chiedere ancora, e così riferendosi a Mario, aveva aggiunto: “…non dev’essere stato semplice anche per lei farle superare un periodo del genere…”.

“In quel periodo anch’io stavo uscendo da una situazione complessa e dolorosa…”, aveva detto Mario quasi meravigliandosi di ciò che stava dicendo; “…perciò fu un confortarsi a vicenda che in breve tempo si trasformò in qualcosa di più…”. Le ultime parole si spensero in una specie d’eco, e in un attimo tutto fu chiaro.

Arturo Pirrone aveva visto da vicino la morte, dentro alla baita incendiata. Aveva detto più volte a Costanza, la sua fidanzata, di non mettere troppa legna dentro a quel caminetto, ma lei aveva freddo, aveva insistito. Era bastata forse qualche scintilla per dar fuoco prima al tappeto, poi al pavimento di legno e alle pareti, mentre Arturo era andato nell’altra stanza a preparare qualcosa. Con la coperta che si era messa sopra alle spalle Costanza aveva cercato di spengere il fuoco, con tutte le forze che aveva, ma ne era rimasta avviluppata anche lei, senza rimedio. Quando Arturo era corso seguendo quelle urla strazianti forse era già troppo tardi. L’aveva guardata negli occhi, paralizzato, incapace di qualsiasi movimento, mentre le fiamme continuavano a divorare le carni e i capelli della sua fidanzata. Forse avrebbe potuto fare qualcosa, ma il terrore glielo aveva impedito. Poi l’onda di calore fortissima aveva attaccato ogni cosa, spingendolo fuori, in un attimo. Si era riparato dietro a degli alberi continuando ad osservare tutta la baita svanire in un’unica fiamma. Poi niente, aveva lasciato là dentro le sue poche cose, i soldi, i suoi documenti, tutto bruciato. Aveva vagato tutta la notte nel bosco, disperato, poi era arrivato al paese. Era salito sulla corriera e nessuno gli aveva chiesto il biglietto. Quando era arrivato in città, dove nessuno lo conosceva, aveva dormito per parecchi giorni alla stazione dei treni, assieme ai barboni stanziali. Poi aveva trovato un lavoro come bracciante; si era fatto chiamare col nome di Mario Panelli, e nessuno aveva mai messo in dubbio si chiamasse così. Sui giornali Arturo Pirrone era scomparso nel fuoco assieme alla sua fidanzata, non c’era da aggiungere altro.

Mario adesso osservava Giulia con maggiore attenzione, quasi intuisse la minaccia che poteva venire dalle sue doti. Forse dentro di sé aveva tutta la voglia di aprirsi e svelare l’angoscia che si portava dentro da tutto quel tempo. Lei, era chiaro, aveva capito ogni cosa, e adesso si era formata della sua storia un quadro che immaginava quasi completo. Quando aveva conosciuto Esther tutto gli si era risolto come d’incanto: una casa, un lavoro, nuovi documenti con cui sentirsi libero, tutto si era aggiustato senza che Esther gli avesse fatto troppe domande su quella ex fidanzata che tanto lo aveva fatto soffrire. Si era sposato come una liberazione definitiva da quel suo passato angosciante, ma poi i ricordi e i rimorsi lo avevano torturato senza pietà, senza che lui fosse riuscito a trovare la maniera per liberarsi da loro. Con Esther gli era andata meglio di come avrebbe potuto sperare. Con il tempo aveva scoperto una persona coraggiosa e capace, di cui si era innamorato, poi la vita aveva preso il suo corso, con un figlio da crescere e tutto ciò che di buono era seguito.

Nel vuoto momentaneo che si era creato, Mario aveva cercato di dire qualcosa, qualunque cosa pur di rompere quel silenzio incombente e pesante, almeno per lui: “Questa casa è in una posizione invidiabile, però sta in cima a una roccia, il mare lo si può solo osservare, e per diversi chilometri la costa è tutta così, infrequentabile a piedi…”.

“E’ vero…”, si era introdotta Laura, “…però è anche il suo fascino. Si tratta di vedere che cosa una persona vuol fare quando si trova in vacanza. L’osservazione  del mare all’orizzonte e della costa deserta con le onde che biancheggiano sopra le rocce può essere per qualcuno più importante che per altri. Per farsi un bagno o stare in spiaggia basta fare qualche chilometro in auto o in bicicletta…”. Poi, nella piccola pausa creatasi subito dopo, cercando un’associazione di idee che riportasse a qualcosa di pratico, aveva chiesto in fretta: “…e tu, Lilia, di cosa ti occupi quando non sei in vacanza?”; e Giulia, prendendo tempo e cercando un disperato aiuto dentro di sé, aveva risposto con la naturalezza maggiore che era riuscita a trovare: “Ho…ho solo un piccolo negozio di abbigliamento a Siena…”, rendendosi immediatamente conto di essersi messa con le spalle al muro. “E come si chiama questo negozio?”, aveva insistito l’altra, quasi a sottolineare, sempre che ce ne fosse stato bisogno, che lei ne conosceva molti per non dire tutti, e quindi conosceva per forza anche il suo. “Carrani…”, aveva risposto Giulia inventando di sana pianta quel nome, “…ma quando ne ho presa la gestione, si chiamava già così…”.

Fortunatamente Esther era tornata dalla cucina con un vassoio di spaghetti alle vongole, e così l’argomento era presto cambiato. Ma già dopo le prime forchettate e i complimenti di rito per chi aveva cucinato, Laura aveva ripreso in mano il tema: “Non ho mai visto questo negozio, Lilia, o almeno non lo ricordo, in che strada rimane?”, quasi supponendo qualcosa che non tornava perfettamente. Giulia si era preparata per tempo ad una domanda del genere, e aveva parlato di un quartiere periferico che conosceva, e pur non convincendo perfettamente, il suo argomentare almeno era plausibile.

Fuori il vento si era calmato, e il mare, pur lasciando ancora alcune lunghe strisciate di schiuma, aveva rallentato fortemente il suo moto. Giulia aveva ripensato alla gente che era stata con lei sopra la barca, a quelli che non sapevano nuotare, ai bambini, però sapeva dentro di sé che tutti erano riusciti a salvarsi. Immaginava un faro nelle vicinanze delle rocce dove si trovava la casa, e l’oscurità intensa dell’acqua e del buio, provandone un brivido intenso. Quel faro dentro di lei continuava a portare illuminazioni improvvise, ma lei riusciva solo a intuire l’importanza dei lampi e dei chiarori che arrivavano al di sopra della sua volontà. Sentiva la presenza di un motivo superiore, una direzione precisa verso cui tutto quanto pareva dirigerla, anche se i pensieri erano ancora sfuggenti. C’era qualcosa dentro alla storia di Arturo Pirrone, che lavorava in maniera magnetica, al di là delle cose intuite e comprese, e attraeva i pensieri di Giulia verso di sé, quasi oltre ogni logico sforzo. Senza motivo le tornò a mente sua madre. Gli ultimi tempi erano stati terribili. Non tanto perché soffrisse particolarmente di quella sua malattia, quanto perché era evidente che poco alla volta si stava staccando dal mondo. Da molto tempo loro due non si erano più guardate negli occhi, né avevano scambiato delle parole. Invece quel giorno sua madre, con il busto rialzato da una fila di cuscini, allungò lentamente una mano verso di lei, solo per accarezzarle i capelli. Non lo aveva mai fatto, e proprio per questo lasciò un segno indelebile tra i ricordi di Giulia.

Qualcuno aveva ripreso la conversazione mentre i pensieri vorticavano senza sosta dentro alla mente di Giulia. Si parlava con voce più bassa di qualcosa legato a Siena. Andrea  si era inserito con l’orgoglio tipico di chi abita da sempre una casa dove ha avuto la fortuna di nascere, e con il suo modo almeno apparentemente positivo e sincero aveva detto in fretta che la loro abitazione di famiglia si trovava sul viale Curtatone, quasi in piazza Matteotti.

“Io abito più in centro”, aveva spiegato Giulia, subito dispiacendosi con se stessa per essersi lasciata sfuggire quel particolare di verità, anche se presto probabilmente sarebbe stato tutto da rivedere con la separazione in corso con suo marito; però si sentiva davvero orgogliosa della sua casa e del suo quartiere, come se fosse una meta guadagnata con mille sforzi e contro tante avversità, ed il suo messaggio fu subito compreso.

“Abbastanza vicina al mio ufficio”, aveva detto Andrea mordendosi le labbra appena finito di pronunciare le parole, e Laura, che sentiva ribollire la voglia di puntualizzare tutto con pignoleria, aveva presto detto: “Non tanto, piuttosto la stessa strada dell’istituto di storia, all’università…”. Così Esther spiegò che Laura era assistente di un certo professore di gran fama, e che la sua materia principale era la letteratura del Cinquecento.

“Lavorare all’università comporta fare i conti con molte persone…” diceva Laura, “…così spesso devi stare sulla difesa cercando di capire gli intenti dei colleghi, dei docenti, e anche degli studenti, a volte. Tutta questa psicologia del quotidiano è un po’ stressante, però si impara a conoscere gli altri…”.

C’erano dei sottintesi dietro a quelle parole, e Giulia pensò che era difficile sfuggire al microscopio innato con il quale Laura era solita osservare tutti attorno. Così disse: “Con il senno di poi, mi piacerebbe aver studiato all’università. Invece quando finii il liceo mi pareva solo una perdita di tempo ed i miei genitori siccome non sarebbero riusciti a sostenere economicamente i miei studi, furono ben contenti che mi trovassi un lavoro e mi rendessi subito autonoma…”.

Quell’argomento era minato, e la preoccupazione che aveva sentito Giulia dentro di sé si mostrò fondata: “Lei, Lilia, non ha figli?”, chiese Esther tornata di cucina e interpretando benissimo il pensiero di Laura. E Giulia, con uno sguardo basso improvvisamente triste e finto: “No”, disse semplicemente, “purtroppo non posso averne, e quando la medicina avrebbe forse trovato un rimedio al mio problema la mia età era troppo avanzata…”, troncando risolutamente qualsiasi possibilità di repliche e di curiosità ulteriori. C’era del pesce alla griglia come secondo piatto, e dando mostra di sé su un grande vassoio aveva fatto fare una bellissima figura a tutti: a Mario che lo aveva cucinato e ad Esther che lo aveva preparato. Si parlò quindi del pesce e di dove trovarne fresco lì nei paraggi, poi del fatto che Andrea ogni tanto si immergesse in prossimità delle scogliere vicine con tanto di maschera subacquea e di fucile, per tornare spesso con qualche cernia o qualche sarago.

Arrivati al caffè Giulia si sentì veramente stanchissima per le tensioni accumulate, ed alzandosi dalla tavola accettò solo una breve visita al giardino per una boccata d’aria prima di ritirarsi nella sua camera da letto. Quelle ondate di pensiero continue, quel cercare di capire dove stava il senso delle cose che ondeggiavano in quella casa, i discorsi dei suoi commensali ed il bisogno che provava di rimanere fuori da tutto, le avevano procurato una certa astenia accompagnata dalla voglia di rimanere da sola.

Mario era uscito per primo dalla casa, forse solo per riordinare le idee. Sapeva che la sua identità era scoperta, ma non provava nessuna paura per ciò che poteva accadergli. In mezzo alle aiuole del suo giardino si sentiva abbastanza a proprio agio. Gli alberi attorno muovevano lentamente le foglie e le chiome, frusciando nell’aria con un dolce suono piacevole, e le stelle pulsavano sopra alla linea lontana del mare. Le idee, i pensieri, le sue voglie di tutta la vita, parevano lì attorno a danzare come incorporee, pronte solo ad aspettare un gesto, un commento, un giudizio finale che forse non sarebbe arrivato, sarebbe rimasto sospeso nell’aria, avrebbe liberato del suo enorme peso la forza che per tutti quegli anni lo aveva compresso.

Sapeva che Giulia lo avrebbe seguito, là nel giardino, così l’aspettava con le spalle voltate alla casa. “Il suo nome è Arturo Pirrone…”, aveva detto lei sottovoce arrivando silenziosamente da dietro.

Non le piaceva la parte che si era trovata a dover sostenere. Non le interessava niente di tutta la storia che aveva scoperto, se non il fatto di averla ricevuta senza averla richiesta. Era anzi questa l’anomalia più profonda di tutto. Perché proprio lei? Cosa c’entrava lei con Arturo Pirrone? Perché aveva dovuto per tutti quegli anni tenere a memoria quel nome, tutte quelle emozioni legate a una storia a lei estranea, a persone che non aveva mai conosciuto? Non lo sapeva, le era impossibile capire qual’era la logica che la legava a quella vicenda e a quelle persone. In ogni caso sapeva che era sua mamma che aveva deciso per lei in qualche maniera, ne era sicura. Era lei che le aveva concesso una sensibilità così raffinata, lei che le faceva ritrovare le persone e gli oggetti, lei che le aveva trasmesso quelle doti che in pochi avevano uguali, ed era questa l’eredità da cui non avrebbe mai potuto staccarsi.

“Si, sono io.”, le aveva risposto con voce sottile e con un senso piacevole di profondo conforto. “…non abbiamo neppure bisogno di parlar molto noi due…”, aveva aggiunto senza perifrasi, con un tono più serio e profondamente ispirato.

“Si” aveva azzardato Giulia senza aggiungere altro.

Così si erano lentamente spostati, sempre senza guardarsi,  verso il lampione vicino al cancello di ingresso, fermandosi sotto alla debole luce. Giulia sentiva che c’era dell’altro da capire e da farsi spiegare, ma sapeva dentro di sé che quello non era il momento più adatto, e che nel futuro ci sarebbe stata una situazione migliore.

Poi, dopo la pausa lunghissima, aveva aggiunto in un soffio: “…anche il mio nome è diverso…; mi chiamo Giulia, solo stasera sono Lilia, per non creare imbarazzi…”.

Arturo non aveva avuto niente da aggiungere, ma i suoi ricordi turbinavano come le fiamme che avevano divorato Costanza. I fiori e le rose apparivano scure in quella luce lunare, e ambedue provavano la necessità di togliere peso all’argomento affrontato.

“Certe volte quando ero un bambino mi pareva di sentire i pensieri del mondo…”, aveva detto lui come a se stesso. “…passarono gli anni e ad un tratto scoprii che avevo imparato a gestire con maggiore fermezza le intuizioni che riuscivo ad avere. Era divertente vedere più in là di ciò che era possibile, ma tutto venne azzerato in una volta soltanto, quando Costanza si ritrovò intrappolata là dentro a quel fuoco pazzesco ed io no, non le ero vicino, non c’ero, né con la mente né con il corpo, non l’avevo sentita, non avevo intuito il pericolo, la mia sensibilità non mi era venuta in soccorso, e non le ero stato d’aiuto, non ero riuscito a capire, a sentire, a intuire, non ero riuscito a salvarla…”.

“Forse, se era previsto così, non sarebbe stato neppure possibile…”, azzardò lei senza dare troppo peso a ciò che diceva. Non aveva interesse alcuno nel discolparlo, pensò, ma le sembrava che la vita avesse torturato quell’uomo a sufficienza.

 Rientrarono senza più parlarsi, ed una volta augurata la buonanotte a tutti Giulia si congedò dagli altri raggiungendo in fretta la sua camera. Era entrata, si era seduta sul letto e aveva ritrovato il foglio di carta usato precedentemente. Così aveva aggiunto: “E’ tutto un po’ assurdo, il caso mi ha portato fin qui per spiegarmi qualcosa che ancora mi sfugge…”.

Fu soltanto dopo dieci minuti che sentì bussare leggermente alla porta. Era Laura. Le aveva portato una tazza di tisana, giusto per parlarle un po’ da sola. “Non vorrei disturbarti…”, aveva iniziato, “…ma pensavo…domattina avrai bisogno di un passaggio in macchina, magari per tornartene in albergo…”. “Si, grazie…”, aveva detto Giulia. “…il tuo aiuto mi sarebbe davvero prezioso…”.

Poi qualcosa all’interno della parte più emotiva di Giulia, fino ad allora tenuta così sorprendentemente sotto controllo, si incrinò leggermente, e in un attimo il suo debole castello di carte crollò sopra se stesso, trascinandola in un pianto liberatorio simbolo chiaro di una giornata e di un periodo più difficili di ciò che Laura aveva fino ad allora sospettato.

Certamente le emozioni del giorno si facevano sentire, ma soprattutto un sottile filo di vergogna per quelle piccole bugie si era fatto strada dentro di lei, ma oltre a questo, per una sensazione diretta e positiva, all’improvviso sentiva di provare una grande fiducia in Laura.

“Mio marito vuole lasciarmi…”, aveva detto Giulia in un soffio in mezzo alle lacrime, a giustificazione completa del suo comportamento. In più, ben sapendo che quella era solo una spiegazione di facciata dei suoi malesseri e della quale non era convinta neppure se stessa, le parve comunque liberatorio e piacevole, pur solo momentaneamente, quel rovesciare la colpa di tutto su Ernesto. Poi, quasi come trovando dentro di sé un ripensamento che servisse a mitigare la prima affermazione: “Non è solo questo…”, disse, “…anzi, è come se questo avesse scatenato dentro di me una serie di insoddisfazioni che non pensavo di avere…”.

“Sembra che tutto quanto in me sia come privo di punti di appoggio; in questi giorni continuo a ripensare molte cose di me, dei periodi trascorsi, e non trovo nulla che adesso mi serva…”, continuò; “…è vero che in vita mia non ho mai avuto un progetto, sono sempre andata avanti a sensazioni, con molte cadute e pochi colpi di fortuna, ma non mi sono mai lamentata di nulla; adesso mi pare di essere vuota, di non avere niente…” “…è come se di colpo mi sentissi regredire indietro negli anni, a quando ero ragazzina e tutto era ancora da costruire, ma dentro di me trovo solo tutte le incertezze di allora senza neppure l’ombra di quell’entusiasmo per la vita e per il futuro, e così vedo solo buio avanti a me…”.

La sua commozione, la prima vera manifestazione emotiva relazionabile al degrado del suo rapporto con Ernesto, era evidentemente sincera, come anche le sue affermazioni, tanto che solo a parlarne si sentì un po’ sollevata. Poi quei discorsi sottovoce dentro alla stanza poco illuminata riportarono la sua fantasia indietro nel tempo, a quando era poco più che bambina, e tutti i suoi giochi più belli prendevano vita dal niente, come fossero racchiusi in degli spazi ristretti, riuscendo improvvisamente a prendere vita solo grazie alla sua immaginazione che ne espandeva i confini, capace di rendere concreta qualsiasi piccola fantasia senza valore, come quando si tirava sopra la testa le coperte del letto e in quella specie di capanna fingeva di aver tutto ciò che le poteva essere utile e di sentirsi al riparo dal mondo. In seguito quel rifugio non era stato più sufficiente, neppure nella sua fantasia, anche se aveva sempre continuato a cercare attorno a sé quell’intimità che solo rare volte aveva provato.

Di sé aveva sempre pensato che gli anni stessi, prima o dopo, avrebbero sgombrato il campo dalle perplessità, dalle nuvole che a volte sentiva sopra e dentro di sé, da quei tanti dubbi che certe volte aveva temuto di provare solo lei. Niente di più falso avevano dimostrato gli anni a venire, con il loro corso scombussolato, privo di unità, zeppo di nuovi dubbi e nuove nuvole che via via si erano andate a stratificare sopra ai sedimenti dei tanti punti interrogativi rimasti irrisolti, irrisolvibili probabilmente. Qualche volta aveva provato un moto d’invidia nei confronti di chi sembrava certo di tutto, dei sicuri di sé, di coloro che i dubbi personali o non li avevano mai avuti o li avevano risolti molto velocemente, al contrario di lei che quei suoi sentimenti li aveva coltivati in segreto, lasciandoli celati al suo interno, dentro ad una corazza invalicabile, e tutte le volte che le era stato possibile aveva cercato di affiancarsi agli altri, a quelli sicuri di sé, quasi per una sorta di giusta alleanza attraverso la quale sconfiggere la realtà da affrontare. Era stato così, in qualche maniera, anche con Ernesto, anche se con lui si era sentita semplicemente scelta, senza quasi alcuna possibilità di interferire in una decisione del genere. Forse adesso che Ernesto stava uscendo poco per volta dalla sua realtà, sperso in mezzo ai tanti altri pensieri che affioravano in lei, confuso nell’inevitabile paura del domani c’era anche un vago senso di liberazione da quel rapporto, forse nato debole in quanto carente di una vera scelta iniziale anche da parte sua.

Così a Laura aveva spiegato tutta quanta la faccenda del suo matrimonio in crisi, e della vaga voglia di vendetta nei confronti di Ernesto, con poche parole, non c’era affatto bisogno di spiegarle più del necessario. Le aveva un po’ parlato delle sue vere giornate e di quella vacanza in solitudine, chiedendole scusa se a cena era stata sfuggente con qualche piccola bugia, senza entrare troppo nei dettagli delle vere vicende. Poi, tanto per alleggerire, avevano parlato della famiglia di Andrea e di come quelle vacanze per Laura stessero risultando un po’ pesanti a causa della mamma di lui, sempre presente e curiosa.

“I genitori di Andrea sono brave persone…”, aveva detto Laura, “…ma mentre Mario sembra quasi non esserci, Esther al contrario è sempre presente, e di ogni argomento vuol sempre tirar fuori la sua opinione e dargli peso. Con Andrea si sta bene, è sempre positivo, e se devo essere sincera fino in fondo, in questi giorni se non fosse per lui forse sarei già ripartita…”.

Laura parlava della situazione familiare di Andrea soprattutto per alimentare la conversazione, ma capiva bene che i problemi di Giulia erano pesanti e che la sua vita si trovava davanti a delle scelte importanti. Provava affetto per questa donna sola, quasi in battaglia contro il mondo, e la sua voglia di aiutarla era sincera. Non aveva capito del tutto quali fossero i suoi rapporti con il marito e quale fosse stata la progressione delle vicende di quello strano rapporto che li aveva portati fino a quel punto ma formarsi una vera opinione conoscendo solo una parte delle cose era evidentemente difficile, e in lei contrastava anche con il suo modo di pensare e di lavorare all’università, tanto più che era preponderante la sensazione che Giulia non fosse realmente la parte più debole di quel rapporto matrimoniale.

Fuori da lì, lungo la costa, le ricerche erano andate avanti tutta la notte. Diversi naufraghi erano stati medicati al pronto soccorso per gli ematomi e le escoriazioni riportate nell’impatto con gli scogli, alcuni anche per aver patito un principio di asfissia, ed un paio di persone avevano sofferto un forte shock per lo spavento provato. Ma soltanto una passeggera della barca andata a picco era risultata dispersa, e non vi era alcun dubbio che prima del naufragio si trovasse effettivamente a bordo dell’imbarcazione. I carabinieri e la capitaneria di porto, sia dalla costa che dal mare, avevano illuminato a giorno tutto il tratto interessato dalla sciagura, gli agenti sommozzatori si erano immersi svariate volte per rovistare la barca che oramai giaceva sul fondo alla profondità di una quindicina di metri, ed altri a mani nude avevano setacciato ogni anfratto tra gli scogli anche grazie al vento e al mare che, calmatisi di parecchio rispetto al pomeriggio, avevano permesso tutte le operazioni possibili. Ma di Giulia Biondo non si era trovata alcuna traccia, se non il suo probabile salvagente sopra ad uno scoglio circa un chilometro sottovento alla zona della tragedia. Era stato ovviamente avvertito il marito durante la nottata, e lui, insonnolito e incredulo, si era messo in macchina ancora prima dell’alba per raggiungere al più presto quel posto di mare e di vacanza.

In paese, durante la serata naturalmente non si era parlato d’altro che di quell’incidente così assurdo, e quando si era sparsa la notizia della persona dispersa, tutti, chi più chi meno, parevano ricordarsi benissimo di aver visto durante i giorni precedenti quella signora bionda, chi in spiaggia, chi sul lungomare, o davanti alla pensione o da qualche altra parte del paese, con quella capigliatura così bionda e così inconfondibile, e sempre sola, forse anche troppo. Qualcuno aveva arrischiato qualche teoria insensata, “una donna sempre così triste…”, oppure qualcun altro aveva accampato l’ipotesi che avesse voluto sparire veramente, o suicidarsi addirittura, che non aveva in fondo troppo senso andare in barca a far gite da soli, senza la compagnia di qualcuno. Al primo mattino il quotidiano locale riportava già la notizia e la spiegazione di tutta la faccenda, ed il marito della signora Giulia Biondo, una volta arrivato alla Pensione Orchidea assieme al maresciallo dei Carabinieri, pareva ancora incredulo di fronte a quella scomparsa, e in quei momenti, quando all’improvviso sembrava scemare il suo ottimismo naturale, assumeva l’espressione di una persona disperata, talmente inconsolabile da apparire annientata.

Durante la notte Giulia si era svagata perdendosi in una serie concatenata di brevi sogni durante i quali aveva ripercorso alcuni momenti della sua trascorsa vita di giovane ragazza bionda. La giornata trascorsa le aveva lasciato un sapore indescrivibile, e adesso non le pareva neppure possibile, ripensandoci, che fossero accaduti tutti quei fatti che al momento non riusciva neppure a razionalizzare. Non si era resa conto che l’avrebbero data per dispersa, che sarebbe stata cercata dappertutto, che sarebbero stati avvertiti i familiari, come sempre avveniva in casi del genere, che i giornali e la gente della zona avrebbero parlato del naufragio e della scomparsa in mare di una donna bionda, di lei, lasciata partire per il mare da un marito disattento, indaffarato con il suo lavoro o da chissà cosa; e lei, là da sola, aveva cercato di svagarsi, avrebbero detto, nella più umana maniera possibile, e forse si era persa, e quando la volontà di sopravvivere le aveva richiesto uno sforzo superiore, ecco che si era abbandonata agli eventi, al suo destino, ai marosi che l’avevano risucchiata tra le loro spire. Le donne, qualcuno avrebbe sostenuto, sono l’elemento fragile dell’umanità, e lei, bionda, timida, un po’ introversa, si era ritrovata a far fronte alla sua solitudine fingendo indifferenza alla sua situazione. Non aveva avuto neppure il tempo per rendersene conto, tutto era accaduto esageratamente in fretta, e lei comunque l’indomani sarebbe tornata alla sua Pensione Orchidea e tutto sarebbe rientrato nella normalità, così pensava mentre la mente le si perdeva, appena prima di dormire.

Nei suoi sogni leggeri sentiva ancora la forza del mare e delle onde che la predavano, che cercavano d’inghiottirla ad ogni frangente che passava sopra ai suoi capelli sciolti, ma era come se di tutto questo non avesse più paura, come se non temesse quel bisogno d’aria irrefrenabile e spontaneo; piuttosto nel chiuso del suo corpo rannicchiato sotto le coperte del letto assaporava ora la sensazione di un elemento presente e sgradevole dato da quella forza d’acqua irresistibile, non perché pericolosa, ma perchè sostanza estranea, eterogenea a se stessa, ai suoi desideri, alla sua natura. Rivedeva la classe del liceo, durante il sonno, e l’istituto austero dai corridoi larghi e profondi, e i professori troppo anziani, sempre pronti ad osservare tutto con sguardo accigliato e severo, senza poi neppure commentare in maniera sprezzante o prendendo chissà quali decisioni in merito a ciò che ritenevano deprecabile, ma lasciando tutto sospeso, definito solo da quel modo insinuante e negativo di guardare che mostrava tutto lo sprezzo ed il diniego che si muoveva dentro le loro menti. E poi c’erano i suoi compagni, quelli simpatici ai quali non era mai mancata una battuta o un’espressione ironica, ma anche gli altri, i più introversi, quelli sempre seduti in fondo a qualche banco, colti tante volte ad accarezzarle i suoi capelli biondi soltanto con lo sguardo. Era stato bello il periodo della scuola, e nei suoi pensieri e nei suoi sogni tutto quel mondo si era lentamente trasformato fino a divenire ancora più bello ed importante. Lei si era tinta i capelli in uno slancio di generosità e di estroversione che poche altre volte aveva riprovato, ed il senso che avevano assunto le sue giornate dopo quel gesto, si era mostrato da subito estremamente positivo.

Era bello sentirsi osservata, e la sua scarsa socievolezza pareva subito ricompensata dal bisogno degli altri di andarle vicino, di parlarle, di mostrare gradimento anche solo per la sua presenza. Terminato il liceo, il bisogno di libertà l’aveva portata a cercarsi un lavoro, all’indipendenza economica, piuttosto che iscriversi all’università e cercare di ricalcare modelli di studentessa a cui non sentiva di appartenere. Suo padre le aveva presentato un amico di famiglia che l’aveva fatta assumere come impiegata in una grande impresa di autotrasporti, e così dopo circa un anno era andata ad abitare assieme ad una amica in un appartamento di periferia, non troppo lontano dal lavoro. C’era un camion nei suoi sogni di adesso, un camion nuovo e lucente, e la portava via, senza che riuscisse a definire l’espressione del viso di chi stava alla guida. C’era la strada avanti a se, e solo percorrerla, andare avanti fino a scoprire qualcosa di nuovo in fondo a quella strada, la faceva stare bene. Dentro a quel camion forse c’era la sua classe del liceo, ognuno dei suoi compagni con il suo piccolo o grande bagaglio di desideri, tutti importanti, tutti da perseguire, forse proprio in contrasto con la sua generale mancanza di aspirazioni, se non quella cura quasi maniacale dei suoi capelli biondi.

Poi la sfortuna: la crisi del settore degli autotrasporti era iniziata quando già aveva fatto sufficiente esperienza per cavarsela, e da lì a cercare un nuovo lavoro il passo era stato breve. C’era stato un momento in quel periodo in cui la sua mamma aveva iniziato a sentirsi male. Giulia non sapeva bene cosa di preciso fosse successo quel giorno, però aveva sentito un allarme disperato nella telefonata che le aveva fatto suo padre. Si era precipitata in ospedale e aveva trovato sua mamma lì, seduta su un letto bianco e anonimo, senza espressioni e senza forze. Non avevano quasi parlato in quella mezz’ora in cui Giulia si era trattenuta con lei, come se le parole fossero state superflue o inutili, però erano state vicine, e questo era parso a Giulia più importante di qualsiasi altra cosa. Dopo parecchi giorni la mamma era stata dimessa e tornando a casa tutto era parso riprendere una sua normalità. Poi, un giorno, sul mobile nella camera dei suoi genitori, aveva trovato una piccola fotografia sgualcita mescolata ad altri fogli di carta. Ritraeva una ragazza bionda, bellissima e sorridente, in una luce solare, una ragazza che Giulia non aveva mai visto. Pensò a qualche conoscenza fatta in clinica psichiatrica da sua mamma, così rimise la foto nella stessa posizione in cui l’aveva trovata ed uscì dalla stanza, senza essere vista. Giulia non vide più quella fotografia, neppure dopo che la mamma morì in ospedale, molti anni dopo, quando si ebbe a dire dell’evento che solo quell’emorragia cerebrale aveva tolto la sofferenza dalla sua espressione.

In Giulia quella foto si era andata a depositare in una parte estremamente periferica dei suoi pensieri, e le giornate, dopo i problemi di sua madre, avevano presto ripreso un andamento nevrotico e a tratti scoraggiante. I soldi erano pochi, ai suoi genitori non poteva chiederne neppure in prestito, e per lei pareva si presentassero soltanto lavori che per una ragione o per l’altra duravano brevi periodi, senza che nessuno fosse quello giusto. Così il suo percorso d’esperienze si ingarbugliava, e via via gli anni passavano e nulla sembrava definirsi. Nel suo sognare di quel periodo ricordava vagamente delle luci in lontananza, o qualcuno che le faceva cenno di avvicinarsi da quella parte, e lei con il suo sorriso e il bisogno di credere negli altri ecco che si avvicinava, andava verso le luci, verso qualcosa che non sapeva neanche cosa fosse. Tante volte aveva sentito la necessità di essere instradata, o di credere in qualcosa di più che non fossero le poche cose quotidiane che subiva più che desiderare. Faceva forza su se stessa, la maggior parte delle volte, senza sfogarsi con nessuno, e tutti i suoi pensieri e le sue preoccupazioni si accumulavano senza alcun altra possibilità.

Erano passati quasi quindici anni così, senza che neppure se ne fosse accorta, e certe volte si era sentita sola, profondamente, a mandare avanti la sua vita senza uno scopo preciso. Quando l’ennesima ditta per cui aveva lavorato era fallita, assieme ai suoi colleghi di lavoro era andata da un avvocato del sindacato, un tipo positivo, molto simpatico, e lui l’aveva portata fuori a cena, l’aveva corteggiata e poi sposata, quasi di fretta, senza mettere troppo tempo in mezzo, e lei si era sentita fortunata, come se tutto il suo vagare avesse trovato senso in nient’altro se non farla arrivare fin lì, davanti a quella persona gioviale, a cui voleva bene davvero.

In un attimo tutto si era risolto, e lui l’aveva portata a vivere in un bellissimo appartamento in centro, senza chiederle niente, solo di divenire la custode e la regina di quella casa, e di farlo felice con la sua presenza. Lei, sempre sorridente, aveva cercato nei primi tempi di capire tutto quello che lui le diceva e che faceva, anche se star dietro ai suoi interessi, oltre al lavoro già di per sé contorto e complicato, e a tutto quel suo parlare per spiegare e per chiarire, pareva una fatica immane, superiore alle sue possibilità. Le cose erano parse andar meglio quando aveva scoperto che ad un suo comportamento più distaccato lui tendeva a trovare argomenti più accattivanti, di maggior interesse ai suoi occhi. Poi tutto aveva trovato una sua naturalezza e un equilibrio apparentemente perfetti, laddove il suo ruolo, anche durante le tante serate con altre coppie di amici in buoni ristoranti o a teatro, era sempre più ristretto a quello della “bionda”, senza grandi osservazioni da accampare e con minime opinioni poco significative.

Laura, come d’accordo, l’avrebbe aspettata giù in giardino, di mattina presto, in modo da non incontrare nessuno della famiglia; lei avrebbe lasciato soltanto un biglietto di saluto e di ringraziamento sul tavolo bene in vista, senza alcuna altra spiegazione, non importava, e così avrebbe compiuto l’ennesima fuga dalla realtà. Le venne da ridere nel pensare a questa frase, così importante e così sciocca, e senza saperne il motivo le tornarono alla mente i suoi genitori, sempre così in disparte, quasi timorosi di infastidire gli altri, tanto da apparire a volte apatici, indifferenti a tutto. Certe volte si era ritrovata a pensare di assomigliargli, e a volte si era sforzata di superare quei modi, di trovare delle maniere differenti persino di pensare, di conquistarsi una sua personalità che avesse poco in comune con loro. Più spesso al contrario si era chiesta se c’era davvero qualcosa di comune tra loro, se c’era qualcosa in cui ritrovava delle vere somiglianze. Qualche volta si era spinta immaginare di non essere loro figlia naturale, bensì una bambina adottata insomma, e questo le aveva aperto la fantasia ed acuito la sensibilità. Qualcosa di strano forse c’era stato quando lei era piccolissima, ma la sua memoria in quel momento non era sviluppata, e aveva soltanto avuto delle impressioni, delle sensazioni fondate sul niente, forse velature di pensieri, forse discorsi fatti sottovoce dentro a un’altra stanza, o solo parole ingarbugliate e incomprensibili tra suo papà e sua mamma.

Laura avrebbe guidato la sua auto a velocità moderata nell’aria fresca del mattino, le curve dalla strada si sarebbero susseguite una dietro l’altra, e lentamente, assieme ai pochi chilometri che loro due avrebbero percorso, le cose che Giulia aveva lasciato per quell’attimo di pazzia sarebbero ritornate tutte incontro a lei. Avrebbero parlato di Ernesto, forse, o del futuro, delle decisioni ancora da prendere, e Laura le avrebbe sicuramente chiesto qualcosa di quel rapporto con suo marito, se c’era qualcosa da recuperare. In generale Giulia non amava parlare di sé o delle proprie cose, le piaceva molto di più che gli altri immaginassero di lei gli aspetti migliori che si potevano intuire, o anche qualsiasi altra cosa si potesse sospettare, anche non vera, visto che nel suo modo di pensare e di essere la verità emergeva sempre, a volte immediatamente, più spesso poco a poco, magari tra le righe di ogni falsità data per realistica, credibile, così almeno pensava. Lei avrebbe il più possibile evitato le domande, comunque, magari con qualche silenzio o qualche risposta vaga, ed il breve viaggio si sarebbe compiuto senza troppi problemi, considerata la decisione di non confessare niente di sé e dei suoi problemi. Non era riuscita affatto ad inquadrare Laura e a capirne sufficientemente i modi ed il carattere: le appariva una persona furba oltre ogni dire, e si immaginava che una sola parola sbagliata con lei avrebbe scatenato curiosità e frasi insistenti.

Laura, nel silenzio completo della casa, l’aspettava già pronta nel giardino proprio di fronte alla porta di entrata, inviandole quando la vide un essenziale cenno di saluto, quasi come tra complici, e per il resto rispettando il programma così come promesso; velocemente mise in moto l’auto appena salite a bordo, ed uscendo lungo il vialetto si dispiacque con una leggera smorfia del viso che le ruote emettessero degli inevitabili brevi scricchiolii nella ghiaia, e nient’altro. A Giulia parve di vedere Esther ad una finestra del piano terra, e Andrea ad una del piano superiore, ma non poteva esserne sicura, così non disse niente. “Sembra che sarà una bella giornata…”, esclamò invece tanto per dire, ma Laura non le dette peso ed iniziò a parlarle di sé, dell’ambiente di lavoro e delle sue amicizie, proprio come facesse delle confidenze ad una persona amica. “Ci sono molte invidie e gelosie nel mio ambiente di lavoro,” diceva, “e spesso se non si riesce a fronteggiarle creano realmente un danno a chi le subisce, e a volte basta una voce messa su ad arte, per farti diventare quello che non sei e sentirti isolata nel collegio dei docenti”.

“In certe occasioni è meglio evitare qualcuno, piuttosto che dare peso a ciò che viene riferito di te da quelle stesse persone, ma in altri casi è esattamente il contrario, e ti conviene affrontare subito l’argomento, proprio per smontarne la consistenza, e dichiarare battaglia in modo fermo, anche per motivi di poco peso. Nel mio ambiente di lavoro purtroppo la psicologia ed un carattere poco cedevole sono elementi essenziali, così sembra che abbiamo una scorza più dura di quello che è, così diventa difficile anche cambiarsi in fretta d’abito uscendo dalla facoltà per andare incontro alla propria vita privata, alle amicizie e ai familiari…”.

Così diceva Laura, continuando con quella sua sapienza ponderata, cercando accordo e solidarietà con Giulia, senza alcuna domanda diretta, solo quello snocciolare esperienze generali di persone e conoscenze che in breve misero a suo agio Giulia fino a farle desiderare di sciogliersi e di dire a Laura tutto quello che realmente le passava per la mente. Ma in fretta il viaggio si dimostrava una piccola tappa, una parentesi quasi senza significato all’interno degli avvenimenti degli ultimi giorni, e adesso le pareva di aver perso tempo non cercando da subito la solidarietà e l’aiuto di una persona così sensibile. Con questi ultimi pensieri il viaggio si dimostrava compiuto, e già dalla strada lungomare Giulia aveva visto in lontananza il pontile da cui era partita la sua barca il giorno avanti. Da un lato le pareva fosse trascorso molto tempo da quegli ultimo fatti, dall’altro quelle vicende adesso le parevano irrealistiche, insensate, forse perché accadute troppo in fretta, forse perché tutto quel suo periodo di solitudine da quando era arrivata al paese di mare, la faceva sentire diversa, come se la sua corazza nei confronti della realtà si fosse ispessita, e tutto attorno apparisse più ovattato, opaco, distante.

Probabilmente avrebbe dovuto iniziare a preoccuparsi del futuro, affrontare la separazione dal marito, cercare una casa in cui trasferirsi, forse un lavoro, ma anche questo suo progetto le pareva appannato, da chiarire, da specificare, e lei forse non si sentiva neanche in grado di affrontarlo: adesso non riusciva neppure a pensare a cosa avrebbe fatto del resto della giornata: una bella doccia nella sua camera della pensione Orchidea, il pranzo come sempre assieme alle belle famigliole, il pomeriggio in spiaggia, con il bagnino che l’avrebbe inevitabilmente salutata alla sua maniera ammiccante con quel tono di simpatica provocazione. Chissà se Laura avrebbe potuto aiutarla, forse avrebbe preso a cuore i suoi problemi, si sarebbero magari potute rivedere una volta terminata l’estate e tornate a Siena. Le pareva importante trovare qualcuno con cui parlare di sé, ma allo stesso tempo non voleva essere dominata dalle idee e dalle opinioni di quella persona.

Davanti alla pensione Orchidea c’erano tutti; Laura alla semplice vista di quell’assembramento ebbe un’intuizione e accostò l’auto al margine della strada, e Giulia incredula scese ringraziandola e stringendo nel pugno il foglietto con il numero di telefono che l’amica le aveva lasciato. Con un forte senso di inquietudine si avvicinò con passo svelto al suo albergo senza riuscire a immaginarsi cosa vi fosse accaduto, e subito qualcuno verso la sua direzione disse a voce alta: “Ma è lei;… è la signora bionda…”, con un tono di incredulità o forse di rammarico. Svettava fra tutti l’uniforme nera e il cappello impeccabile di un ufficiale dei carabinieri che subito si volse dalla sua parte, e accanto suo marito con l’abito e l’espressione sgualcita di chi non sta passando una buona esperienza. Allora corse, suo marito, Ernesto Di Bella, corse verso di lei, quasi ridicolo, come chi non è abituato ad alcuna azione del genere, a quelle prove emotive, corse per quei pochi passi che ormai li separavano, anche se non c’era davvero alcuna necessità, perché tutto pareva ormai compiuto, e pianse, senza trattenersi, dopo chissà quanti anni che non conosceva più quello sfogo di base, e l’abbracciò e la strinse a sé come poche volte prima aveva fatto, forse cercando di epurarsi da una colpa inesistente, forse cercando in quella liberazione un elemento esistenziale.

La gente si strinse attorno a loro per carpire un po’ di quella gioia, ed essere presenti ad un evento raro, e dopo qualche minuto l’autorità chiese con tatto qualche spiegazione. Entrarono in albergo con i curiosi rimasti a congratularsi e a sorridere di chissà cosa, ed una volta sedutisi, in breve tutto quanto fu chiarito con l’ufficiale, verbalizzato da un giovane carabiniere e firmato a piè di pagina. Ci volle ancora un po’di tempo, e gli ospiti dell’albergo con i quali Giulia non aveva mai scambiato neppure una parola, vennero da lei per abbracciarla e ringraziarla come se esistesse un legame imprescindibile di solidarietà e di conoscenza. L’albergatore più seriamente venne a stringerle la mano emanando un sicuro sospiro di sollievo per quell’assembramento di curiosi che si immaginava presto si sarebbe sciolto, e poi quei tre o quattro giornalisti che avevano continuato a scattare delle foto e a far domande quasi a vanvera, senza che Giulia si fosse preoccupata di rispondere loro, si dimostrarono abbastanza soddisfatti di quanto avevano raccolto, e smisero ogni attività lavorativa.

C'erano i camerieri del ristorante, vestiti con le loro divise, che pur restando nella loro parte professionale, sembravano contenti per quel lieto fine, o forse solo per quella variante alla vita monotona di tutti i giorni. C'era anche Nicola tra gli altri, e forse provava un assurdo senso di colpa per quelle scelte e per i suoi comportamenti, ma sicuramente sarebbe stato pronto a giurare che lui aveva sempre svolto il suo lavoro in assoluta buona fede, e non aveva colpa dei modi di essere talvolta stravaganti della gente... . Sul fondo si era visto anche Sergio, con la sua espressione solita, ma non si era fatto avanti, aveva solo dato uno sguardo alla situazione, a lei soprattutto, al di sopra delle notizie mondane, e poi era sparito verso il suo mondo, con naturalezza.

Subentrò la Guardia Medica accompagnata dalla Capitaneria di Porto, e nonostante le evidenti buone condizioni fisiche, imposero a Giulia un piccolo controllo misurandole pressione e battito cardiaco, osservandola a lungo nel profondo degli occhi e misurando contemporaneamente le risposte che dava a certi quesiti strampalati, direttamente lì, al tavolino dell’albergo, riempiendo qualche modulo e scrivendo qualche dato. Qualcuno aveva anche recuperato in fretta un mazzetto di fiori, e una bambina era stata istruita per recapitarglielo, quasi a ringraziarla a nome della comunità dei villeggianti per quel sollievo procurato a tutti. Poi Giulia ebbe un moto di sofferenza e di finta stanchezza, e scusandosi con tutti, compreso suo marito che per tutto il tempo era sempre rimasto con lei, spiegò della necessità di rimanersene qualche momento da sola, di cambiarsi d’abito e di raccogliere le proprie idee.

Ernesto l’accompagnò fino alla camera conservando l’espressione commossa e agitata del primo momento, e le uniche cose che riusciva a dire, quasi a prolungamento della felicità che provava sicuramente nel profondo di sé per quello scampato pericolo, erano di tipo organizzativo e riparatorio: “Dobbiamo andare all’assicurazione, e anche all’organizzazione delle gite con le barche; poi dobbiamo parlare io e te, stare un po’ assieme, annullare tutti i miei impegni e ritrovare il nostro rapporto, l’equilibrio di prima, l’entusiasmo per noi due, la nostra voglia di vivere e divertirci…”. Le sue frasi erano a getto continuo, come se una voglia profonda di recuperare tempo e energie lo animasse, lasciandolo contemporaneamente accondiscendente verso ogni cosa.

Dentro alla barca, là sotto a quelle onde, era rimasto lo zaino di Giulia con dentro poche cose senza importanza, ma solo adesso lei se ne era realmente resa conto, per il resto non le pareva che niente fosse irreparabile tra le cose accadute. Ernesto era tornato nella saletta di ingresso, ed era apparso stravolto dai fatti e da quella disperazione pur superata, nonostante al momento tutto avesse ritrovato un suo corso. Si era fatto dare una camera dall’albergatore, forse anche prima che Giulia ricomparisse in quella maniera così semplice e risolutiva, e aveva continuato per tutto quel poco tempo dalla sua ricomparsa a parlare con chiunque e a telefonare continuamente a chissà chi, sia forse per gestire impegni e appuntamenti, sia per trovare conforto da voci amiche alle quali aveva raccontato quegli eventi. Aveva una voglia forte e profonda di stare con Giulia, quasi un’esplosione emotiva interiore; se non fosse stato per il senso del ridicolo si sarebbe messo ad accarezzarla e a baciarla di continuo, come una dea da venerare; gli pareva quasi di non aver mai desiderato tanto sua moglie fin da quando l’aveva conosciuta, e si sentiva cambiato, all’improvviso, come se quell’avventura gli avesse tirato fuori i sentimenti sopiti ed adesso non potesse fare a meno della sua presenza. Le notizie date da lui a pochi intimi si erano sparse a macchia d’olio tra chi lo conosceva, così continuava a suonargli il telefono, facendolo adesso sentire felice, quasi con le lacrime agli occhi nel poter dire a tutti quanto le notizie per lui fossero buone, stupende, entusiasmanti, in tutti i sensi. Forse la paura, forse quella sensazione forte di perdere all’improvviso una parte di sé, della sua vita, dei propri sentimenti, o delle certezze acquisite, o non lo sapeva neanche lui cosa, tutto turbinava forte dentro la sua testa. Quella Giulia che era ricomparsa poi le era sembrata cambiata, migliore, più riflessiva nelle risposte che dava, più ferma nello spiegare gli accadimenti, quasi più consapevole di sé. All’improvviso dentro ai suoi pensieri si era cancellato tutto quello che era parso vero fino al giorno avanti: Giulia era la donna della sua vita così come quando l’aveva conosciuta, con la sua spontaneità, la sua freschezza, i suoi modi così personali di essere e di far sentire gli altri attorno a sé.

Una volta da sola, Giulia continuava a sentire l’eco delle voci delle persone e degli accadimenti, e si sentiva davvero cambiata, così come era apparsa al marito, anche se non riusciva ad intuirne i motivi. Non provava desideri, né di rimanere da sola con Ernesto, né di fare cose specifiche. Soprattutto le sembrava di non aver bisogno di prendere alcuna decisione anche se razionalmente si sentiva in una fase delicata e di transizione. La camera d’albergo, a guardarla meglio adesso, le sembrava tremendamente impersonale, anche se era esattamente così da quando era arrivata; mobili e letto senza caratteristiche, pareti troppo bianche, il piccolo scrittoio triste in un angolo e quel paio di sedie ingombre del suo vestiario. Per il resto tutto era come se una qualsiasi altra persona abitasse quella stanza. Non che le importasse, ma solo adesso ci faceva caso. Si guardava attorno Giulia, e non trovava tracce di sé, delle sue esperienze, stupide o piccole che potessero essere, della vita alla quale adesso non sapeva neanche che aggettivo dare, se sciocca, inerte, senza regole, eppure in qualche modo solo sua.

Dov’erano adesso quei suoi compagni di scuola, quelli sempre pronti a spendere giudizi su chiunque, dov’erano quegli amori frettolosi e superficiali, dei quali magari ricordava appena il nome ma di cui aveva ben presente quell’intensità durata un giorno o un secondo; dov’erano le amiche pronte a giudicare chiunque su criteri stupidi, superficiali, e proprio per questo forse davvero fondati, taglienti, sommatoria di ogni altro elemento. Solo lei poteva stringere in un unico abbraccio tutte quelle persone, quei sentimenti, quelle esperienze. Non c’erano decisioni da prendere, adesso, di nessun tipo; sentiva di essere se stessa, come sempre si era sentita nei momenti fondamentali della propria esistenza. Il resto avrebbe seguito di conseguenza, come ogni volta nella sua vita era avvenuto.

Mentre era sotto la doccia e i suoi pensieri correvano veloci assieme all’acqua tiepida che le scorreva addosso, pensò che in fondo non cambiava molto che adesso fosse lì Ernesto. Lei avrebbe continuato a fare le sue vacanze, normalmente, era lì per questo, non ci potevano essere grandi differenze. Si era intravista una distanza, era inutile negarlo, ma forse quella distanza esisteva già da prima, forse era già dentro le loro personalità, quale problema poteva nascere adesso nel lasciarsi andare semplicemente ai loro istinti, alle loro primarie necessità? Non c’era niente di male se accadeva qualcosa che non era previsto, la vita presentava delle varianti, era fatta in questa maniera, pensava, e la parte peggiore era proprio cercare di pianificarla, organizzarne i particolari e le linee guida. Fuori dalla doccia, con l’asciugamano avvolto attorno al corpo ed i capelli ancora bagnati, quella sua solitudine guadagnata in pochi giorni di riflessioni e di riservatezza nei confronti di tutti gli altri le pareva adesso una corazza, ma non in senso difensivo o di fuga dagli altri: era un irrobustimento della sua personalità, un’acquisizione di forza interiore, una consapevolezza maggiore e ulteriore di sé, con pregi e difetti, completa.

Suonò il telefono della camera ad interrompere la catena di pensieri che continuava a srotolarsi autonomamente nella sua testa, e Giulia ebbe un moto di fastidio immaginandosi Ernesto che d’improvviso non riusciva a stare neanche cinque minuti senza di lei. Invece era Laura, e solo sentire la sua voce ferma ma sorridente, la fece sentire bene, come ritrovare una variante al suo filo di pensieri. In fondo, per un qualche motivo che al momento le sfuggiva, era come se si fosse innestata tra loro due una complicità del tutto inaspettata. Era evidente quanto a Laura stesse stretta quella routine familiare a cui era sottoposta, e la sua voglia di fuga, almeno momentanea, da quelle giornate un po’ troppo uguali tra loro, doveva essersi risvegliata al momento in cui era arrivata Giulia con quella vicenda assurda e le sue evidenti sofferenze. “Ciao, come stai?, ho saputo tutto quello che è successo veramente…”, diceva, “…e a dire la verità mi ero immaginata che ci fosse qualcosa di diverso da quello che ci raccontavi, qualcosa credo tu tenga ancora per te, celato  chiunque, però se vuoi ci possiamo vedere, e se ti va ne possiamo parlare, magari posso esserti davvero d’aiuto…”. A Giulia non sembrava di aver falsificato troppo le cose, aveva solo mantenuto un atteggiamento riservato anche per non coinvolgere troppo altre persone sulle proprie vicende personali, ma adesso non si sentiva sorpresa da quelle parole di Laura, e neppure particolarmente dispiaciuta per come si era comportata con lei, così con la maggiore naturalezza possibile disse soltanto: “Sto bene, qui sembro diventata l’eroina della situazione, e sinceramente tutta questa popolarità mi mette un po’ a disagio, ma non eccessivamente; stasera dovrò cenare con mio marito che adesso sembra sconvolto dagli avvenimenti, però se ci raggiungi possiamo prendere un caffè assieme e così te lo presento…”.

Abbassò il telefono con naturalezza una volta presi gli accordi, proprio come avesse finito di parlare con una vecchia amica, e si sentì forte di questo, irrobustita dal fatto che adesso, senza che avesse provato in quel periodo la necessità di cercare gli altri, all’improvviso fossero gli altri che si sentivano curiosi verso di lei, interessati, attratti forse. La lasciava indifferente essere diventata l’argomento del giorno, ma confidare in un’alleata come Laura le pareva importante. Si vestì scegliendo con calma ogni capo e perse tempo in tante piccole sciocchezze che la facevano sentire bene e rilassata, infine aprì la porta ad Ernesto dopo che aveva bussato. Lui entrò nella camera con un gran sorriso ed un vaso ornato da un bel mazzo di fiori che fornirono immediatamente una nota di colore e d’allegria ad un ambiente un po’ anonimo. Ai ringraziamenti di Giulia Ernesto disse qualcosa di gentile schernendosi. Poi, invitato a farlo, si sedette su di una delle due sedie.

“Sono così contento che sarei disposto a rimanere qui soltanto ad osservarti per tutto il giorno”, disse Ernesto sorridendo, con il suo fare garbato e la voce sempre tranquilla e suadente. Giulia si muoveva senza fretta tra il bagno e lo specchio della camera, provando orecchini e sistemandosi i capelli.

“Io invece non vedo l’ora di uscire, sistemare tutte le faccende con l’assicurazione e con quelli della barca e andare in spiaggia a rilassarmi, e magari farmi un bagno in mare…”.

Lui volse la testa, come sorpreso da quelle maniere decise, poi disse, cercando di apparire simpatico: “Certo, ne hai tutto il diritto, però ricordati che devi ancora raccontarmi tutta la giornata, della barca e del naufragio, e ti assicuro che muoio dalla voglia di sapere”.

Con una sola espressione Giulia si era schernita, come se tutto quanto accaduto fosse poco importante, una sciocchezza, e la curiosità di Ernesto quindi un puro esercizio di cortesia piuttosto scoperto.

“Sai”, disse cambiando leggermente il tono della voce, “ho conosciuto una persona, in questi giorni, una ragazza…”, usava adesso ancora quel suo modo distaccato, ma inseriva nelle sue espressioni una sfumatura quasi ironica e divertita; “…e questa sera viene a trovarmi, così posso presentartela; è molto intelligente, è assistente alla facoltà di lettere, sai quella vicino casa nostra…”.

 Le parve buffo esprimersi così, perché in realtà non aveva mai sentito quella casa come sua, ed adesso che tutto pareva così fluido era ancor più un’espressione forse fuori luogo. Però le piacque mostrarsi indifferente alle decisioni di Ernesto ed al fatto che l’avesse parcheggiata in quel luogo di mare, e si sentì così forte delle proprie convinzioni al punto che se avesse potuto riformulare la frase, probabilmente lo avrebbe fatto solo per poter sottolineare con maggior forza quell’espressione. Naturalmente mostrare poi la mancanza di desiderio a rimanere sola con lui, anzi quasi contrastare questa eventualità, pur lasciandole un vago senso di vuoto e di disatteso, per il resto la faceva sentire bene, come se il controllo del loro rapporto, passato almeno momentaneamente nelle sue mani, risultasse ingrediente utile alla sua personalità.

Ernesto intanto si era alzato dalla sedia, e con espressione seria, osservando qualcosa fuori dalla finestra, aveva detto, come percependo tutte le implicazioni solo pensate da Giulia:

“Sai, ho pensato che dovremmo fare uno sforzo, tutti e due, forse io per primo, e ritrovarci, magari non subito, certo, però con calma, un po’ per volta; e per favorire tutto questo forse si potrebbe cambiare qualcosa anche nella casa, magari spostare un po’ di mobili, inserire qualche pezzo nuovo d’arredamento, darci da fare per svecchiare l’aspetto delle cose; che ne dici?”.

Era una domanda diretta, come raramente Ernesto formulava, e Giulia lo immaginò distrutto nella sua psicologia, disperato, implorante un po’ di quell’affetto che ultimamente aveva snobbato.

Le venne quasi da sorridere, così rientrò in bagno senza rispondere, anche per lasciar cadere d’importanza la questione; poi, uscendo, sempre con estrema noncuranza: “Si, è vero, potremmo, se vuoi…”; poi, sorridendo ma conservando un fondo di serietà nell’espressione: “…forse dovremmo addirittura cambiare casa, che ne dici?”. Quindi presa con il braccio la piccola borsa già pronta dallo schienale di una sedia, si incamminò verso la porta, e alla fine, girandosi indietro di tre quarti disse soltanto: “Andiamo?”, per poi aprire la porta ed uscire nel corridoio.

Alfredo aveva trascorso una mattinata infernale: già la sera precedente, dopo il profondo litigio con la sua fidanzata, era uscito di camera ed aveva vagato sul lungomare del paese camminando in lungo e in largo senza meta; poi, stanco e assonnato, era rientrato in albergo a notte fonda giusto per andare a sdraiarsi ancora vestito sul divanetto di camera. Alle otto del mattino la fidanzata, ignorandolo completamente, si era alzata dal letto, aveva preso le sue cose e se n’era andata, come già aveva annunciato la sera precedente. Lui ovviamente non si era affatto meravigliato di quel gesto, nella stessa maniera come gli era apparso chiaro che non avrebbe avuto più alcuna possibilità per riannodare quel rapporto. Da un lato si sentiva sollevato da quella relazione pesante e complicata, dall’altro, pur conservando le sue opinioni in merito alle loro divergenze, si sentiva ora profondamente vuoto e privo di sostegno morale.

Aveva fatto una doccia una volta rimasto in camera da solo, poi si era vestito ed era sceso nella sala colazioni. Quindi, in mezzo alla piccola ressa di gente che si era accalcata attorno all’evento del giorno, la ricomparsa della “signora bionda”, si era molto rallegrato in cuor suo del lieto fine della vicenda, ed evitando di farsi vedere da lei, aveva scritto su un semplice biglietto che aveva consegnato al portiere “alla signora Giulia”, con allegati i suoi spontanei rallegramenti e la rinnovata richiesta di farle il ritratto, firmandosi con il suo nome e accludendo il numero di cellulare.

Giulia era scesa con Ernesto e si era soffermata al banco della portineria giusto un attimo per riconsegnare la chiave della camera, quando il portiere, con mano esperta, aveva lasciato scivolare sopra al piano di vetro il biglietto di Alfredo; altrettanto cautamente lei lo aveva preso e stretto in una mano con fare disinvolto, e poi infilato velocemente nella borsetta senza che il marito si fosse accorto di niente. Di fatto non sapeva neanche lei quale motivo avesse per nascondere un biglietto ad Ernesto, tanto più che non riusciva a immaginare di chi potesse essere, ma avere qualcosa da tenere celato alla curiosità del marito le procurava una sicura soddisfazione, almeno in questa fase del loro rapporto. Ma non poteva resistere alla curiosità, e fatti pochi passi appena fuori dall’albergo, finse di aver dimenticato di dire qualcosa al portiere, e rientrata un attimo nel vano della porta, aveva velocemente aperto e scorso le poche parole del biglietto di Alfredo, rimanendone piacevolmente colpita. Forse Nicola, il cameriere, avrebbe saputo in fretta del biglietto e di ciò che stava accadendo, ma sicuramente non ne avrebbe fatto parola con quel signor Ernesto così detestabile, soprattutto ora che appariva evidente quanto la signora bionda fosse solo vittima di tutta quella situazione.

Alfredo era rimasto favorevolmente colpito da Giulia durante la loro passeggiata sul lungomare. Le era piaciuta molto quella donna intelligente e sensibile con la quale, in modo aperto e sincero, era riuscito a parlare di sé e delle sue opinioni, cosa questa che non gli era mai accaduta troppe volte. Al contrario l’acredine della sua fidanzata lo aveva lasciato stravolto, evidenziandogli, sempre che ce ne fosse stato bisogno, i difetti notevolissimi e irrimediabili del loro rapporto. Per qualche motivo provava adesso delle buffe sensazioni, da giornata particolare, quasi come se quegli accadimenti, i suoi come quelli di Giulia, dessero delle indicazioni di cui tener conto. Aveva voglia di parlarle ancora, di incontrarla di nuovo, da solo e senza filtri, ma quelle attenzioni da cui adesso era circondata, la rendevano sfuggente, quasi imprendibile. Le aveva lasciato il suo telefono ma non sperava di essere chiamato. In ogni caso era deciso a trattenersi ancora alla Pensione Orchidea, almeno fino a quando non fosse riuscito ad incontrarla, per il resto il suo futuro gli pareva come sempre in cima alla sua matita da disegno.

Pensò allo studio in casa sua dove generalmente disegnava e trascorreva il maggior numero di ore del suo tempo. Gli vennero a mente le sue matite, i fogli di carta ruvida, i suoi bozzetti, e la luce bassa, la sigaretta fumigante nel posacenere del tavolo da disegno; gli mancavano i suoi oggetti, ma sapere che erano rimasti ad attenderlo da qualche parte lo fece star bene. Poi pensò alle sue giornate, alle finestre sulla strada, alle stanze silenziose, e vi proiettò dentro Giulia, d’impeto, quasi per gioco, e non ci trovò niente di strano. Gli appariva la persona giusta, colei che avrebbe saputo anche rimanere in silenzio dentro alla stanza ad attendere con pazienza che fosse compiuto il disegno della sua vita.

Fuori la luce appariva densa e sfolgorante, quasi troppa nel cospargere di sé la strada e i piccoli palmizi ancora giovani che costeggiavano i marciapiedi larghi e sabbiosi prossimi ai piccoli tetti delle cabine balneari sopra la spiaggia. All’orizzonte il mare già di un azzurro chiaro di sole fondeva il suo colore con quello del cielo, formando una prospettiva priva di soluzione di continuità. Giulia camminava al braccio di suo marito, quasi senza pensieri, e fino a quando non fu seduta in auto non le venne niente da dire. Poi Ernesto mise in moto, la macchina si mosse, e lei, come leggendogli i pensieri, iniziò:

“Sai, non mi farebbe paura salire di nuovo su una barca come quella affondata, in fondo tutto è stato frutto di un caso estremamente sfortunato, non credo proprio si possa parlare di un mezzo insicuro. D’altronde i salvagente c’erano per tutti e il comandante dell’imbarcazione si è prodigato in ogni maniera per cercare di non esporci a dei rischi…”.

“Se stai cercando di convincermi a non far causa legale alla società puoi stare tranquilla”, disse Ernesto. “Non credo ci siano gli estremi, per quanto non conosca ancora i dettagli, e poi cosa mai potremmo ottenere da questa povera gente che ha già perduto interamente la propria imbarcazione e forse anche il lavoro? No, piuttosto non sono ancora riuscito a capire come tu abbia perduto il contatto con gli altri quando la barca si è rovesciata, e perché tu non li abbia cercati una volta giunta a riva, pur stremata com’eri. E come hai fatto, alla fine, a non farti viva con nessuno, per tutta la notte. C’è qualcosa sinceramente che sfugge alla comprensione ordinaria, ne converrai…”.

All’improvviso Ernesto appariva rabbuiato, una volta tolta la maschera della felicità del primo momento, ma Giulia in cuor suo non sapeva davvero che dire, così come non sapeva ancora spiegarsi lei stessa perché avesse agito così.

Intanto erano arrivati nei pressi del pontile, dove si apriva la sede della società presso la quale Ernesto era già stato nel primo mattino, e qualcuno dei passeggeri scampati al naufragio pareva aspettarli forse per abbracciare Giulia e scambiare qualche impressione sui fatti. Certo era che lo scampato pericolo doveva aver reso tutti più solidali tra loro. Giulia riconobbe subito tre o quattro persone della barca; adesso parevano spauriti, indifesi, come se aspettassero qualcosa che sicuramente non sapevano neanche loro cosa fosse. Fu naturale vedere in lei il fantasma dello scampato pericolo, ed il loro moto di gioia apparve spontaneo e sincero, pur in contrasto con la distanza tenuta durante la gita. Tutti d’improvviso conoscevano il suo nome, parlavano e scherzavano con lei come con una vecchia amica e nessuno di loro pareva chiedersi il perché quel giorno fosse stata da sola e non avesse avvicinato nessuno.

A Giulia tornava in mente il periodo in cui si era decisa a schiarirsi i capelli. Suo padre era rimasto serio e immusonito per più giorni, naturalmente, e sua madre, al contrario, sempre un po’ in ombra com’era sua consuetudine, aveva semplicemente continuato a guardarsi le mani come spesso faceva, e a rigirarle l’una nell’altra, ma era parsa come commossa da quel gesto, come se stesse cercando dentro di sé forse la maniera per manifestare qualcosa che probabilmente le sfuggiva o che non sapeva come esprimere. Giulia si era sentita contenta di quella sensazione di forza scaturita dalla sua decisione, anche se in fondo non erano quelli i motivi che spingevano in avanti le sue scelte. Non è che non ci avesse mai pensato, anzi, era questa l’idea folle di sempre, ma la sua volontà non pareva potersi spingere oltre al desiderio di essere nata già bionda. Invece quando lo fece le sembrò tutto semplicissimo, come tutte le cose che a volte le venivano fuori quasi con naturalezza, senza sforzo.

Si era presentata a scuola quasi dimenticandosi della novità che portava in giro, e l’ovazione con cui era stata accolta, assieme a diverse risate ironiche e qualche esclamazione scontata, le erano parse assolutamente necessarie e naturali. Per tutto quel giorno scolastico cercò di rimanere insieme agli altri, evitando di appartarsi con qualcuno in particolare. Non la interessavano i commenti dei compagni; era disposta a stare sotto agli occhi di tutti in qualsiasi modo, ridicolo o insensato che fosse, ma per nessun motivo al mondo avrebbe sopportato il commento intimo di qualche amica velenosa, o la solidarietà di qualcun altro che avrebbe potuto dire: “Ti capisco…”, così come si dice qualsiasi altra cosa. Si sentì bene anche di fronte agli insegnanti che si susseguirono in cattedra durante quei giorni e che non lesinarono i loro punti vista sulla sua capigliatura.

Lei stava bene nel banco, in silenzio, con quel suo ambiguo mezzo sorriso stampato sulla faccia, confusa in mezzo ai compagni eppure sola, senza aver mai manifestato un’opinione propria, una decisione sentita e portata avanti con determinazione che non fosse quella capigliatura che da quel momento diventava anche la sua bandiera. Non c’era stato nel suo gesto neppure il desiderio di far colpo su un ragazzo specifico. Sostanzialmente Giulia non aveva mai pensato di poter diventare davvero importante per qualcuno. Il mondo, la maggior parte delle volte, le pareva per sua natura indifferente a tutto, anche se spesso subiva l’opinione degli altri in maniera anche troppo accentuata. Per questo assumeva generalmente un atteggiamento di basso profilo, di una che c’è, ma che non si fa troppo notare. Dare a volte uno strappo all’ordinario le nasceva in genere come esigenza di novità, nient’altro. Confondersi con i compagni era un po’ come perdere di vista se stessa, mescolare la sua con le espressioni di tutti, lasciarsi prendere dalle frasi degli altri quasi come fossero proprie. Non perché le mancassero opinioni proprie o propri modi di essere, quanto per sentire dentro se stessa la possibilità forte di essere come gli altri, una fra tutti, in sintonia completa con i compagni e con il mondo.

Giulia aveva scambiato già molti sorrisi e molte parole di compiacimento di fronte a quel piccolo gruppo festante, ma proprio allora quando sembrava che tutto filasse via liscio e la sua riappacificazione con il presente, il suo ritorno alla normalità, fosse ormai cosa fatta, volse lo sguardo verso il mare aperto, che dal pontile appariva più accattivante che altrove. Sull’orizzonte immaginò scorrere la solita nave petroliera, con la sua regolare lentezza, quasi un’immobilità da cartolina, e tutte le manifestazioni attorno a lei divennero al confronto un brusio noioso e stupido, un fastidio quasi insopportabile, e la voglia di silenzio, solitudine, osservazione calma di quel mare e quella nave laggiù, sullo sfondo acceso di celeste brillante, divenne d’improvviso più forte di tutto. Si allontanò di qualche passo, poi, visto poco lontano un telefono pubblico, vi si avvicinò con determinazione e trovata una moneta compose il numero di Laura, aspettando con impazienza la sua risposta. “Avevi ragione”, disse, “praticamente sono già disperata; pare che tutti abbiano voglia di festeggiare non so neanche io cosa…”. “Va bene”, disse Laura con un sorriso nella voce, “stai ferma dove sei, che ti raggiungo…”.  Giulia non riattaccò immediatamente la cornetta del telefono, ma rimase lì, fingendo ancora di parlare e di ascoltare, guardandosi attorno, lasciando intendere  di essere ancora presa nella conversazione, e guardava il mare e le persone sul pontile, restando in bilico, senza una decisione.

Pensava a quando era piccola, a quel pontile in quegli anni, alla sua famiglia, in una mescolanza di immagini incoerenti e prive di nesso. Suo marito era solo a pochi passi, e Giulia pensava di andargli vicino e con indifferenza dirgli che era rimasta disgustata dal suo comportamento, e che adesso era tardi per recuperare qualcosa del loro rapporto: lo strappo c’era stato e lei sapeva di non poter far finta di niente, e anzi, sentiva in quel disgusto una perfetta coerenza con tutto ciò che in quei giorni aveva maturato dentro di sé, con tutti i pensieri e le riflessioni elaborati sul loro rapporto. Invece rimaneva immobile e ad un tratto le venne da sorridere. Si mosse quasi frettolosamente, come per un eccesso di energia e di decisione, e preso Ernesto sottobraccio si diresse verso la baracca degli uffici della compagnia di noleggio delle imbarcazioni. C’era il pilota della barca là dentro, e come la vide si alzò dalla sedia per abbracciarla, commosso, con un moto sincero e sentito che Giulia apprezzò. Ci fu una scambio di parole burocratiche tra Ernesto e le persone dell’ufficio, si parlò di soldi e di risarcimenti, ma tutto si svolse sufficientemente in fretta e ordinatamente, senza troppi problemi.

Quando furono di nuovo sul pontile all’aperto era arrivata Laura, e Giulia si sentì d’improvviso forte e diversa. “Ciao”, si dissero con slancio, come si usa tra amicizie assodate, poi vennero le presentazioni e il resto. Naturalmente Laura quel mattino aveva litigato con Andrea. La pseudo fuga di Lilia/Giulia non era parsa la cosa migliore possibile alla famiglia riunita a colazione, e la complicità di Laura era parso un elemento strano e poco definibile. Naturalmente i giornali con le notizie del mattino avevano aggiunto quanto mancava, chiarendo tutti gli aspetti rimasti oscuri della vicenda, ma fornendo nuovi e poco decifrabili quesiti, tanto che quando Laura era tornata, l’atmosfera in casa era apparsa cupa e poco tollerante. “Non si può voltare le spalle ad una donna che ha bisogno d’aiuto…”, si era difesa Laura, e forse quest’argomento era l’unico possibile visto il forte senso di solidarietà di tutta la famiglia. “…è chiaro che non poteva parlare apertamente con tutti noi…”, aveva spiegato, “… si è scelta una confidente, non ci vedo niente di male ed io ho promesso che l’aiuterò senz’altro, così come sono sicura che anche voi fareste al mio posto…”. Mario, alias Arturo Pirrone, era rimasto in silenzio tra tutti, senza prendere una posizione, guardando da un’altra parte, come preso da pensieri propri. Alla fine, aldilà dei bronci in via di ricomposizione, nessuno aveva saputo obiettare nient’altro, e l’interesse di tutti si era spostato attorno agli sviluppi eventuali di tutta la faccenda. Lui, per sua parte, sentiva che c’era ancora qualcos’altro da chiarire e definire, anche se non riusciva a decifrare esattamente le proprie sensazioni. Certe volte pensava alla stranezza della sua vita, al sentito bisogno di aprirsi con qualcuno, e a quella insensata voglia di spiegare la sua vicenda così incredibile che prendeva forza a volte dentro di sé, anche se con uno sforzo angosciante riusciva sempre a trattenersi. Adesso, di fronte a quella donna così diversa da tutti, si era sentito spogliato dei suoi segreti, privo di ripari entro cui celare la propria identità, e non aveva avuto paura di questo, anzi, gli era parso di essere arrivato alla liberazione dai suoi crucci, come un percorso che finalmente si completa ed esaurisce ogni inquietudine concedendo calma e serenità. Aveva bisogno di incontrarla di nuovo, starle di fronte, e sapeva che questo sarebbe accaduto, presto, molto presto.

Quando era piccola la madre di Giulia le parlava con voce sottile, quasi sussurrando, e a tratti si interrompeva, come per prendersi delle pause di riflessione. La malattia, dicevano gli specialisti, non era ereditaria, ma lei crescendo si era sentita angosciata lo stesso qualche volta, ed altre volte si era chiesta il senso di quel sussurrare di sua madre, e se quei modi non le fossero stati trasmessi, in qualche maniera. Poi era arrivato il tempo che quelle sue preoccupazioni giovanili erano sparite, e quasi non ci aveva più pensato. Però tante volte le era mancata la mamma, anche con quei suoi modi strani, malati, con quella voce sottile, sussurrante, di chi dice cose strambe, irripetibili, “solo a te…”, come certe volte le aveva detto, “…e a nessun altro”. Giulia non aveva mai capito il significato vero di quelle parole; probabilmente neppure aveva cercato di capirle, forse le era bastato quel suono dolce, quella profonda e ingarbugliata espressione d’affetto così rara nella sua famiglia, e così quell’inesplicabile senso di colpa le era rimasto dentro, come un elemento incompreso, una scatola chiusa, un baule al quale, per mancanza di coraggio, si è lasciata arrugginire la serratura.

Ricordava un disegno che aveva cominciato a fare sul suo album sopra al tavolino del salotto, e la presenza inquietante della madre alle sue spalle, immobile, silenziosa, un fruscio dentro la stanza e basta. Si era quasi impaurita, quella come altre volte, ma non si era voltata; sapeva che sua madre era lì dietro, e chissà cosa pensava, chissà dov’era con la sua povera mente malata. Davanti a sé aveva il disegno che si formava quasi indipendentemente dalla sua volontà, e sopra di lei sentiva aleggiare qualcosa che era presente e che non era sua madre. Di colpo le pareva come di “vedere” i suoi pensieri, o di intuirli, come se ad un tratto “sentisse” quel suo affetto come un vento, o uno sbalzo di temperatura, o una luce forte, quasi accecante, assieme a quella maledetta impossibilità di dimostrare tutto questo. In fretta aveva allontanato da sé quella sensazione sconosciuta, e si era di nuovo concentrata sul disegno, lasciandosi alle spalle tutto il resto. Altre volte le era parso di avvertire la presenza di sua madre aggirarsi per la casa, senza sapere effettivamente dove fosse né perché, come seguendola su una sorta di monitor che ne mostrava i passi all’interno di un labirinto aperto, immaginario; ma pur sentendo in se stessa questo potere sconosciuto, la paura di una novità ingestibile, chissà da dove arrivata su di lei, l’aveva distolta da qualsiasi ulteriore curiosità.

Molte volte aveva cercato di ripensare a tutta la sua giovinezza cercando in sé un elemento che in qualche modo la racchiudesse tutta, come un solo, piccolo pensiero che ne fosse ad un tempo simbolo e rappresentazione. Ma non c’era quel pensiero, per quanto lo avesse cercato e ancora lo cercasse. E questo aspetto indicava una mancanza dalla quale lei non sapeva “scappare”. Era come se fosse assente il filo conduttore delle sue esperienze che in questo modo apparivano tra loro casuali, inanellate una dietro l’altra senza alcuna particolarità che ne chiarisse una logica, un minimo comune denominatore. Ricordava ciò che era successo, e più o meno riusciva a tenere a mente tutto quanto, almeno le cose e gli avvenimenti più salienti. Ma quella disarticolazione di fondo le continuava a dare il senso di disgregato, di assurdo, tanto da spingerla in modo del tutto naturale verso altre assurdità, e spesso, come era accaduto tante volte, lasciando giocare la sua sensibilità con la mancanza di criterio delle sue scelte quasi fosse un vero e proprio rifluire della coscienza.

In questo modo diveniva obbligatorio per lei rimanere in silenzio quando l’argomento la costringeva a spiegazioni di sé o a chiarificazioni del proprio modo di essere e di pensare. E il suo silenzio non era mai solitario. Erano le sue espressioni che parlavano per sé, giocando, in una mimica minimale, tutto un caleidoscopio di accenni e ammiccamenti che per lei erano vuoti, pur caricati di senso nei momenti più opportuni, che chiunque poteva interpretare come meglio voleva. Il suo flusso di coscienza era un assurdo ciclo di  cambi di maschere da scena, atte a nascondere il nulla, vera e unica profondità di sé, almeno secondo il suo stesso parere mai confessato ad alcuno. Questo era il percorso interiore seguendo il quale si era via via fidanzata con l’uno o con l’altro, fino ad arrivare ad Ernesto: esattamente la speranza che ci fosse qualcuno che sapesse interpretarla, se non capirla, perché già solo quella parola le pareva impossibile e lontana. Ernesto, più che gli altri, ai suoi occhi era completo, sapeva tutto: aveva coscienza di sé e di ciò che normalmente avesse voglia o bisogno, e questo era quanto di più fosse sperabile per lei.

La separazione inevitabile da lui non avrebbe interrotto tutto questo, visto che durante la loro vita in comune ciò che lei aveva sperato non si era avverato: nulla era veramente cambiato, e il suo problema di fondo era rimasto tale, invariato, non per incapacità di lui o scarsa applicazione di se stessa in quel rapporto, quanto forse per una sorta di impossibilità per chiunque a trovare soluzione a quanto lei continuava ad immaginare. La delusione era quel riaffondare nei pensieri di sempre, in quella sua solita incapacità ad interagire serenamente con gli altri, sprofondando regolarmente in pensieri disarticolati, in immagini false, in elementi insignificanti che portavano solo il nulla come risultato.

Adesso aveva solo bisogno di qualcuno. Non importava fosse una persona con capacità particolari: lei aveva bisogno di parlare, e non per farsi capire o spiegare qualcosa; aveva bisogno di qualcuno che stesse ad ascoltarla, senza domande, senza dover spiegare chissà quali meandri oscuri della sua esistenza. Parlare come attività fine a se stessa, anche senza il bisogno di lasciar emergere nuovi elementi di comprensione, anzi, al contrario, ingarbugliando ancora di più tutto quanto, in modo da lasciarla invisibile dentro alle sue costruzioni di parole. Indubbiamente la sua era una sorta di egoismo fuori misura, ne aveva coscienza, ma non poteva farci niente, si sentiva fatta in quel modo, le era difficilissimo cambiare anche solo una minima parte di se stessa, e se anche lo avesse fatto sarebbe stato solo per un brevissimo momento.

Poi, al momento più giusto, era arrivata Laura, e in un soffio erano come spariti tutti attorno, Ernesto compreso. Fu trovata una scusa opportuna, e in un attimo loro due erano in macchina per una breve corsa via da lì, giusto il tempo per arrivare ad un bar sulla costa con i tavolini su una terrazza affacciata sul mare. “Non voglio spiegarti niente”, disse Giulia con mezzo sorriso di complicità. “Non ho voglia di dirti che tutto quanto ciò che è successo mi sembra una vicenda di altri, e che provo soltanto indifferenza e un po’ di nausea, ho solo voglia di andare via da tutti quelli che conosco. Anzi, a dirla tutta, non mi sembra neanche di conoscere nessuno, e ho come l’impressione che tutto possa ripartire di nuovo, nuove conoscenze, nuovi posti, nuovo tutto…; ti sembro matta vero?”. “Al contrario, mi pare tutto normale, e poi ogni tanto credo sia fondamentale dimenticarsi di chi siamo, del proprio passato, di se stessi, insomma, magari proprio per gettarsi a capofitto in qualcosa di nuovo, come hai detto tu.”  “Sai,non mi sono mai sentita particolarmente intelligente, e mi dispiace di inventare frottole o di creare malumori negli altri; ma sono così, non potrei essere diversa, le cose le sento, senza alcuna necessità di pensarle e meditarle. E’ ovvio che in questo modo mi vado sempre ad infilare nelle situazioni più impossibili, ma come si fa a chiedere a se stessi di cambiare, di essere diversi?”

Il cameriere portò due bibite fresche e Laura, osservando il mare, parve prendere tempo come per aprire un argomento importante. “Io credo non dovresti mai preoccuparti né di come sei, né di come appari agli altri; in fondo il peggio che una persona possa tirar fuori è di assomigliare ad un cliché, rifarsi a percorsi scontati, senza novità né ricerca, come se tutto si concludesse nell’essere ciò che il piccolo mondo che abbiamo attorno vuole che siamo…”.

“Si, su questo siamo d’accordo”, disse Giulia, “ma il punto è che adesso ho davanti l’orlo di una separazione annunciata da un quasi ex-marito che improvvisamente scopre che sua moglie è migliore, o più interessante, o non lo so, di quello che aveva supposto fino a due minuti fa e può apparire assurdo, però forse dovrebbe riempire di orgoglio chiunque. E invece per me quel marito, nel momento stesso in cui dice di scoprirmi all’improvviso, va a rafforzare ancora di più l’idea negativa che mi sono fatta di lui negli ultimi tempi. Così si pongono svariati punti interrogativi ai quali non vorrò e non potrò dare risposta. Anzi, vorrei che non si fossero posti affatto, perché una cosa di cui assolutamente non ho voglia è quella di prendere decisioni, qualunque esse siano”.

In una pausa del loro conversare Giulia irruppe, senza che niente avesse richiesto o preannunciato una cosa del genere, in una risata forte, di gusto, cristallina e incomprensibile. “Stiamo dicendo un sacco di idiozie, vero?”, disse con voce decisa a Laura, senza guardarla, fissando un punto lontano sul mare. Poi, di seguito: “Devo andare in bagno, scusami un momento”. Si alzò, subito cercando nella sua borsetta il suo vecchio, piccolo quaderno, e davanti allo specchio della piccola toilette, scrisse in fretta: “Tutto finito, non sono me; non lo sono ancora; incarno chi vogliono che sia. Ma chi è poi che mi vuole veramente in questo modo?”. Tornò al tavolo e Laura probabilmente cercò di essere il più naturale possibile pur sentendosi perplessa e forse vagamente turbata dal comportamento di Giulia.

Decisero in fretta di tornare da Ernesto e furono d’accordo che l’unica decisione possibile sarebbe stata comunicata quella sera stessa, senza porre più tempo di mezzo. Sul suo quaderno Giulia avrebbe voluto sostenere che non era poi del tutto vero che fosse dispiaciuta dalla situazione creatasi con il marito e più in generale da quel passaggio difficile per la sua vita. L’abitudine a vivere giorno per giorno in fondo la portava a sentirsi sufficientemente distaccata dal concatenarsi delle vicende  e delle inevitabili svolte che la sua vita aveva percorso. In realtà avrebbe voluto scrivere: “Lo stabilimento balneare è un teatro pieno di personaggi. Forse ognuno di noi è felice nel ruolo che incarna. Siamo soli, è questa la verità; però fingiamo continuamente anche con noi stessi, e cerchiamo gli altri per convincerci di essere in sintonia con tutti…”.

Fu durante l’ultimo tratto di strada prima di arrivare al pontile, che Giulia dal finestrino aperto dell’auto vide Alfredo che camminava sul al marciapiede. “Ferma…”, disse a Laura con moto spontaneo, senza aggiungere altro. Scese, allora, senza distogliere lo sguardo da lui che continuava a guardarla, e avvicinatasi con una calma superiore ad ogni immaginazione si accostò vicino sentendosi felice di vederlo. “Credo di avere bisogno del tuo disegno…”, disse; “…senza fretta, senza definirne subito i contorni e gli altri aspetti. Mi basta sia iniziato, mi basta vedere un fregio della tua matita sopra al foglio bianco…”. “Va bene…”, disse Alfredo senza modificare la sua espressione. “…adesso sono pronto…”.

Il sole riverberava nell’aria come polvere d’oro in quelle prime ore del pomeriggio d’agosto. Le foglie assetate degli alberi , nel giardino di casa, parevano trasparenti tanto la luce penetrava tra i rami. Il mare alle spalle una striscia d’azzurro senza confine, sfumata in una nebbia salmastra laggiù all’orizzonte. La ghiaia bianca sopra al vialetto era l’unico altro rumore oltre le incessanti cicale nascoste un po’ dappertutto sugli alberi, a riempire l’aria di caldo d’estate. Giulia lentamente era scesa dall’auto per entrare nell’ombra della casa alle spalle di Laura. Andrea a la mamma non c’erano, in paese a far spese, forse, e in tutta la casa regnava il silenzio.

Laura aveva appoggiato le chiavi e la borsa, con un gesto sbadato, su una poltroncina d’ingresso, e si era diretta in cucina e nell’attigua sala da pranzo a controllare qualcosa, con fare agitato. Giulia l’aveva seguita in silenzio e poi si era seduta su una sedia ad un semplice cenno dell’altra,. Dal frigo Laura aveva preso dell’acqua e l’aveva versata nei bicchieri di vetro. Poi, mentre suonava il telefono di là nell’ingresso, era entrato nella stanza Arturo Pirrone.

“Buonasera…”, aveva detto in un soffio, prendendo un bicchiere a sua volta e sedendosi. “…sembra che lei abbia una gran fantasia…”, aveva detto senza guardarla; “…e pare anche che la fortuna l’abbia assistita, a giudicare dal giornale di oggi…”. I suoi movimenti erano esili, e le sue espressioni apparivano come leggermente inadatte alle parole che pronunciava. Come se tutti i pensieri che riusciva ad avere fossero destinati ad uno scopo diverso. Probabilmente alcune proiezioni dl suo passato, ingigantite sullo schermo di un ordinario presente, realizzavano necessità e urgenze sfuggenti e impetuose, tanto da emergere ancor più impellenti nei confronti di persone ancora prive di qualsiasi giudizio, come poteva essere Giulia. Con lei, oltre questo, sentiva un contatto che superava parole e espressioni, e già solo quella sua presenza definiva il dialogo e la chiarezza reciproci, al di sopra di qualsiasi contingenza. Giulia guardandolo aveva soltanto mosso una mano, per appiattirla contro la superficie più fresca del piano del tavolo, restando con l’altra a sorreggere l’acqua e il bicchiere. I suoi pensieri forse erano confusi, ma assieme all’aria della stanza respirava con pacatezza un senso di attesa e di premonizione che la rendeva accorta e scrupolosa.

 “Io ne sono contento, mi creda, così come sono contento che adesso lei sia qui. Anzi, se devo essere ancor più sincero, ero sicuro sarebbe tornata, e quasi la stavo aspettando…”. Laura continuava a parlare al telefono, e Giulia poco per volta si sentiva maggiormente a suo agio, come se quelle parole di Arturo spandessero in lei un equilibrio e una calma raramente provati. “…devo farle vedere qualcosa…”, aveva aggiunto senza evidenziare alcun movimento del corpo, come sottolineando quel senso di attesa, solo guardandola. Poi, dopo un tempo che pareva sfilare come una vecchia pellicola di un film di altri tempi, lentamente si era alzato dalla sua posizione, incoraggiandola a fare altrettanto, ma senza parlare, solo con un gesto vago.

Dentro di sé Arturo provava quell’immedesimazione in se stesso nei suoi anni giovanili di cui da tanto tempo non era più stato preda. C’era adesso una rara freschezza nell’aria, e i suoi pensieri correvano liberi assieme alle risate dei giorni di quando era ragazzo, di quando aveva solo vent’anni. La sua adolescenza, la sua gioventù, e poi quell’evento, secco, improvviso, che aveva segnato per sempre il decorso del tempo e della sua vita. Camminavano adesso, in un brulicare di immagini e ombre che rendevano satura quell’aria di agosto.

Così avevano raggiunto una stanza sul retro, una specie di rimessaggio di attrezzi, e lui da una scatola aveva tirato fuori una busta. La busta,vecchia e ingiallita, non riportava scritto alcunché, ma dall’interno era uscita fuori una fotografia dai colori sbiaditi, altrettanto vecchia e ingiallita. “Ecco…”, aveva detto Arturo Pirrone con la cura di chi mostra un oggetto delicato e prezioso; “…questa è Costanza, la mia Costanza…”.

Una bionda, bellissima, sorridente, in una luce solare. Un’immagine bella, piacevole, un’espressione serena. Un’immagine nota, già vista, la stessa figura, gli stessi capelli, nella stessa maniera, una copia della medesima foto trovata tra le cose della mamma tanti anni prima, quando era da poco uscita di clinica, e Giulia aveva pensato che fosse una fotografia regalata da un altro ammalato, o trovata per terra, o chissà. Solo una foto, ma anche un incrocio importante di tanti elementi distanti, di tratti di vita di persone diverse, di sentimenti opposti e incrociati, di rimandi di sogni e realtà. Com’era possibile, quale nesso univa elementi così lontani e differenti? Un caso non era possibile, ci doveva essere un filo che legava le cose, che l’aveva portata fin lì, suggerendo prima quel nome, poi quella persona.

Ebbe un brivido profondo pensando alla mamma. Quante cose non sapeva di lei, quante cose forse non aveva capito, pur avendone intuito qualcosa, un sapore, un’ombreggiatura leggera. A volte aveva guardato nell’aria cercando quei fili dei quali avvertiva la presenza, la forza con cui si sentiva legata, altre volte aveva osservato i suoi gesti, o si era immedesimata in quei silenzi permeati di intensità ed espressione. In certi casi aveva sentito la sua presenza muoversi dentro di sé, come un bisogno indelebile e urgente, una bisogno di sintonia che non ammetteva condizionamenti, e forse non era stata neppure capace di cogliere tutta l’urgenza e la disperazione da cui era pervasa. In certi altri l’aveva sentita distante, chiusa dentro se stessa, nel dolore e nella malattia, però pronta a comunicarle qualcosa, sempre con quei silenzi, con quei suoi sguardi abbassati. La mamma era stata una persona speciale anche se lei non avrebbe saputo dire perché. Adesso, nella sua assenza quasi cercata, definitiva, continuava a parlare con lei, si sforzava di spiegarle ancora qualcosa, di definire i contorni che forse aveva lasciato troppo sfumare nella sua vita. Giulia non avrebbe mai saputo dire il perché adesso si trovasse lì, in quella casa, con quella vecchia fotografia tra le mani, ma era come se tutto all’intorno fosse teso a mostrare che lei adesso doveva trovarsi in quello spazio preciso, proprio come se non avesse potuto trovarsi in altro luogo se non lì, proprio lì. Sapeva chi c’era nella foto, forse lo aveva sempre saputo, la sua mente adesso univa velocemente brandelli di storie, dando continuità reale a qualcosa che dentro se stessa, nei suoi intendimenti profondi, aveva sempre saputo, o aveva sentito, o intuito, o chissà…

 

         Un ultima, leggerissima spinta intuitiva si fece strada d’improvviso tra tutti i pensieri che affollavano in quel momento la sua mente provata da una moltitudine di accadimenti, e in una folgorazione inattesa il quadro iniziò a completarsi delle parti mancanti: ma si, era sua sorella la ragazza ritratta tra le sue mani, era sua sorella maggiore, non poteva essere altro che così. Se ne osservava il viso, i lineamenti, se guardava l’espressione di quel leggero sorriso, trovava rassomiglianze con la sua stessa espressione, con il proprio viso, con se stessa, confrontandosi con le fotografie che qualcuno le aveva scattato quando aveva pressappoco la medesima età, e d’un tratto tutti quei pezzi così eterogenei sembravano combaciare in un unico insieme, mentre i brividi che questa riflessione le davano, parevano scuoterla come un filo d’erba nel vento. Una figlia segreta avuta dalla mamma prima del suo matrimonio, ecco, era questo l’elemento fino ad allora inspiegabile, una figlia tenuta nascosta a ogni costo, fino a impazzirne, quasi una vita parallela, un’appendice mentale incomprensibile con strumenti ordinari. Certo, era questo l’elemento rimasto nell’ombra della sua esistenza, questo il tassello mancante che era stato l’oppressione di tutta la vita per quella povera mamma così disperata, sola con il suo segreto inconfidabile, con la sua mente sempre più assente, persa dietro ai rimorsi, nella coscienza degli errori commessi, nella disperazione di una vicenda superiore alle sue stesse forze. Per questo probabilmente la sua malattia, per questo i suoi lunghi silenzi, forse proprio quando la sua stessa sensibilità, superiore a qualsiasi fatto razionale, l’aveva messa al corrente della ulteriore disgrazia avvenuta, lasciandola definitivamente muta, in un dolore contorto e intollerabile. D’improvviso anche il percorso tortuoso di Giulia diventava una strada segnata, un lento e faticoso sentiero verso la comprensione di tutta una realtà che aveva sempre avuto vicino, ma della quale era impossibile avere un’idea chiara. I fili che avevano mosso tanti elementi della sua vita adesso erano lì, davanti e dentro di lei, come un grande disegno compiuto. Era stata la mamma a instradarla, adesso era chiaro: l’aveva spinta, indirizzata, incoraggiata, verso la comprensione di quelle sue povere cose, della sua vita, dei suoi segreti; aveva cercato con mille segnali e nella sola maniera possibile di farle ritrovare una parte di sé, come unica finale depositaria di quella verità di cui chissà quante volte avrebbe voluto parlarle. E chissà in quanti modi aveva probabilmente cercato di farle intuire qualcosa, perché di certo non le era stato proprio possibile abbandonare tutto all’oblio. Solo lei, soltanto Giulia avrebbe potuto ritrovare quei pochi elementi, rincollare tra loro le parti, e la mamma ogni volta era stata lì a soffiare leggera il giusto suggerimento dentro all’orecchio, con modi superiori a se stessa, oltre i concetti normali di vita e di morte. Anche adesso era lì, insieme a lei, Giulia la sentiva presente, non ne aveva alcun dubbio: era quello il momento finale della ricostruzione della sua vita attraverso la semplice traccia di una vicenda così complessa e straordinaria. Era stata una ragazza bionda, sua sorella, proprio come da sempre avrebbe voluto essere lei.

         Uscì da lì quasi di corsa, e nel giardino di casa incontrò Andrea, che volentieri si offrì di accompagnarla alla Pensione Orchidea. Con lui scambiò poche parole prive di importanza durante quei pochi chilometri, poi salì in camera sua, velocemente. Il suo desiderio più forte era quello di fuggire da tutti coloro che la conoscevano, ma quando fu da sola in camera si ritrovò tra le mani il biglietto di Alfredo. Suonò il telefono quasi come completamento di tutti i suoi pensieri. Era lui, era Alfredo che con voce concreta e sincera le diceva con poche parole che provava una grande necessità di rivederla, di stare con lei, di parlarle, forse di farle quel meraviglioso ritratto che gli riusciva difficile, quasi una sfida, e per Giulia parve schiudersi in quell’esatto momento una nuova parte di esistenza di cui adesso sentiva una profonda necessità, e in un attimo seppe, con un gesto di fiducia e coraggio, di dover lasciare alle spalle tutto quello che fino ad allora era stato il suo vivere.

 

 

 


Racconti a margine di "Bionda, naturalmente"

Racconti a margine di “Bionda, naturalmente”

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         La terraferma specchiata sulla nave.

 

 

 

         Alla sera la nave petroliera stava ancora lì, quasi sulla linea dell’orizzonte, ferma nel mare, ormeggiata nell’attesa di chissà che cosa. Le luci sul ponte brillavano debolmente, lasciando immaginare qualche marinaio in coperta, con gli avambracci appoggiati sulla paratia, a parlare di donne e a fumarsi una sigaretta nella debole brezza della notte. Vista con quegli occhi, la terraferma era soltanto un profilo scuro e ondulato zeppo di grappoli di luci, sotto alle quali la gente passeggiava, godendosi il fresco e la serata. C’era tutto laggiù, in quella parte di mondo, e dalla distanza del braccio di mare che separava loro dalla terraferma, tutto appariva più semplice, più leggero, colmo di propositi a cui attendere, una volta sbarcati da quella nave puzzolente e oleosa, lentissima quando navigava a pieno carico. Eppure in quella lentezza si erano misurate tante volte le incommensurabili distanze, e così come si arrivava prima o poi ai terminal petroliferi di enormi raffinerie incendiate di apparente progresso e di lavoro, ugualmente per ciascun marinaio dallo stomaco robusto, ci doveva essere un futuro da qualche parte, un progetto giusto quanto un sogno, per chi aveva resistito per stagioni infinite nell’affrontare qualsiasi mareggiata, senza mai troppo scomporsi. Passò la notte, così, con la prua allungata in faccia al vento, e la mattina dopo la nave petroliera aveva salpato, e non c’era più in quell’angolo di mare.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         La scia bianca a perdita d’occhio.

 

 

 

         I due avevano concluso insieme il loro turno di lavoro, si erano infilati svelti nelle cuccette, e si erano lavati e cambiati, proprio come se avessero avuto da recarsi in qualche posto. La navigazione aveva ripreso da quella mattina, ci sarebbe voluto quasi un mese per raggiungere il luogo di imbarco del greggio, poi altri due per tornare indietro fino al terminal della raffineria. Si era parlato per tutti quei giorni precedenti di preavvisi attendibili di burrasche, per questo il comandante aveva deciso una sosta, e c’era chi aveva abbassato lo sguardo a quelle notizie, ma in fondo era normale incontrare brutto tempo andando per mare.

Erano in trenta là sopra, tutti con anni di vita del genere dietro alle spalle, la lingua comune un inglese storpiato composto di poche parole e molti gesti esplicativi. Loro due invece si conoscevano da tanto, erano di Salerno, avevano iniziato insieme ad andare per mare, spesso parlavano tra loro fingendo di stare in vacanza, come se quei viaggi fossero di puro piacere. “Se domani c’è il sole sto tutto il giorno in coperta ad abbronzarmi la schiena”, dicevano per ridere. A volte giocavano a carte, per ingannare un’ora o anche due, e avevano sempre con sé la loro scorta di libri da leggere.

Ma la cosa più importante di tutte là sopra era quando a ciascuno nasceva la voglia di scrivere una lettera. C’era tempo per scegliere bene le cose da dire, le parole più adatte, le riflessioni meglio azzeccate, ma tutte le frasi non dovevano mai perdere l’entusiasmo e il piacere di mettere sulla carta qualcosa che nasceva d’impulso, come parlare, o sorridere di un gesto qualsiasi, o sentirsi felici per una bella serata. Ognuno si chiudeva in se stesso per scrivere, ma l’atto finale arrivava dopo avere già pensato tutte le cose, aver riflettuto su tutti gli argomenti da dire, anche se alla fine non erano certo quelle le attività più importanti.

Era ricevere posta la cosa fondamentale; ritrovare, aprendo la busta di carta recapitata nel porto dove facevano scalo, quel senso di attaccamento al proprio paese, quel riuscire a sapere cosa era accaduto, anche se erano piccoli fatti di nessuna importanza di cui parlava loro qualcuno della famiglia o un amico. Era come non perdere quel filo sottile che li legava alla vita di tutti, piegati in quell’inconfessato senso di sentirsi in esilio, lontani ma sempre vicini, con la testa ingombra perennemente di pensieri e ricordi che li accompagnavano per tutti quei mesi.

Il loro scrivere al confronto era un atto minore, un chiedere per carità un aiuto per superare tutto il viaggio. “Io sbarco”, spesso dicevano tra loro, come se solo sapere che la scelta era facile, a portata di mano, li facesse star meglio. Poi, dopo un breve riposo, ricominciava con regolarità il loro turno, e tutto continuava a procedere, come la scia della nave che biancheggiava dietro di loro, misurando la lontananza da tutto.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Il pontile sull’orizzonte.

 

 

 

         Il pontile si allungava sul mare, starsene lì senza far niente era come scivolare sul tempo. I pescatori se n’erano andati, qualche lento gabbiano incrociava poco distante in una bava di vento da ponente. Anche la nave non c’era più all’orizzonte, ormai da un giorno o anche due, ma aveva impresso così forte la sua presenza in quella zona di mare, che ora pareva che una nebbiolina leggera cercasse di colmare quel vuoto, e qualcosa ancora ci fosse, anche solo per un puro meccanismo di fantasia. Era bello guardare quel punto d’infinito e immaginarlo senza problemi: cattivi rapporti interpersonali, stupide liti, oggetti insignificanti trattati come preziosità. L’esistenza del mondo ne stava al di sopra, era evidente.

         Un uomo si era avvicinato con lentezza, lasciando scricchiolare le assi di legno sotto ai suoi piedi. Aveva osservato il mare scuro in quel tramonto di sole, aveva annusato l’aria come fanno solo i vecchi marinai, poi aveva abbassato la testa ed era rimasto lì, appoggiato al corrimano, come sopra al ponte di una nave. Poi, senza spostarsi, aveva tirato fuori dalla tasca un foglio di carta, lo aveva tenuto per qualche momento tra le mani, e infine aveva permesso che la brezza se lo portasse con sé sottovento, sfarfallando un po’ dentro l’aria, e infine lasciando che la carta si adagiasse sopra le onde delicate dell’acqua.

         Aveva continuato ad osservare quel foglio, per tutto il tempo che ancora era riuscito a vederne il chiarore, poi si era riscosso, e com’era venuto era andato. Quanto passato c’era da superare, da chiudere, una volta per tutte. Quante scuse ognuno di noi avrebbe dovuto presentare per qualcosa di non fatto, o non detto, o per incomprensioni minori che avevano dettato le vicende come elementi di prima grandezza. In fondo era quello un luogo giusto dove fare i conti con il proprio vissuto, né terraferma né mare, al cospetto di un orizzonte infinito solo qualche volta solcato da una nave scura e silenziosa, ma che adesso non c’era, non ingombrava per niente la prospettiva. 

 

 

 

 

 

        

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Di nuovo, fra qualche tempo.

 

 

 

         Non mi era piaciuta l’ironia leggera del guardiamarina su quel paio di giorni agli ormeggi che avevo deciso per la mia nave petroliera. In fondo ero io il comandante là sopra, ed ero responsabile di qualsiasi decisione. Aveva immaginato benissimo lui che ritardare voleva dire solo attendere la discesa del prezzo del greggio all’imbarco, naturalmente per via delle solite congiunture internazionali, ma a me la compagnia comunicava via radio le indicazioni da seguire, non potevo far altro, era evidente. Per far star buoni i ragazzi a bordo c’era sempre la vecchia scusa di evitare qualche burrasca, ma che potevo fare, non potevo lasciare che sospettassero qualcosa sulle buste di soldi extra che intascavo ad ogni fine missione. Il guardiamarina era un ragazzone tutto logica e controllo, non sapeva niente di come si fa per stare al mondo, con gli anni si sarebbe ammorbidito, ne ero sicuro, per adesso era meglio lasciarlo perdere.

         Eppoi secondo me era stato bello rimanere immobili per tutto quel tempo sottocosta, prendere il sole in coperta e fare le pulizie generali di tutte le cabine, meglio farlo davanti a terre amiche piuttosto che in acque poco sicure. Avevo dovuto cercare di smontare le illazioni del guardiamarina, però, portarlo con i pensieri da altre parti, e così, tanto per fargli qualche confidenza, mi ero inventato una storia su una donna, una ragazza bionda che avevo conosciuto anni addietro, un tipo tutto particolare, avevo detto, di quelle che ti capitano a tiro davvero poche volte. Mi ero lasciato andare a spiegargli, mentre eravamo all’ancora, che quella donna era solita trascorrere la stagione balneare in quel paese laggiù, in mezzo alla baia, e magari in quel momento esatto poteva tranquillamente essere lì, ad osservare proprio questa nostra stupida nave petroliera. 

         Mi aveva chiesto come l’avevo conosciuta, il mio secondo, ma a me era venuta voglia, mentre gli spiegavo tutta quanta la faccenda, di averla incontrata veramente una donna di quel genere, una persona tutt’altro che semplice, di quelle che anche se sono con te, pare che siano da tutt’altra parte, e ti affascinano continuamente con il loro modo di sottolineare dei particolari che tu normalmente non avresti neanche notato. Mi aveva parlato a lungo della sua famiglia, senza farmi mai capire troppo, con quel modo di spiegare le cose che sembra faccia i salti da un argomento all’altro, in modo sconclusionato, salvo lasciarti accorgere a un certo punto, che tutto quello che ti è stato detto è perfettamente collegato, e resta solo a te il compito di ricomporre i pezzi per comprenderne di più.  

         Il guardiamarina era rimasto colpito da quei miei racconti, si era lasciato prendere da quella storia, ed aveva anche evitato di fare delle domande fuori luogo. Così io avevo continuato, giusto per dirgli che in quei pochi giorni che avevo trascorso insieme a lei, con quella bionda intendo, avevo come dimenticato tutto il resto, annullata tutta la mia vita, e come per una sorta di magia particolare lei mi aveva annebbiato la mente con la sua personalità e con quei suoi modi insoliti. Era come se dentro quella donna fossero presenti diversi esseri, e che lei a volte si limitasse a interpretarne i pensieri, le volontà, forse i desideri, giocando tutto sul filo dell’intuito e delle sensazioni. Poco prima di perderci, cosa che ancora oggi non so perché sia avvenuta e né come, disse soltanto: “Ci rivedremo, non so quando, fra qualche tempo; e anche se saremo lontani sentiremo ugualmente di esserci accanto, proprio come adesso…”.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         La comprensione degli eventi.

 

 

 

         La scogliera era battuta dal vento, l’uomo da solo era rimasto a lungo ad osservare la superficie del mare biancheggiata di schiuma. La barca in difficoltà, con il motore in avaria e carica di turisti, si era fermata sottocosta, ma si intuiva subito che la cima dell’ancora non avrebbe potuto reggere a lungo. L’uomo aveva osservato tutto quanto con un certo distacco, come se in tutta la vita solo l’indifferenza fosse il sentimento vincitore tra quelli che avevano combattuto dentro al suo animo. Quasi niente ormai gli interessava di meno che preoccuparsi per gli altri, la sua solitudine lo aveva strappato da tutto, lasciandolo inerme nei confronti delle difficoltà che le persone certe volte erano costrette ad affrontare, convinto che la sua priorità fosse l’inedia, il lasciare che il mondo corresse per conto proprio, distante, senza neppure trarre un’idea o un giudizio sugli avvenimenti da cui in qualche caso era sfiorato.

Così quella gente in pericolo sopra la barca rivestiva solo l’aspetto di una giornata qualsiasi, un elemento della realtà da cui non si sentiva coinvolto. Ugualmente restava lì, nel vento, sull’alto delle rocce, a guardare quel mare minaccioso e a vedere le persone che dalla barca, poco per volta, si erano gettate tutte nell’acqua con i loro giubbotti salvagente, annaspando tra i marosi, pericolosamente vicini agli scogli. Niente poteva turbarlo, come se il destino di tutte le cose fosse segnato, e a nulla servisse correre, urlare, cercare di opporre la propria volontà contro gli eventi.

         Poco dopo la barca, strappando gli ormeggi, era andata a fracassarsi sopra gli scogli, e i turisti erano tutti riusciti in qualche maniera ad aggrapparsi alle rocce, meno che una persona, forse una donna, da sola, rimasta in balia delle onde, attaccata con disperazione a una tavola, che con il vento e le onde continuava ad essere spinta più avanti, sempre più avanti, lontana dagli altri. L’uomo osservava quanto accadeva sotto ai suoi occhi, consapevole che niente avrebbe potuto scuotere quella sua completa imperturbabilità.

         Non c’era egoismo nel suo comportamento, solo la coscienza di essere un niente, un fantasma, incapace di vivere e di intervenire, impossibilitato a compiere qualsiasi azione a favore degli altri. Infine perse di vista la donna, e all’improvviso tutto in lui parve mutare, come se quella realtà lo avesse colpito più di quanto si sarebbe aspettato. Si mosse da lì, riprese a camminare lungo la strada nell’alto della scogliera, nel vento che a tratti pareva volerlo portare con sé, fino a quando comprese che quella donna era in lui, adesso la sentiva, ed era salva, da qualche parte là sotto, la poteva osservare mentre respirava davanti ai suoi occhi, e sapeva, in qualche maniera, che quel segnale lo stava riportando alla vita, come se una forza pari a quella del mare spingesse anche lui.

         Si fermò, guardò l’orizzonte, gli parve di comprendere tutto.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Per la fine della stagione estiva.

 

 

 

         Sandra lavorava in quel locale come cameriera da poche settimane. Era una degli stagionali, il suo contratto era di quattro mesi, copriva giusto il periodo estivo, e il resto dell’anno niente, che tanto da quel paesino di mare c’era poco da aspettarsi. Nelle ultime due settimane la Pensione Orchidea si era riempita di villeggianti, e tra le colazioni, i pranzi e le cene da servire, non c’era quasi il tempo neppure di respirare. Tutti dicevano di tenere duro, che sarebbe trascorso in fretta anche quel mese, e lei cercava di mettere l’impegno massimo in quello che faceva. Qualche giorno avanti uno dei camerieri esperti, Nicola, uno che lavorava in quell’albergo per quasi tutto l’anno, le aveva sorriso guardandola con intensità, come a mostrare simpatia per lei o chissà cos’altro. Sandra era arrossita e aveva abbassato subito gli occhi, però le era piaciuto quello sprazzo di intimità, così adesso cercava di fare ancora meglio il suo lavoro, per mettersi in luce, per fare buona figura, soprattutto con Nicola.

         Poi però c’era stata la vicenda di una donna che non veniva più trovata, e più d’uno aveva iniziato a sostenere che era affogata in mare, e non sarebbe più stato rinvenuto neppure il corpo, fino a quando, al contrario delle dicerie, quella donna rispuntò fuori viva e vegeta, dopo solo un paio di giorni, come per magia, e tutto si risolse. Però Nicola aveva mostrato in quei due giorni un’agitazione incredibile, come se la sua sensibilità per quella cliente lo avesse sottoposto a una fortissima tensione. Sandra, che aveva preso a scambiare qualche parola con tutti i camerieri tra una portata e l’altra nella sala del ristorante, e soprattutto con Nicola, era rimasta colpita per quella sua assenza completa di attenzione anche per lei, e per quel nervosismo di cui pareva preda, tanto da sembrarle una persona addirittura diversa da quella che aveva conosciuto fino a quel momento.

         In più, quando era arrivato alla Pensione Orchidea il marito della scomparsa, Sandra si era accorta che aveva parlato a lungo con Nicola, come se lui avesse notizie che tutti gli altri non avevano. Certo, non erano affari suoi, ma qualcosa che a Sandra non piaceva, pareva si stesse verificando proprio sotto ai suoi occhi. Lei continuava il suo lavoro come sempre, ma ora più che mai stava attenta a tutto quello che accadeva intorno a quello strano cameriere. Forse lui a un certo punto si era anche reso conto che stava rovinando tutto con Sandra, ed una volta riapparsa l’affogata e sparito di scena quel marito, Nicola l’avvicinò, approfittando di un momento in cui erano soli.

“Ti chiedo scusa, se i miei comportamenti ti sono parsi strani”, disse, senza che Sandra avesse chiesto nulla; “Però ci sono delle volte in questo mestiere che ci si trova a contatto con persone di cui non si sa nulla, e magari ci paiono proprio come tutti gli altri. Poi accade qualcosa, anche non di grande rilevanza, e si scopre cose che un attimo prima sembravano impossibili. Forse ti sembrerò superficiale, ma quest’ultima vicenda mi ha convinto di quanto tutto sia legato da un semplice filo di lana, e di quanto sia importante, al contrario delle facili furbizie, fare le cose in piena luce”. Poi si volse solo per un attimo, come per concentrare le sue speranze in poche parole, in un dettaglio, e quando tornò a guardare Sandra: “Mi piaci”, le disse, “te ne sarai accorta, ma non voglio forzarti; osservami ancora, fatti un’idea più precisa di me, di come sono fatto, oltre questi giorni assurdi, e se vorrai dirmi qualcosa prima che finisca il tuo contratto di lavoro, io ti aspetterò…”.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Soffio di vita.

 

 

 

         Osservo da lontano la lunga fila di luci accese da poco sul litorale, in un’altra zona del golfo, e la sensazione visiva dell’esistenza di persone che si muovono, che stanno organizzando la loro serata, che magari in questo esatto momento si stanno già preparando per andarsene a cena, all’improvviso mi fa sentire tranquilla. E’ trascorso soltanto un anno da quando sono partita da questo luogo di mare e di villeggiatura a cui mi sento così intimamente legata, eppure non so perché mi sembra sia trascorso molto più tempo. Non è accaduto niente di fondamentale da allora, ma questo alla fine non ha troppa importanza, perché in fondo penso che le cose siano comunque andate avanti, ed anche le variazioni più impercettibili, quelle che certe volte davvero neppure si notano, spesso vadano apprezzate come fossero vere piccole rivoluzioni globali.

         Ho preso una camera nel medesimo albergo di un anno fa, ed un paio di persone mi hanno salutata con un certo calore riconoscendomi. Da qui riesco ancora a pensare intensamente a mia madre, al ricordo dei suoi silenzi apparenti, in realtà pieni di voce e di parole, mentre proseguo a camminare sul marciapiede della strada costiera. Credo proprio però che i miei sforzi interpretativi dei segni che conservo di lei, debbano adesso interrompersi, prima che il mio comportamento diventi una vera patologia; e credo proprio che la cosa migliore sia che tutto questo avvenga proprio qui, dove il suo sottile soffiarmi la verità in un orecchio, mi ha fatto scoprire tanto di lei e di me.

         Chissà dove sarà a quest’ora quella nave petroliera che l’estate passata era rimasta ancorata per giorni laggiù, vicino all’orizzonte, penso all’improvviso, quasi alla ricerca di un legame che adesso non c’è più. Forse queste cose hanno un suo tempo per esplicarsi, per chiarire qualcosa di sé; poi diventa inutile, addirittura dannoso cercarne ancora un aggiornamento: resta soltanto un filo di memoria, che non può essere né esatta né riduttiva, ma anzi, per certi versi può risultare capace di rendere tutto quanto nella nostra mente ancora più magico e ricco.

         Poi interrompo il cammino, mi volto lungo la strada e alla fine torno quasi frettolosamente verso la mia camera d’albergo. Probabilmente ho già visto tutto ciò che desideravo vedere, ho preso le decisioni che avevo da prendere, non ho necessità di spingermi ancora più avanti: dormirò in questo letto stanotte, domani mattina poi partirò, credo non abbia alcun senso trattenersi ancora in questi paraggi. Però vorrei lasciare qualcosa di me in questo luogo che tante cose, senza volerle, ha lasciato a me con grande naturalezza. C’è una candela bianca su un tavolinetto della mia camera: l’accendo, attendo con pazienza che la fiamma sia ben definita, che lasci fondere quel poco di cera che serve, poi la sollevo.

         La prendo, mi sposto, mi accosto allo specchio ovale incorniciato sulla parete, e avvicino il mio viso a quella superficie illuminata dalla fiammella; ecco, penso, adesso non sono più quella bionda che la mia stessa esistenza sembrava avermi voluto far essere, ho lasciato negli ultimi tempi che i miei capelli perdessero il colore delle tinture e riprendessero il loro tono naturale. Mi guardo ancora un momento, sostengo non calma la candela tra me e questo specchio, e infine, quasi con gli occhi chiusi, spengo la fiamma con un forte sbuffo di fiato. La cera calda spruzzata sopra lo specchio sarà la mia firma, il mio piccolo soffio di vita, tutto il ricordo di me e di questo passato, per quanto non possa resistere a lungo; e comunque il mio grazie a questo luogo di mare.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Via dal tramonto.

 

 

 

         Il sole si spalmava sull’acqua a pennellate in una lunga striscia di mare color oro, verso ponente. L’umidità del maestrale aveva reso intorno le lingue di terra dei semplici profili grigi, senza prospettiva, e l’arenile appariva cosparso di innumerevoli orme, come fosse stato calpestato da folle sciamanti e inferocite. La maggior parte degli ombrelloni e delle sedie a sdraio erano già state chiuse, pronte a difendersi dalla brezza di terra, dalla salsedine e dall’umidità della notte. Nessun significato c’era nel rimanersene ancora lì, se non per contemplare quel lento evento della natura, il tramonto del Sole, come uno spettacolo risaputo e inevitabile, ma proprio per questo la piccola comitiva si era riunita seduta e composta vicino al bagnasciuga, nell’attesa che il disco fiammeggiante si tuffasse nell’acqua, pronta alla contemplazione dei colori dell’arancio, del rosa e del porpora con i quali tra poco si sarebbe agghindato quel cielo, come in un immenso fondale di una scena teatrale.

         E’ morta una donna, affogata nel mare qua vicino, aveva detto uno. Gli altri erano rimasti in silenzio; poi un altro, senza neppure alzare la testa, aveva aggiunto: non è vero, è solo rimasta stordita per giorni, poi ha ritrovato la coscienza e la memoria, ed è tornata indietro, verso il mondo dei vivi. Ci fu una pausa, come se anche il Sole nella sua lenta discesa si fosse fermato; infine Giulia, la donna di cui il gruppo degli amanti della Fine del Giorno aveva appena parlato, si sollevò dalla sabbia lì accanto come da un lungo e profondo sonno in cui fosse rimasta sprofondata per chissà quanto tempo, e in silenzio guardò attorno a sé ancora una volta quello scenario che pareva rammentarle tutti i pensieri che in quel giorno limpido le avevano attraversato la mente, e infine andò via, senza voltarsi.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Oltre ogni partenza.

 

 

 

         Era appena l’alba quando l’uomo, dalla finestra di casa sua, aveva visto salpare la nave petroliera che per giorni era stata alla fonda in quello spicchio di mare. Aveva provato per questo come uno strano dispiacere, una specie di sofferenza da nostalgia per quella presenza silenziosa a cui improvvisamente scopriva di essersi come affezionato, e che ora evidentemente perdeva, senza alcuna diversa possibilità. Si fece la barba, si guardò a lungo dentro lo specchio, poi tornò ad osservare dalla finestra: la nave ormai era quasi un punto nero sopra l’orizzonte, immerso in una leggera foschia rotta soltanto da un pennacchio quasi indistinto di fumo grigio.

         Andò in cucina, si preparò del caffè e fece colazione; infine tornò a riflettere su come avrebbe potuto essere stata la sua vita se, come tante volte aveva desiderato, fosse partito, come altri avevano fatto, da quel piccolo posto di mare, magari negli anni giusti, quando le cose erano relativamente più facili, ma si ritrovò, una volta di più, a sorridere amaramente di sé e delle sue incapacità, senza riuscire a immaginare niente di diverso dalle solite faccende. Non c’erano state grandi scelte durante la sua vita, le cose gli si erano sempre presentate una dietro l’altra, e lui era andato avanti senza avere fatto mai un progetto più ampio e articolato: il suo dispiacere era quello di non avere mai neanche tentato qualcosa di diverso, però adesso non ci poteva forse fare niente.

         La nave ad un tratto era sparita, ma lui si proiettava già con lei verso il porto di attracco, una grande città marinara, immaginava, e in questo modo si sentiva bene, quasi come se i suoi orizzonti realmente si allargassero. Scese giù in strada, ma fuori, sul lungomare, non c’era ancora nessuno, esclusa una donna che aveva notato già altre volte intorno a quell’ora, una turista che forse doveva soffrire di una leggera forma di insonnia, pensava lui adesso, o di preoccupazioni tali da non lasciarla riposare bene. La osservò senza interesse; lei vide lui, e parve soltanto per un momento che alcuni elementi dei loro differenti pensieri fossero in qualche modo comuni, come se anche quella donna bionda, esattamente come lui, si proiettasse con grande facilità verso chissà dove. 

         Buongiorno, disse lui, quando ormai erano vicini, e la donna rispose prontamente, sottovoce, ma con un’ombra di tristezza sopra al viso, come se i suoi pesanti pensieri non potessero risultare alleviati da nessuno, meno che mai da circostanze così casuali. Lei proseguiva la sua passeggiata solitaria, lui l’osservava allontanarsi, senza che niente di scambievole potesse inserirsi tra due persone in fondo così distanti come loro; e questo fu vero almeno fino a quando qualcosa di lei e della nave petroliera parve trovare una certa vicinanza di comportamento: l’uomo provò una fitta, un senso di disagio, quasi un bisogno di sentire vicino a sé qualcuno di cui non conoscesse nulla, un forestiero, forse, proprio come erano quella nave e quella donna, e di cui, proprio pur senza saperne nulla, non poteva negare di sentirsi improvvisamente attratto.

         Scusi, disse; e lei si volse senza fretta, quasi immaginando il resto. Lui la guardò per alcuni momenti, lei si lasciò osservare; niente, concluse lui, volevo soltanto guardare nuovamente il suo viso, la sua espressione, ecco, forse per ricordarmene in modo più preciso in seguito, quando lei oramai sarà partita. La donna sorrise, poi riprese a camminare.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Oltre lo specchio.

 

 

 

         Dalla mia finestra guardo il mare. Una distesa piatta e azzurra, luccicante sotto al sole; se mi allontano dalla finestra della mia stanza sembra che il mare voglia entrare dentro, portandosi la sabbia, la salsedine, il suono metodico della risacca, tutto insieme come in un richiamo irresistibile, adagiato sopra questo vento di brezza dolce e fresca. Ieri invece era scirocco, e ha scosso a lungo la mia tenda: entrava a folate con il suo profumo ineguagliabile, e accarezzava i mobili lucidi di vernice trasparente, come le barche a vela di una volta, di legno marino, con il fasciame ricco di venature iridescenti.

Mi sono guardata nello specchio sopra al cassettone, ma non ho visto niente, o meglio, niente di diverso dal solito. Sono tornata ad osservare il mare invece, ed ho visto serpeggiare lunghe strisce composte da deboli raffiche di vento di terra e da timide correnti di superficie, e mi sono sentita portare via, di nuovo, come se solo quella vista custodisse la capacità di trascinarmi altrove, ogni volta.

Ho pensato che avrei dovuto affrontare la realtà, chiarire tutto, ma il mare ancora una volta mi mostrava la via degli istinti, dell’imperscrutabile, che pareva come se dicesse: lascia che sia, niente è definito, il tuo stesso percorso indica la direzione, ogni altra cosa sarebbe soltanto una forzatura.

Ho chiuso la finestra, sono scesa per le scale senza incontrare nessuno, ed in fretta ho raggiunto l’arenile. Sergio, il barista dello stabilimento balneare mi ha vista, mi ha sorriso, e senza dirmi niente ha preparato il mio caffè, come per un’intesa antica che non ha bisogno di parole. Mi sono sentita bene, e quando sono tornata a vedere la mia immagine nello specchio dietro al bancone del bar, ho visto di nuovo i miei capelli biondi, e mi sono sentita ricca di qualcosa che nessuno sarebbe mai stato in grado di comprendere.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Su questa spiaggia deserta.

 

 

         Mi sarebbe tanto piaciuto rimanermene sulla spiaggia assolata, senza niente di cui preoccuparmi, da sola, distante da tutto. Invece dentro la testa i pensieri corrono, mi tengono in uno stato perenne di agitazione, nonostante io avessi deciso che questa sarebbe stata la mia sacrosanta vacanza, il luogo dove preoccuparmi soltanto di me stessa. Fortunatamente il bagnino ogni tanto interrompe il flusso ininterrotto di cose che passano dalla mia mente: “buongiorno signora bionda”, ripete ogni giorno, ed io trovo divertente il suo modo, la sua capacità di essere ad un tempo distaccato e pungente.

         Sento ormai da tanto tempo una distanza che si era formata tra me e tutto il resto, e in questo spicchio di solitudine invece di rilassarmi e ritrovare la forza per affrontare il futuro, proseguo come una sciocca a preoccuparmi di tutte le vicende del mio passato. Torna mia madre in silenzio a posare il suo sguardo così penetrante sui modi e i comportamenti di quando ero ancora bambina, tanto da sentirla continuamente con me, anche quando non c’era. Ripenso ai suoi gesti, a quelle sue strane maniere prima del ricovero nella clinica psichiatrica: quella sua perspicacia, quel capire le cose senza chiederle, quello starmi vicina come una carezza gentile, senza ossessioni, senza mai forzature.

         Sentivo da sempre un’unione con lei, una simbiosi profonda, qualcosa che dentro di me scorreva così naturale da non spaventarmi, da non lasciarmi alcuna preoccupazione. Eppure sapevo che non era come tutte le mamme, ma io mi sentivo come lei, costituita della sua stessa materia, e non sentivo necessità alcuna di parlare con anima viva del suo essere strana, particolare, forse unica.

         Andavo a scuola, in giro con le mie amiche, in biblioteca a studiare, e sapevo continuamente che non ero sola, qualcosa di lei mi accompagnava, con discrezione, con tatto, aiutandomi in ogni piccola decisione da prendere. Dopo le sue ultime crisi, quando mi dissero che aveva esalato il suo ultimo respiro, provai il terrore di sentirmi inevitabilmente da sola: invece non era così, per tutto questo tempo lei ha continuato ha inviarmi messaggi, a parlare con me, come per uno strano fluido, nella sua maniera inconcepibile e silenziosa.

         Anche adesso, su questa spiaggia calda e piacevole, so che qualcosa mi spinge, qualcosa mi grida di andare più avanti, di cercare in mezzo alle pieghe della mia immaginazione qualcosa che non appare evidente, qualcosa che risulta nascosto ma che è d’importanza vitale per me, per comprendere veramente chi sono, per riuscire a capire cosa sia questo stimolo che a volte mi lacera ma del quale ho bisogno. Non riesco a capire dove mi porterà questo senso, so che devo seguirlo, devo andare, in qualsiasi caso e a costo di qualsiasi sacrificio.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Distanze sterminate.

 

 

 

Non erano ancora le otto, e nel bar di legno la macchina per fare i caffè era già pronta, in pressione, tanto che Sergio aspettava solo che lo raggiungesse il bagnino dello stabilimento balneare ancora indaffarato sulla spiaggia a sistemare le ultime cose, prima di metterci sotto le solite tazzine di ogni mattina. Era bello a quell’ora osservare il mare e la spiaggia quando ancora non c’era anima viva tra i piedi, quando tutto pareva più calmo, lontano dal caldo e dalla nevrosi che solo due ore più tardi come un virus prendeva chiunque. Non c’era neanche bisogno di parlare a quell’ora: con uno sguardo d’intesa tutto era già chiaro, le poche persone che erano in giro mostravano il desiderio di stare ognuna per suo conto, e così il bagnino che era in ritardo aveva bevuto il suo caffè con due sorsi e una smorfia del viso, e senza fiatare era tornato al lavoro.

         A Sergio piaceva stare là, dietro al bancone di legno, fermo con gli avambracci appoggiati sul piano, ad osservare il mare privo di qualsiasi increspatura, sorridere della giornata che andava a iniziare e pensare qualcosa, senza impegnarsi. Lo aveva baciato, quella donna, quella bionda da sola, proprio quando meno se lo sarebbe aspettato, e lo aveva fatto di propria iniziativa, quasi come un regalo. Lui sapeva che quella non era una persona qualsiasi, lo aveva capito fin da quando gli aveva rivolto la prima parola. E anche quel bacio di nascosto non indicava un bel niente, se non quell’intesa, come tra vecchi amici, tra persone che si capiscono al volo, che non hanno bisogno di niente per sapere ognuna quello che passa nella testa dell’altra.

         All’inizio lui le aveva parlato di sé, della sua vita, ma aveva detto solo le cose che gli piaceva dire un po’ a tutti, giusto per dare un minimo di confidenza ai clienti del bar. Ma quella bionda aveva capito di più, era andata oltre le sue parole, aveva compreso perfettamente che dietro a quel misero banco, a fare i caffè e le spremute, c’era un uomo, una persona sensibile, un vecchio marinaio navigato, con un passato buono solo per essere lasciato alle spalle, proprio come doveva essere quello di lei.

         Quando era giunto il marito, da solo, con una settimana di anticipo, aveva parlato della moglie che doveva arrivare come di una persona in una fase difficile della vita, alla ricerca di un nuovo equilibrio, quasi pronta probabilmente a seguire il primo che le avesse fatto anche solo dei complimenti. Per questo aveva bisogno di lui, del barista, che riuscisse a vedere e a riferirgli al telefono ciò che sarebbe accaduto in quel periodo di vacanza, visto che lui non avrebbe potuto esserci, e per questo semplice compito gli aveva offerto dei soldi. Sergio aveva accettato, cosa mai avrebbe potuto fare? Ma al contrario di quanto gli era stato spiegato, dopo quei pochi giorni, si era presentata una donna cosciente di sé, schiva, disposta a qualsiasi sacrificio pur di conservare quella sua solitudine che accettava quasi come un regalo insperato nella sua vita.

         Sergio si era dispiaciuto di avere accettato quei soldi dal marito, ma non avrebbe più potuto restituirli, sarebbe stato come ammettere che c’era qualcosa di cui non voleva parlare. Aveva anche pensato di dire tutto a lei, alla bionda, del suo patto scellerato con il marito, ma anche questa era una cosa tutt’altro che facile, poteva essere fraintesa; la maniera migliore di comportarsi era lasciare che le cose andassero avanti così, senza preoccuparsene troppo. E infine aveva iniziato a volerle anche bene a quella donna, pensando a quale vita dovesse affrontare con un marito che la faceva addirittura spiare. 

         Poi lei era arrivata, quella mattina, come ogni mattina da quando era lì, in quel posto di mare; lo aveva salutato con cortesia, si era seduta, gli aveva sorriso, aveva lasciato che Sergio preparasse il suo solito caffè. Siamo meteore, aveva detto lui in un soffio, quasi senza averne coscienza; ci sfioriamo, comprendiamo qualcosa l’uno dell’altra, ci rendiamo conto del grande mondo che portiamo dentro di noi, e forse ci basta così, come se non ci fosse bisogno di altro per sapere che ci sentiamo vicini, pur conservando la nostra distanza stellare. Lei lo guardò, prese la tazzina che lui le stava porgendo, rimase un attimo immobile, poi sollevò lo sguardo in un triste, debolissimo sorriso, e disse solo: grazie; senza aggiungere altro.

 

         Dentro la pietra.

 

 

 

Le cose a volte galleggiano sulla superficie dell’acqua, si muovono lentamente spinte da una leggerissima brezza. Non ha alcun senso preoccuparsi della direzione che possono prendere, la loro natura è di andare, restare in balia di elementi fuori dal nostro controllo, senza che nulla possa cambiare questa semplice condizione.

         Nella clinica psichiatrica la donna osservava una pietra sul muro di fronte, una pietra liscia, gialla, ai suoi occhi l’unico oggetto importante al margine di quel giardino e di tutta la costruzione. Il medico le aveva chiesto più volte che cosa vedeva là sopra, in quel punto, ma lei non aveva mai voluto rispondere. La sua giornata scorreva così, con un’espressione del viso immutabile, raccolta in silenzio, e un lavorio incessante di quei suoi pensieri che indubbiamente scorrevano lungo tanti elementi diversi.

         Si ha pena di una persona quando è succube di qualcosa più forte della sua volontà, ma quando è la volontà stessa che riesce ad arginare tutto il resto, fino a mostrare di sé soltanto un involucro chiuso, invalicabile a tutti, allora ci si stringe dentro alle spalle, e si ha voglia solo di dichiararsi impotenti.

         Veniva il marito, quasi ogni giorno, per una visita breve, come a tentare una possibilità, a scrutare in quegli occhi fermi, quasi senza più sguardo, se qualcosa di diverso potesse aleggiarvi. Non diceva quasi mai niente, si sedeva lì, accanto a lei, osservava con lei la pietra gialla incastonata nel muro, prendeva la mano della sua donna e la teneva un po’ tra le sue, come a cercare, sperandolo, di sentire un brivido nuovo, qualcosa di diverso sotto alla pelle. Poi andava via, con la testa bassa, conservando la stessa speranza per il giorno seguente.

         Certe volte veniva la figlia con lui, una ragazza giovane, che rimaneva in genere un passo distante, come a cercare di tenere lontana da sé la malattia che attanagliava sua madre. Aveva voglia di piangere, si vedeva, le pareva impossibile osservare quello straccio seduto senza alcuna volontà. Però c’era qualcosa di diverso a volte in quei giorni, dietro a quegli occhi di mamma; qualcosa di nuovo sembrava soffiare sulla superficie dell’acqua: difficile dire cosa fosse davvero, impossibile captare la traccia di tutti i pensieri che continuavano incessanti dentro a quella mente ammalata.

         Ma poi, quando i suoi familiari andavano via, quando lei restava da sola, ecco che all’improvviso si alzava dalla sua sedia. Non cambiava espressione, niente di diverso pareva attirarla, eppure, con lentezza infinita, arrivava fino a quel muro in fondo al giardino, fino a quella medesima pietra gialla cementata in mezzo alle altre. Stava lì quella donna, almeno per qualche minuto; accarezzava la pietra come fosse il dolce viso di un suo familiare, forse proprio la figlia, e ci lasciava senza parole a noi, poveri infermieri al servizio della medicina, convinti di poter indagare con la nostra piccola scienza su cose così maestose, superiori alle nostre pretese, oltre la superficie immobile dell’acqua, sfiorata soltanto da una brezza leggera.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Quasi una mancanza.

 

 

 

La strada correva arrotondando le colline coperte di bosco per chilometri e chilometri, serpeggiando quasi senza interruzioni di salite e discese. La vegetazione sui bordi appariva fittissima, colma di rovi e cespugli, a tratti quasi impenetrabile, e in qualche piazzola sterrata apparivano cumuli di legna lasciata a seccare. La grossa auto scivolava sopra l’asfalto interpretando perfettamente il tracciato quasi privo di traffico, e chiazze di sole e di ombra si intervallavano continuamente tra loro sul parabrezza, uniche variazioni degne di nota in un viaggio pacato, tranquillo, quasi una lenta e consapevole discesa negli inferi. 

         La guida pacata ed attenta di lui era forse rincorsa da alcuni pensieri tortuosi, nascosti, l’inizio di qualcosa con il quale era auspicabile porre rimedio nella consapevolezza di aver commesso qualche stupido sbaglio, durante la vita. Nella sua mente si andava mescolando piacevoli ricordi fumosi di qualche anno addietro, con la spigolosa realtà degli ultimi tempi: era il momento di decisioni incontrovertibili, a suo parere, inutile continuare a riempirsi di buoni propositi.

         Giulia era immobile, al suo fianco, stretta dalla cintura di sicurezza: si lasciava cullare dalle curve stradali e dalla musica a basso volume che circolava nell’abitacolo, gli occhi sul verde dei boschi, le valige nel bagagliaio, zeppe di cose e vestiti, superiori a una normale vacanza. Il mare sarebbe apparso improvviso, al fondo di una aperta vallata, lei lo sapeva, aveva già percorso altre volte la strada, ma questa volta sarebbe stato come uno schiaffo, uno scatto improvviso della propria esistenza, la consapevolezza che da quel momento nessuno, tra loro due, sarebbe più potuto tornare sui propri passi. 

         Suo marito avrebbe percorso la medesima strada a ritroso, la sera stessa o il giorno seguente, non aveva importanza. Per Giulia iniziava il suo periodo di solitudine del quale tremava solo a pensarci, ma che adesso era l’unica cosa possibile, la maturazione e il compimento di ciò che dentro di lei era rimasto da sempre insoluto: la presa di coscienza che lei e suo marito non avevano più molto da dirsi, e che con quella vacanza si apriva in questa maniera il futuro, inevitabile, una voragine dal fondo nebbioso, quasi un periodo di studio almeno per lei, troppo presa dagli altri, in tutti quegli anni, per essere riuscita a conoscersi bene. 

         Il mare apparve improvviso come si era aspettata, una larga riga scintillante di sole pareva adornarlo, il litorale più chiaro denotava la sua mansuetudine, al largo, più scuro, il filo dell’orizzonta era netto, tagliente. Prese un respiro, come a cercare di adattarsi ad un luogo diverso; normalmente avrebbe detto qualcosa, ma adesso era inutile, e rimase in silenzio. Fu raggiunta, senza che ce ne fosse un motivo, dal ricordo della sua mamma, negli ultimi suoi giorni di vita: le era parsa quasi un’altra persona, torturata da qualcosa di incomprensibile, come adesso era lei, desiderosa di ritrovare la memoria, riannodare dei fili, pensare, senza nient’altro.

         Suo marito disse sottovoce qualcosa, continuando a guidare; Giulia lo osservò per un attimo, non comprese neppure le sue parole, lo vide diverso da lei, distante, rinchiuso in qualcosa di inesistente eppure inviolabile, le apparve una persona che le sarebbe terribilmente mancata, a cominciare sin da domani, con la quale sarebbe stata disposta a invecchiare, fino a poche ore più indietro, ma che adesso non aveva più nulla, forse, da spartire davvero con lei.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         La lingua del mare.

 

 

 

         Sul mare si osservano terre lontane, basta appena un briciolo di fantasia. Rassicura pensare che ci sia qualcosa migliore oltre la linea dell’orizzonte. La risacca sopra la spiaggia porta fragranze di elementi che non conosciamo, e quell’orlo bianco delle onde che giungono a riva, è come composto da tanti fogli di carta, arrotolati sopra se stessi, colmi di scritture e di messaggi che giungono a parlarci con nuove parole, a spiegarci cose diverse. Sta a noi saper leggere, sforzarsi di comprendere una lingua diversa da quella che usiamo ogni giorno.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Il nulla.

 

 

 

         Avevo sentito dei rumori provenire dal corridoio, dei piccoli leggeri scricchiolii, e trovandomi in casa da solo, dopo un po’ mi ero alzato dallo scrittoio per andare a sincerarmi sulla natura e le cause eventuali di quanto avevo percepito. Naturalmente non avevo trovato niente, ed i rumori erano presto cessati: sembrava tutto assolutamente al suo posto, anche se qualcosa mi aveva comunque messo a disagio, come se dietro quell’apparenza di consuetudini e di ordine negli oggetti di casa, si nascondesse qualcosa di diverso, qualcosa di indefinito.

         Tornai a leggere il libro che con la sua trama semplice sapeva attrarre quasi tutta l’attenzione di cui ero capace, fino a riuscire a trasportarmi al centro di quelle parole, fin dentro alle cose descritte. Si trattava di una donna, una persona qualunque, come se ne possono incontrare da qualsiasi parte; eppure la vicenda interiore di quel personaggio, ne faceva subito una donna speciale, e dentro a quel romanzo, poco per volta, lei diventava quasi un simbolo di tutte le capacità delle quali una persona riesce a dar prova.

         Leggevo, e immaginavo tutto quello scenario, quel mare apparentemente neutrale che al contrario dimostrava di essere metafora dell’ignoto e dell’inconoscibile, quelle semplici vicende ora assurde ora ordinarie, e soprattutto lei, la protagonista, né bionda né mora, coniugata eppure da sola, in mezzo a scelte importanti tra memoria e futuro. Impossibile restare indifferenti: tutto questo pareva l’allegoria di tutte le cose, la via di mezzo che sempre si pone tra una certezza e il suo opposto, tra un pensiero e la sua realizzazione.

         Tornai ad alzarmi dallo scrittoio; qualcosa era parso soffiarmi sopra la faccia, come se un poco probabile spiffero, giunto chissà da dove, arrivasse fin lì, in quella penombra rischiarata solo da una lampada quasi appannata, utile giusto a illuminare soltanto le pagine sotto ai miei occhi. Mi mossi, le tende erano ferme, la stanza immutata, e i miei pensieri al contrario correvano dietro qualcosa di cui non riuscivo a comprendere il senso, come un pensiero, una sensazione, forse una folgore.

         Mi lasciai andare in una sonora risata, giusto per smuovere la sospensione che pareva aleggiare, o per ascoltare me stesso, la mia voce, la capacità di rompere quell’aria pesante, ingombra di frammenti di niente. Qualcosa parve rispondere con parole appena mormorate nell’ombra, io volsi gli occhi verso la direzione da cui provenivano, ebbi terrore per qualcosa che non potevo assolutamente sapere cosa fosse, e infine tornai sui miei passi, verso quello scrittoio.

         Il libro non era più lì, si era spostato, qualcosa o qualcuno ne aveva richiuso le pagine, lo aveva sollevato, era andato a riporlo sopra ad uno scaffale della libreria, in bella mostra, ma come se le sue ultime pagine non dovessero lasciarsi sfogliare. Ebbi titubanza nel prenderlo, la debole luce che lo aveva illuminato mentre lo stavo leggendo, pareva adesso emanare direttamente dalla sua copertina; e quel magico azzurro del mare illustrato, pareva ora mostrarne quasi la profondità, persino la trasparenza dell’acqua.

         Mi guardai attorno con il libro nelle mie mani: non c’era niente in quella stanza, adesso ne ero sicuro, soltanto io coi miei pensieri. Girai per due volte attorno allo scrittoio, cercai di riflettere su quanto stava accadendo, infine decisi che avrei letto le ultime pagine: soltanto lì, forse, avrei trovato la spiegazione di quanto non riuscivo a capire.

 

 

 

 

 

 

 

 

         Un’immagine persa per sempre.

 

 

 

         Lui la guarda, senza insistenza. Lei, bionda, con appena un filo di trucco sugli occhi, sorseggia il suo cappuccino con calma, quasi con disinteresse, poi dice sottovoce qualcosa all’amica che le siede vicino, e mai, per nessuna ragione, va ad incrociare lo sguardo con l’uomo che le siede quasi di fronte, nella saletta del bar. Lui apre il giornale, sfoglia qualche pagina, scorre alcune notizie, senza soffermarsi su nessuna in particolare. Forse desidererebbe non essere calamitato dal viso di quella ragazza, ma è quasi più forte di sé, deve quasi obbligarsi per non tornare a guardarla. Nel grande locale, clienti di qualsiasi genere, entrano ed escono: nulla di diverso si nota, nei loro comportamenti, da ciò che ci si potrebbe aspettare.

         Poi succede qualcosa: le due donne, dopo una pausa, ricominciano a parlare tra loro, si comunicano delle frasi che sembrano di una certa importanza, però un sicuro dissidio pare si sia fatto strada nelle loro parole, e pur sottovoce, arriva l’eco di qualche punto stizzito nella loro conversazione. Lui alza gli occhi da quel giornale, e incrocia lo sguardo di lei, soltanto un momento; solo quella piccola cosa appare già sufficiente per far allargare all’uomo un leggero sorriso, quasi un compiacimento. Il suo giornale perde in quell’attimo ogni attrattiva: adesso la donna dalla bionda capigliatura appare seria, quasi imbronciata, con la mente che si spinge lontano da lì, come se quasi tutto, intorno al suo sguardo, avesse perso di qualsiasi interesse.

         L’uomo si sente con lei, si interroga mentre ordina un altro aperitivo analcolico, si rende conto di come tutto giochi a sfidare, in qualche maniera, quel suo viso meraviglioso che continua a stargli davanti, quasi come a ricordare che alcune espressioni riescono quasi da sole a farsi scolpire nel marmo, o nei ricordi, senza bisogno di altro. Il suo pensiero scivola lento: quella bionda è sempre più oggetto là attorno, come nella logica contemporanea, e se lei non riesce a sentirsi all’altezza della situazione che riesce a creare, allora è fuori dal gioco, non può aspirare più a niente. Per un attimo a lui sembra la donna più bella e più espressiva che abbia mai visto, poi si interroga se è questa la cosa maggiormente importante da ricercare in una persona, anche se ne è attratto. Esce dal ruolo, quasi disperato, si volta verso i clienti che continuano ad affollare il locale, vorrebbe essere solo, riuscire a pensare qualcosa con calma, mentre si sente vicino ad una novità che non affrontava da tempo, ma che tende a sfuggirgli, di nuovo, e forse stavolta per sempre.

         Le due donne si alzano, il cameriere va loro incontro per farsi pagare la consumazione, e intanto infilano i propri soprabiti, lei si muove lentamente, con noncuranza. Infine scivolano via, quasi senza rumore. Il tardo pomeriggio trascolora in un tramonto insignificante, filtrato dalle tendine del bar, lui si alza quasi senza coscienza delle azioni che compie. Va verso la porta, si piazza quasi di fronte alla bionda che prosegue imperterrita ad ignorarlo. L’aria trema per un attimo, quasi surriscaldata dall’emozione. Qualcosa si rompe, lei si ferma, lo vede, l’osserva con un certo distacco, torce leggermente la bocca in una specie di smorfia, e in un solo momento sembra già un’altra persona, i capelli appaiono di paglia, il suo viso non è più quello di un attimo prima.

         Lui si sposta, lascia che le due donne lo superino, sente un malessere salirgli, come se gli girasse la testa. Si apre la grande porta vetrata, esce la donna, l’altra la segue, lui, imbambolato, va dietro di loro, senza più alcuna coscienza di ciò che va fatto. Vorrebbe fermare quella bionda ipnotica, sentirne la voce, avere certezza di ciò che sta accadendo, ma il cameriere lo segue, dice: signore, si è dimenticato di pagare gli aperitivi. Ha ragione, dice lui; si volta un attimo per rientrare dentro al locale, però vuole vedere la direzione che lei sta prendendo, non vuol perdere di vista la bionda, deve guardare dov’è, questa è la cosa più importante in questo momento. Si gira, con la mano già sopra la maniglia del bar, ma la bionda è sparita, sul marciapiede non c’è più nessuno.

 

 

 

         Bruno Magnolfi



In nome di lei

        

 

 

 

 

         Colpa grave ed indivisibile

         Dopo aver sbrigato tutte le faccende di casa, quando infine riesce a ritagliarsi del tempo per sé, a lei piace mettersi seduta, da sola nella sua stanza, e riguardare delle vecchie fotografie che ha accumulato con pazienza, ripescandole alla rinfusa da una grossa scatola di cartone dove solitamente le tiene riposte. La sua vicina, quando sa che lei è in casa, va a trovarla certe volte, tanto per parlare con calma del più o del meno, e lei qualche volta le mostra proprio quelle immagini, ricostruendo i periodi e le vicende delle persone le cui facce affiorano su quei cartoncini lucidi. Poi generalmente si salutano, lei l’accompagna fino sul pianerottolo, la saluta, dice che le ha fatto piacere che sia passata, ed infine richiude la porta.

         Forse l’altra sorride di quegli struggimenti così assolutamente ordinari. Forse chiunque lo farebbe in simili circostanze. Ma non ha alcuna importanza, ognuno è costituito in una propria maniera, inutile stare a criticare o a fare ironie. Lei rientra, sistema le sue cose e mette in ordine la sua piccola stanza. Sua madre adesso è anziana, ma ancora conserva un carattere burbero, non accetta facilmente il disordine, e non le piace neppure che lei si perda in quelle sciocchezze, cosi, pur lasciandola fare, quando la vede affacciarsi alla porta della cucina, le detta subito qualche compito pratico di cui occuparsi, quasi a rompere velocemente quella sua atmosfera sognante attraverso la concretezza delle cose da fare. Certe rare volte le rinfaccia addirittura che i soldi per andare avanti vengono quasi tutti dalla sua pensione, e quelle elemosine che prende sua figlia per fare le pulizie in casa a qualche famiglia di quel quartiere, da sole non servirebbero quasi a niente; lei ovviamente soffre quando ascolta delle parole del genere, ma in ogni caso cerca di non ribattere mai a certi discorsi.

Poi, la prima coltellata che lei infligge a sua madre poco dopo avere iniziato a sbucciare delle patate sul tavolo di cucina, alzandosi dalla sedia come per un gesto normale, è di striscio su un braccio, quasi uno sbaglio di traiettoria. Il secondo colpo, al contrario, è più deciso e diretto, e va preciso di punta all'addome, anche se non è forte, soltanto una robusta punzecchiatura, quasi fosse un avvertimento. La vecchia si accascia, subito si lamenta, lei resta immobile per dei lunghi attimi, infine si porta le mani ai capelli, urla qualcosa, va immediatamente a chiamare la sua vicina di casa. Non è grave, si salverà, dice il medico mentre portano via la madre con la barella, ma io devo sporgere denuncia, il caso non è chiaro, non è proprio possibile che si sia tagliata da sola.

Sono stata io, dice lei con una certa fermezza; se lo è meritato. La vicina presente dentro la stanza è incredula, la guarda in faccia con gli occhi sbarrati, non si rende neppure conto del tutto di quanto stia effettivamente capitando. I carabinieri arrivano in fretta, fanno qualche rilievo e le dicono subito di seguirla, anche se lei sembra già pronta, nella confusione del momento è riuscita perfino a mettere qualcosa di personale dentro una borsa. E’ colpa mia, spiega la vicina ormai in lacrime. Ho dato spago ad un comportamento sentimentale, ho attizzato una brace, mi sono lasciata andare ad ambigui comportamenti. Sono colpevole, spiega, almeno quanto lei.

 

 

 

 

 

         Così com’è.

Carlo, dice lei. E poi basta. Fuori scende la sera, sul largo viale di fronte le gomme delle auto continuano a rotolare sul fondo umido emettendo una specie di soffio o di respiro, anche se, chiudendo loro ermeticamente le vetrate dello spazioso appartamento, rinunciano subito a far giungere fin dentro qualsiasi rumore. Lei lo osserva ancora nell'attesa di un gesto oltre la lettura distratta del giornale. Carlo però ne avverte la presenza alle spalle, e proprio per questo finge assoluto interesse per l’articolo che si ritrova sotto gli occhi.

Dobbiamo parlare, fa lei. Lui volge per un attimo lo sguardo dalla sua parte, si sistema meglio gli occhiali sul naso e gira la pagina con accuratezza, per poi decidersi a chiedere: ma di che cosa? Non so, fa lei; non facciamo mai niente, stiamo qui oscillando perennemente da una poltrona all’altra senza mai concludere neanche di coltivare un interesse per qualcosa, o di mettere a punto una qualche decisione, occuparci di un tema, di un argomento, non saprei neppure dire quale.

Ma se dobbiamo addirittura sforzarci per trovare una passione a cui affezionarci, forse anche da condividere e magari fare nostra, proprio come vorresti tu; se non è qualcosa che ci nasce spontaneamente tra i nostri desideri, come può essere qualcosa da prendere poi seriamente? Forse hai ragione, dice lei, ma io mi sento annoiata, ecco l’ho detto, anche se non avrei voluto. Vorrei fare qualcosa, anzi, provare continuamente una spinta ad occuparmi di qualche argomento. In fondo bene o male tu hai il tuo lavoro, ma alla fine a me di una giornata intera spesse volte non rimane quasi niente.

Carlo si alza, va alla vetrata, osserva il flusso del traffico mentre scorre ordinatamente. Non si sente affatto toccato dal problema di sua moglie, però prova la necessità di darle una risposta, come sempre gli succede in casi di questo genere. Si volta, la guarda, all'improvviso gli appare soltanto come una grandissima scocciatrice, una che riesce semplicemente a sollevare dei piccoli e fastidiosi problemi pressoché insolubili. Però, forse proprio per questo, va verso di lei e l'abbraccia, come se quel gesto fosse capace da solo a distendere in un unico momento qualsiasi possibile tensione.

Conosco per vie traverse una grossa associazione di volontariato, le dice a voce bassa. Potresti impegnarti con loro, dare una mano: riunioni, incontri, decisioni da prendere, sentirti utile a qualcosa di sociale, insomma. Resta in aria una pausa silenziosa, in cui è facile immaginare le macchine lungo la strada mentre sembra continuino perennemente il loro carosello. Perché no, fa lei alla fine. Potrei sempre provare, e rendermi comunque conto di quanto tempo e di quante energie riuscirebbe ad assorbirmi un'attività di questo genere, prima ancora di decidere se vada davvero bene. Certo, fa Carlo, domani cercherò con qualche telefonata di metterti subito in contatto con qualcuno di loro, anche se naturalmente stasera non posso prometterti niente di preciso.

Va bene, fa lei, mi sento già meglio al solo pensare che posso finalmente rendermi utile per qualcuno, perché al contrario questo accorgermi che il tempo per me spesso trascorre in un modo così omogeneo e insignificante mi rende depressa, apatica, quasi sofferente. 

Carlo si protende per darle un piccolo bacio sulla fronte, mentre lei ispirata e sorridente subito va verso il tavolo da fumo, e si accende con soddisfazione una delle sue sottili sigarette. In fondo ci vuole poco, dice ironica, per farmi contenta. Poi va verso il finestrone e si ferma un attimo a fissare il traffico nevrotico che scorre proprio là sotto. Il mondo privo di passione non ha alcun senso, conclude. Tutti gli altri corrono verso qualcosa, sono spinti in avanti da desideri irrinunciabili; certe volte mi pare tutto così effimero, assurdo, addirittura privo di significato; ma poi mi convinco che hanno ragione a scorrere così l'uno a fianco all'altro, proprio come quelle macchine laggiù, pare anche a te Carlo? Lui si volta senza neppure averla ascoltata, però risponde subito: certo cara; è proprio così.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Caffè pagato

         Lei non guarda mai nessuno negli occhi. Cammina, tira dritto, non si sofferma in nessun caso a guardare chi si trova di fronte. Forse la sua è soltanto timidezza, dice qualcuno che la conosce giusto di vista, proprio perché magari gli è capitato di vederla passare una volta o due lungo la strada che a lei piace percorrere per recarsi al lavoro. Lui invece dalla vetrina del suo piccolo bar, sempre deserto a quell’ora, la nota ogni giorno camminare di fretta lì davanti, attraversare velocemente sul marciapiede quel minuto spazio trasparente tra gli infissi del suo locale, e sparire oltre con rapidità, insieme al ticchettare inconfondibile delle sue scarpe coi tacchi. Potrebbe entrare, pensa lui, prendersi magari un caffè, dire di sé con indifferenza che oggi non è in ritardo come spesso le capita, e che stamani si sente tranquilla, che tutto è a posto, e non ci sono problemi particolari di cui occuparsi. Sarebbe bello, forse; non ci vorrebbe proprio alcuno sforzo.

Così lui oggi l'attende sul marciapiede, sulla porta del bar, le sorride e le dice buongiorno quando lei arriva, senza insistenza, anche se lei bofonchia solo qualcosa tra sé, e in un attimo ecco che lo ha già superato, senza concedergli alcuna possibilità. Lui però allora si gira, la guarda per un istante mentre si allontana, e quasi per orgoglio le dice: signorina; lei si volta, si sofferma, lui fa un passo verso di lei; le dice che vorrebbe offrirle un caffè, gli basta vederla entrare almeno una volta nel suo piccolo locale, conoscere meglio la sua voce, osservare le sue espressioni appena per un momento. Lei resta immobile, perplessa: grazie; ma non stamani, gli risponde; ho fretta, purtroppo; e riprende come faceva poco prima a camminare sopra ai suoi tacchi. Lui la lascia, ma comunque è già contento così, qualcosa sicuramente si è come delineato, e forse niente da ora in avanti sarà più come prima, le cose con molta evidenza cambieranno velocemente, e tutto si sistemerà, così forse ci saranno momenti più rilassati tra non molto, basta soltanto avere un po' di pazienza.

Lei, senza neanche dare un giudizio troppo pesante, pensa che ci sono in giro delle persone ben strane, e in un attimo archivia così la faccenda. Poi però mentre è lì nel suo ufficio a sbrigare le solite pratiche, ecco che ci ripensa: potrebbe esserci un errore di valutazione, riflette, qualcosa subentrato chissà come a complicare le cose. Al limite potrebbe essere partito proprio da lei l'elemento iniziale, ed è questa alla fine la riflessione più forte. Analizza meglio i suoi comportamenti, e ritiene, come d’altronde tutti coloro che la conoscono un minimo, di essere troppo chiusa con gli altri, di trovarsi carente di una componente fondamentale di socializzazione. Esce, durante la mattinata, torna indietro, lungo la via, fino a quel bar. Si ferma un po’ prima, osserva l’insegna, le vetrine, ciò che dalla strada si intravede di quel bancone e dei due o tre tavoli dentro al locale. Poi si fa coraggio e va a fermarsi proprio all’entrata. Lui la nota, ma sta servendo qualcuno. Non è questo il momento, riflette, non è in questo modo che doveva avvenire.

Così continua a scherzare con i clienti che si trova di fronte, lei aspetta, ma soltanto per un attimo; poi se ne va. E’ colpa mia riflette, mentre lentamente torna sui suoi passi; riesco sempre a sporcare qualsiasi cosa mi si presenti. Ma lui è già sulla porta del bar: signorina, le dice, e lei si volta, lo guarda; il suo caffè, dice lui, e le porge sul vassoio la tazzina.

 

 

 

 

 

 

 

         Chiarimenti

 

         Va bene, spiegherò tutto, fa lei. Perché una spiegazione ci deve essere, è evidente. Le altre intanto la guardano, in attesa. Ho male allo stomaco, e questo oltre al resto torna ad innervosirmi. Così vorrei soltanto stare in silenzio, rendendomi conto che spesso le parole banalizzano soltanto ogni pensiero. Ma poi mi guardo attorno e vedo tutti quanti che si dicono qualcosa giusto per parlare, che si scambiano opinioni perlopiù scontate, frasi fatte, chiacchiere poco più che insulse, senza preoccuparsi neppure minimamente di ciò che vorrebbero esprimere davvero. Perciò ho optato per l’azione, dice ancora lei, senza guardare ad altro.

         Qualcuna tra le presenti non comprende affatto dove voglia giungere quella specie di strega con questo giro assurdo di parole, ed una di loro ad un certo punto sbotta: dicci soltanto perché ti sei comportata in questo modo, il resto lo valuteremo noi. Lei si interrompe, gira con calma il suo sguardo attorno al salone, evita di osservarsi ancora le mani, e alla fine dice soltanto: non lo so, questa è la verità. Forse per noia, o per il bisogno di essere almeno considerata da qualcuno. Avevo necessità di muovermi, di sentirmi viva, anche se poi ho considerato più di una volta che non c’era praticamente niente che potessi davvero offrire agli altri.

         Nel negozio di bellezza tutte sembrano conoscersi, se non altro per essersi incontrate qualche altra volta proprio là dentro. Il punto è che so fare un sacco di cose che purtroppo non interessano proprio nessuno, dice ancora; e rendermi conto di tutto questo, ecco che mi deprime ogni volta sempre di più, quasi ogni giorno, senza altra speranza. Perciò ho pensato, proprio ad un certo punto, che piuttosto che continuare in questo modo avrei potuto cambiare completamente tutto il mio comportamento. Ed è solo per questo che ho iniziato a sorridere a quasi tutti gli uomini, a dare loro corda di fronte alle battute sceme che riuscivano a tirare fuori in mia presenza. Non mi sono neanche chiesta se erano sposati o cose di quel genere, perché in fondo mi è parso subito qualcosa di poco rilevante.

         Alcune si guardano, non comprendono affatto come si possa dire cose di quel genere, ma restano comunque in silenzio, quasi incredule. In fondo non mi interessano neppure gli uomini, riprende lei, se non per quella parte più spirituale che soltanto qualcuno di loro riesce veramente ad esprimere. Diverse ridono, forse per una sorta di ironica solidarietà con questa parte del discorso. Non avrei mai voluto creare questo scompiglio, dice ancora, se non per mostrare quanta superficialità con pochi gesti riusciamo ad iniettare nel nostro agire quotidiano. Riflettendoci meglio forse mi sento dispiaciuta, ma non ritengo in fondo di aver fatto qualcosa di così spregevole come adesso sembra.

         Tutte quante a quelle parole riprendono poco per volta a preoccuparsi d’altro, riprendendo a spalmarsi le creme e acconciandosi i capelli, e qualcuna pensa forse non sia stato bello mettere alla gogna una povera ragazza, quasi una di loro, anche se nessuna si sente propensa a prendere davvero le sue difese. Sono comportamenti insulsi, riflettono; non si possono in alcun modo giustificare. Poi qualcuna inizia anche ad uscire dal negozio, salutando le altre con grandi sorrisi e baciandosi ripetutamente sulle guance, dandosi nuovi appuntamenti. Va bene, dice la titolare dell’esercizio per interpretare il pensiero di tutte e chiudere la cosa; non accaniamoci più di quanto abbiamo fatto: ogni azione, anche la più sciocca, trova facilmente una sua sponda quando non c’è una ferrea volontà per non mostrarsi troppo leggeri. Le cose proseguono, comunque, e alla fine anche ad ogni più piccolo problema si riesce sempre a trovare una giusta soluzione.  

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Silenzio

 

         Lei cerca qualcosa nella zona buia del palco. Lui, al contrario, apprezza la luce calda di un faretto che gli accarezza leggermente l’espressione. Sono stanca dei nostri continui contrasti, dice lei ad alta voce, come cercando il consenso plateale del pubblico silenzioso presente. Ormai il nostro sembra un perenne disaccordo, qualsiasi sciocchezza è buona per tirare fuori opinioni differenti e contrastanti. Facciamo regolarmente una medesima e monotona figura meschina davanti a tutti loro, proprio come se fossimo due persone che non riescono neppure ad essere una coppia. Silenzio. Ma noi non siamo una coppia, dice lui, modulando un’espressione quasi seria e preoccupata sul proprio viso. Silenzio. Lo so, replica lei, ma non c’è affatto bisogno di far sapere a tutti della nostra distanza. Loro pensano di noi qualcosa che è forse superiore alle loro stesse normali esistenze, si commuovono persino quando noi ci avviciniamo, quando lasciamo vedere che c’è ancora del sentimento che ci tiene uniti.

         Ma è falso, fa lui, è soltanto un artificio del copione, lo sanno benissimo in platea. Non è vero, ribatte lei: loro si immedesimano nelle nostre parti, e come succede a tutti quanti quando sono nelle loro comode case, sperano sempre che qualcosa prima o dopo si appiani, insomma che alla fine di ogni tempesta sia finalmente il sereno a prevalere. Silenzio. Lui continua lentamente a muoversi nel cerchio di luce, lei si limita ad osservarlo, dalla penombra. E poi il nostro passato ha un senso, dice; qualcosa che ci ha pur tenuto uniti per tutto questo tempo. Forse è soltanto l’egoismo di ognuno di noi che adesso ci trascina su altre strade. Certo, una volta c’erano degli ottimi motivi per starcene vicini, per dimostrarci quasi continuamente il nostro affetto…

         Ecco, senti, qualcuno applaude piano in fondo alla platea alla parola affetto; sono forse quelli che hanno seguito la nostra storia fin dall’inizio, che ci hanno sostenuto, che in qualche modo stanno ancora dalla nostra parte, e non desiderano certo vedere adesso il nostro sangue, ci vogliono bene, insomma. Silenzio. Va bene, dice lui quasi con stizza, però possiamo pur continuare ad avere delle opinioni personali, mi pare, anche se queste paiono proprio non assomigliarsi per niente. Certo, fa lei, è naturale; basta però non usarle tra di noi come delle armi, o aggrapparci a queste per mostrare tutta la nostra distanza. Va ancora bene così, lo accetto, fa lui, anche se una maggiore naturalezza mi pareva non guastasse...

Qualcuno d’improvviso, tra le poltroncine del pubblico, inizia a parlare a voce sufficientemente alta da interrompere quasi il dialogo che si sta svolgendo. Dice che è il risultato quello che alla fine conta per davvero, non tutti questi artifici. Poi si fa silenzio. Non è affatto così, rispondono invece quasi contemporaneamente loro due. Anzi, dice lei, noi non potremo mai essere diversi da come siamo ora, e ciò che si vede è soltanto la dimostrazione e il risultato di quanto profondo sia il nostro vero sentire, non un colpo di mestiere. Poi cala di nuovo il silenzio. Forse è solo l’orgoglio a far parlare loro due in questo modo; forse dovrebbero essere più realisti ed affrontare con maggiore slancio l'evidenza delle cose.

Qualsiasi parte ci troveremo mai a rappresentare sopra queste assi, dice lui uscendo leggermente dalla luce, non riusciremo certo a rifarci una verginità: siamo destinati a stare insieme, questo è certo, e a mostrare così poco per volta il nostro lento sacrificarci, questa perenne debolezza umana di non riuscire mai a stare per troppo tempo dalla stessa parte. Silenzio. Sono d'accordo, fa subito lei, anche se la mia adesso appare soltanto come una contraddizione.

 

 

 

 

 

 

 

 

Segni divini

Tutto è iniziato un po' di tempo addietro, senza che lei assolutamente fosse stata capace di spiegarsi il motivo di quelle perdite di sangue intorno alle unghie delle mani, riuscendo comunque con alcune paia di guanti speciali, e naturalmente con la scusa di avere acquisito una tremenda allergia da contatto, a tenere nascosta a tutti la verità su quanto forse le stava realmente accadendo. Quasi ogni giorno sentiva scendere poco per volta nelle sue dita una forza che sostanzialmente non le era propria, un calore ed un'energia praticamente sconosciute, e lei, spontaneamente, nonostante si fosse da sempre reputata quasi atea, volle interpretare fin da subito quanto le stava accadendo come un vero e proprio segno divino, anche se evidentemente pressoché incomprensibile. Il sangue attorno alle unghie era soltanto nell'ordine di qualche goccia che si formava lentamente intorno ai polpastrelli, ma il formicolio che le prendeva ai polsi ed alle mani era forte, anche se tutto si svolgeva senza che in fondo lei avvertisse sul corpo alcun dolore e avesse nessun altro disturbo.

Si confidò con un’amica, dopo qualche tempo, sentendosi subito meglio per essersi almeno finalmente liberata di un segreto che aveva fino a quel momento tenuto celato a tutti, anche se l'altra si fece subito prendere dai brividi, sostenendo immediatamente che quello appariva semplicemente come un vero e proprio segno soprannaturale, e di un tipo sicuramente formidabile. Arrivò a dirle addirittura che pur essendo assolutamente una cosa certa ed incontrovertibile, secondo lei avrebbe dovuto comunque sincerarsene recandosi il prima possibile da qualcuno che si intendeva di eventi divini e di cose di quel genere. Laura, le spiegò, tu sei la prescelta per un messaggio che adesso noi non riusciamo in nessun modo a comprendere, ma che sicuramente scavalca le nostre vite per intensità e per importanza. Lei ebbe paura di quelle parole, così le fece giurare e spergiurare che non avrebbe mai rivelato a nessuno il suo segreto, e naturalmente non disse niente ad altra anima viva, risolvendosi a non frequentare più neanche quella sua amica.

Le cose dopo allora difatto sono andate avanti in questo modo per diverso tempo: lei ha proseguito a fingersi affetta da quella specie di malattia, ed a professare agli altri, certe volte persino a se stessa in una sorta di propria sincera intimità, un'insidia virale che tutti, parenti e amici, hanno sempre riconosciuto come una iattura, la solita sfortuna che a volte la natura lascia cadere su qualcuno scelto a caso. Ad oggi comunque gli episodi si sono fatti molto più radi, anche se non sono mai cessati, e Laura, pur non avendo mai iniziato a professare alcuna religione, forse proprio nella paura di essere scoperta, di fatto svolge una vita piuttosto riservata, ed ogni sera pare rivolgersi al soprannaturale, parlando da sola a voce alta delle sue angustie, ed enumerando quasi sempre ogni sua preoccupazione. Stasera però, su di una semplice rivista illustrata, ha letto casualmente che esiste un’infiammazione quasi con le medesime caratteristiche presenti sopra le sue mani, e che scompare in poco tempo curandosi con una semplice pomata che abbia degli opportuni componenti.

         E’ rimasta perplessa, ha riletto di nuovo tutto l’articolo, poi ha chiuso il giornale: una sciocchezza, niente più di una cosa senza importanza, che può prendere chiunque, senza alcun problema: questo il senso delle cose scritte là sopra. Allora è andata in bagno, si è tolta i guanti, ha osservato le sue mani così bianche e smunte per non averle mai adoperate per tutto quel tempo, e le è venuta forse voglia di piangere, anche se si è trattenuta. Poi è uscita da casa, sempre senza guanti, e le sue mani poco dopo hanno preso a sgocciolare sangue dalle dita, anche se Laura non se ne è affatto preoccupata, neppure quando qualcuno tra i passanti le ha chiesto allarmato che cosa le stesse succedendo. E’ un segno, ha risposto lei, niente di speciale.

 

          

 

 

Felice serata

 

         Dovrebbe venire anche Tonelli, quasi sicuramente insieme alla moglie, e senz’altro, se ci saranno anche tutti gli altri, con loro saremo forse più di trenta. Mi sento praticamente elettrizzata, prosegue lei, sarà senza dubbio una serata magnifica. Intanto si alza dal tavolo, va dentro casa a prendere il vassoio con la frutta, e poi torna per appoggiarlo nel mezzo, sul piano tra loro due; quindi torna a sedersi. Lui in silenzio si versa ancora due dita di vino, sorride, pensa che dopodomani fortunatamente sarà passata anche questa, e poi potrà dedicarsi a tutt’altro.

         Lei mastica lentamente una fragola, forse vorrebbe ancora dirgli qualcosa a proposito della serata che stanno organizzando per il giorno seguente, però si frena, proprio per non apparire esageratamente ansiosa e non sembrare neppure così ripetitiva. Lui sorseggia dal suo bicchiere, probabilmente immagina quello che lei sta pensando, e quasi vorrebbe riprendere a sorridere, tanto per darle spago, ma resta serio, per non incoraggiarla almeno su quell'argomento, forse nell'attesa di trovarne di nuovi. Infine si alza, recupera da qualche parte lì accanto le sue sigarette, quindi torna a sedersi a quel piccolo tavolo da giardino in ferro battuto, davanti a lei.

         Dovresti provare di nuovo a smettere, dice lei tanto per dire, subito mordendosi le labbra per aver toccato un argomento che potrebbe in un solo attimo irritarlo profondamente. Lui fa finta di non aver neppure sentito quelle parole, però subito dopo dice: ho calato la frequenza, forse non te ne sei neanche accorta, ma praticamente sto fumando quasi la metà rispetto a una volta. Lei sorride, tutto vorrebbe fuorché toccare un tema che possa compromettere quel difficile equilibrio che si è formato in quegli ultimi tempi. Ma si, dice allora: sei stato bravo, sussurrando le ultime sillabe come ad allontanare qualsiasi specifico riferimento. Penso che domani indosserò il mio vestito rosso sparato, tu che ne pensi? Bello, fa lui, non è molto sobrio, ma in ogni caso si fa notare, e questa in fondo è la cosa che a te interessa di più.

         Lei sta per ribattere qualcosa, ma in quel momento esatto le suona il cellulare. Così si volta per osservare distrattamente il numero apparso, e poi riattacca. Quella scocciatrice di Vanda, dice come tra sé, la richiamerò forse più tardi. Certo, non si può dire che con certe persone tu sia molto socievole, fa lui. Lei evita il suo sguardo e si limita a dire che forse è anche vero, ma la capacità che hanno in molti di prenderti nel momento sbagliato è notevole. Sarà pure così, ribatte lui, però mi pareva che tu e Vanda foste delle grandi e inseparabili amiche. Si, fa lei, ed è proprio per questo che posso permettermi di trattarla un po’ come mi pare.

Lui sorride, osserva il posacenere, infine guarda distrattamente il suo orologio assumendo l’espressione di chi si accorge di quanto si sia già fatto tardi. Devi uscire? fa lei. Purtroppo si, dice lui, devo fare un salto al caffè per incontrarmi con una persona. Va bene, dice lei mentre si alzano dal tavolo insieme; spero almeno stasera tu non faccia tardi. Lo spero anche io, dice lui, comunque tu non aspettarmi. Quindi si volta, ma prima di andarsene raccoglie dal tavolo qualche stoviglia usata da lui, e tenendo in equilibrio quegli oggetti va a deporli sul piano in cucina, quindi sparisce.

Lei ascolta il motore dell’auto che si avvia, ed il rumore delle ruote sulla ghiaia che si allontanano, poi richiama la Vanda. E’ tutto a posto, le fa; domani sera mi presenterò a tutti come una classica moglie felice, nessuno avrà da sospettare alcunché; tantomeno lui

 

 

 

 

 

 

Fine del periodo

 

         Lei aveva soltanto venti anni quando si era messa con il signor Mario che abitava al piano sopra l’appartamento dei suoi genitori, mentre lui aveva già superato abbondantemente i quaranta. Naturalmente tutto era stato fatto ed era proseguito in grande segreto, tenendo conto di orari, situazioni, possibilità. Lui svolgeva una normale attività di commercialista, ed era regolarmente sposato con una gentile signora che lei salutava cortesemente ogni volta che incontrava lungo le scale, sorridendo anche al figlio sempre tenuto per mano, che frequentava già la scuola primaria.

         Lei era soltanto una studentessa al quarto anno di lettere. Con tutte le limitazioni ed i rischi che c’erano, di fatto loro erano riusciti a vedersi pochissimo, concordando sempre i tempi esatti in cui lui riusciva a rimanere in casa da solo, quando lei, spesso con tutta la fretta possibile, ed accampando sempre delle scuse generalmente banali per uscire, poteva fare le scale e raggiungerlo. Tutto durava sempre ben poco, giusto il tempo di scambiare qualche dolcezza, spogliarsi in fretta, e poi via, un ultimo sguardo, ed ognuno per conto proprio.

         Oggi è trascorso poco più di un anno da quei primi tempi, e lei ha diradato le volte in cui sale nell’appartamento del signor Mario, come continua a chiamarlo. Le piace ancora ritrovarsi con lui, sistemarsi con calma su quel divano in salotto, e poi sciogliere con lentezza il nodo della sua cravatta, come fosse un inizio già concordato, e con due parole fare un po’ la sciocchina; ma tutto, negli ultimi tempi, sembra ormai diventato come una qualsiasi abitudine.

         E’ una storia da chiudere, pensa lei qualche volta, anche quando è lì, proprio su quel divano; ma non riesce mai a decidersi. Così rimanda sempre qualsiasi iniziativa. Loro non parlano, non hanno mai parlato di niente, se non sottovoce delle cose essenziali per tornare a vedersi. Affrontare adesso quell’argomento, cercare addirittura di spiegarsi, di farsi capire, è qualcosa che almeno a lei torna addirittura innaturale. Così lascia perdere, rimanda, evita il tema.

Di quella relazione lei non ne ha mai parlato con nessuno, d'altronde non ha certo avuto bisogno di comprensioni, e neppure di pareri scandalizzati da parte di amici o colleghi di corso. Però adesso non sa cosa fare, oscilla tra un pensiero e quell'altro, e qualche volta sente il bisogno di confidarsi con qualcuno sentendo mancare almeno in parte la voglia di salire le scale. In fondo si crogiola in questa indecisione, ed anche se da un lato sa che deve prima o dopo affrontare la cosa, dall’altro tende spontaneamente a rimandarla. Sa che ha troppo da guadagnare chiudendo quella storia, lo comprende benissimo. Ed a volte si dice tra sé che non avrebbe mai dovuto neppure iniziarla, anche se si giustifica che è stato un fatto d’istinto, senza una vera scelta di fondo.

Ora sta studiando in camera sua, su un vecchio testo di Schlegel, quando gli giunge la vibrazione di un messaggio sul suo cellulare. E’ il segnale, adesso può salire da lui, dal suo signor Mario; lei si prepara, dice qualcosa alla mamma, prende dei libri con sé per avere almeno una copertura, poi apre la porta. Lui la riceve, la guarda, l’abbraccia, dice subito però che è l’ultima volta. Lei è sorpresa, prova una vertigine, un improvviso terribile senso di abbandono, forse ingiustificato: ma poi lo stringe un attimo, racchiude tutto in un gesto, e infine se ne va, senza rispondere niente; così si chiude un periodo.

 

 

 

 

 

 

Futuro deciso

Gli uomini tenevano quasi tutti lo sguardo voltato verso la medesima direzione, come dovesse arrivare proprio da là ciò che attendevano. Le donne no, loro guardavano a terra, come a cercare quasi di nascondere gli occhi. Infine qualcosa forse accadde, ed i più se ne andarono svogliatamente per la loro strada, lasciando la piazza quasi deserta. Un giovanotto affacciatosi sull'uscio del caffè disse che a lui interessavano poco quei modi d'altri tempi di manifestare le proprie idee. Nessuno di fatto gli rispose, ma una ragazza lo guardò con sospetto, come se da lui venissero molti dei problemi che attanagliavano quella comunità. Alle finestre del palazzetto degli uffici comunali, proprio di fronte, nessuno aveva il coraggio di farsi vedere, ed anche se la protesta dei cittadini era già sicuro che sarebbe proseguita nei giorni a seguire, di fatto si immaginava che le autorità là dentro avrebbero continuato il loro lavoro come se niente stesse accadendo.

Quattro o cinque persone rimaste in piedi sul lastricato parlavano tra loro, ed una donna aveva detto ad un tratto a voce più alta che avrebbero dovuto rompere gli indugi ed andare a trattare le loro ragioni direttamente con lui, col signor Ferri. Naturalmente nessuno dei presenti pareva d’accordo, e così, assieme ad un'altra, lei si era staccata poco dopo dal gruppo per entrare a passo svelto dentro all’edificio, decisa ad affrontare la situazione a viso aperto. Soltanto dopo una buona mezz’ora  la si vide riuscire da lì, l'espressione perplessa, la camminata lenta, di chi forse ha ottenuto qualcosa, oppure no, ed adesso non sa neanche più che pesci pigliare.

Qualcuno dal caffè proseguiva ad osservarla, come cercando conferme a ciò che aveva già immaginato. Ma infine uscì dal palazzo il signor Ferri in persona, raggiunse frettolosamente la donna ancora sulla piazza, le disse qualcosa, e tutti sentirono dentro di loro quasi il cuore fermarsi, come se qualcosa di estremamente importante stesse accadendo. Poi il signor Ferri, dopo una rapida stretta di mano, si allontanava, lei si volgeva verso il caffè, qualcuno si fermava sul marciapiede, come per assistere allo spettacolo di una donna che aveva osato sfidare un potente. Lei si osservava più volte attorno a sé, lo sguardo fermo, l'espressione di chi sa di aver svolto fino in fondo quello che reputa il proprio dovere. Non c'era niente da dire, molti pensavano che se anche le cose non si fossero sistemate, in ogni caso la prova di dialogo portata avanti avesse già dato i suoi frutti, e che adesso in fondo si trattava soltanto di proseguire con determinazione.

Lei, parlando assieme all’altra, entrava allora con calma dentro al locale, mentre tutti si facevano da parte per lasciarla passare; il cameriere le puliva un tavolo e si metteva a loro completa disposizione, e le loro consumazioni, qualsiasi fossero state, risultavano subito e assolutamente a carico d’altri. Non ci volle molto, in un attimo arrivarono tutti, e molti sembravano voler festeggiare quanto avvenuto come una grande vittoria, anche se non era così. Si disse subito che quella donna rappresentava il futuro, che bisognava darle più spazio, la possibilità di parlare, di esprimersi, di rappresentare anche coloro che non erano stati neppure all’altezza della situazione.

Si guardò attorno, lei, più di una volta; non le sfuggiva nulla di quanto era accaduto, ma all’improvviso pareva perplessa di quanto stava effettivamente accadendo. All’improvviso il locale era pieno, tutti erano in piedi intorno al suo tavolo, chiunque voleva sapere qualcosa di più, capire dove stava davvero il miracolo, per cosa effettivamente c’era da sentirsi così elettrizzati. Lei si alzava in piedi, allora, lentamente, mentre intorno, poco alla volta, si faceva silenzio. Un leggero sorriso, una briciola di timidezza, schiarirsi la voce, prendere fiato, un’occhiata veloce d’attorno; poi le parole: grazie a tutti, davvero, ma il signor Ferri ha detto che non è d’accordo con le nostre richieste. Sarà tutto inutile, secondo lui: coloro che contano hanno già deciso quale sarà il nostro futuro.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Realismo nella preghiera

Certe volte da sola lei si mette a pregare, anche se a dire la verità lo fa soprattutto per abitudine, e forse anche per tenersi compagnia, utilizzando quei pochi e misurati gesti che questa attività le comporta come se fossero quasi delle medicine; e poi scegliendo con accuratezza sempre gli stessi atteggiamenti, quelli probabilmente che reputa fondamentali, oppure anche gli altri, per un motivo o per l’altro, a cui si sente maggiormente legata. In alcune situazioni difatti le pare addirittura che la solitudine che prova sia troppo forte per lei, ed in certe giornate che si faccia addirittura insostenibile, odiosa, come se la sua esistenza non avesse mai neppure in un caso meritato davvero qualcosa del genere.

Ed è allora che si siede sulla sua seggiola preferita, accanto alla finestra, e guarda senza neanche troppa curiosità le persone che camminano svelte o svogliate lungo la strada, cominciando a bassa voce ad inventare delle frasi che probabilmente in mezzo alla gente soltanto lei reputerebbe religiose: parole che tengono conto indubbiamente del rispetto per gli altri, ed aspirano senz’altro al bene di tutti, che sono solidali con le sofferenze del mondo, e con estrema semplicità anelano addirittura ad un futuro migliore, indicando una buona prospettiva almeno a quelle persone che proprio in quel momento stanno passando davanti alla sua finestra. Normalmente non chiede niente per sé, anche se in questa maniera si sente meno sola, alleviata del suo piccolo dolore; però in questo modo sa di essere estremamente generosa, altruista, protesa verso il suo prossimo.

Questo è quello che fa, trattando le persone che vede passare come se fossero dei veri e propri amici, dei sicuri conoscenti, individui con i quali scambiare con naturalezza molti dei propri pensieri. Parla con loro certe volte, senza che gli altri possano minimamente immaginare la sua attività, ed in questo modo lei, che in fondo non si sente propriamente parte attiva della realtà che intravede, dimostra a se stessa che il suo desiderio più profondo è semplicemente quello di essere proprio una come gli altri, una che riesce a vivere esattamente come tutti. Forse dentro di sé prega anche per questo, anche se spesso avverte profondamente la distanza che c’è tra la sua finestra e la strada.

Qualcuno poi suona alla porta, lei apre con timidezza, e trova un suo vicino di casa, uno con il quale certe volte si ferma a parlare lungo le scale, che qualche volta le pone delle domande generiche, e che adesso le chiede se per caso stia bene, se per lei sia tutto a posto. Certo, gli risponde con naturalezza: stavo adesso recitando le mie preghiere, quindi è chiaro che sto benissimo, che sono in pace con tutti. Ecco, fa lui accomodandosi nell’ingresso mentre la donna chiude la porta, è proprio di questo che volevo parlare: io non me ne intendo molto di queste cose, e così mi chiedevo se potevo magari unirmi a codeste preghiere, dire anche io qualche cosa, magari seguendo poco per volta le medesime parole. Lei lo guarda, le pare una terribile scocciatura quella che le sta capitando, eppure a questo punto pensa che non può neppure tirarsi indietro, anzi deve assolutamente mostrare quanto questa idea assurda le appaia persino congeniale.

Va bene, dice subito, preghiamo insieme, dedichiamo le nostre parole a qualcosa che valga davvero il nostro tempo, e dedichiamo al soprannaturale i nostri sforzi. Così si siedono, lei tira fuori un vecchio libretto stampato e subito glielo porge. Ma poi inizia a dire che le parole là sopra sono semplicemente da interpretare, e così gli parla di quel ragazzo con il maglione giallo che sta passando sul marciapiede. Vorrei tanto per lui una giornata magnifica, dice sorridendo, piena di cose positive, e che i suoi desideri diventino realtà. L’uomo non comprende, però la segue, osserva anche lui fuori dalla finestra. Ma poi si alza, dice che ha ben compreso il senso della sua attività, e che adesso può anche andarsene, fare persino da solo le medesime cose. La donna non lo trattiene, forse marginalmente reputa addirittura di averlo deluso, ma in fondo neanche questo le sembra un fatto troppo importante.

 

 

 

 

 

 

Lontano da questi pensieri

         Si può vedere spesso nella piazza del paese, Susanna, davanti o dentro all’unico caffè generalmente frequentato da uomini, con i tavolini all'aperto, mentre parla con qualcuno di loro stirandosi con gesto quasi rituale i suoi capelli neri e lisci, sistemandoli inutilmente dietro le orecchie, profondamente convinta, o almeno così sembra, di tutto quello di cui si trova a ragionare. Difficile evitare di guardarla, la sua presenza è forte, rende quasi impossibile ignorarla, tanto che chiunque lo faccia risulta subito un debole, ridicolo, piegato a comportamenti persino innaturali.

         Susanna a sua volta ti guarda se tu dici qualcosa, raramente sorride, ma poi se ne va all’improvviso, o s’interessa d’altro, senza che tu abbia saputo neppure percepire il momento esatto in cui quell’interesse che magari ti aveva concesso fino ad un attimo prima, sia improvvisamente scomparso, lasciandoti  perplesso, colmo di interrogativi. Tutti si sono innamorati di lei prima o dopo, anche per molte volte di seguito, ed in tanti vengono qui nei pomeriggi svogliati quasi solamente per incontrarla, per sentirla parlare, per dirle qualcosa.

         Io mi siedo, mi guardo attorno, la tazzina del caffè appoggiata al tavolino, ed ascolto i discorsi che si fanno, la gente che passa, i rumori della piazza, e soprattutto lei, che parla già di qualcosa, a volte in maniera pacata, in certi casi invece con più foga. Ho provato innumerevoli volte ad interromperla, anche se solo attraverso i miei pensieri, ma ogni volta mi sono immaginato Susanna mentre semplicemente mi inceneriva con un suo sguardo tagliente. Poi però qualcosa si placa, c’è come una pausa nell’aria, una sospensione, e pare che nessuno stasera abbia più niente da dire e da dirle; lei viene al mio tavolino, mi guarda, si siede con calma, mi fa: e tu, non hai niente da dirmi? La guardo, la prima parola insignificante che le dico è quasi sottovoce, poi però prendo coraggio e cerco di spiegarle con calma che vorrei andarmene da qui, da queste abitudini assodate, da questo nulla, da questi paesani sempre pronti a giudicarti, ma dopo un attimo mi sembra di non essere sincero, e soprattutto di dire delle cose con le quali probabilmente Susanna non potrà mai essere del tutto d'accordo.

Lei invece mi sfiora una mano, proprio mentre qualcuno la saluta forzatamente, quasi per spiegarle: non perdere del tempo con uno sfigato come questo che hai di fronte, lascia stare tutte le persone di questo genere; ma lei pare ignorare gli altri adesso, salvo dirmi che le piacciono i miei modi, il mio starmene distante, senza mescolarmi troppo con questi scansafatiche. Forse vorrei dirle che è lei che incita tutti ad essere così, ma resto in silenzio, anche se vorrei abbracciarla.

Improvvisamente Susanna si alza, si mette subito a scherzare con qualcuno, mi lascia lì, senza una risposta chiara, senza un parere, senza niente, proprio come se niente fosse stato. Resto fermo, vorrei scomparire, forse devo soltanto pagare in fretta il mio caffè e dopo andarmene; così mi alzo, vado al bancone, mi disinteresso di qualsiasi cosa, sono già lontano dentro ai miei pensieri. Però Susanna torna, mi ferma, dice che se solo volessi potrebbe accompagnarmi dove voglio. Io faccio cenno di si con la testa, lei prende le sue sigarette, e poi mi stringe con l’altra mano il gomito. Andiamo, non so neppure dove, o verso cosa, ma va bene così, in questo modo.

 

         Bruno Magnolfi

 

 

 

 


Non da solo

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Doppio

 

Mi sveglio di soprassalto, certe notti, e poi mi alzo dal letto in preda ad una notevole agitazione. Giro per casa, controllo che le cose siano tutte al loro posto, mentre sembra proprio che il mio sonno sia stato interrotto forse da un rumore insolito che ancora mi sembra di avvertire nelle orecchie, oppure da un richiamo lontano, come di una nave in rada, non saprei dire. Dietro un angolo del muro dentro al mio appartamento intravedo subito il mio gemello, ma non lo guardo in modo diretto, per non dargli l'impressione che la mia volontà sia quella di rimproverarlo di qualcosa. Mi verso piuttosto dell'acqua in un bicchiere, controllo sul tavolo ciò che ho preparato già per il giorno seguente, infine torno in camera e mi corico, cercando la posizione più comoda in mezzo alle lenzuola. Abitare da soli non è facile penso, ci sono dei momenti in cui il normale equilibrio viene meno. Poi mi riaddormento.

Generalmente prima di andare a letto mi prendo una pastiglia di tranquillante, oppure mi bevo una tazza di camomilla, proprio per essere sicuro di non trascorrere delle ore senza riuscire a chiudere gli occhi, ma negli ultimi tempi pare proprio che questi accorgimenti non siano più del tutto sufficienti. Provo la sensazione che qualcosa manchi intorno a me, che abbia dimenticato qualche cosa durante la giornata appena trascorsa; per questo vado volentieri ad incrociare lo sguardo del mio gemello, perché già semplicemente questo gesto spesso assume il senso di una rassicurazione, ed è allora che il mio agitarsi pare si stempri, anche se non per molto.

In fondo il riposo è estremamente importante per una persona, è per questo che al mattino ci si deve rialzare dal letto con la sensazione di essere assolutamente a posto, rinfrancati nel corpo e nello spirito, in maniera da poter dare il meglio di noi stessi durante la giornata che ci attende. Con la mente però, mentre me ne sto tranquillo sotto alle coperte, seguo i percorsi che potrebbe affrontare il mio gemello mentre non mi interesso affatto di lui, e sono tentato di andare a vedere che cosa effettivamente stia facendo in questo attimo preciso. Cerco come sempre di allontanare la mia mente da queste riflessioni, ma poi è sufficiente un lieve rumore, uno scricchiolio da qualche parte, il frusciare di una tenda, una bolla d’aria dentro un tubo idraulico, ed allora so che anche lui sta per avvicinarsi, perché non riesce ad essere del tutto autonomo da me, e quindi mi cerca, vuole sapere cosa stia facendo.

Certe volte lo rimprovero, mi rivolgo a lui direttamente e con voce decisa gli spiego come non sia il caso di infastidirmi perennemente con la sua presenza, come invece fa. Ci sono tanti luoghi verso dove dirigersi, potrebbe magari farsi un giro e lasciarmi in pace almeno per un po' di tempo, ma subito dopo mi dispiaccio delle mie parole, e così torno a cercarlo, perché in fondo non so stare affatto senza di lui, ed anche se ho quasi dispiacere a dirlo, ho bisogno della sua presenza. Poi torno a dormire, ed immagino che lui sia ancora lì, in un angolo della mia stanza, ad osservare il momento esatto quando il mio sonno avrà il sopravvento sulla stanchezza che mi porto dentro. Domani mi riconcilierò del tutto con il mio gemello penso, perché se devo essere sincero fino in fondo, ho bisogno davvero di lui, è inutile negarlo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Amministrazione casalinga

 

Ho chiesto al mio capo di uscire un po’ prima oggi dal lavoro. Non perché abbia qualcosa di urgente o importante da fare, ma per provare quel senso di libertà che a volte mi manca. Potrò ritrovarmi da solo nel parcheggio davanti al palazzo degli uffici, mettere in moto con calma la mia vettura, uscire dal perimetro destinato agli impiegati della pubblica amministrazione, senza neppure dover salutare gli altri mentre salgono sulle loro macchine, ed andarmene lasciando i miei colleghi ancora curvi sulle proprie scrivanie. Non è una fuga quella che cerco, soltanto un allontanarmi con indifferenza da questa massificazione che ci vede tutti come individui identici.

Posso farmi un giro senza fretta, fermarmi in un locale per lasciarmi servire un aperitivo stuzzicante; potrei anche andare a comperare qualcosa in qualcuno dei miei negozi preferiti, e per esempio scegliere degli alimenti per cucinare stasera, del pane fresco, una bottiglia di vino buono, come se avessi davvero qualcosa da festeggiare. Rientrare a casa però resta sempre il mio momento preferito, l’attimo preciso in cui le chiavi girano facendo degli scatti nella serratura, e la porta del mio appartamento che si apre come uno scrigno davanti ai miei occhi.

C’è il mio gemello che mi aspetta da qualche parte in mezzo ai mobili: a lui piace nascondersi al fondo di una stanza o di quell’altra, e poi lascia che io lo cerchi, che ne avverta la presenza, fino a quando, ormai scoperto, lui mi osserva in silenzio con la sua espressione solita, così rassicurante e preziosa. Non gli dico niente, naturalmente, però lui sa benissimo che non saprei mai stare da solo, ed affrontare ogni giornata come invece devo fare, per poi magari pensare che non c'è un riferimento preciso per me, qualcuno a cui rivolgermi, un’indicazione per le mie piccole idee che mostrano sempre la necessità di una valutazione attenta.

Poi me ne disinteresso di lui, proseguo ad occuparmi delle mie cose, sedermi a leggere un libro, ascoltare un programma radio, riordinare i piccoli oggetti che spesso lascio in giro quando al mattino vado di fretta per staccarmi dalle mura della mia casa ed andare ad infilarmi nel solito ufficio, dove non c’è neppure molto di cui occuparsi, e tutti si raccontano tra loro qualche cosa di personale, ed io mi sento però più solo di tutti, tanto che non vedo l’ora di tornarmene in mezzo alle mie cose. Lui se ne sta da qualche parte senza dare fastidio, spesso mi dimentico perfino della sua presenza, anche se è proprio quando torna prepotente il mio desiderio di confronto con qualcuno, che lui di nuovo salta fuori, pronto a concedermi la sua opinione su tutto ciò che serve.

Perché è esattamente questo che mi manca qualche volta, un’opinione obiettiva che indichi quali siano i miei possibili sbagli, la mia incapacità di trovare da solo delle soluzioni accettabili. Certe volte sottovoce, lungo il corridoio dove tutti gli impiegati del mio piano si ritrovano per prendere il caffè, ho tentato di dire che non abito proprio da solo, che c’è il mio gemello in casa con me, ma tutti hanno preso sempre questa affermazione come una banale battuta spiritosa, e nessuno mi ha mai chiesto altro a riguardo. Perciò non parlo più di questo argomento con nessuno, perché è bene che le mie cose siano sempre confinate dentro di me, senza bisogno di cercare di spiegarle a degli estranei. Anche il mio gemello è d’accordo su questo, ed anche se non me lo dice in modo diretto, io ne sono ormai più che sicuro.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Imprevedibile immagine

 

Vorrei proprio partire, durante certi giorni. Alzarmi dal letto come sempre, prepararmi di tutto punto per andare in ufficio, presso il mio lavoro di impiegato della pubblica amministrazione; scendere le scale di casa, mettere in moto la mia vettura e compiere le solite strade di sempre per raggiungere il parcheggio riservato ai dipendenti del palazzo. Ma all'ultimo momento svoltare per una via laterale ed immediatamente scomparire, come non fossi mai transitato da lì. Prendere per una strada provinciale uscendo dal centro abitato della mia città ed andare a perdermi tra alcuni piccoli paesi senza caratteristiche. Sorrido quando mi lascio girare in testa questi pensieri, anche perché non ho la minima idea  su quale possa essere la loro prosecuzione. Però mi viene a mente che dovrei portare con me il mio gemello, che certamente non può fare a meno della mia presenza. Anzi, dovrei anche chiedere la sua opinione per una decisione importante del genere, e forse lasciare proprio che sia addirittura lui a pronunciare l’ultima parola su questo argomento.

Naturalmente lascio perdere in fretta ogni mia idea di fuga da questa giornaliera normalità, e così mi presento al lavoro come ogni mattina, inserisco la mia carta elettronica identificativa dentro al tornello, e da quel momento mi ritrovo nelle mani del mio datore di lavoro, o chi per lui, senza neanche possibilità di un appoggio da parte del mio gemello che mi attende a casa, lontano da questi uffici. Questa è forse la mancanza più forte durante tutte quelle ore in cui devo restare al lavoro, e mentre piego la testa sui soliti fogli che devo consultare, fortunatamente ho la coscienza che ad un certo punto tutto ciò finirà, ed io potrò tornare a confrontare i miei pensieri con lui, con questa presenza che mi sostiene, che conosce tutto di me, che sa indicarmi sempre quali siano le scelte migliori da fare.

Lo so che non esiste di fatto alcun gemello, ma per me lui è semplicemente condensato in un piccolo vecchio specchio racchiuso dentro una cornice preziosa, un oggetto che posso tenere anche con me qualche volta, fino a portarlo infilato dentro una tasca oppure in una borsa, anche se cerco di evitare una cosa del genere per la paura che accidentalmente possa rompersi. Basterebbe inciampare mentre cammino, oppure la spinta involontaria di qualcuno sul marciapiede, forse anche sbattere contro un palo segnaletico o uno spigolo di muro, e quello potrebbe andarsene in mille pezzi. Meglio evitare, mi dico. Così lascio che mi attenda dentro casa, appoggiato su un mobile, oppure sistemato al sicuro dentro un cassetto. Comunque è il mio gemello, il mio riferimento più forte, capace di aiutarmi ogni volta che ne avverto la necessità.

Proprio per questo la mia voglia di andarmene via viene costantemente frenata: non potrei mai abbandonarlo, e di portarlo con me non se ne parla nemmeno. Lui ha le proprie abitudini, i suoi orari, le sue preferenze anche per quanto riguarda le cose da specchiare. Mi attende nel mio appartamento ogni giorno, ed io so che lo trovo completamente vuoto di immagini al mio ritorno, perché è soltanto in me che vede ciò che desidera; siamo legati, inutile anche dirlo, talmente in simbiosi che quando mi parla riesce sempre a dirmi con esattezza ciò che desidero veramente ascoltare, come se già avesse preparato ogni risposta ad ogni argomento, modulando con precisione i miei pensieri spesso confusi. Non possiamo far altro che questo perciò, anche se io, nei confronti del mio gemello specchiato, sono forse più imprevedibile.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Margini sociali

 

         Si presentano casualmente dei periodi in cui all’improvviso mi sento ai margini di tutto. Per certi versi non me ne dispiaccio neppure, immaginando sia la personalità più nascosta di me che in questi casi si fa strada per rivendicare un ruolo e mostrarmi qualcosa che forse in passato è parso sfuggirmi. Così prendo la mia macchina e dopo aver fatto qualche giro vado a parcheggiare in una delle stradine più vicine al centro storico della mia città, senza neanche preoccuparmi troppo quale sia. Poi vago a piedi per tutte le vie che mi si presentano davanti, prendendo a caso per un verso o per un altro, incontrando davanti a me la gente indaffarata in chissà cosa, e lasciando che le case, i muri, i giardinetti e i marciapiedi, scorrano lentamente sotto alla mia vista, fino a quando sento che le gambe sono stanche, ed i piedi dentro le scarpe iniziano a mostrarsi del tutto indolenziti.

         Quindi torno indietro, cercando di fare a ritroso il medesimo percorso iniziale, perdendomi inevitabilmente nel cercare di ricordare da dove effettivamente sia passato, fino a non avere più memoria neppure di dove possa aver posteggiato la mia auto. Mi pare di averla lasciata vicina ad un certo negozio, ed invece proprio lì dove credevo potesse essere, adesso non c’è più, ed allora torno indietro, cerco di rammentare meglio i pensieri che mi sono passati per la testa fino a quel momento, e tento di trovare un indizio utile che mi porti proprio al luogo esatto dove poter ritrovare ciò che in questo momento mi serve più di tutto, anche se alla fine devo rendermi conto che sono completamente inutili i miei sforzi. Osservo due tizi che con dei grossi martelli spaccano la porta vetrata di una farmacia, arruffano tre o quattro sacchi di medicinali sotto agli occhi sgranati ed impauriti dei commessi, ed infine se ne vanno rapidamente. La realtà corre in avanti penso, non sono certo i miei piccoli problemi quotidiani ad ostacolarla.

         Mi rendo conto in tutto questo trambusto che si è persino fatto troppo tardi, che devo tornarmene in fretta verso casa, non è più il caso che mi trattenga ancora lungo queste strade, anche perché sono sempre più stanco, ed ho naturalmente voglia di sedermi e riposare. Infine salgo su di un autobus che va dalle mie parti, ma all’interno non c’è nessun sedile libero, così resto in piedi accanto al finestrino, lasciandomi dondolare nel pensiero antipatico di dover tornare domani a cercare ancora la mia auto. Quando finalmente entro in casa il senso di solitudine che non mi ha mai abbandonato fino adesso, improvvisamente sembra mollare la sua presa, e non ho neppure bisogno di affrettarmi ad aprire il cassetto della scrivania per sapere che il mio adorato specchio è proprio lì, e che mi ha aspettato con pazienza per tutto questo tempo, come un fratello affettuoso. 

Probabilmente dovrei portarlo con me tutte le volte in cui non mi sento particolarmente in forma. Sarebbe sufficiente lasciarlo scivolare dentro una tasca penso, e poi tenerlo lì, magari protetto con un fazzoletto steso sopra la sua piccola superficie. Non è una debolezza la mia, è soltanto la giusta corrispondenza per sentirmi meno solo, sostenuto, incoraggiato nei miei comportamenti, e quindi non ai margini di quanto mi è dato di assistere tutto attorno al mio modo di interpretare la realtà. Il mio specchietto lucido e pulito è la mia sicurezza, la mia capacità di essere una persona come gli altri, il potenziale adatto per mandare avanti le mie cose.

    Stasera mi preparerò qualcosa da mangiare penso, sedendomi poi al tavolo della cucina proprio davanti a lui che continua a fissarmi senza dare dei giudizi. Non c'è niente di male nel cercare un po' di compagnia in un oggetto penso, ed in fondo se davvero sono giunto proprio al margine delle relazioni, non credo proprio che la colpa di ciò sia soltanto mia.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Lamentele assenti

 

Nei giorni di festa resto in casa. Mi occupo di piccole faccende domestiche, e nelle pause mi siedo a pensare. Osservo davanti a me, dentro la sua piccola cornice di legno, l'immagine vuota che il mio specchio ripropone come sempre, e sento comunque che sicuramente niente di brutto potrà succedermi almeno fino a quando questa figura resterà insieme a me. Le parlo, naturalmente, e qualche volta le pongo anche dei piccoli quesiti, perché le risposte che riesco a ricevere dalla sua superficie lucida sono sempre molto utili, assolutamente in linea con quanto appare necessario. Ci sono spesso delle cose da decidere, iniziative da prendere, situazioni da affrontare per un motivo o per l’altro, ed è complicato farlo da soli, dover assumere su se stessi tutta la responsabilità di ogni caso che si presenta. Per fortuna ho lo specchio, che poi è il mio fratello gemello che mi guarda sempre con una certa lungimiranza, perché sa perfettamente che non prenderò mai una decisione importante senza interpellarlo.

Gli chiedo a voce alta se per caso debba essere maggiormente arrendevole con il mio capufficio, ad esempio, già ad iniziare magari dal primo giorno feriale in cui tornerò come sempre al mio posto di lavoro, e lui sa sempre con certezza cosa rispondermi, anche se a volte resta in silenzio, lasciandomi padrone di decidere sul caso specifico per conto mio. Non c’è niente di male penso, non può sapere tutto anche se io continuo a spiegargli ogni volta che rientro in casa tutto quello che mi è accaduto mentre ero fuori, specialmente durante le ore in cui sono rimasto in ufficio, nel nostro grande palazzo dell’amministrazione pubblica. Ci sono i colleghi che generalmente mi evitano, gli dico, e se strisciano vicendevolmente i loro cartellini identificativi ai tornelli, per entrare con comodità più tardi oppure per uscire un'ora o due prima, a me comunque non lo chiedono mai, proprio perché non si fidano affatto di me.

Anche il mio capufficio non si fida per niente dei miei modi, ed a me questo fatto non dispiace per niente, perché non sono uno che si comporta come tutti gli altri impiegati, e se secondo lui uno come me va guardato con un certo sospetto, e spesso lasciato semplicemente alle sue piccole manie, i suoi innocui passatempo, a me va benissimo. Già, perché siccome per occupare almeno un po' del mio orario, quando mi annoio come tutti davanti alla scrivania di lavoro, ho una collezione sterminata di matite colorate, alle quali rifaccio almeno una volta al giorno la punta, oltre a tenerle perfettamente allineate, e per tutti i colleghi questo è un segno evidente di stranezza e forse di diversità. Anche se qualcuno mi pone qualche domanda mentre sono insieme agli altri davanti alle macchinette per il caffè, io non parlo mai delle mie cose, e mi limito a sorridere e a tirare fuori giusto qualche monosillabo tanto per non apparire sgarbato.

Quasi tutti portano avanti un'altra attività, oltre l’orario in cui stanno in ufficio, forse per sentirsi almeno utili a qualcosa, penso io, ma a me questo non è mai interessato. Loro hanno delle famiglie da tenere assieme, io ho soltanto il mio fratello gemello da accudire e da lucidare ogni tanto. Parlano sempre di soldi, sembra che non ne abbiano mai abbastanza, e a me invece è sufficiente sedermi davanti al mio piccolo specchio prezioso per sentirmi già a posto, completo, come non avessi più bisogno di altro. Difatti non mi lamento di niente, e forse è proprio questo elemento che i miei colleghi non riescono affatto a digerire.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Orario di lavoro

 

         Compio i medesimi gesti ogni giorno, e qualche volta, quando qualcosa non va esattamente come vorrei, mi sembra persino impossibile che questo accada proprio a me stesso, senza che possa oppormi ad un fatto del genere, tanto che in certi casi mi prende addirittura un tremito, quasi una febbre, che mi lascia spossato e impossibilitato, almeno per una certa porzione di tempo, ad occuparmi di qualcos’altro. Tremo all’idea che possa cadermi di mano un oggetto qualsiasi, ma se in più quello è anche fragile, impazzisco al pensiero che possa rompersi sul pavimento in mille pezzi. Per questo uso sempre la massima attenzione in ciò che devo fare, tralasciando tutto quello che per qualche motivo non risulta strettamente indispensabile.

         Il momento migliore per me, specialmente nelle ore in cui sono in casa, è quando resto seduto senza fare assolutamente un bel niente, se non pensare alle mie cose, ed al massimo parlare da solo. Per questo appoggio sul tavolo lo specchio fedele, il mio fratello gemello, perché questo oggetto per me rappresenta tutto ciò che cerco dagli altri: un amico sincero che ascolta ciò che ho da dire, ed al massimo fa una debole smorfia sulla mia immagine riflessa, al momento in cui non si trova del tutto d’accordo con le parole che esprimo. La mia è una tecnica meravigliosa, quella per cui, qualsiasi cosa abbia in mente, passandola semplicemente al vaglio del mio piccolo specchio, riesco in questo semplice modo a comprenderne esattamente il valore e  anche quanto possa essermi utile. E’ sufficiente per me guardare l’immagine, e l’espressione che vedo nella cornice mostra realmente quello che penso, e quindi evidenzia in un attimo la verità più completa.

         Tra i corridoi degli uffici dove lavoro parlano sempre di calcio, e solo qualche volta di donne; io naturalmente non entro mai negli argomenti dei miei colleghi, mi limito a stare in silenzio davanti alle macchine automatiche per il caffè, e ad ascoltare senza troppa attenzione quello che dicono tutti. Mi tengono sempre da parte, forse perché non sono sposato, non ho una famiglia, e sanno che vivo da solo, e soltanto per questo immaginano che io sia abituato a non dire mai niente. Perciò mi lasciano stare, che poi è il risultato migliore che io possa ottenere da loro, visto che non ho interessi sportivi, e di donne fino a questo momento ne ho conosciute ben poche. Ci sono anche delle impiegate al mio piano di uffici, ma stanno quasi sempre per conto proprio in gruppi di due o tre, e non si fermano quasi mai a parlare con i colleghi maschili che sono certamente in numero maggiore. Non è facile far trascorrere bene tutto il tempo dell’orario di lavoro, ma in qualche modo sembra proprio che si possa riuscire anche in un’impresa del genere.

         Ed è proprio seduto alla mia scrivania che i gesti consueti diventano per incanto dei veri e propri automatismi, quasi delle azioni riflesse condizionate da una casistica di possibilità decisamente ridotta. Aprire un cassetto, prendere la pratica a cui si sta lavorando, individuare sulla carta gli elementi che maggiormente interessano, tutte attività perfettamente codificate che portano l’individuo che lavora nella pubblica amministrazione ad una alienazione completa dalle sue attività. E’ normale, dicono gli altri, si tratta di prendere tempo, nessuno fa fretta, tanto vale rimandare quanto è possibile, e cercare di svagarsi ogni volta che se ne sente la necessità. Perciò ci sono altri gesti: andare in bagno, alle macchinette per il caffè, nella stanza di qualche collega; oppure girare per i corridoi con qualche foglio dentro una mano, concentrati su qualcosa che neppure esiste, ed aspettare in questa maniera che anche questa giornata lavorativa abbia termine.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Estreme decisioni

 

"La tua macchina è un rottame", mi dicono ridendo certe volte i miei colleghi di lavoro mentre si trastullano davanti alle macchinette del caffè. "È già tanto se entra ancora in moto, però solo vederla andare in giro suggerisce un moltiplicatore di preoccupazione per tutti quelli che circolano lungo le strade di questa città". Loro scherzano, ridono, si danno di gomito. La mia utilitaria effettivamente è un po' vecchiotta, ma anche se prosegue ad andare benissimo e ad adempiere perfettamente al suo dovere, io non rispondo mai alle loro battute spiritose. Sono uno che si affeziona alle proprie cose, non cambio niente con la leggerezza che invece hanno loro, e quando proprio mi ritrovo a farlo, è soltanto perché in qualche maniera mi ci vedo costretto.

Come ogni giorno poi arriva l'ora di andarsene da questi uffici, e qualche volta tremo all'idea che mentre stiamo tutti nel parcheggio dell'amministrazione pubblica, la mia macchina improvvisamente stenti a partire. Tutti mi guardano, qualcuno fa il tifo sperando che questo possa accadere davvero, infine il motore si avvia come sempre, ed io tiro un profondo sospiro di sollievo. Non sono mai stato uno a cui piace stare in mezzo agli altri, ma soprattutto mi sembra che nessuno tra chi ho intorno si faccia mai i problemi che invece io mi pongo.

“Non mi interessa niente”, penso con convinzione di tutti quanti gli altri, mentre ingrano la marcia ed esco dal parcheggio riservato ai dipendenti della pubblica amministrazione. Il mio vero mondo è la mia casa: starmene tra le mie mura a riflettere sull’esistenza e su tutto ciò che giorno dopo giorno mi passa sotto al naso. A portata di mano tengo sempre il mio specchio, naturalmente, il mio fedele fratello gemello, adottato da me tantissimi anni fa per riempire il vuoto che a volte sento, abitando da solo e senza avere rapporti di amicizia con nessuno. 

Spengo il motore davanti al palazzo dove è sito anche il mio piccolo appartamento, e poi salgo le scale, tranquillo, sereno come sono proprio del fatto che tutto anche oggi sia andato come sempre per il verso giusto. Perché il problema maggiore è l’ansia che mi prende immaginando qualcosa fuori posto, oppure che la sequenza o il ritmo di tutta la giornata possa essere stravolto da qualcosa che non ho considerato, o a cui sbagliando ho dato una scarsa rilevanza. Per questo guardo nello specchio, per leggere direttamente sul mio volto l’elemento che malauguratamente possa essermi sfuggito, e comprendere già dall’espressione degli occhi del mio gemello, quell’elemento che merita di essere affrontato e approfondito.

“Devi cambiare auto”, sembra dirmi lui in questo momento; “prima che quello che temi più di tutto succeda veramente”. Sgrano gli occhi: mi sembra impossibile che mio fratello arrischi un suggerimento di quel genere, così scruto meglio tutti i particolari di cui riesco maggiormente a tener conto nell’immagine chiara e precisa che ho davanti a me. Poi mi alzo dalla sedia, giro un po’ per casa cercando qualcosa che possa distrarmi dalla rivelazione che ho appena avuto, ma poco dopo torno alla mia scrivania, dove ancora troneggia la piccola cornice che racchiude il mio prezioso specchio. E’ proprio così, mi rendo conto infine; non posso proprio attendere che si infrangano improvvisamente le mie aspettative, e che la mia utilitaria si rifiuti ad un tratto di ripartire. “Ho deciso”, penso; “domani stesso passerò dal concessionario di automobili e ne comprerò una nuova”. Il mio gemello approva.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Idee di femmine

 

         Forse, se non ci fossero costantemente intorno a me tutti questi colleghi uomini in ufficio, le cose potrebbero andare anche diversamente sia per me che per tutti gli altri. Invece le donne impiegate in questo settore dell’amministrazione pubblica, poco per volta si sono come ritagliate uno spazio proprio, sistemandosi tutte, grazie naturalmente all’avvallo un po’ sospetto dei nostri capi, ai piani superiori di questo palazzo, riuscendo in questo modo a non farsi praticamente quasi più vedere lungo i nostri corridoi. A noi maschi privi della controparte non resta così che perdere il nostro tempo davanti alle macchinette per il caffè, magari parlando di calcio, di sport, o superficialmente di politica, ed inventando qualche stupido scherzo e molte battute di spirito su quello o su quell’altro, che poi alla lunga purtroppo risultano sempre le medesime. Io, peraltro, che sono per natura un solitario, mi tengo spesso alla larga anche da questi colleghi, ed allora ecco che non mi resta che portarmi dietro qualcosa da leggere per passare meglio la giornata.

         Se ci fosse almeno da lavorare seriamente, penso certe volte; impegnarsi su qualcosa i cui risultati dessero qualche soddisfazione, probabilmente le cose andrebbero in un altro modo. In ogni caso la mancanza dell’elemento femminile tra di noi risulta forte, e specialmente per qualcuno quasi un dramma. Può darsi che anche in virtù proprio di questo motivo, quando torno a fine orario di lavoro nel mi piccolo appartamento dove vivo da tanti anni in completa solitudine, e riprendo, come sempre ho fatto, a far riflettere la faccia nel mio fidato specchio giusto per cercare compagnia, da un po’ di tempo mi pare di intravedervi adesso il viso di una donna. E’ come se il mio fratello gemello da sempre presente su quella superficie lucida, si fosse inventato da un po’ qualcosa di diverso, ed avesse maturato un’opinione su di me decisamente diversa dalla mia.

         Naturalmente non è cambiato il mio rapporto con lo specchio: proseguo come sempre a cercare là dentro il mio gemello, la personalità che lui riveste e che qualche volta purtroppo risulta sfuggente persino alla mia comprensione. Ci parlo con quell’immagine, e lascio che l’espressione che vedo dentro alla cornice mi risponda, mi suggerisca gli elementi che a me mancano, indichi qualsiasi cosa sia meglio per me e per le mie giornate. Però avere iniziato ad immaginare là dentro una faccia di donna, una femmina gemella di me, una parente stretta capace di essere contemporaneamente dentro e fuori dalla mia persona, è qualcosa che sta poco per volta rivoluzionando il mio modo di pensare tutto quanto.

         Quando sono al mio posto di lavoro adesso mi guardo attorno. Nessuno dei miei colleghi ovviamente sa del mio specchio e del mio compagno fedele che dà sapore alla mia solitudine. Ma che la mia immagine reale nascondesse l’elemento femminile, è qualcosa che va oltre qualsiasi immaginazione. Forse è soltanto un periodo passeggero penso; probabilmente tutto all’improvviso tornerà come si è sempre rivelato, senza lasciare alcuno strascico: è quello che spero. Eppure quella donna che mi guarda da dentro alla cornice mi lascia esterrefatto, mi meraviglia tremendamente, ma poi mi incuriosisce, e riesce a smuovere sentimenti che forse non sapevo neanche di avere. Perciò ho iniziato a dare la colpa di tutto all’amministrazione pubblica: se non si fosse verificata questa endemica mancanza di donne in ufficio, probabilmente tutto sarebbe diverso, e i miei colleghi si svagherebbero di più evitando di insistere a stuzzicarmi come spesso tendono a fare. In ogni caso non penso proprio di cambiare atteggiamento: sopporterò la situazione, come sempre ho fatto, lasciando scorrere il tempo lavorativo di ogni mia giornata, e dopo basta.

 

        

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Faccia così

 

         Non so, continuo in questi giorni a guardarmi in tutti gli specchi che mi trovo in giro, oltre a quelli che ho in casa; vado chissà quante volte nel bagno dell’ufficio dove lavoro, ad esempio, proprio per ridarmi ogni poco una nuova occhiata, per assicurarmi se in quei pochi minuti sia cambiato qualcosa, o se tutto paradossalmente sia ancora rimasto come la volta precedente in cui mi sono guardato. Ci vedo sempre una donna nel riflesso di tutte le superfici belle lucide dove mi specchio, una femmina fatta e finita in quei lineamenti che peraltro dovrei conoscere bene; una faccia da signora, la fisionomia di un viso uguale identico al mio, soltanto in questo momento trasformato in quello di una donna che adesso può soltanto fingere di essere un uomo, anche se mi pare impossibile che sia avvenuta proprio in me una mutazione del genere.

         Non sono mai stato un effeminato, ed anche se non ho mai avuto un buon rapporto con tutte le donne, mi sono sempre sentito un uomo a tutti gli effetti. I colleghi di lavoro non si sono accori di niente, ma forse è soltanto perché loro mi conoscono da tanto tempo, ed oramai non fanno più caso a certi dettagli. Sono andato nel negozio dove generalmente faccio i miei acquisti, ed anche lì nessuno ha avuto niente da dire. Forse fingono, ho subito pensato; probabilmente non è interesse di nessuno rimarcare qualcosa che è già tutto stampato semplicemente sulla mia espressione del viso, perciò non ho dato importanza all’opinione che possono avere coloro che mi conoscono già.

         Ho pensato, per cercare una soluzione finale a questo dilemma, di andare da un ritrattista, un pittore che potesse mettere sopra una tela un disegno realistico di quello che vede quando mi guarda. Inizialmente ho immaginato di andare da qualcuno di quelli che si sistemano vicino a dei monumenti importanti della mia città e lavorano soprattutto con dei turisti di passaggio, ma poi mi è parso che il tocco professionale e dettagliato che volevo dare alla cosa venisse in qualche modo a mancare. Così ho cercato sopra gli elenchi dei pittori che copiano altri quadri, ed alla fine mi sono imbattuto sul nome di in un artista che dalle proprie caratteristiche sembrava proprio quello giusto. Gli ho telefonato quindi, ed ho preso rapidamente un appuntamento.

         Sono andato da lui di mattina, quando la luce è migliore, prendendo un permesso dal mio lavoro, ed ho trovato un appartamento elegante, con i soffitti alti e le finestre luminose, ed ho subito seguito il pittore dentro al suo studio. Gli ho detto che si sarebbe dovuto eseguire il lavoro in una volta soltanto, al più presto possibile, proprio per rendere la mia espressione di quel momento, e che per questo motivo era sufficiente un ritratto eseguito a carboncino, a mano libera. L’artista si è mostrato d’accordo, ed ha capito perfettamente ch doveva descrivere con i suoi tratti di matita esattamente ciò che vedeva, cercando il massimo di fedeltà all’originale.

         Non ha impiegato neppure troppo tempo mentre io mi tenevo ben fermo, con la faccia rischiarata da una luce morbida e naturale, cercando di non assumere nessuna espressione particolare, i muscoli rilassati, alcun pensiero dentro la testa, lo sguardo immobilizzato davanti alla mia persona. Lui ha lavorato senza dire neppure una parola, senza chiedermi altro, impegnandosi al massimo in ciò che stava eseguendo, e concludendo la sua tela all’improvviso, con un ultimo tocco qua e là, spiegandomi che adesso avrebbe incartato il disegno finito senza farmelo ancora vedere, e che io avrei dovuto guardarlo soltanto una volta da solo, in casa mia, con tutta la calma possibile. L’ho naturalmente pagato, e poi soddisfatto sono uscito da quel suo studio, ringraziandolo per la sua decisa pazienza e la sua grande, perfetta, stupenda comprensione. 

 

        

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Espressione

 

         Non capisco; mi guardo attorno mentre cammino e qualche volta non so più neanche chi sono. Osservo nei dettagli la mia ombra fluttuante durante queste mattine assolate della domenica, o quando certe volte nei giorni feriali mi ritrovo nel parcheggio riservato agli impiegati, di fronte al palazzo dell’amministrazione pubblica dove lavoro, e mi pare che dentro a questa forma scura e curvilinea che vedo a terra, ci possa essere chiunque, senza una caratteristica riconoscibile. Mi fermo a riguardare bene quella macchia buia sull’asfalto, e mi pare a tratti addirittura di vederci dentro qualcuno che probabilmente neppure conosco, senza neanche una definita impronta di genere. Non so se è proprio qualche sconosciuto, quello che appare alla luce di questo sole di fine stagione, oppure se possa essere esattamente io, qualcosa di più simile a quello che riflette il mio specchio quando sono tranquillamente in casa mia. La mia faccia adesso ha qualcosa di femminile, inutile negarlo, anche se nessuno per il momento sembra accorgersene troppo.

         Forse anche nel mio modo di camminare o di esprimermi con gli altri c’è qualcosa su cui non ho mai riflettuto profondamente. Può darsi sia proprio per questo motivo che non ho mai avuto delle vere e proprie amicizie, soltanto conoscenze superficiali; magari perché l’ambiguità di qualcosa che chissà da quando traspare dalla mia persona, qualche volta è stata reputata inaffidabile, anche se non mi sono mai accorto di nulla. Nelle ultime notti mi sono ritrovato a svegliarmi di scatto dentro al letto, con dei pensieri foschi nella testa, delle idee decisamente oscure, qualcosa che al mattino però mi ha fatto subito sorridere, tanto mi è apparso sinceramente assurdo. Se mi guardo nello specchio ritrovo quasi sempre il mio gemello che mi guarda con il suo fare sornione, uguale agli anni passati, ed il pensiero che traspare dalla mia immagine di fratello e di congiunto, è sempre positiva, accondiscendente, capace di aiutarmi come sempre ha fatto.

         Mentre sono in ufficio ad occuparmi di qualcosa, osservo gli altri impiegati che cercano di far trascorrere il loro tempo in fondo ai corridoi, vicino alle finestre a fumare o a prendersi un caffè, tra le chiacchiere usuali, e certe volte qualche risata mezzo soffocata. Mi trovo quasi ad invidiarli, mentre rivestono perfettamente la loro identità, nel momento esatto in cui stanno assieme, solidali, consci del loro ruolo e dello sforzo di socializzazione che, sono convinto, deve essere effettuato per forza in un luogo precisamente come questo. Per quanto mi riguarda continuo a starmene da solo, isolato e taciturno, ma non per scelta, bensì per attitudine, per una assodata incapacità a sentirmi uno qualsiasi, uno proprio come tutti gli altri. Torno in bagno e dentro allo specchio la mia faccia ha la solita espressione di ogni giorno, incompleta, indefinibile, incapace di darsi una vera natura ed una soluzione a tutti i quesiti che prosegue a porre.

         Mi piacerebbe alzare la testa da questa scrivania, uscire dal mio piccolo ufficio mentre gli altri stanno ancora lì, nella perenne attesa della fine dell’orario di lavoro, e urlare senza indugio qualcosa che li scuota tutti quanti, che mostri ciò che non hanno mai visto fino adesso, li faccia sobbalzare sulle loro certezze sedimentate, scardini finalmente con una parola solo quel pensiero che hanno di me e persino di se stessi, mostrando un nuovo fine, un diverso traguardo, un modo di osservare tutto quanto che forse non avevano mai preso in considerazione, e mi tramuti improvvisamente in una persona inaspettata, differente dalle loro consuetudini, lontana dai modelli imposti tra questi corridoi. Ma poi rifletto subito che non ho proprio alcun interesse nel far questo.

 

        

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Inusuale scelta

 

         Basta, mi sono detto. Devo uscire da questa situazione asfissiante in cui sono caduto. È sufficiente cambiare leggermente tutto ciò che mi è capitato di pensare fino ad oggi, e guardare al futuro in altro modo. Per prima cosa ho preso il mio piccolo specchio, quello che chiamo fratello, e l’ho nascosto in fondo ad un cassetto. Non tanto perché non voglio più vederlo ed usarlo, quanto perché non desidero che lui, in questo frangente, si immagini minimamente cosa cerco di fare. Voglio avere le mani libere, starmene da solo a meditare con serietà su ciò che vedo di fronte.

Così sono andato in ufficio senza la cravatta, vestito in modo semplice, la camicia fuori dai calzoni e senza indossare la giacca consueta. Alcuni mi hanno osservato in modo diverso dal solito, ma nessuno ha voluto esprimere dei veri commenti. Ed a metà mattina ho preso il corridoio con fare risoluto, e con un foglio in mano che giustificasse il mio comportamento, ho preso rapidamente le scale per raggiungere il piano superiore dell'amministrazione pubblica, quello dove gli impiegati sono quasi tutte donne. Naturalmente mi hanno salutato, anche senza far pesare troppo i loro sguardi, e qualcuna di loro sorridendo mi ha guardato e ha detto subito che mi trovava proprio bene, finalmente senza la giacca e la cravatta.

Sono andato fino in fondo al corridoio, dove ci sono le macchinette del caffè di quel piano, e come immaginavo ci ho trovato due impiegate che stavano chiacchierando con tranquillità. Ci siamo salutati e dopo un attimo una delle due è tornata nel suo ufficio mentre l’altra è rimasta a terminare la bevanda che aveva in mano. Così ho detto subito che avevo bisogno di un favore non di tipo lavorativo, e lei mi ha guardato come per farsi spiegare di cosa si trattasse. “Vorrei uscire con te uno di questi pomeriggi al termine dell’orario di lavoro, magari per andarci a prendere un aperitivo da qualche parte ed iniziare a conoscerci un po’ meglio”. Lei è rimasta in silenzio per un attimo, poi, dopo aver distolto lo sguardo come per cercare qualcosa attorno, mi ha risposto: “potrebbe essere anche domani, al momento che si va via da queste stanze”.

Ho detto subito che per me andava benissimo, e lei dopo un momento ha gettato il bicchierino di carta nel cestino e dopo un saluto è tornata verso la sua scrivania, lasciandomi la scia di un sorriso complice e amichevole. Non avevo mai fatto una cosa del genere fino a quel momento, però mi sono subito sentito bene, soddisfatto. Mi sono anche reso conto che dentro di me stavo ancora tremando, perciò sono tornato subito verso il mio ufficio, e poi mi sono messo a riguardare qualche pratica, giusto per non dover incrociare lo sguardo di qualcuno tra tutti i miei colleghi.

Quando finalmente è giunto il momento di strisciare il cartellino nella macchinetta, e poi di abbandonare il palazzo degli uffici, mi sono diretto verso il parcheggio dove avevo sistemato la mia utilitaria, ed ho subito visto che la mia collega avanti a me si stava intrattenendo vicino al portone principale a parlare con un’altra, perciò ho finto di aver fretta e le ho immediatamente superate, anche se ho immaginato che lei la stesse avvertendo dell’invito appena ricevuto, soprattutto per non farsi pizzicare il giorno seguente ad uscire quasi di nascosto dal lavoro insieme ad un impiegato come me, un comportamento sicuramente giudicato poco usuale e soprattutto molto sospetto.

Poi ho raggiunto il mio appartamento, ma contravvenendo a molte delle mie abitudini non sono andato affatto a tirar fuori il mio specchio per interpretare sulla mia faccia qualche commento stridulo, ed al contrario ho iniziato a pensare ad un locale non troppo vicino al palazzo dell’amministrazione, verso cui dirigermi il giorno seguente con la mia collega.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Cambio di passo

 

         Mi sono osservato di nuovo nello specchio, e mi sono reso conto che la mia espressione non sembra affatto cambiata, nonostante siano sopraggiunte delle importanti novità non tanto nell’andamento delle mie giornate o nel mio aspetto fisico, quanto all’interno di me, nella mia cognizione profonda delle cose. Ho deciso di essere diverso. Insomma, di provare a cambiare tutto ciò che da qualche tempo mi sembra ormai troppo fastidioso, superficiale, insopportabile. Credo che i miei comportamenti da qualche anno siano andati piegandosi sempre di più verso l’abitudine e l’ordinario, e all’improvviso tutto ciò adesso mi appare quasi inaccettabile. Questa consapevolezza dovrebbe comunque rispecchiarsi in una faccia differente, ho pensato subito, ma almeno per il momento non sembra proprio sia così. Anche il mio specchio fedele, sempre pronto in altri momenti a suggerirmi una via, dei comportamenti, alcune scelte da fare, adesso sembra inebetito, privo di qualsiasi aiuto nei miei confronti, come inerte di fronte ai miei propositi.

         La mia fino adesso è sempre stata una giornata minima, dipanata in mezzo a poche cose, delle quali la maggiore naturalmente è costituita dall'orario di lavoro da far trascorrere in mezzo a quegli uffici dell’amministrazione pubblica. Se quando sono entrato per la prima volta in quel grande palazzo non fossi stato spinto dalla situazione del momento a svolgere questo mestiere, non so cos'altro avrei potuto fare, penso ancora adesso, almeno certe volte. Non avevo mai coltivato una vera e propria professionalità, ed ho sempre pensato che il lavoro dovesse essere un orpello indispensabile ma marginale nella vita di una persona. Fino ad accorgermi che invece non è proprio così. Qualcuno dei miei colleghi certe volte finge ancora di ritenere la sua occupazione poco rilevante nella sua giornata; ma di fatto soltanto trascorrere un sacco del proprio tempo sopra quelle scrivanie, fa diventare tutti poco per volta come delle tessere di un grande mosaico.

         Per questo motivo alcuni si fanno strisciare il tesserino di riconoscimento nella apposita macchinetta da qualcun altro, e se ne vanno in giro liberi per i fatti propri, salvo restare in ufficio in giorni differenti e rendere il favore a coloro che si sono prestati a questo gioco. A me non interessa, anche se ne comprendo bene il motivo di fondo, quello che imprime in tutti una larvata sofferenza per tutto il tempo che buttiamo via tra queste scrivanie. Però io mi sento differente, non starei bene ad allontanarmi dall’ufficio in orario di lavoro. E forse è anche per questo che i colleghi mi guardano sempre con sospetto, perché sto sempre un po’ al di fuori delle loro congetture. Anche quando si ritrovano tutti alle macchinette del caffè a scherzare e a perdere del tempo, a me non interessa mescolarmi con loro, nonostante certe volte venga deriso proprio per questo.

         Anche io, come tutti comunque, non posso certo dire di ritenermi soddisfatto del mio posto di lavoro, visto che a nessuno interessa particolarmente quello che svolgo o che lascio indietro. Quando esco dal palazzo degli uffici però mi sento meglio, libero, leggero, pronto per fare chissà cosa, salvo alla fine ritrovarmi ad affrontare le stesse piccole stupidaggini di ogni giorno: fare gli acquisti, pulire e tenere in ordine il mio piccolo appartamento, pensare alla cena della sera; tutti elementi legati alla semplice sopravvivenza, almeno per uno che abita da solo come me. Adesso vorrei provare ad essere un poco differente, e magari solo aver pensato una cosa di questo genere mi fa già essere così. Cambiare, è il temine a cui mi sto riproponendo di dar seguito, anche se il magnetismo delle piccole abitudini è fortissimo, quasi non neutralizzabile.

 

        

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Credere agli intenti

 

Alla fine della mattinata di lavoro mi sento un po’ nervoso, come se non riuscissi a stare neanche un minuto di più seduto alla mia scrivania. Ho un appuntamento con una collega che conosco soltanto superficialmente, alla fine dell’orario di lavoro; forse per altri non sarebbe niente di speciale questa faccenda, ed anche io lo faccio giusto per andare con qualcuno a fare quattro chiacchiere con calma in qualche locale della zona. Peraltro ancora mi chiedo come mai questa mia collega abbia accettato il mio invito senza farmi delle domande, né porre qualche obiezione, considerato che anche per me è stato un puro caso essermi trovato nel corridoio da solo con lei. Non ho grandi aspettative per quanto potrà accadere, anzi credo proprio non ci potrà essere nessuno sviluppo, ma in fondo sono un uomo che vive da solo, e in ogni caso in questo momento mi basta stringere anche qualche semplice conoscenza per superare il malumore che mi porto dietro.

Suona l'apparecchio telefonico sopra la mia scrivania a fine mattinata, ma inizialmente non ho voglia neppure di rispondere, visto che la maggior parte delle volte sono semplicemente i colleghi di lavoro che si divertono a fare qualche scherzo. Alla fine però alzo il ricevitore come è mio dovere, e dico pronto. È lei, dal piano superiore del palazzo dove si trova il suo ufficio, e mi spiega in due parole che per non scatenare dei pettegolezzi ritiene meglio andare ad aspettarmi al caffè Cartabianca, un locale poco lontano dal nostro posto di lavoro. Rispondo che va bene, “verso le cinque sarò lì”, le dico in fretta, e lei riattacca subito, così mi guardo intorno come aspettandomi che qualcuno casomai avesse in qualche modo ascoltato la nostra conversazione. Tra questi uffici regna un indubbio covo di vipere, ed io non avevo riflettuto al rischio di farci parlar dietro, anche soltanto mostrandoci nell’uscire assieme dagli uffici, alla fine dell’orario di lavoro.

         Lei peraltro è una donna sposata, io la vedo da anni mentre entra o esce dall’edificio dove ambedue lavoriamo, ed indubbiamente, per come mi ha risposto, già da tempo nutre la voglia di intrattenersi senza impegno con qualche collega, magari soltanto per curiosare tra le opinioni che serpeggiano al mio piano, e non è per niente stabilito che abbia in mente una vera relazione. In ogni caso devo essere pronto ad ogni evenienza, e cercare il più possibile di stare al gioco, qualsiasi esso sia. Mi trastullo con qualcosa che vado cercando dentro ai cassetti, poi all'ora di pranzo scendo assieme agli altri nella sala mensa per mangiare. Parlano tutti di calcio, e a me che non interessa affatto, non resta che starmene in silenzio a guardare nel mio piatto.

         Penso che le cose per me possono farsi differenti se soltanto riesco ad instaurare dei rapporti amichevoli. Mi piacerebbe qualche volta andare ad un cinema in compagnia, oppure a cena con qualcuno. In fondo trovo che sia già sufficiente che mi mostri ai miei colleghi un poco più socievole, meno chiuso come forse sono sempre stato fino ad oggi. Mentre ci penso mi capita di sorridere di me stesso e dei miei proponimenti, perché gli altri che sono al mio tavolo mi guardano con un certo sospetto, ed uno mi chiede se per caso intorno a noi ci sia qualcosa di divertente che loro non riescono a vedere. Assumo la mia vecchia espressione di indifferenza, e senza rispondere lascio che ridano di me, se proprio ne hanno voglia.

         Quando arriva l’ora di andarsene dagli uffici, esco in fretta nel parcheggio, senza neanche guardarmi troppo attorno, avvio il motore della mia utilitaria, e mi indirizzo verso il caffè. Spengo il motore appena lì davanti, scendo, mi guardo attorno, poi mi decido ad entrare dentro al locale. Lei non c’è, così mi siedo ad un tavolo appartato ad aspettarla. Forse non verrà, penso. Troppo difficile un passo del genere. Troppo sciocco uno come me, pronto sempre nel credere a tutti.

 

        

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Si è fatto tardi

 

         Quando la sera si fa avanti e preparandomi per la notte tendo a spegnere tutte le lampade dentro le mie stanze, resta generalmente sopra alle pareti una lieve penombra data dalla luce dei lampioni lungo la strada di fronte, che riescono a far penetrare un debole chiarore tra le tende e le persiane delle finestre. Ed è in quella semioscurità che qualcosa, qualche volta, sembra come muoversi, magari senza che avvenga veramente. Si avvertono anche dei deboli scricchiolii ogni tanto nel silenzio di quell’ora; dei sottili rumori a cui normalmente non si darebbe mai alcuna importanza, ma che in quei momenti appaiono come le tracce di qualcuno che in punta di piedi e lentamente cercasse di spiare gli abitatori di questo mio appartamento, mentre loro come me restano magari seduti per conto proprio. Abito da solo in queste stanze, e certe volte trovo normale però lasciarmi suggestionare da qualcosa che sembra insistere a volermi fare compagnia.

In qualche angolo senz’altro c'è una parte di me all’interno di questa piccola casa, uno spiritello semplice e buono che autonomamente sembra voler accompagnare con cortesia le mie serate, spingendosi certe volte a seguire con remissività i miei piccoli problemi quotidiani, aiutandomi con la sua presenza a tirare avanti come meglio può. In certi periodi mi è parso di riconoscerlo spesso dentro l’immagine riflessa dello specchio, consegnandogli mentre lo osservavo la mia stessa faccia mentre mi guardava da là dentro, ma conservando al suo interno un diverso spirito; ed anche se da qualche tempo la sua presenza si è fatta un po’ più eterea, meno concreta, nonostante io tenda comunque a chiamarlo ancora come il mio fratello, ed invocandolo tutte le volte che ho bisogno di un parere obiettivo e maggiormente svincolato da tutte le mie fisime, so che lui c’è, da qualche parte, forse all’interno di un mobile o un oggetto.

Non è facile ritrovarsi soli, specialmente in qualche occasione. Si ha bisogno di un commento, di un giudizio, di una parola che riesca a trapelare da quel buon senso comune che spesso non è così scontato, e non viene mai fornito con spontaneità. Cerco sempre di ascoltare quello che dicono gli altri, anche quando parlano tra loro, e spesso mi ritrovo a formulare delle supposizioni che vorrebbero essere confermate o smentite da qualcuno che non posso essere io. Così mi restano dei dubbi, delle incertezze, dei quesiti non risolti che da un anno all’altro mi accompagnano come una pesante eredità che non credo neanche di meritare. Sul lavoro ci sono molti miei colleghi, ma con nessuno di loro sono mai riuscito ad approfondire una qualche conoscenza: tutti appaiono superficiali, disincantati, privi di qualsiasi interesse verso qualcosa che non siano le solite chiacchiere scambiate soltanto per far passare il tempo. 

Non posso chiedere niente a nessuno: so già che tutti mi prenderebbero ferocemente in giro, riderebbero di me, e in un attimo ogni mia questione posta seriamente diverrebbe strumento nelle mani di qualcuno per mostrarmi come lo zimbello agli occhi di tutte le persone che in qualche modo mi conoscono; così devo rassegnarmi ad essere né più né meno ciò che sono, e chiudermi sempre più in me stesso, anche se non lo vorrei proprio. Oggi quasi sempre riesco ad essere tranquillo, nonostante queste mie consapevolezze: mi guardo attorno, incamero dentro di me tutte le immagini che vedo, e le piccole informazioni che indirettamente mi arrivano dagli altri. Poi rientro in casa mia, dopo il lavoro, accendo le luci nelle stanze e scruto in giro se per caso non ci trovi qualche novità. Non si sa mai penso, magari mio fratello ha spostato qualcosa mentre ero via, o forse ha lasciato un semplice biglietto sopra al tavolo: ti ho aspettato, potrebbe dirmi, ma poi si è fatto tardi.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Bidonate ordinarie

 

         Le giornate si susseguono comunque. In certi casi mi sembra che tutto stia improvvisamente per crollare, e che sfortunatamente io mi sia spinto troppo in avanti, fino a raggiungere l’orlo di una specie di precipizio, oltre il quale niente sarà più come prima, e l’andamento di tutte le cose alle quali ho fatto persino l’abitudine dopo tutto questo tempo, sarà definitivamente stravolto. Invece non è vero: la conseguenza di qualsiasi giorno è sempre un altro giorno simile, ed all’ultimo momento molti problemi, come per magia, sembrano comunque risolversi, o perlomeno procrastinarsi automaticamente, rinviando tutto a chissà quando.

         Tiro un respiro profondo alzandomi dal letto, osservo le piccole cose che ho attorno, poi decido che la danza, in fondo, anche oggi può riprendere inizio. Ho probabilmente bisogno di una seria amicizia, di una persona per la quale nutrire fiducia, anche se messa in questa maniera la cosa appare forse un po’ troppo egoistica. Non posso fare a meno di una vita sociale, io come tutti, per questo credo che debba allentare la mia inibizione, la mia proverbiale riservatezza, ed aprirmi con gli altri, fare qualcosa che mi accomuni a qualcuno e mi faccia sentire una persona qualsiasi, molto più di quanto ho deciso da sempre di essere con la mia ricerca perenne di solitudine. 

         Mi guardo allo specchio mentre mi rado la barba, e non so neanche decidere che cosa sia meglio per me. Forse serve semplicemente saltare un giro di giostra, inventarmi qualcosa che mi porti rapidamente in una dimensione diversa da questa, dove chi mi conosce possa meravigliarsi immediatamente del mio comportamento, ed in virtù delle nuove condizioni iniziare a considerarmi davvero un suo simile. Il punto è che non lo so di preciso cosa sia meglio affrontare in questo momento, ma in ogni caso so che devo obbligatoriamente fare qualcosa. Adesso come ogni giorno sono pronto ad uscire, raggiungere il mio posto di lavoro ed affrontare come sempre il mio semplice dovere, perciò controllo l’orario e vedo che è proprio il medesimo di qualsiasi altro giorno. Le azioni da compiere sono le stesse, ciò che ho di fronte lo conosco perfettamente. Ma poi mi sdraio, chiudo gli occhi, prendo il telefono e comunico con due parole che non sto bene.

È vero, rifletto, il mio stato di salute mostra indubbiamente che qualcosa non va, e provo la necessità di avere cure urgenti, e so che al più presto dovrò assolutamente affidarmi alla medicina, a persone che riconoscono i sintomi, dottori che comprendono in un attimo quale sia la reale situazione, e riescono a prendere adeguati provvedimenti. Forse è anche questo il mio problema di fondo: non essermi mai fidato abbastanza degli altri, non avere reputato all’altezza qualcuno che una volta o l’altra magari avrebbe avuto semplicemente la possibilità di aiutami. Il capo del personale non dice niente: per lui sono un numero, un impiegato qualsiasi in meno quest’oggi sul posto di lavoro, così si limita a registrare la comunicazione ed infine chiude la mia telefonata.

Mi torna alla mente soltanto in questo momento la mia collega che non si è presentata all'appuntamento che avevamo fissato: forse è così un po’ per tutti, penso adesso; ogni giornata alla fine è composta da tante piccole disillusioni; bidonate che tiriamo a destra e a sinistra, a quello e a quell'altro, con una completa indifferenza, proprio mentre naturalmente ne riceviamo altrettante. Voglio essere così anche io, da ora in avanti.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Reazione composta

 

“Buongiorno”, dico per automatismo ad un paio di colleghi che stanno discutendo di qualcosa, mentre io scorro lungo il corridoio degli uffici. Poi appoggio la cartella dei documenti sopra la mia scrivania, a dire la verità quasi vuota, mi siedo per un attimo sopra la seggiolina di stoffa imbottita e subito mi sento stanco, privo di qualsiasi energia. Vorrei quasi tornare indietro, dire a tutti che non sto ancora bene, che ho sbagliato a rientrare al lavoro, non sono ancora perfettamente guarito. Poi mi calmo, guardo una piccola macchia sul muro davanti a me, forse una mosca rimasta là sopra da chissà quanto tempo, o magari un piccolo ragno uscito fuori con il caldo dell’estate e poi spiaccicato improvvisamente da qualche collega su quella parete.

Devo farmi forza, rifletto, resistere il più possibile e cercare di far scorrere la giornata, magari pensando a qualcosa che mi porti il più possibile lontano da qui. Guardo dentro ai cassetti alla mia destra ma ci sono soltanto le solite cose che conosco, poi mi concentro su un semplice registro cartaceo che da qualche settimana ho messo sul piano del tavolo senza decidermi mai a consultarlo. Ci sono degli elenchi di persone che risultano inadempienti, e per questo motivo devono essere accertate le reali condizioni in cui versano. Ma siccome l’elenco è ormai vecchio, probabilmente non corrisponde neanche più alla realtà. Fingo di lavorare insomma, ed intanto penso a qualche espediente per far trascorre tutto il tempo di questa giornata.

Si fa vedere nel corridoio il nostro dirigente, e dice che dobbiamo essere più precisi nella comunicazione dei dati che mettiamo a punto nel nostro lavoro. Tutti rispondono che non ci sono problemi, sarà fatto senz’altro, ogni richiesta sarà assolutamente esaudita. Lui ride, sa che dietro ai modi scherzosi di ogni impiegato le cose possono veramente tendere a migliorare, basta non prendere quei lavoratori che adesso ha di fronte con dei sistemi troppo severi, che probabilmente porterebbero soltanto ad un irrigidimento di ogni rapporto, fatto negativo per chiunque là dentro. Allora mi alzo dalla mia sedia, gli vado incontro, attendo che sia solo, lo saluto con seria cortesia, ed infine gli comunico che non sono tranquillo.

"Qualcosa non va", gli dico subito; "qua dentro ci perdiamo spesso in troppe stupidaggini, e poi ci ritroviamo il più delle volte a guardarci di traverso senza neppure sapere perché. E poi in certe giornate siamo anche stanchi, stufi della monotonia di questo mestiere". Lui mi guarda con espressione seria e un po’ sospettosa, dice che ogni malessere rimane un elemento del tutto personale, e come tale deve essere trattato, perciò se desidero iniziare a spiegargli quale sia la mia sofferenza, lui può anche ascoltarmi, ma se ho voglia soltanto di fare un discorso generico che valga per tutti, allora è semplicemente una perdita di tempo per me e anche per lui. Resto perplesso lasciando una pausa a seguito delle sue parole, e lui ne approfitta per guardare verso un altrove che in un attimo lo trascina verso un altro impiegato, forse dimenticandosi in un solo momento di quanto gli ho appena riferito.

Va bene, rifletto. In fondo non mi aspettavo da lui una vera reazione.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Prospettive limitate

 

Sono io, dico al mio fratello rientrando. Poi mi muovo dentro la stanza per cercare qualcosa di cui non ho una memoria precisa, ma che so essere nascosto in uno degli angoli, anche se adesso non so ricordare quale sia. È come se precedentemente, in uno stato come di forte dormiveglia, avessi sistemato rapidamente le mie cose in diversi luoghi dentro il mio appartamento, quasi escogitando dei ripostigli momentanei per oggetti, ma di cui adesso non trovo più traccia all’interno della mia mente. Non ha importanza, dico a voce alta, prima o dopo tutto quanto spunterà di nuovo alla luce del sole, mostrando così che il corredo su cui può contare una persona quale io sono, è qualcosa che ognuno porta sempre con sé.

Mi rannicchio sopra una sedia nel tentativo di concentrare le mie residue energie, poi all’improvviso ho la coscienza esatta di essere osservato, anche se sono da solo. Il mio fratello gemello dentro lo specchio mi osserva con il suo occhio onnipresente, e per la prima volta sento che in qualche modo provo come la necessità di sfuggirgli.  In fondo ho tutto il diritto di starmene da solo rifletto; anche oggi ho trascorso una giornata di lavoro in ufficio immerso in una congerie di colleghi senza alcuno scrupolo, pronti a scherzare tra loro e a ridere di me per qualsiasi sciocchezza.

Mi affaccio alla finestra del mio appartamento: fuori le persone lungo la strada e i marciapiedi sembrano muoversi come ogni giorno, ognuna persa dietro alle proprie preoccupazioni. Vorrei che qualcuno dei passanti che camminano sotto di me si voltasse d’improvviso all’insù, e mi salutasse magari riconoscendomi. Potrei mettermi a parlare del più e del meno sporgendomi sul davanzale, spiegare che a me va tutto bene in questo momento, che mi piace osservare il traffico della serata, che in questo mio appartamento al terzo piano mi sento benissimo, è proprio la casa che va bene per me. Poi mi rendo conto che nessuno mi nota, nessuno si volta a guardarmi, e questa mia finestra è anonima, quasi come tutte le altre in questo quartiere.

Rientro, chiudo le imposte, torno a piazzarmi seduto nell’attesa che mi venga un’idea, che un’illuminazione mi indichi dove possa trovare quello che ho perso. Mio fratello gemello purtroppo è ancora lì, che mi guarda, ed io non ho quel coraggio che serve per prendere la cornice con tutto lo specchio e gettarla una buona volta fuori dalle mie stanze, giù dalla finestra, senza alcuno scrupolo. Non è semplice convivere con qualcuno che si limita a guardarti da una superficie lucida e chiara: certe volte vorrei sentire la sua voce, ascoltare le sue strenue opinioni, discutere, porgli qualche domanda e sentire quale risposta possa riceverne. Si fa presto a rinchiudersi dentro ad un piccolo oggetto e starsene lì, senza mai mettersi in gioco. Lo prendo allora, e volto lo specchio sul tavolo.

Che cosa mi importa ritrovare le cose di cui non so proprio che farne, rifletto. Vado a guardare in cucina per vedere se manca qualcosa, e così avere una buona scusa per uscire ed arrivare fino al negozio giù all’angolo. Nella credenza trovo così le chiavi di riserva della mia utilitaria. Sono inconfondibili, legate da un laccio di cuoio che forma una specie di nodo. Le ho sempre tenute in una cassetta di legno fornita di ganci e attaccata sul muro vicino alla porta di entrata. Qualcuno si diverte a spostarmi le cose rifletto; oppure sono io stesso che senza rendermi conto di niente, continuo a sistemare le cose in luoghi diversi dal solito.

Decido di uscire comunque, un po’ d’aria non può farmi che bene, ma quando sono con la mano sulla maniglia sento un forte rumore alle mie spalle; per un attimo mi guardo attorno stupito, poi riesco a rendermi conto di cosa stia succedendo: è il mio fratello gemello dentro allo specchio che si è proprio stufato di starsene lì, sopra al tavolo, senza alcuna prospettiva di fronte.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Possibilità quasi insperate

 

Impiego quasi un'ora per andare in ufficio a piedi. Però, in questo ultimo periodo, ho preferito spesso fare così, piuttosto che mettere in moto la mia utilitaria e farmi ancora prendere in giro dai colleghi, magari proprio mentre mi trovo nel parcheggio riservato a noi impiegati dell'amministrazione pubblica. Loro si comportano in questo modo giusto per farsi due risate alle mie spalle, considerato che la mia auto è vecchia e che di questo modello non se ne vedono quasi più in circolazione, ma a lungo andare quelle pungenti battute di spirito mi hanno quasi portato all'esasperazione. Avevo addirittura pensato di chiedere un prestito alla mia banca e di cambiare macchina, ma in fondo credo proprio che per ora non ne valga la pena.

La camminata in fondo mi distende i nervi, riempie un po' del mio tempo libero ed alla fine mi costringe soltanto ad alzarmi dal letto ogni mattina un po’ prima del solito. E poi mentre cammino rifletto. Così ho quasi deciso di chiedere un trasferimento. Non c’è niente che mi tenga incollato a questo posto di lavoro, perciò posso andarmene tranquillamente in un’altra sede dove magari riesco ad allacciare dei rapporti migliori con i colleghi che posso trovare.

Anzi, da quando ho maturato questo pensiero mi sento già piuttosto meglio: mi fa sentire quasi un'altra persona osservare i colleghi che perdono l’intera mattinata tra le macchinette per il caffè e le immancabili discussioni sul calcio; è come se io in questo momento mi sentissi in condizione di ridere in faccia a tutti quanti, di non provare più alcuna timidezza nei loro confronti, di essere capace di restare praticamente indifferente a qualsiasi battuta spiritosa riescono a pronunciare sul mio conto. Per questo motivo penso che tra qualche giorno tornerò ad andare agli uffici dell’amministrazione pubblica con la mia vecchia auto, mostrando agli impiegati che mi troverò d’attorno, quanto poco sia interessato ai loro stupidi commenti.

Per adesso cammino, certe volte mi sento stanco, ma incontrando molta gente lungo la strada, certe volte mi sembra persino di riconoscere qualcuno, qualche persona tra tutti quei passanti che rispetta i miei stessi orari e percorre lo stesso marciapiede su cui cammino io, naturalmente in senso inverso. C’è tra gli altri una donna di mezza età, una persona molto distinta, che ogni mattina incontrandomi finge costantemente di non guardare dalla mia parte, anche se io ho capito benissimo che desidererebbe solamente un pretesto per salutarmi magari con un bel sorriso. Ho pensato di farmi cadere qualcosa mentre cammino, ma sembra una scusa puerile. Perciò ho deciso che non ho bisogno proprio di alcun pretesto, ed una di queste volte semplicemente la saluterò, con la semplice cortesia di chi non ha secondi fini dentro la mente.

Lei potrebbe rispondermi con un normale buongiorno, riconoscendomi in colui che incrocia ogni mattina su quel marciapiede; oppure potrebbe addirittura soffermarsi un momento, come per dare il tempo a chi le si trova di fronte, di fare una formale presentazione, allungando due parole di circostanza. Decido che sarà in questo modo, perciò mi preparo, cammino con una maggiore lentezza ed attendo di vedermela arrivare davanti. Difatti eccola, vestita elegantemente come sempre, così scelgo la traiettoria più adatta, le vado quasi incontro, ed infine le dico semplicemente: “buongiorno”, con voce allegra; ma lei tira di lungo senza neppure guardarmi, forse immaginando che avessi lanciato il saluto a qualcun altro dietro di lei. Però non ha importanza, penso adesso; ci saranno sicuramente altre possibilità.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Indifferenza motivata

 

         Ad iniziare proprio da oggi, mio fratello gemello ha deciso di accompagnarmi fino al lavoro, almeno qualche volta. Se ne sta fermo sul sedile del passeggero dentro la mia utilitaria, e lascia che io guidi la macchina da casa mia fino agli uffici della pubblica amministrazione, senza provocarmi alcun nervosismo, anzi, spingendomi alla calma, come non ci fosse mai alcuna fretta, nonostante stamani io sia leggermente in ritardo. Non avevo mai preso in considerazione un’eventualità di questo tipo, però credo proprio che mi piaccia, perché è come avere uno sguardo maggiormente obiettivo su tutto ciò che si fa. Il modo di cambiare le marce dell’auto, le strade imboccate per muoversi all’interno della città, perfino le espressioni che si assumono guidando, magari proprio mentre qualche utente della strada mostra poco rispetto per tutti gli altri che gli si muovono attorno.

         Mi fermo al solito caffè per acquistare un giornale e consumare rapidamente la colazione. Lui sta con me, dentro la mia borsa portadocumenti, ed in qualche modo io so che mi giudica, che tende ad assumere un vago atteggiamento di critica, pur costruttiva, al minimo sospetto che stia per sbagliare qualche cosa. Mi sento forte con lui, è chiaro, è come se fossi sempre sorretto da una persona fidata. Potrei addirittura fare lo spaccone, dire al barista di prepararmi il solito macchiato, ad esempio, e cose di questo genere. Quando arrivo al parcheggio dell’amministrazione pubblica mi sento bene, talmente bene che resto in macchina col motore spento per almeno un paio di minuti, senza fare niente, solo per il gusto di assaporare la giornata prima di infilarmi dentro l’ufficio.

In ogni caso so che il tempo mi scorrerà meglio portando il mio gemello accanto a me, perché la sua presenza dentro la borsa è per me un elemento di tranquillità per tutto ciò che faccio. Striscio il tesserino magnetico e poi prendo l'ascensore, mentre qualche collega sta già parlando a voce alta lungo le scale, come se le sue parole fossero l'elemento fondante di tutta la giornata. Mi siedo alla mia scrivania e poi appoggio le mani sopra il piano. "Eccomi qua", mi sento di dire sottovoce alla borsa che staziona qua accanto; "una nuova giornata da trascorrere in questa stanza, una serie infinita di momenti da riempire di senso, cercando di recuperare almeno una parte di quell’entusiasmo che avevo nei primi giorni in cui sono stato assunto per questo lavoro".

Poi prendo la cartella, e l'apro con lentezza: dentro c'è il mio caro specchio avvolto con cura dentro una stoffa, ad evitare danni per qualche urto inaspettato. Guardo soltanto per un attimo il piccolo piano levigato dentro alla piccola cornice, e la mia faccia riflessa mostra un’espressione che vorrei definire di curiosità e di fiducia. Ripongo rapidamente tutto all'interno, non deve assolutamente succedere che a qualche collega venga la voglia di infilare il suo naso in mezzo alle mie cose segrete. Riprendo in mano le carte su cui stavo lavorando già il giorno passato e mi concentro su ciò che c’è da fare, ma dopo poco sento della confusione insolita provenire dal corridoio. Mi affaccio dal mio piccolo ufficio, e mi rendo conto che due impiegati si stanno prendendo a male parole, tanto che già qualcun altro si è avvicinato a loro per cercare di mettere fine alla discussione, e magari evitare, sia ai due che a tutti noi, dei guai anche peggiori.

Non c’è niente di sorprendente penso, la noia che imbeve questi uffici è capace di tirare fuori a chiunque i peggiori nervosismi, anche senza avere degli ulteriori motivi validi per farlo. Torno a sedermi e riprendo la mia cartella: guardo mio fratello di nuovo e so per certo che per me tutto è diverso; la coscienza di avere lui insieme a me, è capace di rendermi quasi un’altra persona, più equilibrata, più tranquilla, quasi indifferente a tutti gli altri.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Quel che siamo

 

         Durante questi giorni grigi in cui non succede proprio niente, mi sento un po’ giù di morale, quasi depresso. Persino rimanendo in casa come sempre, mentre giro nervosamente tra le stanze del mio piccolo appartamento, mi pare in questi casi di non essere a posto, anzi, quasi fuori luogo, e mi sembra praticamente che le pareti si avvicinino maggiormente tra di loro, mi attanaglino, riescano a tenere il mio corpo in una assurda costrizione, e che lo spazio necessario persino per muovermi all’interno delle stanze, vada a ridursi poco per volta con il semplice trascorrere delle ore. Così, per respirare, apro le tende di una finestra, cerco la luce del pomeriggio, e mi soffermo ad osservare, attraverso i vetri, la strada che come sempre scorre sotto di me, quasi ritrovandomi a cercare con occhi incantati qualcosa di più largo, di più arioso, uno spazio che lasci finalmente vagare la mia vista, e che magari mi permetta di concentrarmi su qualche particolare maggiormente inusuale, qualcosa che mi incuriosisca e così mi conceda almeno il tentativo dello svago.

         Nutro generalmente grande invidia per quelle persone che osservo e che si fermano volentieri a parlare lungo i marciapiedi, intavolando grandi chiacchierate su chissà quali argomenti. Dalla mia finestra non riesco certo a sentire ciò che dicono, però vedo spesso le loro mani sottolineare con larghi movimenti le parole che in quel momento stanno usando; forse le lanciano, le amplificano, ne riescono a piegare il significato magari in un certo verso, oppure proprio in un altro. A volte qualcuno tra gli individui che noto, sembra quasi mostrare una specie di danza, fatta di gesti e di espressioni del corpo e anche del viso, ma soprattutto delle braccia e delle mani che spesso seguono traiettorie immaginarie e riescono a fluidificare qualsiasi frase, ogni periodo, fino probabilmente a sentire attorno ai loro movimenti, un’attenzione quasi completa da parte di chi ascolta, un interesse sempre crescente per i temi a cui chi parla riesce a dare corda, come se nient’altro fosse maggiormente importante in quei momenti di ciò che viene riferito.

Sento un rumore alle mie spalle, non saprei: forse un oggetto nella mia cucina che è caduto penso, così vado a guardare, ma non trovo proprio niente fuori posto. Torno alla finestra ed il rumore si ripete. Qualcuno non vuole che io perda tempo ad osservare gli altri sulla strada penso; così torno a chiudere le tende e ad interessarmi di qualcosa che reputo presente dentro al mio appartamento. Mi cade subito lo sguardo sul mio piccolo specchio, incorniciato ed esposto sul ripiano. Lo prendo, ne osservo l'immagine riflessa, e mi rendo subito conto che non sono io adesso quello nella superficie lucida. Fingo indifferenza, però una sottile angoscia mi pervade, per cui prendo tutto l’oggetto e lo ripongo in fretta dentro un cassetto. Poi decido di uscire e farmi un giro.

Incontro alcune persone che avevo visto poco prima dalla mia finestra, perciò le saluto, quasi fossero certe mie vecchie conoscenze. Mi guardano subito in un modo strano, non hanno probabilmente niente da dirmi, anche se io mostro di essere disposto ad ascoltarle. Una vecchia mi dice buonasera, ed io le sorrido come normalmente faccio con tutti i miei vicini di casa quando mi capita di incontrarli. Ma la mia solitudine non porta a niente penso, perciò giro attorno all’isolato e poi ritorno deciso tra le mura del mio appartamento. Sul pianerottolo suono il campanello al mio dirimpettaio, gli chiedo se a lui vada tutto bene, e così ci mettiamo a parlare per un po’ di fatti consueti, giusto per non salutarci in fretta e basta. Quando poi giro la chiave del mio appartamento mi sento preoccupato: vado subito al cassetto dove ho riposto quel mio specchio, e con un certo timore lo tiro fuori per osservarne la superficie: è mia la faccia che adesso vedo riflessa, tutto è tornato come deve essere, penso, e tiro subito un sospiro di sollievo. In fondo ci vuole poco per riconoscersi davvero in ciò che siamo, rifletto; non c’è neanche bisogno di preoccuparsi troppo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Doverose promesse

 

Le giornate ultimamente sono tutte identiche tra loro. I medesimi gesti, le solite cose, le esatte parole da usare con le stesse persone. Ogni momento praticamente è la fotocopia esatta di un altro momento del giorno appena trascorso, ma con minori dettagli in evidenza, una risoluzione già più grossolana, approssimativa. Fingo indifferenza di fronte alla noia, e cerco di sorridere meditando intorno alle cose che già conosco, che rimando regolarmente a memoria. I miei colleghi di lavoro mi guardano, probabilmente avvertono nel mio sguardo sfuggente la sofferenza che ho fatto ormai propria, anche se poi inanellano qualcuna delle loro solite battute di spirito, e tutto per un attimo sembra come lasciato dietro le spalle, dimenticato.

Sto fermo alla mia scrivania, e mi pare impossibile accondiscendere all’obbligo di trascorrere tutte queste ore così, senza che nulla susciti almeno una briciola di vago entusiasmo. Gli altri naturalmente sono già davanti alle macchinette per il caffè a scambiarsi qualche superficialità senza alcun impegno di sorta, ed io proseguo a raschiare la carta dei documenti che devo trattare per puro mestiere, senza decidermi ad altro, se non guardare ogni tanto lo spicchio di cielo che si intravede da questa finestra: nuvoloso, sereno, grigio, piovoso, solare.

Quando poi esco dal palazzo dove sono allocati gli uffici, mi sembra tutto diverso nello spazio appena di un attimo, anche se poi l’andamento della giornata riprende rapidamente il suo corso ordinario con variazioni praticamente impercettibili. Tutti quanti noi strisciamo rapidamente il tesserino magnetico nella macchinetta, poi ci scambiamo giusto qualche saluto, ed infine nel parcheggio della pubblica amministrazione mettiamo in moto ognuno la propria automobile, lasciando altri allontanarsi a piedi o in modo ancora diverso.

Mi ferma un collega prima che esca da sotto la sbarra automatica, io abbasso il finestrino della mia utilitaria, e lui spiega rapidamente qualcosa che mi lascia perplesso. Mi chiede se posso dargli un passaggio, visto che stamattina lui ha portato la sua vettura in officina a revisionare, ma la sua domanda appare strana perché ci sono altri impiegati con cui generalmente lui si intrattiene in modo più amichevole di quanto faccia solitamente con me. Lo invito a salire, comunque, gli chiedo dove abbia bisogno di essere trasportato, e lui mi indica una strada effettivamente poco distante da dove abito io. Poi mi parla di un periodo poco felice, di difficoltà di tipo economico, di qualcosa che gli è andato storto ed anche altre cose del genere.

Continuo a guidare mentre ascolto con attenzione tutti i discorsi che il mio collega continua a sviscerare senza fermarsi, aspettando il momento in cui magari decida di smettere, e mi conceda la possibilità di affrontare un argomento meno pesante, ma quello insiste, seguita a elencare tutte le proprie sventure, ed alla fine mi chiede con decisione un prestito di denaro. Ancora prima che possa rispondergli, mi confida che per lui sarebbe una vera boccata di ossigeno, come si dice, ed io mentre fermo la macchina tenendo le mani ormai irrigidite attorno al volante, gli rispondo: “va bene, ma soltanto per una metà della cifra richiesta, perché non ho altri fondi che quelli”. Lui mi ringrazia, dice che già lo sapeva che ero il migliore, sorride, mi stringe la mano, poi se ne va, fissando per il giorno seguente la consegna dell’assegno promesso.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Cambio di alcuni dettagli

 

         Alle spalle della mia scrivania c'è un armadio metallico, grigio, pieno di faldoni cartacei sistemati abbastanza in ordine, la cui prosecuzione naturale in ordine alfabetico si ritrova addossata al muro direttamente sul pavimento, visto che non c’era più spazio, accatastata alla meglio nell’attesa di nuovi scaffali a sorreggerne il peso. Ogni tanto, nel lavoro corrente che mi viene consegnato dagli impiegati che lavorano al pubblico, ci sono dei rimandi che mi impongono purtroppo di andare a controllare qualcosa tra i dati che trovo in quelle vecchie carte polverose, cosa questa che faccio sempre piuttosto malvolentieri, qualche volta indossando precauzionalmente anche dei guanti di gomma, vista la polvere. Non so cosa mi sia scattato stamani, e perché mai abbia perso completamente il controllo delle mie azioni, però all’improvviso ho rovesciato a terra una gran parte di quella documentazione mentre l’armadio era aperto, sfoderando un gesto repentino, nervoso, inarrestabile.

         Naturalmente sono intervenuti subito i colleghi, che mi hanno fatto sedere, una volta verificato con un certo spavento il tremolio nelle mani ed il pallore sulla mia faccia. E’ intervenuto persino il capufficio, attivato da qualcuno del piano, il quale non ha potuto far altro che constatare le condizioni di momentaneo ma grave disagio in cui stavo versando, visto che non rispondevo neppure alle domande che mi venivano rivolte, se non con dei semplici accenni; e così, considerato che non mostravo altri sintomi, si è deciso immediatamente di chiamare un taxi e di spedirmi al mio domicilio, a riposo, con il consiglio di consultare al più presto un dottore, naturalmente uno specialista di malattie del sistema nervoso.

         A me non è parso di sentirmi particolarmente esaurito, anche se è evidente come l’odio profondo per quei faldoni di documenti, affondi le sue radici in tutti questi anni, da quando mi ritrovo a doverli maneggiare; in ogni caso il gesto che ho compiuto quest’oggi, ripensando a tutto quanto ciò che è successo, mi è parso semplicemente liberatorio: “una scatto d’ira che coltivavo probabilmente da tempo, che tenevo nascosto persino a me stesso, ma nel quale riconosco alla perfezione i miei sentimenti. Certo, tutto questo non posso dirlo a nessun altro che a lei, caro dottore, perché i miei colleghi, e ancor meno i miei superiori, non potrebbero assolutamente comprendere una giustificazione di questo tipo. Certi materiali bisogna imparare ad amarli, dicono loro, perché sono semplicemente la base del nostro lavoro, ed è proprio nell’interno delle loro pagine che vive il senso profondo di ciò per cui siamo chiamati ad occuparci”.

         Il medico annuisce, prende appunti, cerca di mettersi nei miei panni per comprendere meglio la situazione; poi dice che sarebbe salutare per me un periodo durante il quale cambiare qualche mansione, occuparmi d’altro, magari sedermi in un ufficio diverso, un luogo che possa togliere dalla mia mente l’ossessione per quei faldoni. “Non sarà facile”, dico con sguardo basso; “in ogni caso se lei proprio mi prescrive una cura del genere, sarò costretto ad andare dal mio capufficio per fargli presente la sua volontà”. Il dottore perciò con poche parole verga sulla sua carta intestata quanto spiegato, poi mi prescrive qualche calmante, sottolinea alcune semplici raccomandazioni, poi se ne va. Sono a posto, penso; adesso non ho bisogno di altro.

 

        

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Cambiamenti in corso

 

         Mi hanno telefonato in questi giorni scorsi alcuni colleghi dall'ufficio, naturalmente anche per chiedere notizie sulla mia salute, ma soprattutto per avere qualche informazione aggiuntiva su quanto stavo portando avanti ultimamente sul mio posto di lavoro. Sembra, a detta loro, che presto sarò definitivamente sostituito, ed io sospetto che ci sia già una persona che abbia occupato il mio posto in modo irrevocabile, e che per me al mio rientro verranno riservate altre diverse attività e mansioni rispetto a quelle che ho rivestito in tutti questi anni. Non so se sia una notizia positiva, mi spaventa dover imparare qualcosa di nuovo, occuparmi di argomenti che esulano del tutto dalle mie assodate abitudini. Per adesso comunque il dottore dice che non posso rientrare in ufficio, e che per un tempo ancora da definire devo cercare di dimenticare il lavoro, e pensare a tutt'altro. Però non ho molti argomenti a cui dedicarmi, e le giornate da trascorrere in casa con le pantofole ai piedi mi sembrano a volte interminabili.

         Mi sono reso conto che ci sono pochissime cose che mi legano al mio posto in pubblica amministrazione, se non le consuetudini, ed anche per quanto riguarda i colleghi, nessuno di loro posso considerare diversamente da una conoscenza puramente occasionale, anche se con alcuni ho lavorato insieme per tanti lunghi anni. Però tutto ciò non mi interessa neanche molto in questo momento. Dovranno cambiare molte cose, continuo a ripetermi quando mi guardo allo specchio per tagliarmi la barba; molte di più di quelle che mi vengono prospettate. Dovrò cambiare comportamento, inserirmi nelle nuove funzioni lavorative con uno spirito completamente rinnovato, ed affrontare i colleghi e le attività con un atteggiamento totalmente diverso.

         Nella serata poi mi sono deciso ad uscire di casa, considerato che per una malattia come la mia non si applica il protocollo della visita fiscale con gli orari di rispetto, e quindi posso considerarmi molto più libero, anche se dovrei tenermi il più possibile a riposo. Mi è venuta voglia di farmi un giro a piedi, e così ho preso un mezzo pubblico fino alla piazza principale della mia città. Mi sono guardato attorno, e mi pareva quasi di avere la possibilità di incontrare da un attimo all’altro qualcuno di mia conoscenza, ma non è stato così. Ho vagato a lungo senza una meta precisa, poi sono entrato in un caffè, e mi sono seduto ad un tavolino. Nell’alveo delle indicazioni riguardo la mia sindrome, ho ordinato al cameriere una camomilla, e mi sono lasciato subito avvolgere dal caldo della tazza e dal vapore che emanava la bevanda.

         Quando è entrata nel locale la mia collega di lavoro con alcune sue amiche, subito è venuta verso il mio tavolo, e mi ha stretto la mano sorridendo con sincerità, anche se forse avrebbe addirittura voluto darmi un bacio affettuoso. E’ la stessa con cui avevo fissato un appuntamento, qualche tempo fa, tirandosi indietro proprio all’ultimo momento, forse per paura che altri impiegati venissero a sapere della faccenda. Mi ha chiesto della mia salute, mi ha fatto i suoi auguri migliori, poi mi ha chiesto più sottovoce il mio numero di telefono di casa, ed il permesso per chiamarmi, dettagli che le ho fornito con immediatezza. Forse qualcosa inizia già a cambiare, ho pensato; e dopo cinque minuti sono uscito da quel bar per tornarmene a casa.

 

        

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Avanti comunque

 

         Mio fratello gemello, come lo chiamo io: l’immagine di me dentro il piccolo specchio incorniciato che possiedo da sempre, che spesso mi ha aiutato nella mia solitudine, suggerendo comportamenti, idee, scelte; ormai si è fatto quasi un pensiero inerte, un semplice elemento della mia giornata che ancora resiste e che forse mi osserva sopra al piano di un mobile dentro l’appartamento, ma non produce più impulsi, opinioni, critiche, come faceva una volta. Forse mi sento più libero dal suo giudizio tagliente, ma in ogni caso di me ho maturato negli ultimi tempi una coscienza maggiore, una più forte fiducia nelle mie potenzialità, ed anche una necessità di considerare meno gli oggetti che mi circondano, a vantaggio magari delle persone.

         La mia collega mi ha telefonato, qualche tempo fa, e così finalmente ci siamo visti un pomeriggio per andarcene in un caffè della zona. Abbiamo parlato, come è naturale, senza svelare troppe cose della nostra diversa intimità, divertendoci a conoscere qualcosa di noi senza per questo approfondire eccessivamente i tanti aspetti. Poi sono tornato al lavoro, dopo la lunga malattia che mi ha costretto al riposo forzato, ed ho scoperto di essere stato trasferito al piano superiore nel palazzo della pubblica amministrazione, e di avere così nuovi colleghi, quasi tutte donne, e di non avere più niente a che fare con l’archivio e con quei faldoni polverosi che odiavo.

         Non è cambiato molto, a dire la verità, però si è modificato quel tanto che basta per farmi stare meglio: non ho grandi rapporti umani neppure adesso con gli altri impiegati, considerato che sono rimasto uno che se ne sta volentieri per i fatti propri; ma almeno adesso non sento parlare continuamente e soltanto di calcio, come avveniva costantemente al piano inferiore. Le ragazze che si trovano a questo piano sono gentili, educate, anche premurose, non fanno dei capannelli continui attorno alle macchine per il caffè, ed anche se le vedo spesso chiacchierare lungo i corridoi o nelle varie stanze, lo fanno con garbo, senza sentire mai la necessità di alzare la voce. 

         Con la mia collega del cuore ci salutiamo qua dentro con normalità, come fossimo assolutamente chiunque, in modo da non destare sospetti, anche se sono sicuro torneremo a vederci uno di questi giorni. Mi piace avere un rapporto preferenziale con lei senza che gli altri sospettino minimamente qualcosa, è come avere un alleato segreto, un doppio spessore nella giornata. Dentro la mia cartella proseguo a portare il mio specchio, ma mi basta sentirne la presenza là dentro per stare tranquillo, e non provo il bisogno di tornare a guardarlo o di saggiarne la superficie.

         Ci sono dei momenti durante la giornata di lavoro, in cui mi chiedo ancora a cosa possa portare quello che faccio, però non ho quasi più la preoccupazione di sentirmi del tutto inutile, un impiegato qualsiasi che si è ritrovato tra questi uffici quasi per caso, senza avere nemmeno una motivazione qualsiasi per occuparmi delle cose a cui devo dar seguito. Comunque, anche se non sono del tutto contento del mio lavoro, in ogni caso sto diventando sempre più un impiegato come lo sono tutti gli altri, indifferenziati, spersi tra queste scrivanie e i corridoi, e pronto a scambiare e a parlare degli argomenti comuni, quelli che a lungo andare sembrano essere sempre gli stessi, che legano tra loro però tutte le ore dei giorni e dei mesi che trascorriamo qua dentro, e che alla fine sono l’unico vero collante che riesce a tenere insieme tante diverse persone, forse con poca individualità, ma comunque piegate alla necessità di mandare avanti le cose.

 

         Bruno Magnolfi

 


In prossimità dello Stadio

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Difesa individuale

 

Alcuni sostengono che le cose stiano velocemente peggiorando. Se mi guardo attorno forse sembra anche a me, però non mi sono mai interessato di problemi troppo generali, proprio perché ci tengo a rimanere fuori da quegli schemi che secondo il mio parere sono da tanto tempo ormai un po’ troppo logori. A dirla tutta, a me interessa poco o niente di quanto viene deciso dai nostri dirigenti, perché soprattutto mi resta congeniale adattarmi abbastanza velocemente alla nuova situazione che ogni volta si viene a creare, senza neppure stare troppo a lamentarmi, e poi del resto forse è questa l'unica maniera che vedo in giro per tirare avanti. Guadagno poco per quello che faccio, però mi è sufficiente: con una vecchia utilitaria di mia proprietà controllo ogni notte l’enorme parcheggio a fianco dello stadio cittadino destinato al calcio, girando in lungo e in largo tutte quelle centinaia di metri asfaltati che appaiono sempre deserti e abbandonati a quell'ora, nella costante osservazione attenta di tutto ciò che può succedere là attorno, fermandomi subito, ma a distanza e a fari spenti, ogni volta che c'è qualche strana vettura un po’ sospetta. Non è mio compito intervenire naturalmente, soltanto segnalare ai miei superiori, e quindi alle autorità competenti, ciò che riesco a vedere tramite il mio piccolo binocolo.

Mi pagano al nero, perché mi hanno spiegato come il mio mestiere non deve assolutamente risultare alla luce del sole, così come non devo mai farmi vedere in faccia da chi incontro, e per di più non devo mai dire a nessuno l’attività che svolgo, o quale sia la mia vera occupazione; ma i miei capi però sono precisi, anche se non so neppure bene chi effettivamente essi siano, ed ogni mese mi fanno trovare regolarmente sul mio conto bancario la cifra pattuita, e solo certe volte mi telefonano al mio cellulare, per confidarmi sottovoce giusto qualche novità generalmente di scarso rilievo. Lavoro per la sicurezza, posso tranquillamente dire, anche se mi è capitato raramente di fare qualche vera segnalazione rispetto a qualche automobile sospetta, sul cui conto non so neppure realmente come sia poi andata a finire la vicenda. Non importa penso, il mio mestiere è questo, ed io ho accettato da subito di portarlo avanti in questo modo, senza preoccuparmi troppo di tutto il resto e senza porre mai delle domande.

Ad un certo punto ho pensato anche di farmi rilasciare il porto d’armi, ed in seguito magari di comprarmi una pistola da nascondere nel mio vecchio macinino, in modo da stare più tranquillo, e nel caso di avere anche la possibilità di difendermi. Ma i miei capi hanno detto che non era fattibile, che io non avrei mai dovuto accettare una colluttazione, piuttosto defilarmi subito, avvertire loro, descrivere dettagliatamente ciò che vedevo nel binocolo e poi svignarmela. Però a volte mi è presa la paura: non si sa cosa possono combinare certe persone di notte in un posto come questo: pianificare degli attentati, definire gesti cruenti da mettere in atto nelle ore a seguire, e così via. Perciò, tramite un conoscente che incontro qualche volta dentro un bar, sono riuscito ad acquistare una semiautomatica, un ferro leggero, niente di importante, con una buona quantità di proiettili ed il numero di matricola ben cancellato, ed adesso mi sento più tranquillo.

Non sparerò mai a nessuno penso, però avere questa possibilità di difesa certamente mi fa sentire meglio. Perché se le cose peggiorassero ancora, se tutto andasse davvero a capitomboli, in quel caso uno come me saprebbe bene come farsi intendere, perché in fondo ho capito che non ci sarà mai nessuno prima o dopo che vorrà stare davvero dalla mia parte.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Meglio così

 

Certe notti sembrano più lunghe delle altre. Tengo spenti i fari della mia macchina, e sonnecchio per quasi dieci minuti mentre sto di fronte alla distesa asfaltata del parcheggio vuoto che devo sorvegliare. Mi vengono in mente i pensieri più strani in queste occasioni: ho la pistola carica nel vano del cruscotto, mi sento il padrone incontrastato di questo posto; se si avvicina qualcuno posso persino fargli cenno di andarsene rapidamente, perché non ci voglio proprio nessuno da queste parti. Non voglio nessuno a darsi appuntamento proprio qui, per progettare chissà quali attentati, chissà quali nefandezze ai danni di cose o persone che magari non ne sanno niente di queste guerre intestine lungo le vie principali del malaffare e del crimine terroristico.

Perché di questo si tratta, almeno credo: sono pagato per contrastare i piccoli gruppi di invasati che pensano di poter innescare dei moti rivoluzionari all’insaputa di tutti gli altri. Per questo vengo mandato qui ogni notte, ad osservare tutti i movimenti sospetti che ci possono essere intorno al grande stadio cittadino del calcio. Perché ci può essere sempre qualcuno che odia cose come lo sport o il gioco del pallone, e vorrebbe far partire proprio da qui chissà quali attentati dimostrativi ai danni di tutti quanti noi. Ed io scruto le tenebre, dentro la mia macchina grigia che non si fa neanche notare, a fari spenti, con la mia coperta per il freddo sulle gambe, il binocolo sempre pronto per vedere bene i movimenti di tutti; osservo la realtà, quella più vera, più cruda, più evidente, e poi se è il caso invio subito la mia segnalazione.

Il freddo però si fa sentire in queste notti, e mi riporta velocemente alla realtà del mio starmene qui senza fare quasi niente. Accendo il motore, lo lascio girare per un po’, quindi torno ad azionare la ventola del riscaldamento. C'è una coppietta dentro una macchina, si sono fermati piuttosto lontani da me, all'imbocco del parcheggio, ma posso tollerare la loro presenza penso, in fondo non fanno del male proprio a nessuno. Però i miei capi hanno spiegato bene come non si debba mai perdere di vista nessuno in questa larga spianata, perché una debolezza del genere potrebbe essere quella fatale, quella che apre le porte a chissà quali conseguenze.

Perciò ingrano la marcia, mi avvicino lentamente alla coppietta, inforco gli occhiali scuri per non farmi riconoscere, e tenendo una potente lampada portatile diritta su di loro, dico senza mezzi termini che adesso devono togliere le tende. Passa una attimo, quelli parlano subito tra loro, e quindi se ne vanno, i loro interessi sono scemati in fretta penso, non ho avuto bisogno di aggiungere nient’altro. Sono contento, la mia autorità è riconosciuta in casi come questo.

Poi vado a compiere un largo giro del parcheggio, controllo per bene ogni angolo nascosto, ma non c’è niente di insolito in questo momento, posso rimettermi fermo da qualche parte, con la radio a volume molto basso, e la mia coperta per ripararmi da questo freddo cane. Con gli sportelli chiusi da dentro posso persino sonnecchiare: in fondo ho sempre la pistola con me, ci vuole un attimo a difendermi nel caso che a qualcuno venisse in mente di rompermi le scatole. Questo è il mio parcheggio penso, ed è anche il mio posto di lavoro: non potrò mai essere un pericolo per voi se ve ne girate al largo da questa zona. La notte scorre lenta, sembra non voglia mai succedere un bel niente. E forse è meglio così, per tutti quanti.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Doverosa attenzione

 

         Ho dormito nel mio letto per tutta la mattinata. Con il lavoro che svolgo non posso certo fare altrimenti: ogni notte nella mia macchina sono impegnato a controllare un parcheggio quasi sempre deserto, illuminato soltanto dai lampioni. Adesso comunque scendo sotto casa per comperarmi qualcosa da mangiare, poi mentre butto giù qualcosa, ascolterò alla radio le ultime notizie, giusto per sapere se è capitato qualcosa in città in queste ultime ore.

         Ha iniziato da ieri a ronzarmi nella testa un tarlo che non riesco più a togliere di mezzo: in questi pochi mesi, cioè da quando lavoro per la sicurezza, presso il parcheggio dello stadio di calcio cittadino, non è accaduto proprio niente di particolare nella zona, ed alla fine mi sono limitato in tutte queste notti passate, come richiesto dai miei capi, a segnalare giusto qualche automobile sospetta della quale poi non ho più saputo nulla, neppure dalle notizie giornalistiche di cronaca della città. In sostanza io mi devo limitare ad osservare il panorama, e quando proprio si presenta il caso, inviare un messaggio con il cellulare ad un certo numero che mi è stato indicato, e dopo basta, non mi è richiesto altro, se non evitare di mettere in campo qualsiasi ulteriore attività.

Adesso, a lungo andare, mi sembrano soltanto delle sciocchezze quelle che compio. Sono chiamato ad occuparmi di qualcosa che praticamente non ha alcun senso. I miei capi non si sono mai fatti vedere da me, si limitano ad usare un certo numero telefonico, ed inviarmi un messaggio generico ogni tanto, e dopo basta. Ed i soldi che mi versano regolarmente in banca ogni mese non capisco più in funzione di quale compenso corrispondono. Non mi pare che chi complotta contro lo stato, oppure contro le autorità cittadine, possa vagare di notte in un parcheggio dello stadio di calcio a programmare delle azioni dimostrative. Perciò ho sempre più l'impressione di essere preso in mezzo ad un meccanismo di cui ignoro del tutto il funzionamento.

Non devo parlare con nessuno delle mie attività, questo mi è stato detto subito, però l’altra sera ho trovato un tizio veramente a posto, dentro il bar dove mi reco al tardo pomeriggio, e dopo aver bevuto e parlato di cose generiche, gli ho spifferato la mia situazione per sentire dalla sua voce che cosa ne pensasse. Ma lui si è limitato a dirmi che non era il caso che io mi preoccupassi troppo: “vai avanti con tutto quello che ti hanno chiesto di fare”, mi ha detto; “e disinteressati per quanto ti è possibile di tutto il resto. In fondo vieni pagato anche per questo, per tenerti tutto quanto dentro di te, perché in questi casi sono sempre i curiosi e i chiacchieroni che ci rimettono qualcosa”. Ho sorriso; certo, questo tizio ha ragione da vendere, ho pensato. Perché dovrei preoccuparmi d’altro, visto che le cose vanno avanti bene, senza tanti scossoni.

Poi, questa mattina, mi è arrivato un messaggio sopra al cellulare da quel numero segreto con cui i miei capi comunicano con me, ed in poche parole mi si ricordava di non parlare con nessuno dei miei compiti e di quanto stavo portando avanti ogni notte al parcheggio dello stadio. Così ho iniziato a capire che forse anche io stesso sono strettamente controllato, e molto più di quanto potessi mai immaginare, tanto che questa cosa ha iniziato subito a farmi un po’ paura. Ho una pistola nella macchina: posso difendermi. Però non so da chi. Mi sento sempre più da solo, e se fino ad un attimo fa mi pareva di lavorare per la sicurezza di tutti i cittadini, adesso mi pare di essere stato assoldato da qualcuno che assolutamente non ha scrupoli. Devo andare avanti, non ho scelta, ma da adesso in poi dovrò essere più attento a quanto mi circonda.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Lontano dai guai

 

         Vado avanti praticamente per inerzia. Ed oramai mi capita anche piuttosto spesso, mentre ogni notte staziono con la mia auto in mezzo a questo enorme parcheggio intorno allo stadio del calcio, di addormentarmi come uno sciocco per qualche decina di minuti o anche di più. Vorrei impegnarmi maggiormente nel mio lavoro, essere costantemente vigile, attento, pronto ad ogni evenienza. Mi piacerebbe anche avere più coraggio, e almeno una volta provare a non venire affatto in questo luogo disperato. Probabilmente i miei capi non si accorgerebbero nemmeno della mia assenza sul posto, ma siccome ho l’impressione che in qualche modo siano capaci di controllare con costanza molti dei miei spostamenti quotidiani, dovrei prima scoprire la maniera con cui riescono a verificare quello che faccio davvero, avanti di metterli alla prova con dei sotterfugi.

         In ogni caso qui non succede quasi niente, se proprio non si fa vedere ogni tanto qualche macchina di balordi che viene da queste parti a farsi un giro. Naturalmente con il mio binocolo io prendo subito nota del numero di targa e degli altri indizi più visibili, e poi li invio immediatamente per messaggio al solito numero telefonico che i miei capi mi hanno comunicato fin dall’inizio. Mi piacerebbe inventarmi di sana pianta una segnalazione falsa da inviare a questo recapito, per vedere cosa mai succederebbe; ma considerato che non conosco quale apparato ci sia dietro di me che fa i controlli, non è neppure il caso che mi faccia venire in mente idee del genere.

Il problema sostanziale è che io svolgo qualcosa di cui non conosco assolutamente niente, ad iniziare dai motivi che ci possono essere per pagare uno come me per mandare avanti un'attività proprio come questa. Certo, per me adesso gira assai meglio di quando ero disoccupato e dovevo andare per i pasti alla mensa popolare. I soldi ora mi vengono versati in banca regolarmente ogni mese, e sto piuttosto bene nelle mie due stanze d'affitto, anche se devo cercare continuamente di convincermi che non sono più un ladruncolo di poco conto, e che in fondo sto davvero lavorando per la sicurezza generale di tutti quanti. Ma alla fine ugualmente non sono contento, mi pare ci siano troppe cose di cui non sono riuscito a comprendere assolutamente la matrice.

Perciò mi sento giù di corda, ed inizio a svolgere il lavoro delle segnalazioni senza alcun impegno, senza più un briciolo di entusiasmo, come qualcosa per cui devo quasi sforzarmi per riuscire a mandare avanti le cose. Il momento peggiore poi si verifica ogni sera, quando devo tornare nel parcheggio, dopo aver trascorso quasi tutto il pomeriggio, tanto per riempire il tempo, tra il solito bar e la sala corse, a chiacchierare con qualche estraneo che normalmente non ha neppure tanta voglia di ascoltarmi, ma che in qualche modo riesce a farmi tenere la testa lontana dai problemi. Poi torno qua e mi sento subito frustrato, da solo come devo stare, con la stupida radio accesa in sottofondo, e la mia pistola carica dentro al cruscotto della macchina. Forse i miei capi sono riusciti già a sapere che mi sono procurato questo ferro, o forse semplicemente se lo immaginano, anche se non mi hanno ancora fatto sapere niente al riguardo. In fondo però, se questo mio mestiere deve essere così segreto, ed i miei comportamenti, come dicono loro, non devono essere mai rivelati ad anima viva, probabilmente va bene anche ai miei capi se mi va di tenere nascosto qualcosa tutto per me.

Poi arrivano dei tizi a notte fonda, e scendono dalle macchine per dirsi qualcosa a voce alta. Io sono distante ed invisibile, però con il binocolo riesco ad annotare quello che mi serve. Ma ad un  tratto alzano ancora di più la voce, si muovono sopra al piazzale, gesticolano, e tirano fuori dei coltelli, quindi si affrontano. Potrei intervenire, sparare dei colpi in aria, dire che sono della polizia o dei carabinieri magari, che devono subito smetterla, perché questo deve rimanere un posto tranquillo, senza tanti schiamazzi, senza alcuno scontro di malavitosi. Sto per scendere, ho già preso la pistola, sono pronto, resterò a distanza penso, in modo da non mettere a repentaglio la mia incolumità. Poi tentenno ancora, non sono sicuro di cosa debba fare, e osservo la scena che rapidamente sembra si stia tranquillizzando; alla fine metto in moto la mia macchina, invio il solito messaggio dal mio cellulare, e con i fari ancora spenti, con lentezza, mi allontano.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Senza cambiare programma

 

         E’ tutto a posto, non c’è niente di strano. Sorrido, in questo bar dove vado sempre a trascorrere un’ora o due durante il pomeriggio. Mi diverto a parlare col tizio dietro al bancone, o con qualche frequentatore tra quelli che conosco. Poi però arriva questa ragazza, si vede che è in là con gli anni, che non è proprio una che fa tanto la difficile, così le pago un bicchierino, tanto per attaccare. Dice che ha un sacco di problemi, ma non ha proprio voglia di parlarne, così mi chiede se a me al contrario vada tutto bene. “Certo”, le dico, “non sono mica uno che si fa fregare da qualche contrattempo”, le fo. Lei ride, sorseggia il bicchierino e ride.

         Dice che avrebbe dovuto andare in qualche posto senza specificare quale, ma non ne ha più avuto la voglia, e poi aggiunge che una persona, almeno in certe occasioni, si può anche ritenere, secondo lei, di sentirsi libera di fare ciò che vuole. Annuisco, però dentro di me si muove immediatamente l’obbligo contrario di andare più tardi al solito parcheggio dello stadio, a fare il turno di notte della sorveglianza, e questo già mi amareggia. Le dico che è brava se riesce ad essere così, ma lei mi guarda diritto in faccia: “tutti dobbiamo esserlo, se siamo delle persone”.

Le dico che abito a due passi, le chiedo di salire su da me, se ne ha voglia, e lei non dice niente, però prende la sua borsetta, e poi mi segue. Entriamo in casa, dico che in questo periodo non me la passo troppo bene, deve scusare la confusione che può notare in giro. “Non importa”, dice; “però avrei bisogno di un caffè, tanto per darmi una risvegliata”. Preparo tutto, e quando torno lei è mezza svestita, così mi do da fare anche se non perdo mai di vista l'orologio. Le cose scorrono veloci, e dopo un po’ mentre già ci stiamo fumando una sigaretta a mezzo, le dico con tristezza che dovrei andare. “Si, anche io” fa lei, e subito si ricompone.

Quando usciamo non ci diciamo niente, si fanno le scale di fretta fino al portone e dopo basta, ed al momento in cui siamo sulla strada lei dice “ciao”, semplicemente, e in questo modo se ne va, senza voltarsi. Vorrei quasi raggiungerla, dirle che ci siamo persino dimenticati di dirci i nostri nomi, forse potremo rivederci magari, che so, tirarci su il morale a vicenda qualche volta, ma poi penso al mio turno di notte nel parcheggio dello stadio, non posso certo fare tardi, adesso devo proprio andare, così mi dirigo verso la mia macchina, la apro e quindi metto subito in moto.

Intorno allo stadio di calcio non succede niente, avrei voglia di fuggire da qualsiasi altra parte, però mentre sto lì ad osservare la notte sotto ai lampioni fiochi, mi viene in mente che forse qualche volta potrei fare il mio turno di sorveglianza non proprio da solo dentro la mia macchina. Anche quella ragazza che ho conosciuto prima, magari avrebbe avuto voglia di stare con me ad osservare il niente di un posto come questo. Poi sorrido: nessuno con un po’ di senno verrebbe volentieri a trascorrere delle ore sul sedile di un’auto come faccio io; forse io stesso sbaglio a non mandare tutto all’aria e smetterla con questo mestiere privo di significato.

Poi metto in moto, e a fari spenti compio un lungo giro per tutto il bordo asfaltato di questa enorme piazza. Sembra non ci sia proprio nessuno in giro, così pigio di più sull’acceleratore, accendo all’improvviso i fari e me ne vado da lì lungo il viale che porta verso il centro. Non incontro nessuno, nessuno mi ha notato, adesso torno a casa penso, ma mentre mi fermo ad un semaforo mi giunge un messaggio sopra al cellulare. Sono i miei capi, mi chiedono perché io non sia sul mio posto di lavoro. Invento una scusa, poi torno indietro e mi piazzo dove sempre. Non c’è nulla che possa fare penso, se non starmene qui, come ogni notte.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Avanti per conto proprio

 

         Durante ogni giornata che trascorre monotona, oramai io mi sento come bloccato, anche se proseguo in qualche modo a lasciar andare le cose per loro conto. Faccio finta di stare tranquillo persino nel mio appartamento, o per strada quando vado a comperarmi qualcosa, e di non avere mai alcun problema, anche se mi chiedo ogni tanto quanto tempo ancora potrà mai andare avanti questa faccenda. Perché dovrà pur finire, uno di questi giorni, non c’è proprio alcun dubbio; non può proseguire ancora a lungo questa specie di angoscia, questo impegno che ho preso in modo stupido e casuale con qualcuno che neppure conosco, mentre intanto cerco di portare avanti come da programma questa sorveglianza notturna di un luogo che appare quasi sempre deserto, senza neppure sapere quale sia il motivo vero di questo mio impegno.

Guardo la televisione, e da lì il governo del paese dice che tutti quanti dobbiamo stare tranquilli. Così mi siedo al tavolino del bar sotto casa e mi lascio servire con calma un paio di birre fresche. Poi arriva questo tizio che dice subito di conoscermi, per cui parliamo per un po’ cercando nella memoria reciproca il motivo di un'impressione del genere. Alla fine si siede, paga un nuovo giro di birre, ed andiamo avanti a parlare di tutto e di niente. Buttiamo giù anche un paio di panini, visto che ormai tra una cosa e l’altra è già trascorsa l’ora di cena, ed ovviamente arrivano altre birre che ci scoliamo una dietro l'altra, senza preoccuparci di niente.

Quando dico che devo andare a lavorare, il tizio sembra sorpreso, poi mi fa delle domande a cui naturalmente rispondo in maniera evasiva. Dico che ho la macchina posteggiata poco lontano, e lui, quando infine usciamo dal bar, mi accompagna fino lì. Poi dice che magari potrei dargli un passaggio, visto che anche lui deve andare nella zona dello stadio di calcio, ed io gli dico di salire, non ci sono problemi. Quando arriviamo accanto allo stadio spiego a questo nuovo amico che il mio mestiere consiste nel controllare durante la notte tutto quanto il parcheggio fuori dalla recinzione del campo sportivo, segnalando qualsiasi faccenda insolita riesca a registrare. “Con il binocolo osservo tutti i movimenti”, gli dico, “ e sopra un foglio prendo nota delle targhe di auto, di furgoni e di quanto passa da queste parti con fare sospetto.

Lui sembra un po’ indifferente alle mie cose, poi scende dall’auto, si guarda attorno, spiega in due parole che non ha un vero posto dove andare in questa città. “Ti puoi mettere sul sedile posteriore a dormire”, gli dico; “per me va tutto bene, basta tu stia coricato e non ti faccia vedere”. Fa cenno di si, che accetta l’invito insomma, però vuole farsi un giro a piedi prima di allora, per cui si allontana con calma spiegandomi che tornerà tra mezz’ora, non certo più tardi. Va via, ed io mi metto nella solita posizione di qualsiasi altra notte, a controllare tutto lo spazio che c’è davanti al mio parabrezza. Tutto regolare, mi dico, non ci sono problemi. Ma ad un tratto arriva di corsa il tizio di prima, dice in fretta salendo sulla mia auto che dobbiamo subito andarcene, non c’è un minuto da perdere. Di fatto vedo in fondo al piazzale diverse macchine che stanno manovrando, come per fare qualcosa. Così metto in moto, ingrano la marcia, e a fari spenti mi allontano lentamente ma di parecchio, pur restando all’interno di questo parcheggio.

Poi sparano, si sentono chiarissimi dei colpi di arma da fuoco, così mi allontano ancora di più, e alla fine invio un messaggio ai miei capi dove spiego la situazione che si è andata manifestando. Il mio amico nel buio si è già piazzato sul sedile di dietro a dormire, e dice che adesso secondo lui va tutto bene, non c’è minimamente da preoccuparsi. Non so davvero cosa pensare, non ho più neppure la voglia di stare ancora da queste parti, ma infine anche io mi metto tranquillo: l’importante è non preoccuparsi, decido; il resto andrà avanti anche da solo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Meglio in assoluto

 

Non sto bene. Mi gira la testa, per tutto il giorno ho ciabattato per casa senza poter neppure uscire. Stanotte non riuscirò proprio ad affrontare il mio lavoro di sorvegliante, purtroppo mi rendo conto poco alla volta che mi è del tutto impossibile. Così mi faccio coraggio ed invio col cellulare una breve comunicazione per i miei capi, dove cerco di spiegare al meglio la situazione in cui mi trovo. Dopo pochi minuti, sempre per messaggio elettronico, loro mi rispondono che non ci sono problemi, e che hanno un sostituto.

Resto di sasso: non avevo mai considerato la possibilità che ci fosse qualcun altro che potesse svolgere il mio stesso mestiere; magari qualcuno normalmente usato, durante i giorni qualsiasi, per tenere d'occhio alcuni altri parcheggi cittadini forse meno importanti del mio; oppure anche qualcun altro che si mette a controllare ulteriori luoghi sensibili: certe piazze, alcuni monumenti, dei palazzi di prestigio, e che forse svolge il suo impegno per la sicurezza proprio durante le ore di luce, piuttosto che di notte come al contrario tocca fare a me.

Mi infilo dentro al letto per lasciarmi passare i brividi che oramai mi scuotono, ma non riesco né a riposarmi né a dormire. Continuo a ripensare a quanto mi è stato comunicato, ed ancora non riesco a credere che ci siano in giro dei personaggi che appaiono come dei replicanti della mia stessa attività. Ovvio che mi piacerebbe conoscerne qualcuno, parlare con lui, sapere chi è e come se la cava questo tizio esattamente come me, e magari chiedergli in modo diretto se prova le stesse sensazioni che avverto io quando controllo la mia porzione di città.

Mi alzo, giro dentro casa, devo ancora constatare che non sto per niente bene, però adesso sono peraltro anche nervoso, non riesco ancora a considerare come naturale ciò che mi è stato spiegato, e per questo semplice motivo vorrei saperne qualcosa di più, conoscere i dettagli, anche se è evidente come sia quasi del tutto impossibile. L’unica possibilità che avrei sarebbe quella di alzarmi con uno sforzo sovrumano da questo letto, uscire da casa senza neanche riflettere, infilarmi subito dentro la mia auto, ed andare senza voltarmi fino al parcheggio dello stadio di calcio, per riuscire a scrutare nel buio chi ci sia davvero lì, in carne ed ossa, per sostituirmi. Ci penso con intensità, ma dopo poco scarto questa opzione: sto troppo male, e poi non è affatto detto che questo mio sosia possa concedere la possibilità di avvicinarmi a lui.

Perciò posso soltanto starmene qui nel mio rifugio, ed immaginare tutto quello che è possibile accada in quel luogo dove personalmente ho stazionato ogni notte per tutti questi mesi, senza che sia successo chissà cosa. Magari però è proprio la prossima notte quella in cui avverrà qualcosa di estremamente grave, e forse verranno coinvolte anche persone che non c’entrano proprio nulla con i fatti: il mio sostituto potrebbe non conoscere sufficientemente gli angoli del parcheggio dove è meglio ripararsi, e per questo motivo essere soggetto a rimanere nel mezzo a degli scontri tra bande di malfattori, o cose di questo genere.

Non me ne importa nulla penso, in fondo non mi riguarda affatto tutta questa storia: tra un paio di giorni probabilmente starò meglio, invierò un messaggio ai miei capi e loro mi risponderanno semplicemente di ricominciare come prima. Va bene dirò loro, non vedo l’ora di farlo: in fondo è quello il mio posto, il posto dove mi sento meglio in assoluto.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Questione cruciale

 

         Oramai non riesco più a sentirmi indifferente a quanto è accaduto, anche se non sono stato affatto capace di vedere o toccare con mano la situazione medesima. Sentendomi meglio oggi, mi sono messo in giro a piedi per tutto il centro della mia città, proprio cercando di rendermi conto se riuscivo ad inquadrare qualche individuo, con il mio occhio allenato, che stesse svolgendo lo stesso mio mestiere di sorvegliante per la sicurezza, pur durante le ore di luce del giorno, e non di notte come invece tocca fare a me. Ho girellato per tutte le piazze più famose ed importanti, soffermandomi vicino sia ai monumenti che ai palazzi di prestigio, ed ho guardato con grande interesse tutte le persone ferme o sospettosamente rallentate, quelle che osservavano quasi di tutto attorno a loro, e che sembravano sul posto soltanto per scrutare chi si trovavano più vicino.

         Su diversi soggetti ho avuto anche delle parziali certezze, in considerazione dei miei interessi, e per questo motivo ho perso molto del mio tempo, visto che ho dovuto naturalmente ricorrere a tutti gli stratagemmi che conosco per osservarli e non farmi a mia volta scoprire; ma di ognuno alla fine non sono riuscito ad avere un riscontro realmente positivo, ed anche se il dubbio su questi individui ha continuato a girarmi fino a poco fa dentro la testa, non sono stato capace comunque di rendermi conto se stessero davvero esercitando il mestiere di sorvegliante per la sicurezza, oppure no. Stasera tornerò al mio solito parcheggio vuoto intorno allo stadio cittadino, perché nonostante venga giocata una partita di calcio nelle ore serali, più tardi, a notte fonda, tutti se ne saranno andati con le loro macchine, lasciando il piazzale completamente deserto. Sistemando le ultime cose prima di salire a bordo della mia auto, e naturalmente dopo aver comunicato ai miei capi che stavo per riprendere appieno il mio lavoro, mi è venuto a mente come in un lampo che forse c'è un luogo che in qualche modo può assomigliare al parcheggio del campo sportivo dove adesso vado a stazionare, un posto dove spesso in molti si recano, ed in cui lasciano le loro macchine ferme e chiuse, a volte anche per molto tempo, senza che qualcuno controlli un bel niente dei comportamenti che vengono adottati, e degli incontri che in questo luogo si fanno.

         Ho pensato probabilmente che se i miei capi, per ragioni che a me ancora sfuggono, si permettono di pagare una persona come me per sorvegliare ogni notte un posteggio praticamente deserto, a maggior ragione dovrebbero pagarne un’altra per controllare continuamente un luogo che rimane sempre pieno di macchine, peraltro senza guidatori né passeggeri. E siccome in questo luogo, quasi non si pone alcuna differenza tra il buio della notte ed il giorno pieno di luce,  tanto vale, dal punto di vista di questi miei superiori, mandarci qualcuno a visionare attentamente cosa succede, esattamente durante le ore quando fa chiaro, piuttosto che col buio. Così ho iniziato a pensare all’aeroporto cittadino come ad uno dei luoghi più sensibili per il malaffare, un posto in cui è probabile ci si incontri regolarmente per ordire, ai danni di tutti, chissà quali piani criminosi, se non fosse che esistono persone proprio come me che già con la loro presenza possono riuscire a mettere perfino una sicura soggezione a certi personaggi.

         Così ho deciso che domani nella tarda mattinata andrò senz'altro lì, anche se quella zona mi rimane piuttosto fuori mano: girerò all’interno dell’enorme piazzale in lungo e in largo tra tutte le auto parcheggiate, ed indossando degli occhiali scuri per essere meno riconoscibile, ma portando con me anche il solito binocolo per vedere bene i dettagli, cercherò di capire chi mai ci sia in giro a svolgere i fondamentali controlli. Ormai devo trovare almeno un collega che porta avanti il mio stesso mestiere: è diventata per me una questione cruciale; qualcosa che quasi non mi lascia respiro.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Nulla di fatto

 

Sto fermo dentro l'abitacolo della mia macchina ferma e con i fari spenti, in questo buio che mi appare senza significato. Se ripenso soltanto a qualche anno fa, mi pare quasi impossibile essere qui a mandare avanti questa inspiegabile attività. Intorno a me non c'è null'altro che lo stesso asfalto deserto di ogni notte, tanto che la mia auto come al solito finge di essere stata lasciata qui da qualcuno forse molto distratto, il quale probabilmente, dopo aver assistito alla partita di calcio, sovrappensiero,  è tornato a casa con i propri piedi oppure con un mezzo pubblico. Per un breve periodo ho anche lavorato nella cucina di un ristorante, in qualità di lavapiatti, e siccome tutti là dentro andavano di corsa, per me a volte era piacevole anche mettermi a guardare il loro impegno, mentre tenevo le mani a bagno nell’acqua calda e saponata.

Forse per me è arrivato il momento di lasciare anche questo lavoro di sorvegliante, e di spiegare ai miei capi senza mezzi termini che sono ormai stanco di guardare nel buio verso qualche macchina di ragazzi che semplicemente si divertono, o cose di quel genere. Dei soldi che ho guadagnato fino adesso sono riuscito a lasciarne da parte una modica quantità, quindi per un periodo di tempo posso guardarmi attorno, e vedere con calma cosa riesco a mettere insieme con le mie capacità. Per certi versi mi piaceva stare in cucina, era quasi come sentirsi in una squadra che affronta ogni sera un nemico rapido ed esigente. Mi piacevano le fumate di cibo sopra ai fornelli, ed il cuoco che impartiva gli ordini. Venni via da lì perché sapevo che non ci si deve mai legare troppo ad un unico mestiere.

Adesso è quasi la stessa cosa, se non che qui ci sono troppe cose che ancora io non ho capito, ma so che continuando in questo modo non credo proprio riuscirò mai a comprenderle, ed è facile mi lasci andare sempre di più, abbattuto e lontano da quanto sarebbe giusto conoscere per uno che svolge questo mestiere. Così prendo il mio cellulare, quasi di getto, e rapidamente scrivo un semplice messaggio ai miei capi, in cui spiego in due parole che non so più che cosa sto facendo in questo posto accanto allo stadio, e che mi sembra assurdo continuare in questo modo, a far la guardia di notte di un parcheggio vuoto dove non succede niente.

Poi torno a guardare fuori dai finestrini della mia macchina, ma non c’è nessuno, così metto in moto e compio un giro lentamente, senza interesse, cercando con desiderio almeno un’altra macchina ferma da qualche parte. Il mio telefono tace, forse non avrò dai miei capi una risposta in tempi rapidi, rifletto; probabilmente tutto andrà a finire cosi, senza più nulla: domani loro mi chiederanno di lasciare questo luogo e di non tornarci, poi mi verseranno gli ultimi soldi sul mio conto bancario, e tutto finirà in questa maniera, senza spiegazioni, e senza che io abbia potuto neppure vedere in faccia qualcuno tra di loro.

Improvvisamente invece mi affianca un'auto, giungendo di fretta chissà da dove. Abbassano il finestrino, mi puntano un faro negli occhi e mi chiamano a voce alta col mio nome. Sono i miei capi penso, così non mi sottraggo alla loro perlustrazione; dico soltanto in modo che mi sentano, che io non so bene chi abbia di fronte, né perché conoscono il mio nome. Loro mi dicono soltanto di ripetere il senso del messaggio, ma io adesso mi sento forte per essere riuscito a snidarli dal loro rifugio. Dico che scherzavo, che va tutto bene, che avevo soltanto voglia di dare loro una piccola scossa. Se ne vanno con le gomme che fischiano e a fari spenti, ed io rimango lì come uno sciocco, senza essere riuscito a combinare proprio un bel niente.

 

 

        

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Inaccettabile distrarsi

 

         Il parcheggio dell’aeroporto è costantemente pieno di macchine ferme. Alla fine di una mattinata qualunque, vado a girare a piedi là in mezzo come fingendo di cercare qualcosa, quindi mi fermo al centro di una fila ben sistemata, e poi vado subito a guardarne un’altra. Nessuno mi osserva, sembra che non interessi a nessuno che io gironzoli curiosando da queste parti. Infine giunge un'auto, qualcuno scende, si prendono i bagagli, si va via, verso gli aerei, e poi basta. Torno verso il varco di uscita, nessuno mi chiede niente, non c'è nessun controllo in giro, di alcun genere.

Poi arriva una macchina con due poliziotti, parlano tra loro, mi guardano per un attimo, ma forse non interessa loro la mia fisionomia, probabilmente stanno cercando qualcun altro, magari seguendo una segnalazione precisa. Me ne vado, mi pare che qui non ci sia proprio nulla da fare. Torno verso casa, parcheggio la mia utilitaria, salgo nel mio appartamento e mi piazzo seduto davanti al televisore, sapendo per certo che la mia scontentezza non mi abbandonerà facilmente. Mi chiedo quale sia il vero motivo di tutto, per quale strampalata ragione le persone si cercano e poi si evitano, continuamente, come se fosse un gioco messo su da un perfetto squilibrato.

Probabilmente non troverò mai nulla di quanto vado cercando: sono senz’altro da solo in questa città di estranei a svolgere un ruolo che per quanto io stesso non riesca a spiegare il motivo per spingerlo avanti, interessa per forza qualcuno, nonostante ogni ipotesi prosegua a risultare almeno a me del tutto incomprensibile. Per una qualche ragione appare fondamentale che tutto ciò che capita all’interno di questo benedetto parcheggio intorno allo stadio del calcio, dove io ogni notte faccio la ronda, sia rilevato e controllato, senza che tutto questo meriti una qualsiasi razionale spiegazione. Ma anche se a me va bene così, perché alla fine lo stipendio mi arriva, di fatto certe volte mi torna assurdo perfino cercare di capirne qualcosa di più.

Il mio cellulare resta muto, perché dopo gli ultimi messaggi che ho scambiato in questi ultimi giorni con i miei capi, non ho ricevuto più nulla, se non l’ordine secco secondo il quale devo proseguire con la mia attività, come sempre. Quando si sono avvicinati a me l’altra sera, puntandomi una forte luce negli occhi, purtroppo non ho potuto vedere un bel niente: quale macchina avessero, in quanti fossero all’interno dell’abitacolo, le loro facce, le loro espressioni, un bel niente. Ho potuto soltanto comprendere le parole che mi venivano dette, pronunciate come da una voce qualsiasi, camuffata dal rumore fragoroso del potente motore della loro automobile.

Che cosa importa, penso adesso davanti alla televisione; l’esistenza è fatta così: si tratta di proseguire diritti verso una meta un po’ assurda, senza chiedersi niente, camminando in avanti senza sapere il perché e senza conoscere la direzione precisa. Non mi lamento di certo, so stare al mio posto se qualcuno lo chiede. Mi piacerebbe soltanto che qualcuno mi dicesse qualcosa di più, ma so farne anche a meno. Poi prendo in mano la mia fedele pistola: ho sempre questa per proteggermi penso, nel caso in cui le cose si mettessero al peggio. Non mi sento libero, questa è la sensazione che mi pesa di più; e questo fare qualcosa di impegnativo senza sapere a che serva, mi rende nervoso, irascibile, privo della calma che ci vorrebbe per svolgere tutto in maniera positiva. 

Continuo ad osservare in modo estremamente distratto, sullo schermo televisivo di fronte, un film di cui non ho visto l’inizio, evitando adesso perfino di seguire i dialoghi, anche se in ogni momento mi sembra di conoscere tutti gli attori che recitano, come fossero veri personaggi della mia giornata. Infine spengo l’apparecchio: devo riposarmi penso; stasera dovrò riprendere servizio come sempre, e non posso certo essere stanco, perché non sarebbe affatto accettabile.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Sufficiente integrità

 

Potrei andarmene, ho pensato. Prendere tutto e poi voltare pagina, senza neppure guardarmi indietro. In fondo non ci sarebbe niente di troppo strano, spariscono in tanti ogni giorno, per uno in più non ci farebbe caso proprio nessuno. Una di queste sere potrei gettare il cellulare che mi hanno dato i miei capi dentro l'acqua di un fossato qua attorno, senza alcun ripensamento; poi fare una corsa in macchina fino ad una città tra quelle più vicine a questa, tanto per far perdere tutte le mie tracce, quindi salire sopra un treno, il primo che passa, o quello che per direzione riesca ad ispirarmi maggiormente. Lontano potrei andare; all'estero magari, dove rifare tutto quanto cominciando daccapo ogni passaggio, senza alcuna zavorra.

La mia esperienza forse potrebbe essere utile in un altro paese, qualcuno magari potrebbe apprezzare alcune spiegazioni sostanziali su come si controlla una porzione di città, come si tiene sott'occhio qualche caseggiato, degli incroci di strade, dei viali interi. Magari potrei cercare di vendere i miei servizi a qualche agenzia che si occupa di spionaggio, o cose di questo genere, sventolando in faccia a tutti la pratica che sono riuscito a mettere insieme durante tutto questo tempo, controllando notte dopo notte i dintorni di questo odiato e famoso stadio di calcio.

Però potrebbe essere difficile trovare le persone giuste alle quali mostrare le mie capacità e con le quali intessere dei rapporti di lavoro; potrebbe essere complicato comprendere nel dettaglio le esigenze reali di alcuni personaggi a me sconosciuti, trovati chissà come in posti peraltro molto diversi da quello in cui mi sono fatto le ossa. Potrebbero non riuscire neanche a prendermi sul serio, e non comprendere appieno le potenzialità che posso offrire: immaginandosi magari di avere davanti soltanto un disgraziato in fuga, senza alcun salvacondotto, magari con un passato oscuro alle proprie spalle, e solo il bisogno di raggranellare qualche soldo.

Certo, bisognerebbe cominciassi adesso a studiare una vera e propria pista di fuga, trovare già da ora i contatti più adeguati, avanti di muovermi da qui e prima di qualsiasi altra cosa da mettere in mezzo, e in un secondo tempo presentarmi con grande sicurezza chissà dove, la mia pistola in tasca che mostra sempre serietà di intenti, il binocolo per le osservazioni custodito in una borsa, gli occhiali scuri da individuo irriconoscibile sopra la fronte, ed un vestito estremamente decente, che riesce a dare spessore e qualità a tutto il passato di chiunque. Però difficile sarebbe in questo modo cancellare completamente tutte le mie tracce. I miei capi potrebbero non gradire affatto questo mio voltafaccia, ed anche se non si sono mai fatti riconoscere da me, si potrebbero preoccupare di quanto sarei disposto a dire su di loro.  

Potrei ritrovarmi nei guai anche in un posto estremamente lontano da qui, con il passato che mi insegue ed un presente senza alcuna certezza. Perciò devo trovare delle soluzioni prima di muovermi, questo è il punto; risolvere ogni dettaglio escogitando dei sistemi che mi lascino tranquillo, perché è la tranquillità l'elemento più importante, sapere che puoi startene in un posto senza che nessuno abbia da ridire. Per adesso mi conviene stare calmo, mandare avanti il mio mestiere come sempre, ed aspettare che maturino le idee giuste prima di fare qualsiasi altra cosa. Però potrei intanto chiedere in giro qualche informazione utile: non c’è niente di male nel fare delle domande, specialmente se si chiedono le cose soltanto per curiosità, senza un interesse vero. Comunque vada a finire mi sento già proiettato in un fase nuova, questo è il punto saliente; e non ci sarà neppure bisogno che cambino davvero molte cose, se questo entusiasmo che sento adesso riuscirà a mantenersi integro per un tempo sufficiente.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Signor Solo

 

         Oggi mi sono messo qui, su questa sedia, quasi senza volontà. In fondo perché mai dovrei mostrare voglia di fare qualche cosa: il mio lavoro scorre come sui binari, la mia giornata prosegue in avanti senza che mi impegni particolarmente, i miei interessi in pratica si limitano soltanto a frequentare questo bar di fronte a casa mia, giusto per mettermi a chiacchierare con qualcuno dei ragazzi che trovo qui dentro il locale. Il resto è soltanto tempo che scorre senza sosta.

Anche la notte, quando sono fermo nel parcheggio che devo sorvegliare, mi limito a guardare l’orologio una volta ogni tanto, ed ogni volta che lo guardo le lancette sul quadrante sono sempre più indietro di quello che vorrei, anche se poi ritengo che il tempo tutto insieme stia andandosene anche troppo in fretta, in una maniera che spesso tende a esasperarmi.

Prendo il caffè insieme ad un tizio che conosco, poi esco dal bar che è quasi vuoto a quest'ora della sera, salgo rapidamente in macchina e quasi senza volontà ancora una volta mi avvio con calma verso lo stadio dove rimarrò fino alle prime luci di domani mattina. Nessuna novità, sul mio cellulare non appare alcun simbolo di messaggio, i miei capi non hanno niente da comunicarmi, le cose vanno avanti come sempre, anche stanotte dovrò segnalare modelli d'auto e numeri di targa di qualcuno che staziona qua, in questo identico e immobile parcheggio.

Mi piazzo nel solito posto a fari spenti, ma col motore acceso perché fa piuttosto freddo, poi sotto ad un lampione poco distante osservo qualcosa che si muove. Sto fermo, guardo meglio ciò che ho notato al margine del mio campo visivo, ma in un attimo quello strano fagotto viene verso di me, come mi avesse quasi fiutato. È un cane difatti, un piccolo cucciolo simpatico che si avvicina velocemente alla mia macchina come se la conoscesse. Apro lo sportello, lui mi guarda un attimo, poi appoggia le zampe davanti sul pianale, come a chiedere il permesso di salire.

Gli accarezzo la testa, lui scodinzola, poi si acciambella rapidamente sul sedile accanto al mio, come per scaldarsi in piena comodità. Lo lascio fare, in fondo non dà noia a nessuno, prima di andarmene da qui lo farò scendere penso, e dopo basta. Gli parlo, gli chiedo qualcosa come potesse quasi rispondermi, lui mi guarda e poi scodinzola ogni tanto, quindi si gira e torna ad acciambellarsi sul sedile. Signor Solo, potrei chiamarlo, che poi è la stessa condizione che abbiamo tutti e due, ed è per questo in fondo che cerchiamo di farci compagnia, almeno stanotte.

Poi ingrano la marcia, e sempre a fari spenti mi sposto dalla parte opposta del parcheggio, mentre passa un'auto che comunque se ne va nella notte per i fatti suoi. Infine esco un attimo dall’abitacolo, apro lo sportello dalla parte del Signor Solo, ma lui non ne vuol sapere affatto di scendere, vuol rimanere dentro, anche se scodinzola, e poi annusa e lecca la mia mano in segno evidente di amicizia. Non so che cosa devo fare, però questo cane mi piace, e mi pare un’ottima compagnia in questa notte fredda e assurda, come peraltro sono tutte le altre. Arriverà la primavera e il caldo penso, arriveranno ore più piacevoli, anche per un sorvegliante di parcheggio come me.

Poi mi ricordo di avere dei biscotti, così li prendo dal sedile posteriore e ne porgo uno al Signor Solo. Lui mangia famelico, mi guarda, ne vuole ancora, si capisce che è tanto tempo che non mette qualcosa sotto ai denti. Quindi si scuote e alla fine lancia un piccolo ululato, quasi il segnale che dimostra la sua momentanea felicità, così quasi per istinto gli rispondo anche io con un piccolo ululato. Siamo amici, è inutile negarlo, e se il Signor Solo mi ha scelto in questo modo, significa che uno strano destino ha deciso di farci incontrare in questo posto, e non posso certo io, che non conto proprio niente, mettermi contro a quanto è stato stabilito.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Facciata schietta

 

         Trascorro generalmente la giornata cercando di comprendere che cosa posso fare per migliorare quello che faccio, e soprattutto quello che sono. Poi mi rendo conto che soltanto dedicandomi a qualcosa di essenziale potrei forse trovare la soluzione a tutte le mie domande, e siccome in questo periodo non riesco a fare altro che quel poco di cui mi occupo, ogni debole teoria che riesco a mettere in piedi è miseramente destinata al nulla. Così mi amareggio, senza riuscire mai a tirarmi fuori da questa trappola che ormai è diventata il perditempo dei miei giorni.

Quando esco di casa mi pare certe volte di dover affrontare un nemico oscuro e sfuggente, anche se allo stesso tempo mi sento attivo, pronto a rispondere alle avversità che eventualmente si potrebbero presentare. Infine vado a rilassarmi sulle solite sedie del bar qua vicino, a sfogliare un giornale e senza preoccuparmi troppo delle altre cose, se non farmi una birra o due, e all’ora giusta mangiarmi dei tramezzini chiacchierando con qualcuno.

C'è una ragazza con cui ho parlato uno di questi giorni, così le ho chiesto il numero di telefono, ma quando ho provato a comporlo durante i giorni seguenti mi sono accorto che era perennemente irraggiungibile. Così ho lasciato perdere, però lei si è fatta vedere di nuovo nel bar che frequento, anche se quel giorno andava estremamente di fretta, perciò mi ha detto soltanto di riprovare a chiamarla, perché sembra che il suo telefono per l'appunto fosse stato riattivato. Non mi interessa, ho pensato subito dopo averla vista uscire; non posso stare dietro ad una persona così strana e sfuggente, ed anche il barista mi ha lanciato una smorfia, come a sottolineare che secondo lui era meglio per me lasciarla perdere una persona di quel genere.

Poi la sera scorsa però mi ha chiamato lei, mentre avevo già iniziato il mio turno di notte come sorvegliante dello stadio, e mi ha fatto decisamente piacere sentirla, anche se normalmente non dovrei distrarmi troppo sul lavoro. Mi ha raccontato svelta un sacco di cose, e che era contenta di sentirmi, poi le ho dovuto dire che non potevo stare troppo all’apparecchio, così si è scusata e ha detto che comunque ci saremmo risentiti presto. Oggi ho girellato a lungo davanti al solito locale con il cellulare in mano: ma di lei nessuna traccia. Poi le ho spedito un messaggio di saluto, tanto per vedere se rispondeva, ma non è successo niente.

Ha ragione il barista penso, è inutile che io cerchi di stare dietro ad una persona di questo genere: perdo tempo e basta, non arriverò mai a nulla e soprattutto non riuscirò neanche a capire le motivazioni che possono spingere una persona come lei a comportarsi in questo modo. Invece mi ha risposto, anche se dopo parecchio tempo, e mi ha inviato a sua volta un breve messaggio vocale in cui la sua voce, immersa in una certa confusione di qualche posto pieno di gente, diceva che era contenta dei miei saluti e che sperava di rivedermi presto.

Forse dovrei farmi avanti ho subito pensato. Magari chiederle qualcosa sulla sua vita: che lavoro svolge, o anche dove abita, e poi casualmente passare forse qualche volta sotto casa sua, magari per incontrarla in modo involontario, e in questo modo capire meglio di che cosa si occupa durante la giornata. Ma penso che non farò un passo di quel genere; sarebbe troppa la mia ingerenza nella vita di una persona come quella ragazza. Così credo che mi limiterò a spedirle qualche messaggio ogni tanto, giusto per vedere se per lei sembra importante tenere accesa l’amicizia con una persona come me, oppure no. Se andranno avanti le cose come spero, le chiederò un appuntamento tra una settimana o due, a cui mi presenterò esattamente come sono, senza modificare nulla di me, proprio per mostrarle ancora, in questo modo, tutta la mia schiettezza.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Dedicato al niente

 

         C’è qualcuno?, ho gridato uscendo appena dalla mia macchina ferma, rivolgendomi verso una zona assolutamente poco illuminata dai lampioni, in questo enorme parcheggio accanto allo stadio del calcio. Non c’è stata alcuna risposta, soltanto il solito silenzio tracciato dal debole brusio costante della città di notte; però ho anche avvertito un leggero rumore da qualche parte indefinibile, così sono rientrato dentro la mia vettura, ho messo di nuovo in moto, ed ho subito acceso i fari, ingranando la marcia ed orientando la direzione della macchina verso quella zona che mi pareva più sospetta. Mi è parso certo che qualcosa stava comunque succedendo, ed è cosi che cercando di conservare una certa razionalità, ho preso la mia pistola da dentro il cassettino del cruscotto. Lentamente sono andato avanti con i finestrini abbassati per ascoltare ogni ulteriore rumore, e poi, illuminando quanto potevo con i fari, mi sono concentrato su ogni metro del campo visivo di fronte a me. Ma non è successo niente, né ho notato cose particolarmente strane.

Allora ho fatto il giro completo del parcheggio, e quando mi sono ritrovato nella zona maggiormente illuminata dai lampioni, ho spento i fari della mia auto e ho rallentato fino quasi a fermarmi; poi mi sono fermato difatti, e sono sceso dalla mia auto per rendermi conto dell’aria fresca e di ogni altro dettaglio attorno. Forse mi piacerebbe succedesse qualcosa di importante. Passo ogni notte su questa distesa di asfalto senza nulla, ne conosco ogni particolare, scruto costantemente con gli occhi bene aperti in mezzo a queste tenebre, mettendo a fuoco qualsiasi sciocchezza possa presentarsi anche in lontananza, ma non succede quasi un bel niente in queste notti, giusto qualche macchina che ogni tanto si ferma qui, ma quasi per sbaglio.

Mi piace comunque questo buio, mi fa sentire abbastanza protetto qualche volta, anche se è ovvio che lo temo, perché è proprio da lì che potrebbero uscire fuori i pericoli maggiori per la mia persona. Svolgo un mestiere pericoloso, è più che evidente, anche se fino ad oggi non mi sono mai ritrovato in situazioni particolarmente difficili, o in cui è stata messa in dubbio la mia incolumità. In ogni caso ho sempre la mia pistola carica, anche se i miei capi neppure sospettano che io porti un’arma sempre con me. Certe volte ho avuto anche paura dei carabinieri oppure della polizia. Potrebbero passare di qui, fermarsi davanti alla mia auto per un controllo e chiedermi che cosa stia facendo a fari spenti in questa zona dove non c’è niente. Non potrei certo spifferare a loro tutta la verità, considerato che alla fine non so neppure con certezza per chi io stia lavorando. Potrebbero perquisirmi, per uno scrupolo tutto sommato possibile, e trovare facilmente la mia pistola con la matricola limata, ed allora le cose si metterebbero davvero male per me e il mio mestiere.

Quando parlai di questa possibilità ai miei capi, sempre tramite un messaggio dal mio cellulare, loro mi risposero però di avere delle amicizie influenti nel settore, e che non ci sarebbero mai stati per me dei problemi seri. Però non sapevano della pistola. Per questo cerco sempre di riporla da qualche parte dentro la mia macchina dove non si veda e non si trovi facilmente, pur restando abbastanza a portata di mano. Forse dovrei disfarmene, ho riflettuto qualche volta, anche se poi mi sentirei meno sicuro. Però fino ad oggi non si sono mai presentati dei problemi seri per me, e forse mai si presenteranno. Devo trovare più fiducia nella mia persona penso: cercare di avere soltanto delle idee più che positive, e immaginare il mio lavoro come un mestiere qualsiasi, un’attività proprio come tante, che non deve procurare per forza un mare di guai; e che in ogni caso resta per ora l’unica cosa a cui riesco a dedicare tutto questo tempo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Contare un bel niente

 

         Devo smetterla con questo mestiere, praticamente non ne posso più. Questa frase poco per volta è diventata il pensiero che in questo periodo maggiormente mi gira dentro la testa, anche se sono sempre prontissimo a lasciarmi prendere semplicemente dalle abitudini, e quindi ad accantonare questo concetto con grande facilità, ricominciando con indifferenza a fare ogni volta le cose di sempre, compresa naturalmente l'attività del sorvegliante di notte. Ma qualcuno giù al bar, senza sapere neanche di che cosa davvero mi occupi, parlando con me proprio del più e del meno, mi ha spiegato con superficialità che esistono individui ingaggiati opportunamente per controllare le piazze di spaccio degli stupefacenti, e dentro di me a queste parole si è come accesa una lampadina.

Forse sono proprio io che senza saperlo controllo la zona dello stadio, e in un solo attimo questa riflessione mi è apparsa qualcosa di evidente. Per me si sempre trattato soltanto di identificare delle macchine che girano attorno a quel parcheggio quasi deserto, ma so che ai miei capi serve ogni mia segnalazione per capire cosa stia succedendo in ogni momento là in mezzo. Evidente: loro come dei grandi trafficanti di queste sostanze hanno tutto l’interesse a conservare la zona perennemente sotto ispezione, ed è perciò che vogliono passare al vaglio chiunque si avvicini da quelle parti. Adesso poi che ci penso anche meglio, in fondo tutto questo non è neppure molto diverso da quello che già immaginavo, anche se presupponevo uno sfondo più etico, qualcosa che riguardasse solamente la sicurezza di tutti. Mi sento un piccolo ingranaggio dentro un meccanismo dominato da gente mafiosa e malavitosa, ed in questo momento riesco a comprendere benissimo il motivo per cui i miei capi non si sono mai fatti vedere da me.

Adesso ho paura, si tratta di un mondo che non conosco per niente, anche se comprendo benissimo quanto sia dominato dagli enormi proventi che vengono trattenuti nelle tasche di chi tira tutte le fila. Non esiste scrupolo in questo settore, lo so per certo, perciò sono a rischio, ed un semplice passo falso per me in qualsiasi momento potrebbe essere del tutto fatale. Non mi lasceranno mai uscire da questa situazione i miei capi, perché oramai, anche se non li conosco per niente, so troppe cose di loro, ed al minimo dubbio su di me, oppure anche sui miei comportamenti, saranno senz’altro pronti a farmi sparire dentro qualche gettata di calcestruzzo, senza neppure darmi una spiegazione qualsiasi. Sono dentro ad una circostanza posta al limite, ma in questo momento non saprei proprio cosa fare, se non proseguire come se nulla fosse.

Anche le stesse persone che incontro certe volte in maniera casuale qui al bar, e con le quali mi intrattengo a chiacchierare senza mai farmi troppi problemi, forse sono soltanto degli individui che mi tengono d’occhio, pedine in una scacchiera dove tutto è dominato e gestito. Mi guardo attorno: i miei atteggiamenti da persona qualsiasi forse fino adesso sono stati semplicemente tollerati, ma non è neanche detto che possa continuare così. Magari da qualche parte si è già deciso un’uscita di scena per me, una sparizione improvvisa nel momento in cui qualcuno si è fatto troppe domande su quello che faccio, oppure ha ascoltato qualche sciocchezza tirata fuori da me in maniera superficiale, proprio riguardante quello stesso lavoro che fino a questo momento ritenevo qualcosa di pulito, un’occupazione come tante, senza troppi segreti.

Devo fuggire, è più che mai necessario, anche se non saprò mai se sarà utile farlo, o se al contrario un gesto del genere potrà forse innestare una serie di ulteriori curiosità intorno a me e anche ai miei comportamenti. Se mi vorranno trovare, magari chissà dove, riusciranno a farlo abbastanza facilmente, lo so per certo; ma soltanto se la mia figura potrà essere tollerata, forse mi lasceranno perdere; proprio come uno che non conta, che non ha mai contato un bel niente.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Serenità perduta

 

         Va bene, ho sbagliato, lo confermo. Risulta però altrettanto chiaro come la maggior parte dei miei giorni io li passi in casa senza vedere quasi nessuno, almeno da parecchio tempo a questa parte. Così come è evidente che quando io mi trovo a camminare per la strada, mi volga indietro ogni pochi metri per rendermi conto se per caso qualcuno stia volontariamente seguendo i miei passi. Non sono più tranquillo come lo ero una volta, provo apprensione per chiunque mi capiti di incontrare, perché mi sento perennemente spiato, osservato, controllato.

Con uno stato d'animo del genere ci vuole niente a prendere un abbaglio. Così quando ho avvistato quell'uomo che mi stava osservando in maniera insistente, ne ho subito avuto paura, e quindi mi è tornato naturale dopo poco mettermi a correre disperatamente lungo la strada, anche se l’ho fatto soltanto per sfuggire alla sua vista. Mi ha detto il barista del locale che era invece un vecchio amico che io non ero stato capace di riconoscere, e che si è sentito ovviamente umiliato e dispiaciuto per avermi spaventato in quella maniera. Aveva chiesto di me dentro al locale, ed io non lo sapevo; poi forse voleva farmi una sorpresa, oppure rendersi conto se lo riconoscevo, tutto qua.

Non devo più andare dentro quel bar, mi sono detto. Devo restare in casa per tutto il tempo che riesco a resistere, e poi per le necessità impellenti devo anche cambiare i miei itinerari: recarmi in altri negozi, in botteghe distanti da casa mia, magari dove non sono mai stato fino ad oggi, e cambiare barbiere quando mi serve farmi radere, perfino fare benzina in un diverso distributore di carburante. Ne va della mia esistenza, devo assolutamente dimenticare qualsiasi vecchia abitudine.

Dopo l'ultima partita di calcio in casa della squadra cittadina, di tanti mezzi che stazionano a fianco dello stadio dove io lavoro come sorvegliante, con sopra in evidenza le parabole e le altre attrezzature per garantire la diretta televisiva sui vari canali, è rimasto solitario un autocarro bianco, forse nell'attesa del prossimo incontro sportivo. È ben chiuso, ed il rivestimento deve essere a prova di qualsiasi rumore, visto che all'interno di questi mezzi spesso c’è un telecronista che porta avanti la diretta. È da solo, ma non sembra dare alcun fastidio, visto che sicuramente dall'abitacolo sono stati tolti i microfoni, i monitor, gli elaboratori e quant'altro possa interessare qualche ladro.

In ogni caso io lo tengo d'occhio come tutto il resto che sta qua attorno, visto che il mio mestiere di sorvegliante notturno riguarda tutto il parcheggio, e quando l’ho visto, come d'accordo con i miei capi, ho subito comunicato loro per messaggio sul mio cellulare la marca, il modello ed il numero di targa di questo grosso furgone, anche se poi loro non mi hanno fatto sapere niente di specifico al riguardo. Potrebbe addirittura verificarsi il caso che dopo la prossima partita l'autocarro resti a stazionare ancora lì, forse costituendo per l'emittente televisiva proprietaria, una specie di studio fisso da utilizzare ogni settimana.

Potrebbe essere, a me non cambia niente, anche se rimane nella parte più vicina alle tribune, la zona meno illuminata di tutto il perimetro. In fondo a me non interessa niente di tutto questo, mi piacerebbe soltanto starmene un po’ più tranquillo, e da quando mi sono reso conto che con ogni probabilità dietro ai miei capi si nasconde semplicemente una grossa organizzazione dedicata al traffico degli stupefacenti, non posso certo dire di aver trovato la serenità. In ogni caso vado avanti a sorvegliare quanto mi è stato richiesto, a fare il mio lavoro insomma, anche se tengo gli occhi sempre bene aperti, e proseguo a guardarmi attorno il più possibile, nel dubbio che qualcosa possa degenerare. Prima o dopo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Praticamente ogni giorno

 

Ho bisogno di parlare. Di spiegare a qualcuno il mio stato d'animo. Più mi guardo intorno e più mi rendo conto invece di essere da solo, e di non avere la possibilità di fidarmi di nessuno. Sono caduto in una situazione pazzesca, in cui svolgo un mestiere così pericoloso da non poterne parlare con anima viva, e tale da farmi allontanare da tutti coloro che sono miei conoscenti.

Persino il mio appartamento è diventato un luogo poco sicuro, tanto che continuo a pensare di cambiare velocemente abitazione, anche se non sono poi così convinto che una mossa del genere possa servire davvero a qualcosa. Le mie azioni sono tutte sicuramente controllate, e in una fase come questa se sbagliassi qualcosa la pagherei duramente.

Per assurdo il posto dove mi sento maggiormente a mio agio è proprio sul lavoro. Sto fermo nel parcheggio dello stadio e segnalo per messaggio sul cellulare tutte le macchine che si fermano da quelle parti, compreso il furgone dell'emittente televisiva parcheggiato oramai da settimane a fianco delle tribune e in modo da non procurare fastidi.

Per tutto il tempo che io resto in quei paraggi a svolgere la mia attività, reputo che niente mi possa accadere. Non mi lascio andare a sonnecchiare neppure per un minuto durante tutta la notte, e continuo ad inviare le segnalazioni che servono, ogni volta che ce n'è la necessità, mandando avanti il mio lavoro con scrupolo, senza lasciare mai niente al caso.

Poi, quando torno nel mio appartamento, praticamente dopo l'alba, le cose si fanno subito diverse. Potrei essere avvicinato da qualcuno di un'organizzazione ostile a quella da cui sono pagato, potrei senza volerlo aver pestato i piedi a qualche persona che conta, potrebbe anche darsi il caso che io da un attimo all’altro non serva più ai miei capi, e che comunque oramai io sappia troppe cose per lasciarmi libero di andare dove voglio. Se mi metto a pensarci, le mie preoccupazioni aumentano, piuttosto che lasciarmi più tranquillo.

Perciò cerco di svagarmi, di liberare la mente da tutto ciò che in questo momento la opprime, ed il luogo migliore, dove mi sento più a mio agio, è dentro ai centri commerciali, dove ci sono talmente tante persone in una volta sola, da farmi credere facilmente di essere una di loro, e di potermi perdere in mezzo a tutti dimenticando persino chi sono. Così vago senza meta in mezzo alla gente ed in mezzo a tutte le vetrine illuminate, senza peraltro che abbia nessun acquisto da fare, e mi dimentico momentaneamente dei miei irresolubili problemi.

Quando rientro a casa, apro il portone condominiale con grande attenzione, poi controllo fermandomi ad ascoltare eventuali rumori lungo le scale del mio palazzo, ed infine, prima di entrare nel mio piccolo appartamento, attendo un attimo fuori, una volta aperto il portoncino, in modo da non chiudermi dietro l’unica via di fuga. La signora del piano superiore mi ha visto l’altro giorno mentre facevo queste manovre, e si è soffermata a guardarmi, incuriosita dal mio comportamento. Potrebbe essere lei una di quelle persone pronte a tradirmi, ho pensato, magari proprio stamani o più tardi; una di quelle che per qualche biglietto di banca è disposta a spifferare delle informazioni su tutti i miei comportamenti, senza neanche provare in seguito alcun rammarico: come una cosa normale, una cosa qualunque che si fa quasi senza pensare, di quelle che si compiono sostanzialmente ad occhi chiusi, e praticamente ogni giorno.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Moderata cortesia

 

         Qualche giorno fa sono passato davanti ad una palestra, e mi sono chiesto se non fosse il caso di iscrivermi ad un corso, tanto per cercare di riempire i vuoti di tempo che mi lascia il mio lavoro notturno. Mi sono fatto dare delle semplici informazioni, e la signorina dietro al banco mi ha chiesto le generalità, così le ho fornito sia un nome falso, che un indirizzo diverso dal mio, tanto per sviare qualsiasi curiosità indesiderata. Pagata la quota in contanti, nessuno mi ha fatto delle difficoltà, tanto che al primo appuntamento mi sono presentato alla palestra con la mia sacca degli indumenti esattamente come tutti gli altri, e sono subito stato trattato come uno qualunque.

         Nessuno mi ha più chiesto niente, e la sensazione di apparire esattamente come un’altra persona in mezzo a tutti, mi ha fatto subito sentire a mio agio, come mi fossi rifatto una verginità. Nello spogliatoio maschile poi, qualcuno parlava di varie cose, e ad una battuta di spirito lanciata da un tizio a voce alta, il mio vicino di armadietto si è voltato sorridendo verso di me, come a cercare una certa complicità. Naturalmente non gli ho dato alcuna confidenza - almeno per il momento mi sento meglio a stare sulle mie - anche se appare chiaro che prima o dopo dovremo pur scambiarci qualche impressione reciproca. Comunque ho la fortuna di poter variare facilmente sia gli orari, che i giorni settimanali di frequentazione della palestra, perciò in questa maniera sarà più difficile per me incontrare sempre le medesime persone, e con questo sistema posso restare, nei confronti di coloro che incontro più costantemente, quasi un estraneo.

         Il mio lavoro di sorvegliante notturno invece prosegue come sempre, e dopo il furgone parcheggiato di fianco allo stadio di calcio, che adesso però è sparito, non si sono presentate molte altre novità. La palestra comunque riesce a rilassarmi, a farmi spendere le energie e calmare il nervosismo che accumulo costantemente; e poi anche solo tenermi lontano da casa il più possibile, per me è diventato un comportamento quasi necessario.

“Ho visto che hai la macchina”, mi ha detto qualche giorno dopo il mio vicino di armadietto, senza che ci fossimo neppure mai presentati. “Mi daresti un passaggio per favore?”. “Certo”, ho detto subito per non apparire scortese. “Vado verso la zona dello stadio di calcio, se a te va bene”. “Si, più o meno”, ha detto lui; poi mi ha dato la mano spiegando di chiamarsi Carlo, ed io mi sono presentato con il nome fasullo che avevo fornito alla palestra. Ci siamo vestiti, abbiamo rifatto le nostre rispettive sacche, poi siamo usciti insieme. Lui ha detto che era in corso uno sciopero dei mezzi pubblici, ed io ho annuito.

Mi ha spiegato di lavorare in un grosso laboratorio di elettronica, e che se mi fermavo davanti ad un caffè mi avrebbe offerto qualcosa. Ho rifiutato per non dargli troppa familiarità, chiarendo che ero già in ritardo per il lavoro, e lui fortunatamente non mi ha chiesto neppure di che cosa mi occupassi. L'ho lasciato lungo una strada che mi ha indicato, ha detto scendendo in quale giorno sarebbe tornato alla palestra, ed io mentalmente ne ho annotato tutti i dettagli, proprio per evitare di incontrarlo ancora, almeno in tempi troppo ravvicinati.

Però in fondo mi è piaciuto quel ragazzo, ed alla fine devo anche dire che non mi ha posto neanche troppe domande imbarazzanti, e questo senz'altro l'ho apprezzato, anche se questa è una riflessione soltanto mia. Però devo impegnarmi comunque nel mostrare il maggiore distacco possibile, ed evitare in questo modo di allacciare delle amicizie: il mio lavoro ormai non lo permette, e per il momento non ho proprio altre possibilità. In seguito poi vedremo: qualcosa dovrà pur accadere prima o dopo, ed io sono certo che questa situazione presto si dovrà sbloccare.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Semplice niente

 

Nel parcheggio dello stadio di calcio, dove ogni notte svolgo il mio lavoro di sorvegliante notturno, è riapparso oggi lo stesso furgone per le riprese televisive che avevo già notato qualche tempo fa. Che io sappia non si dovrebbe tenere nei prossimi giorni nessuna partita che ne possa giustificare la presenza anticipata, così ho fatto un controllo: sono sceso dalla mia macchina ed ho osservato tutto molto attentamente. Non è di nuovissima fabbricazione, però le gomme sono buone, e come le altre volte sembra parcheggiato e chiuso con grande attenzione. Non ci sono cavi elettrici che lo collegano al corpo dello stadio, e niente fa pensare che all'interno ci siano davvero delle attrezzature televisive, a parte una vecchia parabola satellitare pieghevole piazzata in bella mostra sopra il cassone, e naturalmente la scritta sopra la fiancata: “RS television”.

Ho fatto la solita segnalazione inviando un messaggio tramite il cellulare al numero che mi è stato indicato, ma come le altre volte non è successo un bel niente. Non penso ci sia qualcosa di sospetto sotto a questa faccenda, comunque non riesco a spiegarmi il motivo per cui questo mezzo venga piazzato costantemente da queste parti durante giornate in cui non si svolgono manifestazioni sportive. In ogni caso non sono fatti miei, e non è certo il mio lavoro quello di andare oltre le segnalazioni che invio al numero che mi è stato fornito.

Piuttosto, sto continuando intensamente a pensare quale sia la maniera migliore per uscire di scena da questo grande buco nero in cui sono caduto. Resta il fatto che non sia tranquillo per nulla del lavoro che faccio, e che i miei capi sicuramente portino avanti dei traffici come minimo loschi sotto al mio naso. Anzi, il disturbo più grosso è proprio quello dato dal fatto che, molto probabilmente, io venga utilizzato, nella mia più completa inconsapevolezza, per tenere proprio sotto controllo una zona per certi versi importante per loro, probabilmente da annoverare nell’ambito della droga, e che non ci sia realmente nessun vero interesse in termini di sicurezza sociale per pagare una persona che tenga sott’occhio di notte un piazzale d’asfalto, come invece avevo pensato in un primo momento.

I soldi mi arrivano regolarmente sul conto bancario, e gli unici rapporti che continuo ad avere con quelle persone che peraltro non ho neppure mai visto, sono dati da un numero di telefono a cui spedisco i messaggi contenenti le segnalazioni che accerto; numero che una volta ogni qualche settimana viene sostituito da un altro, senza che ne comprenda il motivo. Per questo non posso permettermi di frequentare una donna, un amico, o un qualsiasi conoscente. Vorrei tanto parlarne a qualcuno della situazione in cui mi sono venuto a trovare, ma è facile pensare che se aprissi bocca su questo argomento, mi metterei in una situazione veramente spiacevole.

Così vado avanti, certe volte anche senza pensare davvero qualcosa, proprio per provare a digerire un po’ meglio tutta questa situazione imbrogliata. Resta il fatto che sono particolarmente sensibile ad ogni variazione di schema, proprio perché è forse da lì, da qualche novità, che può arrivarmi una possibile soluzione. Perciò continuo a guardare questo studio mobile televisivo; anche se finora non mi è servito assolutamente ad un semplice niente.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Soltanto musica

 

         Sto sdraiato sul letto. Non voglio spostarmi da qui. Sento una musica che giunge da qualche appartamento vicino, e mi sembra di essere in qualche stanza diversa dalla mia, a godermi questo fresco, e la musica, e anche il pomeriggio tranquillo. Sono pronto a portare avanti tutte le cose, certamente, e ad essere comunque quello che sono, di nuovo, come ogni giorno. Ed anche ogni notte, quando tutto ritorna all’inizio, all’origine, al principio di ogni mio male.

Mi tormenta l’immagine di qualcuno che tiene serrati e muove tutti i fili, ed io che obbedisco. Ma non c’è niente da fare, devo procedere, anche se non mi piace. La musica adesso è soltanto un ronzio in quattro quarti, ma per me è già sufficiente.

Mi rigiro su un fianco, forse mi piacerebbe essere da qualche altra parte, però va bene anche così. Con gli occhi spalancati mi proietto giù dalla finestra fino alla strada, fino ad osservare i clienti seduti ai tavolini all'aperto del bar che frequentavo soltanto fino a due o tre giorni fa. Adesso lo evito, ne va della mia sicurezza, però mi immagino un paio di belle ragazze che si scambiano le loro impressioni ridendo e controllando i messaggi sui loro cellulari.

Stanno sedute, tranquille, sorseggiano ogni tanto una birra, poi forse parlano anche di me, di come oramai non mi si veda più da queste parti; un tipo simpatico, magari un po’ troppo riservato, ma pronto a stare allo scherzo, preciso, uno di noi. Si guardano attorno, alla ricerca di novità, o di un viso noto tra tutti questi rompiscatole che continuano a guardarle bramosi.

Vorrei scendere da voi, tento di spiegare a mezze parole. Ma non mi è facile, non adesso, perlomeno. Loro comprendono, sorridono mentre guardano di nuovo i loro cellulari. Non c'è niente di male, è facile aspettare, basta star qui, senza porsi particolari domande. Però si avvicina qualcuno, dice qualcosa, loro lo guardano; si, dicono, possiamo venire con te, certamente, da qualche altra parte, va bene, non importa se lui non mi si è ancora fatto vedere, sarà per un'altra occasione, non c'è alcuna fretta, non c'era neppure un appuntamento preciso.

Si alzano, ridono, sono subito pronte. Urlo qualcosa dalla mia posizione, ma non serve a un bel niente, anche se potrei forse scendere di corsa e cercare di impedire che tutto si compia. Ma in fondo, che cosa mi importa, potrei dire: sono qui, con questa musica strana che risuona tra i muri, ed il bello è che mi allieta ascoltarla, è come se fosse una parte di me, qualcosa che mi induce a restare, a trattenermi ancora su questo giaciglio, almeno fino a quando è possibile.

Saluto tutti mentre li vedo andarsene via poco alla volta; ho voglia soltanto di starmene fermo e da solo, a seguire gli accordi di questo pezzo che a tratti sembra quasi un crescendo, ma poi ripiega e torna all'inizio, ogni volta senza risolversi in niente. Forse sono anch'io come una musica senza capo né coda, dico alle ragazze mentre continuano a ridere. Potrei rincorrervi, partecipare al vostro sentirvi lontano da tutto, ma ho scelto di stare in un diverso contesto: qualcosa che non richiede il pensiero, niente di ciò che siamo già abituati a considerare.

Perdo la testa dietro questa musica insolita, è se come nascesse direttamente dentro di me, dalle mie mani quasi appoggiate su una tastiera di pianoforte, a far correre le dita agili e rapide avanti ed indietro, e cullarmi con loro su queste corde metalliche martellate lievemente e con grazia, come sapessi perfettamente quanto il loro vibrare sia capace di modificare le cose, e lasciare che tutto si riesca a modellare sulle onde incrociate delle vibrazioni che escono. Ma è una musica quella che sento, soltanto una musica.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Tutto com’è

 

La mia macchina sta ferma a circa sessanta metri dal lampione più vicino. Da questa posizione poco illuminata vedo qualcosa che si muove su di un lato del parcheggio, a circa tre o quattrocento metri da dove io mi trovo. Prendo il mio binocolo, sono le quattro di notte, metto a fuoco la posizione che mi interessa, ma là dove mi pareva di aver quasi visto una persona a piedi, adesso sembra non ci sia più niente. Posso essermi sbagliato, o forse è solo passato da queste parti un vagabondo senza meta, che se n’è andato subito. Mantenendo lo sguardo sullo strumento ottico, lascio vagare i miei occhi lungo tutto il perimetro di questo spiazzo che ho di fronte, poi mi concentro di nuovo sullo studio mobile televisivo ancora posteggiato accanto all’edificio dello stadio. Da qualche giorno nutro il sospetto che là dentro si possano tenere, chissà poi da chi e a quale scopo, delle riunioni estremamente segrete, anche se la mia è soltanto un'ipotesi. In ogni caso quest’incontri non avvengono mai durante la notte, o almeno nel periodo temporale in cui io sorveglio questa zona; ma forse la mia è soltanto immaginazione.

Qualche macchina generalmente arriva da queste parti, ma ognuna si ferma giusto un attimo, o anche per niente, e poi rapidamente se ne va. Infine intravedo di nuovo una figura umana a piedi. Adesso la inquadro abbastanza bene, sembra quasi un tizio che sta facendo una normale passeggiata. Lo tengo d’occhio, la sua traiettoria pare costeggiare lo stadio, senza mantenere una direzione più precisa. Inizio a scrivere sul mio quaderno la segnalazione che devo eseguire, con orari, dettagli, e quant’altro riesco a registrare; poi scrivo tutto sinteticamente sul display del cellulare e alla fine spedisco un semplice messaggio. Da un paio di settimane ho iniziato a fotocopiare regolarmente il mio quaderno; lo faccio dando corso ad una semplice sensazione: è come se la mia attività si mostrasse tutta in queste pagine, in qualunque caso.

Mi pagano, certo, ma riesco a capire sempre meno per quale motivo io debba svolgere questo assurdo mestiere, e soprattutto a che cosa serva. Metto in moto la mia macchina lasciando i fari spenti, come sempre, poi mi muovo con lentezza restando all’interno delle zone meno illuminate del parcheggio. L’uomo sembra proprio andarsene per i fatti propri, ma ad un tratto devia verso lo studio mobile televisivo, tocca qualcosa sul cassone bianco, poi prosegue senza fermarsi, lungo la sua strada. Attendo qualche minuto, mi avvicino anche io al grosso furgone, scendo dalla mia auto ed osservo ogni dettaglio di quel mezzo. Non c’è niente, nulla minimamente da registrare. Mi sento quasi rammaricato di tutto ciò, ma come sempre risalgo a bordo della macchina e mi sposto da tutt’altra parte.

Non avviene niente, riporto come sempre sopra al mio quaderno, o almeno mi pare; e poi rifletto subito che forse dovrei trovare un posto ben sicuro per custodire tutto quello che scrivo da quando faccio il sorvegliante del parcheggio; un luogo non riconducibile direttamente a me, un nascondiglio insomma, e poi dire a qualcuno di cui posso fidarmi che là dentro, tra quelle pagine fitte, c’è tutto il succo di quello che in un anno è avvenuto o meno lungo questi paraggi, sempre nel caso potesse mai succedermi qualcosa di spiacevole. Forse in queste carte c’è anche qualcosa in più, anche se io in questo momento ancora non riesco a comprendere che cosa sia.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Incomprensibile capacità

 

         Ci sono certi giorni in cui mi sembra che tutti i miei spazi di manovra poco alla volta si stiano riducendo. Proseguo ad andare in palestra e fare allenamento fisico, tanto per occupare giusto quel paio d’ore all’interno di tutta la mia giornata sempre così vuota, ma in ogni caso lo faccio cambiando continuamente gli orari e le giornate della settimana, in modo da non incontrare troppo spesso tutte quelle persone che al contrario di me sono più abitudinarie. Giro molto in macchina, poi, percorrendo molte strade di questa città anche piuttosto distanti da casa mia, e fermandomi ogni tanto in qualche piccolo supermercato casuale, dove cerco di acquistare tutto quello che mi serve. Fingo di star bene insomma, anche se a fine giornata non mi sembra affatto vero.

         Mi piacerebbe soprattutto avere un incontro chiarificatore con coloro che mi fanno lavorare ogni notte per sorvegliare il parcheggio dello stadio, ma quando penso a questa eventualità mi viene subito da sorridere: non sarà mai possibile una cosa di questo genere immagino, e molto probabilmente dovrò rassegnarmi ad avere dei rapporti di lavoro solamente con un gruppo di fantasmi posti dietro ad un numero di telefono variabile, abilitato solo a spedire e a ricevere messaggi. Quando termino il mio turno di lavoro osservo l'alba, che sembra riesca certe volte come a far risorgere persino questo spiazzo desolato, e so di avere davanti a me tutta una giornata intera per mettere insieme idee, progetti, modifiche sostanziali ai miei comportamenti. Mi getto a capofitto nel nuovo giorno, e mi sembra quasi di poterlo dominare, e in qualche modo di esserne padrone.

Allora giro in lungo e in largo per le strade ancora fredde di tutta la città, mentre rifletto su come impiegare anche oggi tutto il tempo libero che mi viene regalato, nonostante di lì a poco il sonno mi colga in modo forte, tanto da farmi rientrare per forza nel mio appartamento a riposarmi. Vorrei sfuggire a questa morsa che mi stritola, ma non posso certo permettermi di arrivare a sera per l'orario di lavoro già stanco o poco riposato: devo essere lucido, cosciente, pronto a qualsiasi reazione possibile mi venga richiesta in questo ruolo che ho accettato.

Porto sempre con me questa pistola carica, naturalmente con la sicura inserita, ben nascosta nel piccolo sottofondo di una borsa dove tengo molte delle mie cose, ed in questo modo mi sento più sicuro. Un paio di volte sono anche andato in un luogo isolato di campagna, proprio per fare delle esercitazioni di tiro, e devo dire che ne sono rimasto abbastanza soddisfatto. Devo riconoscere che mi manca l’affetto di una compagna qualche volta, o anche di un amico, qualcuno a cui magari rivelare qualcosa di questa vita stupida che cerco di mandare avanti. Non riesco a concepire quasi più il senso delle mie giornate, salvo gettarmi dentro ad ogni attimo mi si presenti davanti, come qualcosa soltanto da affrontare e mai da comprendere o interpretare.

Vorrei anche andare a visitare qualche museo importante, prossimamente; oppure qualche mostra d’arte, di quelle che sembrano sempre sulla bocca di tutta la città, e cercare sulle tele di qualche maestro indiscusso quello che sembra mancarmi qualche volta. Sono sicuro sia là dentro il risultato finale di molti miei malesseri; proprio lì, l’inizio e la fine della mia giornata; dentro quelle stanze quasi sacre la spiegazione vera di quanto sta accadendo attorno a me. E forse, in mezzo a qualche sottigliezza stilistica che probabilmente non riesco neppure a comprendere, potrei trovarci la spiegazione di tutto quello che mi sta accadendo, magari elaborato in figurazioni estrose che neppure assomigliano alle mie vicende, ma che forse rivelano comunque al loro interno il mio stesso malessere, questa mia febbre, la mia stessa incapacità di comprensione delle cose.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Dichiarazione di solitudine

 

         Chissà cosa farà di particolare quest’oggi, pensa probabilmente di me la mia vicina di casa; lei è la stessa che con una apparente indifferenza qualche volta mi guarda uscire dal nostro comune palazzo condominiale, spiando dalla sua finestra in facciata, sia i miei comportamenti - studiando il mio passo, misurando la fretta, calibrando molti dei miei modi di fare - come sicuramente anche quelli di diverse altre persone che abitano in questo edificio. Andrà chissà dove, pensa senz’altro, anche durante questo grigio pomeriggio, svagandosi in lungo e in largo tanto per cercare di dimenticarsi del suo pesante lavoro notturno, che durante la tarda serata lo richiamerà come sempre al suo dovere di dipendente. Una disgrazia vera e propria quella di rendere i propri servigi proprio nelle ore in cui tutti possono rilassarsi e permettersi di riposare. Non era così che andavano le cose per lui qualche anno più addietro, ma allora tutto sembrava parecchio differente, e lo si poteva vedere in giro persino con qualche bella ragazza, o al bar qui vicino a fare lo spiritoso, mentre beveva qualcosa in compagnia di qualche altro sfaccendato come lui.

         Adesso è come calata, su questo nostro insolito coinquilino, la più completa solitudine, tanto che qualche volta mi sono quasi preoccupata del suo comportamento così terribilmente da individuo depresso: sempre vestito alla buona, quasi senza alcun riguardo, e con quel modo di guardarsi subito attorno appena arrivato in strada, quasi si aspettasse ogni volta di trovare qualcuno ad attenderlo con delle brutte intenzioni. Chissà cosa mai sarà avvenuto nella sua vita per portarlo a cambiare i propri modi di essere in questa maniera; forse soltanto alcune piccole cose: il bisogno cronico di quattrini, la necessità endemica di lavorare, la distanza evidente da chi possa davvero aiutarlo, dalle persone che contano insomma; difficoltà apparentemente momentanee, ma che con il tempo si sono per forza dimostrate del tutto permanenti, anche oltre qualsiasi previsione.

Lui, a giudicare dall’esterno, è senz’altro una brava persona, ne sono più che sicura, pensa ancora la vicina di casa mentre mi guarda andar via: cortese, rispettoso, quasi gentile quando ti incontra; però certe volte sono proprio le condizioni in cui ci si trova, senz’altro - le congiunture intorno alla tua persona, il momento particolarmente difficile, la disgrazia di non avere nessuno intorno a darti una mano - che ti fanno d’un tratto diventare quasi uno diverso, anche se proprio non vorresti cambiare. Sembra incredibile che si possa con facilità assecondare qualcosa che soltanto qualche settimana più addietro sembrava impensabile. Eppure è così, ne troviamo continue dimostrazioni. Perciò non mi meraviglio di niente, e attendo con i gomiti appoggiati sopra al mio davanzale, mentre osservo tutto ciò che si muove qui attorno, che tutto riprenda una sua propria logica, un senso che tutti noi molte volte sembra abbiamo smarrito.

Magari potrebbe persino essere facile - per lui intendo - riprendere una vita più sciolta, più semplice, come qualcosa che lo riporti ad essere un tipo socievole, tranquillo, senza tutti quei sotterfugi che sembra voler mettere avanti a qualunque altra cosa. Forse basterebbe trovasse un lavoro diverso, un’attività per cui non essere obbligato a trascorrere fuori casa ogni notte. Ma in fondo chi mai sono io per permettermi di pensare delle cose del genere: sono soltanto una vicina di casa, una donna che saluta ogni volta che incontra qualcuno lungo le scale, senza mai chiedere niente; una che apparentemente conosce proprio tutti in questi paraggi, che forse non sembra farsi mai del tutto i fatti propri, ma che alla fine si sente sola nella stessa maniera come si sentono tutti gli altri; magari soltanto perché nessuno la cerca, nessuno si preoccupa davvero per lei; e poi forse perché non c’è alcun individuo che possa dichiararsi davvero un suo buon amico.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Ogni decisione

 

         Per tutto il giorno ho pensato che questa sera sarà l’ultima volta che mi recherò al parcheggio dello stadio, a far la guardia non so più neppure io a che cosa. Devo per forza concentrarmi e convincermi di questo, perché soltanto immaginare che da domani sarà proprio finita, che una volta per tutte sarò sollevato da questo impegno divenuto insopportabile, è per me in questo momento un sollievo davvero enorme. Non lo so seriamente se riuscirò ad essere coerente con questo pensiero divenuto in poche ore martellante, in ogni caso soltanto continuare a riflettere ad una cosa di questo genere, alleggerisce in modo completo ed incredibile tutta la mia mente, e fin da quando ho iniziato a convincermi di una possibilità del genere, mi sono subito sentito davvero molto meglio. Perché in fondo so di essere ancora una persona, e come tale posso ritenermi in ogni momento del tutto libero di decidere che cosa sia meglio per me e per il mio futuro, e anche soltanto progettare delle scelte sulla base del mio solo sentire, mi fa provare delle sensazioni che fino a ieri credevo ormai dimenticate. Via tutte quelle abitudini ingombranti, via questo proseguire con dei comportamenti divenuti quasi automatici: occuparsi in questo esatto momento di qualcosa come fosse per una definitiva ultima volta, rimette in gioco tutte quante le possibilità, rende ogni aspetto del mio tempo molto più vivibile, ricco di alternative, più vero.

Perciò ho percorso anche stasera proprio le medesime strade di sempre, però guardando tutto ciò che mi è sfilato attorno con occhi talmente nuovi e differenti, da arrivare con una grande leggerezza fino in prossimità di questo maledetto stadio di calcio, un luogo che ormai conosco in ogni suo centimetro, col suo grande anello di tribune immerso come sempre nel sonno dell'inattività notturna. Il parcheggio intorno sgombro di veicoli, i radi lampioni svogliati ed esili, tutto esattamente come ogni notte, eppure, pur riconoscendo come familiare qualsiasi angolo di questo posto, soltanto per la mia volontà profonda di non ritornarci mai più da queste parti, di smetterla una volta per tutte con questo assurdo lavoro di guardiano notturno, mi ha subito portato verso un sentimento quasi di improvvisa ed inedita nostalgia per tutti questi luoghi.

Accadono a volte certe cose per cui nulla in seguito può davvero essere ancora come appariva prima, perciò diventa persino inutile immaginarsi di poter tornare completamente indietro e dimenticarsi quanto è successo in un dato momento. Resta uno strascico, una traccia profonda, un segno indelebile che sempre tornerà in mezzo ai pensieri o nei sogni fatti con grande leggerezza, quando si dorme profondamente con le briglie della propria fantasia libere e sciolte. Inutile cercare di scrollarsi di dosso in una volta sola tutto quanto; ci sarà ancora ciò che si è stratificato al nostro interno, torneranno a galla  prima o dopo tutte quelle sensazioni che ci siamo illusi di aver cancellato in una volta sola. E forse si chiameranno incubi, perché richiederanno quell'attenzione e quell'impegno che credevamo illusoriamente di aver lasciato dietro le nostre spalle.

Poi la notte è trascorsa come sempre, l’alba mi ha chiamato verso il termine del mio orario di lavoro, così ho rimesso in moto la mia auto, forse ho sbadigliato al nuovo giorno e sono tornato alle mie cose ordinarie, senza pensare niente, tranquillo, privo di qualsiasi ulteriore riflessione. Non devo prendere decisioni affrettate, mi sono detto soltanto una volta sulle scale del mio condominio: perché adesso non so più a cosa risolvermi, ma in ogni caso continuerò senz’altro a credere che ogni decisione può davvero essere presa, qualsiasi essa sia.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Cancellazione della memoria

 

Ho ricevuto un messaggio dai miei datori di lavoro, apparso improvvisamente sul cellulare proprio questa mattina. Dice: “abbiamo saputo del tuo vago desiderio di terminare con la guardiania notturna al parcheggio dello stadio. Perciò abbiamo deciso di sostituirti fin da stasera. Troverai come sempre la somma che devi avere sul tuo conto corrente”. Sono rimasto di sasso. Dopo po' ho provato ad inviare a quello stesso numero le mie rimostranze, ma già non era più attivo. Mi sono chiesto come potessero i miei capi aver soltanto immaginato queste mie limitatissime perplessità, e la mia appena adombrata ritrosia a lavorare negli ultimi giorni con il consueto impegno, ma non ho trovato alcuna risposta.

Ritrovarmi invece così, all'improvviso, libero di fare tutto quello che mi pare senza più rendere conto a nessuno, mi ha quasi procurato una vertigine, ma dopo che sono entrato in un bar per scolarmi una birra, mi sono reso conto che avevo ben poco da festeggiare. Con tutti i miei propositi veri e segreti di abbandonare una volta per tutte questo lavoro, con le difficoltà che sicuramente avrei avuto in qualsiasi caso nel farlo, la semplicità con cui sono stato rapidamente messo alla porta senza nemmeno la possibilità di difendermi, mi è parsa a dir poco eccessiva.

Così ho iniziato dopo poco a sentirmi decisamente abbattuto: scartato come un meccanismo difettoso all’interno di una qualsiasi fabbrica, negata la mia possibilità di esprimere personalmente una pur marginale opinione, impossibilitato ad avanzare almeno alcuni argomenti in difesa della mia integerrima attività, azzerato qualsiasi possibile tentativo di portare come mia positiva attestazione tutti quei mesi trascorsi lavorando sodo con impegno e con estremo profitto, considerata anche proprio l’assenza di qualsiasi critica, o anche di una minima opinione negativa, da parte dei miei datori di lavoro. Nulla, come non aver mai fatto niente di buono.

E poi ho cercato mentalmente qualcosa, in mezzo a tutto quello che ero riuscito a comprendere o a immaginare della struttura che mi aveva ingaggiato, per vedere se ci fosse qualche segreto da far giocare in qualche modo a mio favore, ma non ho trovato un bel niente, solo supposizioni mai comprovate da una pur semplice verità dimostrabile. Forse sotto ai miei occhi si è manifestato lo spaccio della droga ad alti livelli, forse qualche commercio ancora più losco, ma io non posso dire di aver intravisto almeno qualcosa al riguardo. Ho pensato comunque di fare un salto allo stadio nelle ore notturne, giusto per rendermi conto del personaggio che è già stato messo al mio posto, e magari parlarci, informarlo almeno della mia esperienza, dei miei dubbi, delle perplessità avute anche sugli strani movimenti da controllare in quel parcheggio.

Ma in seguito mi sono detto che proprio non ne valeva la pena, e che anzi in questa maniera avrei finito per rendermi del tutto ridicolo, quasi affezionato a qualcosa di talmente impalpabile da non risultare neppure troppo legittimo. Perciò ho cercato di dimenticarmi tutta questa esperienza, e per far questo non sono andato neppure a casa per riposarmi, continuando per tutto il giorno a girare a caso lungo ogni strada asfaltata di questa città. Infine mi sono gettato vestito sul letto, e per qualche ora mi sono scordato perfino il mio nome.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Perplessità

 

         Oggi sono uscito per una piccola passeggiata con il Signor Solo, il mio cucciolo trovato di notte nei dintorni dello stadio, che con grande pazienza adesso mi tiene compagnia durante il giorno. Ho incontrato per strada parecchie persone, diverse hanno anche guardato il cane con un sorriso, ma nessuno ha chiesto come io stessi, o in che modo abbia pensato di risolvere almeno qualcuno dei miei problemi. Ai giardini infine ho sganciato il guinzaglio e mi sono seduto sopra una panchina, ma il Signor Solo non si è allontanato molto, limitandosi ad annusare le piante e le aiuole intorno. Infine è arrivato un signore con il giornale, si è seduto con calma accanto a me, e dopo qualche minuto, girando una pagina, ha detto come fra sé che intorno allo stadio ci sono dei movimenti sospetti durante la notte. “Forse ci sarà bisogno di fare dei controlli più accurati”, ha subito aggiunto. Poi si è alzato e senza dire altro è andato via. 

Così ho messo di nuovo il guinzaglio al mio cane e sono subito passato dalla più vicina edicola, ma sul giornale di informazioni cittadine di quella notizia che riportava il signore della panchina non ho trovato traccia. Perciò ho pensato che fosse un messaggio occulto, e che quel tizio, inviato dalla stessa organizzazione che fino a ieri mi aveva fatto lavorare come guardiano di notte al parcheggio dello stadio, adesso mi stesse come proponendo di rientrare in pista. Sono tornato a casa senza più togliermi il medesimo pensiero dalla testa: tornare immediatamente già questa notte fino al mio parcheggio, e lì cercare di incontrare, magari anche parlando con lui come collega, con il guardiano che mi ha sostituito, per tentare di comprendere così quale aria tiri adesso da quelle parti; perciò mi sono preparato una cena leggera e frettolosa ed ho seguito con attenzione diversi notiziari televisivi, senza peraltro apprendere ulteriori informazioni che mi interessassero.

Poi ho sistemato la mia solita borsa da lavoro con dentro tutti gli utensili che mi sono serviti nel passato, proprio come se andassi a lavorare ancora come sorvegliante del parcheggio, e in questo modo sono uscito da casa alla medesima ora in cui per mesi e mesi sono uscito, fino a qualche giorno fa. Non ho neppure dimenticato la pistola carica, non tanto per immaginarmi di averne davvero bisogno, quanto per sentirmi più protetto nell’affrontare pienamente qualsiasi situazione si fosse presentata. Quindi con calma ho percorso con la mia macchina le strade di sempre, evitando di passare dal solito bar e di fermarmi in qualsiasi altro posto, e sono giunto in vista dello stadio con perfetta puntualità rispetto al mio vecchio orario di lavoro.

Mi sono fermato su un lato poco illuminato del parcheggio e come sempre ho spento i fari; poi con il binocolo ho sorvegliato tutto quello che era possibile vedere dell’enorme spiazzo asfaltato. Mi sono concentrato su di una macchina ferma, molto distante da me, ma prima di avvicinarmi lentamente per controllare se ci fosse qualcuno a bordo, ho fatto trascorrere parecchio tempo, in modo da incuriosire l’eventuale guardiano al suo posto di guida. Difatti ad un certo punto mi è parso che qualcosa si muovesse, e nel momento esatto in cui stavo per accendere il motore della mia auto per spostarmi in una posizione più vicina, sono stato affiancato da una grossa macchina che mi ha puntato contro i fari, impedendomi di vedere chi si trovava all'interno.

“Da domani puoi riprendere il lavoro”, mi è stato detto a voce alta; “però ti occuperai soltanto della zona sud, perché dell’altra se ne occuperà un diverso sorvegliante”. Poi la stessa macchina ha spento i fari, e in uno stridio di gomme se n’è andata, impedendomi quindi di rendermi conto di qualsiasi particolare. Così, dopo qualche minuto, ho ingranato la marcia e mi sono avvicinato al mio collega, ma lui mi ha fatto cenno bruscamente che non dovevo mai andargli vicino. Allora sono andato via, anche se tutta la faccenda mi ha lasciato enormemente perplesso.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Sotto completo controllo

 

         Sono senza parole. Mangio, mi riposo, esco da casa, lavoro, tutto senza usare un’unica parola di troppo con chi incontro durante questo percorso. Svolgo ogni cosa che devo, nella maniera come mi hanno chiesto di svolgerla, e mi sento però così atrofizzato durante la scansione delle ore del giorno e della notte, che ritengo di essermi ormai ammalato, anche se non saprei neppure specificare di che cosa. Non ho più alcun vero interesse, se non quello di rendermi conto che tutto procede in avanti, e che io sono oltremodo fedele a quanto mi sono prefisso di rispettare. Forse la giornata nel suo svolgimento non è più neppure la mia, ma non posso oramai farci niente.

         Mentre affronto con questo spirito praticamente ogni momento che passa, mi giunge un messaggio sul cellulare da parte dei miei datori di lavoro, che sono tornati attivi e raggiungibili almeno per le comunicazioni. Si dice a chiare lettere che verrò spostato dal mio abituale luogo di occupazione, e che per il momento comunque dovrei andare a sorvegliare ancora il parcheggio dello stadio, ma stavolta durante il giorno invece che durante la notte. Non pongo domande, quello che devo sapere mi è già stato detto, perciò non rispondo neppure, visto che è dimostrato come loro riescono a sapere tutto di me, perfino quello che penso.

Non cambia niente rifletto, anzi, non dover andare di notte in quel parcheggio deserto a controllare poco più del niente, mi apre scenari diversi, e dovrò senz'altro rendermi conto di cosa mi si chieda davvero, vista la situazione. Decido di fare con la mia macchina subito un salto intorno allo stadio, in modo tale da rendermi conto se il parcheggio a quest'ora, in assenza di partite di calcio, sia usato e da chi. Giunto sul posto vedo che un numero piuttosto rilevante di corriere gran turismo stazionano ammassate in buon ordine su un lato dello spiazzo asfaltato, così mando un messaggio ai miei capi per accertarmi se devo inviare loro ogni volta targa e modello di questi grossi mezzi che poi sono gli unici presenti. “Certo”, mi viene risposto; “dobbiamo avere notizia di chiunque si trovi da quelle parti; e possibilmente anche che cosa stia facendo”.

Annuisco, poi faccio un paio di giri attorno allo stadio ed infine torno con calma verso la mia abitazione; forse tra gli autisti dei pullman che stanno lì generalmente a pulire le grandi superfici vetrate, ad aspirare la povere, e ad accudire i loro mezzi con una certa solerzia, c'è anche qualcuno che nasconde chissà dove e come, nella carrozzeria, qualche panetto di droga, svolgendo così ruolo di corriere tra una città e quell'altra. Non lo so, penso, però qualcosa sotto ci sarà pure, per doverne controllare ogni spostamento. In qualche maniera comunque credo di aver fatto carriera visto che il lavoro svolto di giorno risulta più facile e meno noioso che durante la notte.

Entro in casa e mi siedo, poi accendo la televisione. In fondo che cosa mi importa di tutto questo. Il mio lavoro lo devo portare avanti nella maniera migliore, a che cosa serva poi è una cosa che in generale non mi riguarda. Tra le notizie locali dei telegiornali non c’è niente che prenda in considerazione lo stadio e nulla che riguardi il narcotraffico, e così, giusto per il momento, non ho niente di cui preoccuparmi, o almeno credo. Giro la ricezione su un programma che sta trasmettendo una pellicola cinematografica che ho già rivisto, perciò mi lascio prendere da quelle immagini mentre abbasso del tutto il volume. Tra poco posso uscire di nuovo da casa, comprarmi qualcosa da mangiare, ascoltare qualche chiacchiera insulsa dei bottegai, sorridere a chi mi sorride e contraccambiare il saluto a chi mi saluta. Una vita normale, insomma, quasi come quella di chiunque non si lasci prendere troppo dal proprio lavoro: tutto sotto controllo perciò, l’importante è ricordarsi come sempre di non porsi mai troppe domande.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Andare via da qui

 

         Mentre costeggio a bassa velocità con la mia macchina i grossi bestioni costituiti dalle corriere gran turismo belle lucide e brillanti sotto al sole, ordinatamente parcheggiate lungo il fianco dello stadio per file parallele, qualcuno mi chiama col mio nome. Mi fermo, aspetto che magari quella specie di urlo soffocato che ho avvertito si ripeta, proprio per essere sicuro di aver sentito bene quello che mi è parso, ma al contrario di quanto mi attendessi non avviene niente, neanche un movimento né un rumore insolito: nessuno sembra cercarmi, nessuno mi guarda, non c’è alcun seguito a quello che mi è sembrato di ascoltare. Ingrano la marcia e proseguo là davanti molto lentamente: chi mai può conoscere il mio nome, mi chiedo, visto peraltro che è anche la prima volta che vengo a svolgere durante il giorno questo lavoro di sorvegliante al parcheggio dello stadio.

Vado oltre e continua a non succedere proprio un bel niente, così fermo la mia auto non molto lontano dalla fila dei pullman parcheggiati, poi scendo e la chiudo a chiave, infine torno indietro a piedi, le mani nelle tasche e gli occhiali scuri sopra gli occhi. Un paio di autisti continuano con gli spazzoloni a pulire i loro mezzi, senza guardarmi, e da qualche parte si sente giungere una musica di moda, mentre un altro paio di persone parlano tra loro là nel mezzo. Non posso scoprirmi troppo, rifletto, perciò è meglio se mi lascio vedere giusto per qualche momento, ma senza rivolgere a nessuno la parola. Quelli al mio passaggio si voltano, analizzano in un attimo se io sia o meno una persona conosciuta, poi tornano con tranquillità alle loro cose.

Risalgo sulla mia vettura: sono sicuro che ci sono molte cose che mi sfuggono, ma fino a quando non riesco a comprendere le motivazioni che sembrano spingere tutto verso una stessa direzione, non potrò essere assolutamente in grado di comprendere quanto stia accadendo. Percorro tutto il parcheggio a velocità moderata ma come per andarmene, ne esco difatti girando dietro al grande edificio dello stadio, poi torno indietro dalla parte opposta, fermandomi nel punto più lontano da dove sono parcheggiate le corriere. Prendo il mio binocolo e cerco di vedere meglio se qualcuno per caso stia guardando dalla mia parte, ma non scorgo nessuno, così torno ad ingranare la marcia e a muovermi in mezzo all’asfalto.

Mi sono appuntato tutti i numeri di targa dei mezzi presenti da queste parti, perciò ne scrivo l’elenco in un messaggio del mio cellulare ed invio la comunicazione a chi di dovere. Dopo qualche minuto mi giunge una risposta: mi si chiede di controllare con attenzione un certo pullman, così mi apposto subito in maniera da poter vedere bene il bus incriminato. Per una buona mezz’ora non succede niente, ma ad un certo punto qualcuno avvia il motore, e la corriera indagata si sfila lentamente dalle altre e se ne va. Comunico immediatamente quanto va accadendo, ma non ricevo alcuna istruzione in merito. Potrei seguire il pullman penso, ma forse non è il caso che prenda delle iniziative senza essere autorizzato. Aspetto in questo modo ancora qualche secondo, infine gli sfilo dietro, almeno per vedere verso dove sia diretto.

Quando torno indietro so di aver lasciato la corriera dalle parti di piazza Libertà, mentre procedeva verso nord, e in questo modo, appena tornato indietro fino a giungere di nuovo nei dintorni dello stadio, comunico la mia nuova segnalazione. Ricevo a quel punto un messaggio lapidario. “non ha importanza”, mi si dice; “puoi terminare il tuo lavoro e andartene”. Getto ancora uno sguardo tutto attorno. Non vedo proprio niente di anomalo. Davvero penso, posso andar via.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Egoismo stretto

 

         La sera, rimanendo spesso a casa, sono quasi riuscito a recuperare uno spazio più mio, di cui in altri periodi credevo sbagliando di non averne proprio la necessità. Invece ascolto la radio, guardo qualcosa dalla finestra, rifletto sopra le mie cose, cercando qualche soluzione ai miei problemi. Insomma respiro una dimensione intima di cui credevo non avere bisogno. Poi sento suonare il campanello alla porta. Apro, ed è la mia vicina di appartamento che viene ad aggiornarmi su una recente riunione di condominio. Le chiedo di entrare, ma lei è restia, anche se dopo le mie insistenze accetta di farsi preparare un caffè, ed alla fine si siede al tavolo della stanza.

“Era un pezzo che non ti si vedeva in giro”, dice lei. Mi schernisco, non voglio dirle le mie cose, però avrei anche voglia di rivelare a qualcuno tutto quello che mi succede. “”Ho come cambiato lavoro”, faccio; “adesso sono un guardiano di giorno”. Ride, anche io rido. Le verso il caffè. “Ho bisogno di riprendere il ritmo però”, le dico. “Per adesso mi trovo un po’ come isolato”. Lei mi guarda, è giovane, abita ancora con i suoi, però ha capito benissimo il mio problema. “Potresti portarmi in giro, una sera di queste”, mi fa. “Certo”, dico io, “si potrebbe andare ad infilarci in qualche locale dove facilmente ci si dimentica dei propri guai”. “D’accordo”, fa lei, “basta che tu me lo dica il giorno avanti ed io mi faccio trovare pronta”.

Poi parliamo della vita sociale del nostro quartiere ed anche dei problemi del palazzo dove abitiamo, infine lei si alza, mi saluta, se ne va. Chissà cosa direbbero nel vicinato se solo sapessero che svolgo un mestiere così assurdo e di cui non conosco neppure io quasi niente, penso. In ogni caso, per quanto mi riguarda, ho smesso di preoccuparmi dei compiti che mi vengono assegnati, e di tutti i dubbi che mi prendono in merito a chi saranno mai i miei datori di lavoro, e soprattutto quali benefici tireranno fuori dai miei servigi.

Poi indosso una giacca ed esco, la sera è fresca, ma non si sta male in giro se non si hanno per la testa dei grossi problemi. Mi mangio una focaccia dentro a un bar, poi torno sulla strada con la mia lattina di birra in una mano. Farò un altro giro a piedi penso, e quando sarà l'ora giusta metterò in moto la mia macchina per tornare al parcheggio dello stadio, a controllare da lontano gli spostamenti del sorvegliante di notte che mi ha sostituito. Se solo avessi il suo numero di telefono potrei chiedergli un sacco di belle cose, ma credo proprio che i nostri cellulari siano sotto controllo da parte dei nostri datori di lavoro, e per qualche motivo che sia loro preciso desiderio far sentire ognuno di noi sempre in completa solitudine nel mestiere che porta avanti.

Così faccio un giro con la macchina, ma alla fine evito di farmi vedere davvero nei dintorni dello stadio. Cosa mi interessa penso, ci sono tante altre cose di cui occuparsi, quello del lavoro è proprio l'ultimo argomento da prendere sul serio. Scorro lungo i viali, armeggio con la radio, mi diverto a sorpassare le altre macchine, e alla fine senza neppure volerlo mi vado a ritrovare proprio dalle parti del campo da calcio, così entro nel parcheggio dello stadio a velocità abbastanza sostenuta, giusto per fare un giro e poi andarmene via. Però una macchina di fronte alla mia lampeggia con i fari, perciò rallento, mi guardo attorno, quindi mi fermo.

È la guardia di notte: scende dalla sua auto, mi osserva dal finestrino che apro, poi dice che è già stufo di questo lavoro, che a lui interessano altre cose, non può avvelenarsi la vita con certe stupidaggini. Lo ascolto, non so che cosa dirgli, forse ha ragione lui: affondare la curiosità dentro a questo fango denso non porta certo niente di buono. Tanto vale restare sugli aspetti personali, i propri interessi, l'egoismo stretto. Del resto non ci deve interessare proprio nulla.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Strane affinità

 

         Trascorro quasi tutto il giorno sul sedile della mia auto ferma, guardando attentamente quello che riesco a tenere sotto osservazione fuori dai vetri laterali e dal parabrezza. Scorrono ogni giorno quasi le medesime immagini, avanti e indietro rispetto alla mia postazione, ed io continuo comunque a registrare tutto ciò di rilevante che riesco a notare, senza mai stancarmi, o almeno facendo finta di non essere mai stufo di tutto quello che porto avanti. Forse tra gli autisti di tutti i bus che si riversano da queste parti in attesa di riprendere a guidare, qualcuno ha persino imparato a riconoscermi o a riconoscere la mia auto; se mi facessi più vicino a loro magari inizierebbero anche a salutarmi, a dirmi qualcosa, ad accennare qualche battuta di spirito tanto per passare il tempo. Invece io sono fedele al mio lavoro ed al mio anonimato, perciò li osservo da lontano, mentre loro continuano a pulire i vetri e a lucidare le carrozzerie.

Poi mi giunge un messaggio: si dice che il guardiano notturno di questo stesso parcheggio, ultimamente non riesca più a mandare avanti il suo lavoro, e che per questo da domani stesso io dovrò prendere il suo posto. Mi piacerebbe proprio sapere con quali motivazioni sia riuscito il mio collega a divincolarsi da questo mestiere, ma l'unica volta in cui gli ho parlato ero talmente sorpreso delle sue lamentele che ho dimenticato persino di chiedergli il suo numero di telefono. Mi pare strano comunque che i nostri comuni datori di lavoro lo lascino andare via senza fargliela pagare amaramente: forse lui si è messo in un grosso guaio penso, ma non ho la maniera per sapere quali conseguenze ci potranno essere. Digito la mia risposta affermativa sul cellulare, poi riprendo appieno il mio servizio con l’osservazione del piazzale.

Giunge un uomo a piedi durante il pomeriggio, si accosta alla mia macchina, mi fa cenno con le mani che vuole parlarmi, così io abbasso il finestrino e lui si presenta con il proprio nome di battesimo, spiegando con modi misteriosi che lui è proprio il guardiano appena messo a riposo. Lo lascio entrare dentro la mia auto al posto del passeggero, gli chiedo che cosa sia venuto a fare lì, e lui mi spiega che lo stanno cercando, appena hanno saputo che voleva smettere di lavorare. Immagino in qualche modo di essere anche io in pericolo in questo momento, ma non lascio trapelare dal mio comportamento alcuna perplessità. Gli chiedo cosa sia successo e cosa intenda fare, ed il mio collega inizia a dire che quando è stato ingaggiato immaginava proprio che quel lavoro fosse stato differente. Adesso ne è stufo, e quindi ha detto basta.

Lo lascio parlare, come se avessi una posizione quasi privilegiata rispetto alla sua, e di me si nutrisse una fiducia ben maggiore, tanto da tenere un comportamento da fratello grande rispetto a lui. Non gli lascio capire che i suoi dubbi e la sua demoralizzazione sono esattamente come le mie, ma lo guardo in modo amichevole, con lo sguardo di uno su cui si può fare affidamento. Ma dopo poco si interrompe, mi guarda negli occhi, dice: “ma a te sembra proprio non sia venuto a noia star qui ad annotare le stupidaggini che avvengono. Forse hai un segreto, che so, qualcosa per cui sentirti bene anche a non far niente, oppure sei a conoscenza magari delle vere ragioni per stare in un luogo di questo genere”. Sorrido, non devo dire nulla, ripeto mentalmente, così guardo avanti a me e spiego che probabilmente ho un’affinità quasi inspiegabile per certi compiti. “Sto bene qui”, gli fo; “probabilmente svolgere questo mestiere mi fa sentire a posto anche con gli altri”. Dopo un attimo lui volge lo sguardo, annuisce, tira la leva di apertura dello sportello. “D’accordo”, dice; “allora buon lavoro”, e in questo modo scende e se ne va.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Persona solare

 

         Il mio turno di lavoro negli ultimi giorni termina all'alba, ed a quell'ora percorro le strade di sempre per tornarmene a casa, fermandomi giusto per un caffè in qualche bar lungo la via. Quindi parcheggio la mia macchina e poi mi avvio a piedi verso il portone del mio palazzo, proprio quando mi accorgo, ad una distanza di alcune decine di metri, che c'è un uomo di spalle, fermo come ad aspettare qualcuno. Allargo la mia traiettoria e passo sul marciapiede di fronte, osservando con aria distratta il mio cellulare. Quello si volta ma senza guardarmi in modo diretto, io gli getto un'occhiata, e deduco che non lo conosco. Continuo a camminare lungo una traiettoria casuale, ed esco di scena al primo angolo di case che trovo. Rapidamente faccio il giro del caseggiato che ho accanto, poi mi riaffaccio sulla strada principale, quel tanto che serve per vedere la situazione.

L'uomo è ancora lì, indubbiamente mi sta aspettando per qualche motivo, ma a me non va di trovarmi di faccia ad una persona del genere. Sto fermo ben nascosto appoggiato ad un muro, poi prendo il telefono ed invio un messaggio alla mia vicina di casa, una ragazza che conosco, solita ad alzarsi presto al mattino per recarsi al lavoro. Le chiedo il favore di controllare mentre esce da casa una persona che sembra stazioni davanti al portone, e lei mi risponde che le va bene, con una scusa gli farà una domanda per capire le sue intenzioni. Dopo cinque minuti mi squilla il telefono, è lei, mi dice di rimanere in ascolto, poi scende gli ultimi gradini della scala condominiale e arriva in strada, la sento distintamente che dice: “sta cercando qualcuno?”. L'altro probabilmente si sente immediatamente scoperto, così dice di no, che è lì per caso, e che se ne sta andando. La ragazza aspetta qualche momento, poi mi dice riprendendo il telefono che è tutto a posto, e quel tizio se n'è proprio andato, adesso ho via libera.

Ringrazio, poi aspetto un attimo, esco dal mio nascondiglio ed entro rapidamente nel palazzo dove abito. Non c’è più nessuno in vista, posso salire fino al mio appartamento, anche se non mi sento tranquillo, perché è come se un campanello d’allarme stesse suonando direttamente nella mia testa. Faccio le scale, apro la porta, e subito la richiudo alle mie spalle. Anche la mia stessa casa non sembra più un luogo tranquillo, un posto dove poter dimenticare i guai ed il mio lavoro. Mi siedo in un angolo ed inizio a riflettere su come poter affrontare la situazione.

L’uomo sulla strada sicuramente è stato mandato dai miei capi per qualche motivo che non può essere una semplice comunicazione. Forse è un tizio che devo soltanto istruire sul lavoro di guardiano del parcheggio, in modo da permettergli fra qualche giorno di sostituirmi. Oppure qualcuno che vuole comprendere come vivo, come mando avanti le mie giornate. O ancora un individuo che ne sa sicuramente più di me sugli strani traffici intorno alla zona dello stadio, e mi vuol indicare i pericoli, mettere sull’avviso rispetto a qualcosa che deve accadere; oppure uno che mi vuole minacciare per qualche ragione che in questo momento non posso proprio sapere.

Non lo so, la faccenda mi sembra estremamente ingarbugliata, forse ho persino sbagliato ad evitare l’approccio diretto con quest’uomo enigmatico, probabilmente lo avrei dovuto affrontare con quanto aveva da dirmi, senza pararmi dietro a dei sotterfugi. Tornerà, penso adesso, sicuramente; se ci sono delle buone ragioni che lo hanno portato fin qui, si ripresenteranno precise anche domani, o il giorno seguente. Ed alla fine dovrà pur dire, una volta per tutte, quali siano i motivi che lo hanno fatto arrancare dietro le spalle di uno come me, sempre disponibile a tutto, aperto anche a qualsiasi critica, solare, come solo può esserlo uno che vive costretto generalmente a lavorare di notte.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Sparito dai radar

 

Adesso ho paura. Mi guardo attorno con un certo sospetto, esco da casa sempre osservando da tutte le parti se non ci sia qualcuno ad attendermi. Poi incrocio la mia vicina di casa, così la ringrazio dei suoi favori, ma lei sorride, dice che non è il caso neppure di parlarne. La invito a prendere un caffè al bar di fronte, lei accetta, così ci mettiamo seduti ad un tavolino. “Vorrei chiudere con questo mestiere”, le dico; “ma i miei capi non me lo permetteranno facilmente; così sono costretto a tirare avanti senza neppure sapere che cosa stia facendo. Adesso poi mi controllano, mandano delle persone a vedere come mi comporto, i miei orari, i miei spostamenti. Penso sappiano tutto di me, mi sento continuamente sotto ricatto, senza peraltro che mi abbiano mai chiesto di fare qualcosa fuori dal mio orario di lavoro. Svolgere di mestiere il guardiano di un parcheggio, non è proprio il massimo; però se non ci fosse questo continuo senso di oppressione tutto potrebbe andare anche meglio”.

“Ma se tu dicessi di sentirti male”, dice lei, “loro probabilmente non avrebbero niente da ridire, e forse in capo a qualche settimana le cose si sistemerebbero da sole”. “Forse”, dico io, “ma non è detto. Magari in quel caso potrebbero farmi cercare da qualche scagnozzo che probabilmente mi affronterebbe in malo modo, spingendomi con le maniere forti a spifferare tutte le mie vere intenzioni. Non lo so, è stato intavolato una specie di gioco in cui io sono la preda, o la vittima, in qualunque caso si girino le cose. E da qualche giorno mi pare di essere giunto proprio alla stretta finale”.

La ragazza mi guarda, valuta qualcosa, prende tempo: forse sta pensando che anche per lei non sia molto salutare farsi vedere troppo in mia compagnia. Dice che adesso deve rientrare, così ci alziamo, la saluto mentre esce dal locale, ed io mi accosto al bancone per farmi servire un’ultima birra prima di pagare le consumazioni. Nello specchio dietro al barista seguo con sguardo attento la ragazza che attraversa la strada, noto che viene fermata da un tizio, mi accorgo che lei dice qualcosa, mentre l’altro le pone qualche domanda, e mentre avviene tutto questo vedo distintamente che nessuno dei due si volta mai verso di me. Chiedo del bagno, sparisco là dentro dopo aver messo i soldi sul piano, poi spalanco la piccola finestra che dà sul retro e rapidamente me ne vado da lì.

Devo prendere il volo, non c’è più alcuna diversa possibilità. Giro attorno all’isolato, inforco gli occhiali scuri, mi metto in testa un leggero cappello impermeabile che porto sempre con me, infine torno davanti al mio palazzo. Adesso sembra non ci sia più nessuno, così a passo svelto entro dentro al portone e salgo velocemente le scale. Non incontro nessuno, perciò apro di fretta il mio appartamento e subito inizio a mettere insieme tutto quanto mi possa servire. Preparo un borsone pieno di roba, guardo da tutte le parti per vedere se possa mancarmi qualcosa, infine prendo la mia pistola con la matricola abrasa ed anche i proiettili, ed esco senza altro pensiero se non andarmene subito. Giungo alla mia macchina parcheggiata, sistemo la mia borsa sul sedile posteriore, poi metto in moto, anche se prima di ingranare la marcia mi ricordo di togliere la batteria al mio cellulare. Sparito: da adesso non ci sto più.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Sviluppi indefiniti

 

Per questa notte mi sono accovacciato dentro la mia macchina cercando di dormire in una coperta un po’ alla meglio. Ma è certo che non posso continuare così. Sono in fuga, non so neanche bene da cosa, ma in ogni caso devo cercare di mantenermi lucido per affrontare qualsiasi evenienza. Non ho più neppure acceso il mio cellulare, e non lo farò fintanto che non avrò trovato un luogo sicuro dove restare. Più tardi andrò a visitare i magazzini della stazione ferroviaria centrale, e forse da quelle parti troverò un posto, insieme agli altri barboni magari, dove piazzarmi almeno per qualche notte, anche se in seguito cercherò altre soluzioni.

I soldi che sono riuscito a racimolare in questo momento stanno tutti insieme nella mia tasca interna: devo vivere alla giornata, farmi vedere in giro il meno possibile e lasciar trascorrere in questo modo una settimana o anche due, senza minimamente ripassare dal mio appartamento. A quel punto probabilmente i miei capi si saranno stufati di farmi cercare, perciò poco per volta riuscirò forse a riprendere una vita che sia più normale. Comunque non mi importa di dover affrontare un periodo di sacrificio, in fondo a me basta uscire da un incubo in cui non so neppure io come abbia fatto a ritrovarmi.

Mi guardo attorno mentre apro una busta con dentro qualcosa da mangiare che ho preso precedentemente in una rosticceria lungo la strada. Mi sono seduto su una panchina riparata di questo giardino, e penso proprio che qui non verrà proprio a cercarmi nessuno. Due signore passano chiacchierando e mi osservano per qualche momento. Il mio problema sostanziale è quello di calarmi in un personaggio che non deve essere assolutamente riconosciuto, per questo sarà necessario farmi allungare la barba e mettermi vestiti il più possibile anonimi e mal ridotti, in modo da farmi scambiare per uno sbandato o qualcosa del genere.

Cammino lentamente lungo una strada con il cappello ben calato sugli occhi, e so perfettamente dove ho lasciato parcheggiata la mia automobile, così come appare evidente che in questo periodo non la dovrò praticamente più usare. Accendo per un attimo il mio cellulare: nessuna chiamata, nessun messaggio, quasi più inquietante di qualsiasi minaccia verbale. Poi torno a spengerlo. Mi infilo nella stazione ferroviaria, e mi perdo tra le centinaia di persone che vanno e che vengono. Nessuno mi nota, nessuno mi chiede niente; così scorro tutti gli edifici arrivando a percorrere con calma un vialetto che costeggia i binari, e giungendo così nella zona dove si aprono i depositi, nascosti dietro ad una serie di vagoni fermi e senza motrice.

Trovo un tizio che mi spiega come non sia ancora l’ora per farmi vedere da quelle parti; io annuisco per lasciarlo parlare, e quello forse mi prende per uno scarso di comprensione, perché con parole allentate mi dice che devo attendere dopo il tramonto, mostrandomi l’orologio. Borbotto qualcosa senza spostarmi, e quando quello va via, apro uno sportello con una pinza, e mi ficco subito in uno scompartimento. Ho la mia borsa con me, così me la metto sotto la testa e mi sdraio. Cosa mi importa di tutto il resto penso: sono qui senza che nessuno sappia niente di me, mi riposo senza problemi e lascio che tutto vada per il suo verso, come se a me non riguardasse. Dopo vedremo: c’è tutto il tempo adesso per capire come si svilupperanno le cose.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Questione di tempo

 

         Se inizio a pensarci mi sembra impossibile essermi ritrovato così, in questa situazione praticamente inspiegabile, costretto a nascondermi, senza che riesca neppure a definire che cosa mai potrà avvenire nei prossimi giorni. Continuo a dormire nei vagoni ferroviari fermi sui binari morti nei pressi della stazione, insieme alla fedele borsa sotto la testa, ed il piccolo rotolo di soldi dentro una tasca, forte di potermi difendere all’occorrenza con la mia pistola sempre a portata di mano. Non ho propriamente paura, però a qualcuno potrebbe anche venire in mente di farmi uno scherzo, magari solo per vedere come reagisco. La cosa migliore per me sarebbe quella di farmi un amico, dormire con lui in due sedili vicini del treno, e darsi forza così l’uno all’altro. Ma non posso fidarmi di nessuno: ho troppo da perdere, devo stare da solo, non posso assolutamente fare altrimenti.

Durante la giornata mi muovo in mezzo alla gente con il bavero della giacca sempre ben sollevato, e poi mi vado a nascondere generalmente in qualche giardinetto. Ho trovato una mensa per i poveri che non ti chiede niente in cambio di un piatto caldo: né un documento, e neppure il tuo nome. Però ci vado soltanto qualche volta, e ad orari piuttosto sballati, per evitare che qualcuno possa in seguito ricordarsi di me. Non è difficile sparire in una città: si tratta di escogitare qualche accorgimento e comportarsi in maniera che nessuno nutra dei sospetti sui tuoi modi di fare: naturalezza ci vuole, nient'altro. La realtà quotidiana ci chiede sempre più di assumere un ruolo, e quando ci nascondiamo dietro qualche piccola fandonia, dobbiamo riuscire ad essere credibili, ad ogni costo, perché in questo modo si mette in gioco tutta la nostra personalità.

Mi muovo lentamente, riflettendo che un giorno di questi tutto si sistemerà, anche se non so perfettamente come. Voglio pensare che le cose andranno a posto quasi per un indole propria, senza bisogno di rincorrere dei risultati o delle conseguenze precise. Provo invidia per chi sembra non abbia niente da perdere, e lascia che tutto scorra per conto proprio, senza alcun impegno, come nell'indifferente attesa di un insperato colpo di fortuna. Non saluto nessuno, neppure quelli delle associazioni caritatevoli che vengono ogni tanto a farti delle domande: li evito, non ho bisogno di loro, so badare a me stesso, e soprattutto sono soltanto un attore che manda avanti una recita.

Stasera mi è venuta voglia di passare almeno per un attimo da casa mia, perciò sono andato fin nella stradina dove ho parcheggiato la macchina, l’ho messa in moto, e poi mi sono avviato verso la mia abitazione. Ho atteso a lungo che non ci fosse nessuno in zona, quindi ho preso le chiavi e senza soffermarmi neppure un momento sono entrato dentro al portone del solito palazzo. Senza accendere la luce condominiale delle scale, ho salito i gradini in perfetto silenzio, e davanti al portoncino ho aspettato in ascolto di qualsiasi rumore. Quindi sono entrato, ed ho acceso soltanto una lampada bassa. Tutto sembrava al suo posto, nella stessa maniera come avevo lasciato le cose diversi giorni più indietro; e stavo quasi per andarmene via, quando ho notato a terra una matita, una semplice matita che, purtroppo per me, non doveva essere lì. Qualcuno è entrato nel mio appartamento, ho pensato, e probabilmente lo ha fatto in maniera estremamente professionale, frugando tra le mie cose ma lasciando tutto ordinato, così come stava, a parte quella matita.

Poi sono uscito, senza minimamente soffermarmi, tornando di fretta lungo la strada e salendo di nuovo sulla mia macchina parcheggiata ad una certa distanza. Va tutto bene, mi sono subito detto, non devo preoccuparmi di nulla: le cose torneranno prima o dopo ad essere normali; perché in fondo è soltanto una questione di tempo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Parentesi chiusa

 

         Ho fatto di nuovo un giro guidando la mia macchina. Ormai sono trascorsi già parecchi giorni, e credo proprio che nessuno mi stia cercando ancora. Non perché i miei capi, o chi per loro, non sappiano perfettamente dove possa essere andato a nascondermi, quanto perché a questo punto il loro interesse per me con ogni probabilità si è andato quasi esaurendo. Perciò decido, col favore del buio della serata, ma senza dimenticarmi comunque la mia fedele pistola carica dentro alla tasca della giacca, di farmi ancora un giro fino al parcheggio dello stadio, dove ho svolto il mio lavoro di sorvegliante notturno per più di un anno ininterrottamente,.

In apparenza sembra non ci sia proprio nessuno in questi paraggi per sostituirmi, così vago per un po’ con i fari spenti lungo tutto il perimetro intorno al grande edificio del campo di calcio, senza  peraltro registrare nulla di insolito. I medesimi fiochi e radi lampioni, il solito deserto di asfalto lasciato a sé, gli stessi stenti alberelli di sempre, isolati l'uno dall'altro, tristi, quanto possono esserlo delle piante affogate in un'aiuola di terra larga un metro. Mi fermo, attendo una mezz'ora, infine eccola, un'auto che si muove lentamente a fari spenti. La seguo con lo sguardo mentre resto immobile, e quella compie un giro ampio, lontano da dove mi trovo in questo momento, poi torna a fermarsi, come dovesse definire un piano.

Accendo i fanali della mia macchina, forse per un improvviso scatto di orgoglio, e riaccendo anche il mio cellulare per completare l’opera, nell’attesa che l’attuale guardiano di notte della zona si decida a venire ancora di più verso si me. Eccolo difatti, ma lentamente, come in attesa di un ulteriore segnale. Resto immobile, i miei strumenti percettori sono tutti tesi, resta solo da vedere cosa mai possa succedere. La macchina con gli abbaglianti accesi si ferma ad una ventina o trenta metri dal mio posto, poi anche il tempo sembra arrestarsi, come in un duello.

Apro la portiera fingendo quasi di voler scendere, ma resto seduto dove sono; l’altro davanti a me fa quasi immediatamente la stessa cosa. Potrebbero essere più d’uno dentro quella macchina rifletto, poi penso che il risultato comunque non cambierebbe di una virgola. Ognuno di noi attende la prima mossa dell’altro, come se fosse quella a decidere l’eventuale risultato di tutta la faccenda. Prendo tempo, in fondo non ho fretta, le cose possono mostrarsi differenti se soltanto si lascia scorrere via il nostro primo impulso. Poi vedo muoversi qualcosa, una figura scende dal suo mezzo e va a stagliarsi in mezzo ai fari, come a voler apparire solo una sagoma sfuggente.

Scendo a mia volta, e faccio la medesima cosa, mostrando che non ho paura, che posso affrontare a viso aperto una sciocchezza di quel genere. Mi aspetto che qualcuno parli, ma il silenzio resta in aria per qualche minuto. Provo un brivido improvviso, non so bene per che cosa, comunque estraggo dalla tasca la pistola. Aspetto ancora un attimo, l’altro non può essersi reso conto di un bel niente, visto che i fari occludono quasi ogni percezione. Poi prendo la mira e sparo in un fanale della macchina che ho di fronte, così da spengerlo in una fumata. La persona che mi sta guardando ha come uno scatto nervoso, probabilmente non si aspettava una mossa di quel genere, così risale sulla propria auto retrocedendo velocemente, fino quasi a sparire. Sorrido, ho dato un’immagine di me che difficilmente verrà dimenticata. Risalgo sulla mia vettura, ingrano la marcia e me ne vado, mentre spengo tutte le luci; giungono messaggi sul mio cellulare, ma io abbasso il finestrino e lo getto con indifferenza in un’aiuola. Buonanotte penso: si chiude una parentesi.

 

Bruno Magnolfi 

 


Esercizi di sopravvivenza

 

 

 

 

 

 

         Capitolo 1

 

         Il cuore batte via veloce. Una strana agitazione interna continua ad animarmi. Sono ore che perdura la mia veglia; e riflettendo sopra le cose più diverse m’ingegno ad inventare dei propositi per la giornata di domani che ancora deve sorgere. Tra due ore sarà l'alba e qualcosa inizierà di nuovo: si risveglierà al completo la ragione, l'assennatezza delle cose, dei compiti ai quali tenere fede. Dovrò far finta ancora d’essere logico, posato, ed i minimi fatterelli quotidiani, senza senso apparente, riprenderanno ad assorbirmi qualsiasi profonda volontà. Perché mai questo continuo rovesciarsi di verità diverse, opposte tra di loro?  Un senso misto di rabbia e di commiserazione per me stesso fa da spalla ad una sottile angoscia, che come il moto ondoso di un mare poco calmo lascia infrangere le proprie lingue d'acqua sulla mia battigia, ritirandosi immediatamente, in fretta e senza strascichi, lasciandomi la speranza che tutto possa cambiare, migliorare.

         Il mio letto sembra ruvido, durissimo. Continuo a scomporre il cuscino in ogni forma, ma il mio corpo non riposa in alcuna posizione. I pensieri insistono a sfilare sempre più veloci, uno o due per volta, scam­biandosi tra loro particolari che neppure io comprendo, strane conclusioni spesso assurde. Dover mescolare dentro di me il ritmo affannoso dei nevrotici e la coscienza del fatto che quando chiudo gli occhi tutto assume connotazioni diversissime, è qualcosa di troppo forte per sperare in un minimo di tranquillità. Cercare di dormire a queste condizio­ni è come tentare di unire assieme due liquidi con peso specifico diverso, che non si riesce a mescolare, ed al massimo contrastano tra loro se continuo ad agitarli, e per pochi attimi riescono anche a confondersi tra loro, ma poi inesorabilmente si ridispongono divisi.

         Vado avanti con la mente ad indaga­re sopra ad un argomento che non trovo, che serva a rilassarmi, di cui possa già sapere in precedenza i risvolti più minuti, e si presenti come un percorso a me già noto, da ripercorrere con calma, seguendo la giusta direzione, come il serpeggiare di un fiume lento e sonnacchioso, ma riservandomi comunque la possibilità di usare la direzione assolutamente contraria se ne avessi voglia. Ritengo che questa sia l’unica possibilità per riuscire nel mi intento: trovare pacatezza, ripercorrere una strada che conosco, pensare dei pensieri noti e familiari.

         Ciò che adesso mi appare uniformato e semplice, fino a non molto tempo fa assumeva attorno a me posizioni di massimo contorcimento; spesso tutto quanto era piegato e ripiegato, siste­mato a strati, avvitato ben stretto attorno ad altre cose; ed appariva quasi impossibile riuscire a decifrare quella grande eteroge­neità di segni che talvolta mi si presentavano davanti. Rimanevo stupefatto nel vedere come a volte si compivano vicende che non avrei mai saputo pilotare, e mi meravigliavo spesso dei miei scarsi, piccoli successi.  Riuscire ad entrare in un ufficio per chiedere delucidazioni su qualcosa, un’informazione spicciola ad un qualsiasi impiegato, era già un’operazione che mi costava fatica, dolore, concentrazione enorme. Valutavo prima la maggior parte dei particolari marginali che potevano scaturire dalle mie richieste, e rinunciavo poi con facilità incredibile, al solo accorgermi che un qualsiasi particolare non era stato da me già considerato in qualche modo.

         Certe volte però mi facevo avanti con un pizzico in più di decisione, e scoprivo così che i miei problemi, tante volte, finivano per essere risolti con una semplicità per me insperata. Ciò era più che sufficien­te a procurarmi una carica aggiuntiva durante tutta la giornata. Ed allora con grande buonumore me ne andavo tranquillo a sistemare i miei piccoli problemi quotidiani, e non mi ricordavo più per nulla delle fa­tiche che provavo normalmente, così guidato dal mio benessere temporaneo, che poi mi sospingeva ad essere sorridente con chiunque, mettendo in mostra qualche spontanea gentilezza, ad allungare una battuta o un saluto più cordiale ai negozianti dai quali mi recavo, e così via; fino ad incontrare, casualmente, certe persone estremamente interessanti, con le quali, in virtù di quel mio spirito, facevo facilmente conoscenza, arricchendo la mia vita di un sorriso o di un saluto che questi volentieri mi accordavano.

         Cosi una volta conobbi una signora con un'espressione del viso estremamente incoraggiante, due occhi furbi e intelligenti che senz'altro mi attiravano, e con la quale andai avanti a parlare, partendo da chissà quale pretesto, attirandola sulle mie argomentazioni con grandi espressioni sorridenti. Salutandola accettai senz’altro un suo gentile invito per andare a prendere un caffè nella sua casa, il giorno dopo, durante il pomeriggio, giusto per continuare con più calma quei discorsi. Suo marito mi colpì profondamente per l'enorme cortesia, ed una volta seduti con comodità attorno al bas­so tavolo da fumo, io continuai ad esporre i miei argomenti sciocchi, poco significativi, andando avanti incoraggiato soltanto dal sorriso frequente della donna, e dai lenti cenni consenzienti del marito, quasi la mia fosse un’importante conferenza sui particolari di maggiore attualità.

         Andai a casa da loro ancora alcune volte, e in qualche ca­so, improvvisando una visita del tutto casuale, motivato con lo scusa che stavo passeggiando in quella zona, ebbi l'occasione di sedermi ancora in quel comodo salotto, gustandomi il piacevole sorriso della donna, senza la presenza del marito. I miei argomenti col tempo si erano sfrangiati, le mie pose s’erano fatte un po' più naturali, ma con la donna non riuscii comunque, per pura mancanza di coraggio, ad andar oltre uno sciocco baciamano, rubato all'improvviso allo scarso senso del ridicolo che non seppi fare a meno di mostrare. Probabilmente arrossii imbarazzandomi da solo, ed accettai di buon grado una sua battuta spiritosa interpretata in apparenza senza impegno, ma che in realtà era ben studiata, lasciandomi salvare dall’orrenda situazione, ma concedendo a tutto quanto una luce anche più ambigua e maggior­mente imbarazzante. Probabilmente avrei potuto replicare in qualche modo, impugnare la situazione e sfoderare un minimo di personalità, ma io ero concentrato sulla mia brutta figura, ed il fatto di doverle essere riconoscente per il gentile salvataggio, mi faceva sopraggiungere solo una gran voglia di fuggire, un senso di premura, quasi di fretta, insomma il desiderio di sortire dalla casa e dalla situazione.

         Incontrai ancora una volta la signora, casualmente, ­girando avanti e indietro sopra un marciapiede, quasi a cercare nei miei passi la decisione per un acquisto un po' diffi­cile, un po' particolare. Da molto non l'avevo più rivista, e questo fatto, assommato alla stupida figura che avevo voluto ritagliarmi la volta precedente, mi dettero il coraggio per parlarle con franchezza rinnovata, accennando senza indugi al baciamano e cavalcando con generosità la tigre di una facile autocritica. Già che c'ero, orgoglioso delle mie parole improntate di sincerità, mi lasciai andare a confessarle la mia grande ammirazione per lei, con ciò spiegando il mio comportamento, ed arrivai infine a farle intendere una profondità di sentimenti da parte mia verso la sua persona.

         Lei fu fredda, distaccata, e si scusò ammettendo che alcune preoccupazioni continuavano a intristirla. Infine si decise a confidarmi, dietro mia insistenza, che quel marito sempre calmo, dalla estrema cortesia, in realtà era innamorato di un'amante, e non da poco tempo. Ogni sera usciva di casa per andare chissà dove, e lei, oramai, aveva ben capito cosa in verità si nascondeva dietro la scusa degli amici e del caffè.

         Rimasi confusamente sbalordito, ma cercai di fare in modo che niente trasparisse di ciò che passava per la mia mente. Cercai un po' assurdamente di spiegare come a volte possano accadere fatti che in nessun caso ci possono convincere, o dei quali non sappiamo spiegare le ragioni da cui vengono animati, ma rimasi poi in silenzio a metà frase, imbrogliandomi del tutto.  All'improvviso, nel mezzo del silenzio, scoppiai a ridere in maniera decisamente fuori logica, come se fossi indifferente ad un atteggiamento assurdo e un po' provocatorio. Poi mi ripresi cercando di scusare quel contegno, e mi offrii di accompagnarla verso casa, iniziando a parlare d’altre cose e dimenticandomi completamente degli acquisti.

         Si affrontò, camminando senza fretta, qualche argomento futile, e si parlò di cose facili, nei confronti delle quali non sussistevano problemi a dilungarsi o a riportare le opinioni più svariate. Si studiò di trovare tra di noi un qualsiasi accordo, anche se vago, su ciò che si diceva, scuotendo la testa a turno, in segno di affermazione o di diniego; poi, scoperto in ambedue un disprezzo appassionato per la classe impiegatizia, ci scagliammo senza remore a dirne peste e corna, riempiendo così qualsiasi silenzio imbarazzante. Finalmente arrivammo a casa sua, ed io entrai giusto un momento, seguendo la foga improvvisa della donna che adesso pareva preoccupata solo di chiudere la porta alle sue spalle.

         Ad un tratto, senza aver detto niente d'altro, ci trovammo faccia a faccia, con in mano gli argomenti ormai esauriti, e all'improvviso io capii che tutto quanto stava per prendere una piega un po' particolare, e che sopra al viso della donna era apparsa un'espressione nuova, aperta, quasi appassionata. Sicuramente tutto era lasciato alla mia capacità di decisione, ma oramai era chiaro che in quell' attimo qualcosa stava succedendo, e forse, almeno in parte, era previsto; adesso che ripenso a tutto quanto ne sono certo: volendolo avrei anche potuto possederla.  Allora, sfoderando un gusto innato per le cose che nascono d'istinto, presi con lentezza la sua mano, e portatala alla bocca ne baciai a lungo e voluttuosamente il liscio dorso, girando poi velocemente sui miei tacchi e uscendo dalla casa senza più voltarmi.

         Tornato sulla strada dovetti constatare che tutta la vicenda aveva assunto degli aspetti decisamente troppo irrazionali, e di quella strana conclusione, nata dentro me tra le cose più spontanee, non mi sentivo per nulla soddisfatto. Quasi sarei tornato indietro a tentare di cambiare il segno di quel mio comportamento, e forse avrei cercato di spiegare, e con parole senz'altro balbettanti, che tutto questo nasceva da un equivoco, e che i miei sentimenti, troppo profondi e troppo onesti, non mi lasciavano spazi di manovra. Ma oramai non avrei salvato nulla e tutto quanto sarebbe anche potuto peggiorare, uscendo dai binari del rispetto e della correttezza. Così andai avanti a pensare alle mie cose e a sbrigare le faccende che più mi interessavano, e quando, parecchio tempo dopo, incontrai per caso la signora - ricordo che era ferma e stava osservando la vetrina di un negozio - il mio sguardo un po' perplesso incrociò per un momento il suo, dopo di che ambedue contemporaneamente, ci volgemmo altrove, evitando saluti imbarazzanti.

         In ogni caso, in quel periodo, ricor­do ancora di essermi notevolmente compiaciuto con me stesso per quella piccola esperienza elettrizzante; ogni vicenda, in quel periodo, anche la più superficiale, assumeva per me un interesse molto grande e continuavo a valutarmi fortunato per il fatto di poter ascrivere tra le mie piccole cose alcuni fatti nati e vissuti soltanto grazie alla mia profonda volontà, al mio gusto incontrastabile di ritrovarmi in situazioni veramente inedite.

 

 

 

 

 

 

         Capitolo 2

 

 

Adesso mia moglie sembra tranquilla mentre dorme. La sua posizione dentro al letto appare leggermente tormentata, così messa di sbieco e con la testa reclinata su una spalla; ma il tratto chiaro che spiega la sua difficoltà nel prendere sonno è dato dall’assurda posizione delle mani e delle braccia, l'uno avvinghiato attorno al petto quasi a proteggere il costato da un pericolo, e l'altro abbandonato disordinatamente al suo destino, sporgendo leggermente anche dal bordo del groviglio di coperte e di lenzuola. Il suo respiro è un po' affannato e forse anche poco regolare, d'altronde come sempre, e sotto alle sue palpebre gli occhi continuano a ruotare rincorrendo chissà quali sogni. Guardando il suo volto nella misera penombra mi diverto ad immaginarla con un viso leggermente differente, con le soprac­ciglia grandi e più marcate, gli occhi stretti, il naso più affilato; un’espressione più seria e più decisa mi sembra si disegni per incanto sul suo volto, e le sue labbra diventano una piccola fes­sura esercitata alle riunioni di partito, oppure abituata a esporre inequivocabili opinioni nei vertici stressanti tra la dirigenza sindacale e un oscuro quanto testardo padronato.

La vedo in piedi, decisa, con un filo di ironia sprezzante nella voce, mentre arringa con parole dure e ricercate una fila di sciocchi manichini con cravatta. I suoi appunti, giusto alcuni fogli strappati da un'agenda, con sopra scritte le parole chiave su cui ruota tutto il suo intervento, si sono sparsi a poco a poco sopra a tutto il tormentato tavolo, mostrando con chiarezza ai suoi ascoltatori il grande senso di disordine che regna nel suo mondo. Ma quando un uomo, all'improvviso, sbottando su una frase forse un po’ avventata, cerca in malo modo di interromperla, il suo profondo senso del rispetto si fa avanti per pretendere a sua volta una considerazione più elevata, e redarguisce con fermezza la persona poco deferente usando una sem­plice battuta di sarcasmo spigoloso. L'uomo, confuso e un po' umiliato, abbassa lo sguardo sui suoi fogli, e la riunione riprende con più calma e maggiore riflessione. In un modo o nell'altro anche l'assemblea più tardi si conclude, e lei, sbuffando un po’ per la testardaggine incontrata, accetta senz'altro, immediatamente sorridendo, di andare a prendersi un caffè assieme ad un collega, nel bar dove vanno quasi sempre, proprio di fronte alla sala di riunioni.

Loro due si conoscono da molto, e volentieri scherzano sui temi che devono affrontare in quel tipo di as­semblee. L'uomo ha una figlia ancora piccola della quale tiene una foto in mezzo alla sua agenda, e mia moglie, che sicuramente gli invidia la bambina che è così bella e piena di salute, gli chiede, ancora un'altra volta, di mostrarle quella foto. In un giardino molto ben curato, sopra all'erba verde tagliata corta, appare un gruppo di ragazzi di diverse età che si divertono tranquilli, e avanti a tutti quanti, in una posa estremamente naturale, si è fermata una bambina con i capelli biondi, lunghi, la più piccola tra tutti quelli che si riescono a vedere. Rimane ferma sopra l'erba, ad osservare chi la sta fotografando, e forse pensa a quanto stupida appaia una persona che si metta quella scatola nera sopra al viso, concentrandosi in una posizione immobile, per ottenere chissà quale risultato.

Mia moglie è sterile, non potrà mai avere dei figli in modo naturale, neanche se fosse un po' più giovane. Tutto questo un tempo sembrava una sciocchezza, una cosa senza senso a cui non fare neanche troppo caso, e lentamente, invece, giorno dopo giorno, è diventato per lei un grande peso da portare sulle spalle, quasi una specie di condanna della quale non si può dimenticare mai, in nessun caso. Io spesso le dico che non ci può essere interesse, al di là di un gusto un po' egoistico, nel mettere al mondo dei bambini che si ritrovino affogati dentro a una realtà contraddittoria e triste, dove l'individuo è sopraffatto dai problemi, ma lei risponde sempre che non è del tutto vero che il dato più emergente riguardante la società contemporanea sia l'angoscia per un presente ed un futuro totalmente compromessi. Secondo lei una coppia di genitori che vivono sereni una vita regolata, traspone la serenità raggiunta anche alla prole.

Io la lascio dire, tanto so bene quanto non sia convinta neanche lei di queste cose; e poi mi sprofondo a ripensare alla tristezza sorda che si prova nell'aver coscienza di una perduta possibilità, e in questo caso credo di comprendere appieno i sentimenti di mia moglie.  "Non farei di certo figli se potessi farne", a volte dice, "ma sapere di non esserne capace, che dentro di me l'organismo non è adatto a questo scopo, è una cosa che mi uccide". Così riguarda ancora quella foto piegando la testa per provare le angolazioni di osservazione più diverse, gustandosi a fondo quella dolce figurina.

Il suo collega poi, un giorno, le dice che qualcosa, nella sua vita privata, sta degenerando sempre più. Con la sua moglie Elena non fa che litigare, ed ogni piccola sciocchezza sembra destinata a diventare scintilla che fa esplodere le loro frustrazioni. Lui le rimprovera qualcosa, ed Elena lo affronta scaraventandogli nel viso la colpa di una vita un po' monotona, intristita in una quotidianità che non concede grandi diversivi. La bambina avverte le loro voci un po' alterate, e a volte piange, pur non capendo nulla di ciò che sta accadendo. Allora, per amor di quella figlia, loro due non si dicono più niente, e mentre la mamma consola la bambina assicurandola che tutto va benissimo, a lui non resta altro da fare che uscire dalla casa ed andarsene a far visita a un amico.

L'amico è un tipo serio, molto calmo, che si sente profondamente realizzato svolgendo il suo lavoro di collaudatore di impianti per l'industria. Abita da solo in una casa piccola ma estremamente razionale, non ha mai avuto grandi problemi con le donne e si diverte giocando a tennis nei momenti liberi con le persone che frequenta. Ha un rapporto piuttosto equilibrato con una strana ragazza più giovane di lui, molto silenziosa ed alta di statura, con dei capelli sciolti e molto lunghi attorno a un viso leggermente ombroso, più insolito che bello. Il collega di mia moglie ed il collaudatore, essendo grandi amici da parecchi anni, si di­vertono tremendamente a ironizzare su tutte le persone che co­noscono.  E così ridono di gusto alle spalle di un amico comune che si arrampica sui vetri per cercare la sua strada, o si divertono a immaginare in situazioni disparate una ragazza che conoscevano e frequentavano anni addietro, rea di avere avuto una simpatia particolare prima per l'uno, poi per l'altro amico.

Mia moglie però soffre a pensare alla situazione che si è creata nella famiglia del collega, ed ogni volta che ne parlano lei si offre volentieri per tenere la bambina; per una sera, un pomeriggio, o anche un intero fine settimana. Lei sa che il suo collega di lavoro ha bisogno di sfogarsi per tutta la tensione che accumula con Elena, ma quando ascolta le ragioni che lui le espone, non può fare a meno di pensare alla bambina e al suo subire quel rapporto malandato in modo inerte, stratificando dentro a se impalpabili paure ed ansie non risolte, che in seguito potranno essere problemi veri e propri. Io, quando poi lei me ne parla, cerco sempre di annuire ascoltando interessato i suoi pareri in merito a tutta la vi­cenda, ma non riesco in nessun modo a proporre una qualsiasi opinione che differisca da quella di mia moglie, perché so bene, conoscendola, che se lasciassi andare una frase non adatta, o dimostrassi un disaccordo, lei smetterebbe di parlarmene del tutto.

Già qualche volta insomma, questa bambina benedetta, che porta il nome di Lucia, ha fatto il suo timido e timoroso ingresso in casa nostra.  Di solito siamo sempre rimasti nel soggiorno a parlare con lei delle sue piccole esperienze o a farla giocare immedesimandoci in bambini pure noi; ma durante una splendida mattina di domenica abbiano pensato che sarebbe stato giusto portarla anche un po' fuori. Così, mentre mia moglie preparava il pranzo, io e Lucia, tenendoci per mano, siamo andati a passeggiare in un giardino aperto al pubblico, poco lontano dalla casa.  Abbiamo giocato un po' con l'altalena e con lo scivolo, e poi, accaldati e stanchi, ci siamo seduti sopra a una panchina, a parlare di qualcosa.

Non avendo sottomano altri argomenti ho iniziato a raccontarle di quando anch'io ero piccolo, e per vedere sorridere il suo viso ho ricercato dentro alla memoria qualche fatto che apparisse divertente. Ma all'improvviso tutta la mia vita mi è sembrata triste, priva di particolari rallegranti, e la mia infanzia segnata soprattutto da un gran senso di grigiore e di miseria.  Monotone giornate trascorse senza gusto; sciocchi giochi in un cortile dietro casa sempre fangoso   tanto che dovevo ripulire accuratamente le suole delle scarpe prima di rientrare; questo tutto ciò che mi tornava a mente.

Vagavo da solo, con gli occhioni grandi e i golfini che crescendo mi andavano più stretti, tra le lenzuola stese ad asciugare e la fila di stanzini per la legna. In mezzo all'erba, proprio in fondo al largo spiazzo tra le case, trovavo una lumaca, o un pezzo di vetro colorato, e con quei salvacondotti entravo dentro a un mondo dove la fantasia era come l'aria, e passavo i pomeriggi senza bisogno quasi di nient'altro.

Poi un giorno, nella casa a fianco a quella nostra, venne ad abitare una bambina all’incirca della stessa età che avevo io. Un pomeriggio la vidi passeggiare lentamente nei pressi degli stanzini per la legna con le mani abbandonate lungo i fianchi ed un'aria decisamente da annoiata. Aveva gli occhi bassi, quasi pensierosi, e i capelli raccolti in due treccine laterali. Io rimanevo vicino ai lavatoi, ed era già un bel po' di tempo che continuavo a divertirmi con la terra e con una paletta di metallo; forse mi aveva già notato, probabilmente cercava di fare conoscenza avvicinandosi alla zona dove mi trovavo io; in ogni caso non potevo di certo perderla di vista un solo attimo, e quindi continuavo ad osservarla, ma di nascosto, con gli angoli degli occhi leggermente protetto da un cespuglio. Quando fu vicina a sufficienza mi alzai in piedi, all'improvviso, e mettendo a dura prova la mia profonda timidezza le chiesi se era vero che il suo nome fosse­ quello di Francesca.

In pochi giorni divenimmo grandi amici, tutti i pomeriggi li trascorrevamo nel cortile almanaccando con le poche cose che erano disponibili e discutendo tra di noi ogni argomento che ci passava per la testa. Spesso, dalle pozze d'acqua  che si formavano ogni volta che pioveva, uscivano fuori alcuni rospi, con i quali mi ero sempre divertito un mondo; ma siccome a lei facevano schifo, ed ogni volta che ce n'era uno fuggiva spaventata, da quel giorno dovetti addirittura evitare di considerarli. Poi ci ammalammo tutt’e due di scarlattina, e per quel paio di settimane che rimasi a letto non feci altro che pensare a lei fantasticando.

Quando poi arrivò l'estate, un giorno che Francesca tardava a scendere in cortile, andai a cercarla in casa sua.  Dalla cucina la voce di sua madre aveva detto che potevo entrare, ed io mi ero fatto avanti, fin sulla soglia della stanza. Poi ero rimasto fermo, sbalordito. Francesca, completamente nuda, e con le punte dei lunghi capelli gocciolanti, rimaneva in piedi, sorridendomi; i suoi piedi erano immersi dentro a una tinozza d'acqua saponata e sua madre continuava imperturbabile a strofinarla cori la spugna. Dietro invito della signora, che andava avanti con indifferenza a sbrigare quel suo compito, mi sedetti sulla sedia che mi rimaneva più vicina e con pazienza attesi che avessero finito. Da quel giorno il mio comportamento nei confronti di Francesca fu più superficiale, quasi distaccato; ed anche la sua assurda paura per i rospi mi divenne più noiosa, più antipatica. Cambiò casa dopo al­cuni anni, ma non ricordo se questo fatto veramente mi riuscì sgradito.

 

 

 

 

 

 

         Capitolo 3

 

 

Rimango dentro al letto nella mia solita, consueta posizione, e ancora non dormo, non ci riesco proprio, e in più continuo spesso a muovermi per cercare di lenire i miei inevitabili piccoli dolori al collo ed alla schiena, provando contemporaneamente un gran bisogno di sentirmi più rilassato, di dispormi con il corpo più diritto e forse con gli arti più stesi, abbandonati. Poi mi concentro su una mano, quella destra. Lasciandola perfettamente immobile non sono più neppure sicuro che ci sia; nessuna sensazione arriva dalle dita, dal palmo, neanche dal polso.  Eppure so che c’è, che c'è sempre stata, ed ha sempre risposto prontamente ai miei comandi. Ma questa non è una perfetta garanzia della presenza di tutta quella mano, come non lo  è neppure delle altre parti del mio corpo.

Durante la notte potrei essere stato sezionato da un abilissimo chirurgo; ed un’anestesia perfetta avrebbe poi fatto la sua parte. Asportando tutto il corpo a piccole porzioni potrebbe non esserne rimasto proprio niente, neanche il più piccolo peduncolo di cartilagine sanguinolenta. All’interno della forma calda che ho impresso nel letto, sotto alle coperte, in mezzo alle lenzuola bianche che divido con mia moglie, di me forse non esiste già più niente, e tutto è stato già asportato assieme alla stupida materialità delle cose che non servono. Solo il pensiero mi è rimasto; solo le assurde sensazioni pilotate da un cervello ridottosi a delle dimensioni irrilevanti.

Posso soltanto radunare tra di loro quei pensieri, quelle idee rimaste ultime a simboleggiare la persona, e dedicarli con generosità ad una qualsiasi scelta, una qualunque delle possibilità che attorno a me continuano ad esistere. Mia moglie di nuovo si è scostata dalla posizione assunta dentro al letto.  E' rimasta un attimo in sospeso, come per cercare qualche cosa in mezzo ai suoi pensieri, e poi, trattenendo per un attimo il resp­iro, si è disposta su di un fianco, piegando l'avambraccio fino ad appoggiare la sua mano sul cuscino. L'ho sentita respirare forte due tre volte, quasi sbuffando, poi ha ripreso il suo ritmo quasi regolare. Per un po' ho continuato ad osservare i suoi capelli folti, la sua nuca;  poi mi sono reso conto che con l’oscurità di cui è piena la stanza non riesco neppure a formare nei miei occhi delle immagini precise, e allora ho assunto ancora  la mia posizione precedente, supino, con le braccia stese lungo i fianchi, e così ho chiuso gli occhi.

Ho ripensato agli anni in cui l’ho conosciuta, al nostro incontro, alle condizioni strane del caso quando si muove in forma autonoma. Un piccolo particolare del tutto insignificante diventa all’improvviso l’elemento portante del futuro, e tutto riesce a edificarsi e a prendere forma grazie ad esso, grazie ad una piccola sciocchezza alla quale normalmente non dovremmo neppure dare peso, nessuna particolare importanza. Fu un’amica di mia moglie il tramite della nostra conoscenza, e all’inizio ci piaceva molto uscire assieme tutt’e tre. Eravamo ragazzi e spesso si agiva d’impulso, senza misurare troppo i nostri gesti, così una sera, rimasto casualmente solo con una delle due, le dissi che mi piaceva molto e che se accettavo di uscire in tre era solo perché fino ad allora non avevo avuto il coraggio per spiegare che mi interessava solo lei. Non era troppo vero, però a quell’epoca mi piaceva spingere le cose sempre un po’ più avanti, meravigliare con delle dichiarazioni inaspettate. Così la baciai e tutto quanto mi sembrò abbastanza naturale. Invece tra loro, il giorno dopo, successe il finimondo, e il risultato fu che nessuna delle due ebbe più voglia di vedermi.

Fu solo un bel po’ di tempo dopo che io e mia moglie ci incontrammo casualmente in una strada. Lei fu distaccata ma cortese, ed io mi sentivo leggermente imbarazzato con una gran voglia di chiederle perdono per non aver capito niente. Parlammo camminando, poi io le dissi che le avrei telefonato e ci saremmo visti con più calma. Ci mettemmo assieme nel giro di pochi giorni, e Laura, la sua amica, svanì nel nulla, forse risucchiata da altri amici o altri interessi.

Poi, a distanza di tanti anni e tante cose cambiate così profondamente, eccola qua. La incontro in un ufficio e stentiamo a riconoscerci. “Laura”, le dico, “ti trovo bene; anzi, in perfetta forma”, cercando di essere cortese fino al limite dell’affettazione. Così sorridiamo con sincerità di qualche stupidaggine, si dice qualche frase adatta al momento ed alla situazione e si sfiora appena e con dovizia la faccenda di mia moglie e di quella volta, scoprendo, in mezzo ai discorsi, di lavorare nello stesso ambiente, anche se in luoghi differenti, e di avere in comune alcune conoscenze con cui separatamente siamo in contatto. Così parliamo ancora senza troppa timidezza di tutte queste cose salutandoci cordialmente alla fine solo con la promessa di risentirsi per forza, un giorno o l’altro, cosa questa che poi avviene regolarmente e senza troppo sforzo visto che ambedue sappiamo dove cercarci con una semplice telefonata.

Due o tre volte, come previsto, ci risentiamo quindi per telefono, ed ogni volta riappare tra di noi la stessa simpatia che provavamo da ragazzi. Ovviamente cerchiamo ambedue una maniera delicata per fissare un appuntamento e vederci con calma, e tutto questo avviene senza neppure troppe difficoltà né insistenze. A mia moglie dico che mi vedo con amici, così esco e passo a prenderla per andare a cena  in un posto da decidere. Tutto fila come da copione, Laura ha curato il trucco e l’abbigliamento, e a me gira tutto molto bene, tanto che con lei riesco addirittura ad essere simpatico.

Al tavolo per due in un angolo appartato del locale si parla di tutto quello che ci passa per la testa, fino a sorridere di mia moglie immaginando la sua faccia nel vederci assieme. Ci prendiamo per mano e ci guardiamo in fondo agli occhi. Certo, questo è il momento che aspettavamo ed al quale probabilmente ci eravamo preparati. Laura, dopo un momento denso di significato, gioca la carta dell’ingenua colta di sorpresa, come se tutto avvenisse troppo frettolosamente, e a cui risulta quasi impossibile lasciarsi andare anche se forse ne avrebbe il desiderio, e così cerca di convincermi a frenare quello slancio, ma con un argomentare troppo debole. Io, per evitare prese di posizione troppo decise, mi metto a parlare di qualcosa d’altro, ma le nostre mani rimangono intrecciate e urge il bisogno di definire, almeno in parte, ciò che è impossibile ignorare. Così, con grande sforzo di romanticheria, confermo il mio giudizio su di lei dato già tanti anni addietro, lei abbassa lo sguardo come a mostrare apprezzamento, forse in una misura che neppure immaginavo, sia per le mie parole di adesso, sia per quelle di una volta.

Si va avanti con la cena usando in maniera simpatica, e con buona dose di ironia, modi da amanti consumati, ed io, giusto per ridere, mi lascio andare ad un commento da geloso su un cliente elegantissimo che si è seduto al tavolo vicino. Poi si esce dal locale, e nel tratto di strada che ci separa dalla macchina, ci abbracciamo a lungo e con passione. La bacio sulla bocca, sul collo, senza preoccuparmi affatto che ci sia gente o meno, e ci abbandoniamo per alcuni istanti come rapiti da una necessità profonda, ad occhi chiusi, legati in una stretta che supera di un balzo qualsiasi indecisione. Si sorride, siamo contenti, su di giri, non tentiamo neanche di proporre commenti o riflessioni, si cammina abbracciati e si sale sulla macchina ridendo. Così facciamo un salto in un locale dove si beve e si ascolta della musica, ma ci tratteniamo poco, giusto il tempo per affiatarsi meglio tra di noi. Continuiamo a sorriderci come ubriachi della nostra intesa, di questo meraviglioso ritrovarci, poi ci proiettiamo a casa sua.

Comincia ad essere tardi ed io mi vedo costretto a stringere un po’ i tempi. Guardo ripetutamente l’orologio stando bene attento che Laura non se ne accorga, poi saliamo le scale e chiudiamo la porta dietro alle nostre spalle. L’amore scivola immediato e naturale, quasi liberatorio, come se il nostro rapporto fosse già stratificato, denso di una profonda conoscenza tra noi due e di un’intesa che non concede spazio ad alcuna sbavatura. Laura mi piace, e mi sento felice di ritrovarmi complice con lei di questa profonda irrazionalità meravigliosa, che forse è un po’ vigliacca, ma che è anche senz’altro superiore alla nostra debole coscienza. Vado via, ed una volta fuori in strada vado a casa dove mia moglie è già nel nostro letto e dorme. Dovrò far passare un po’ di tempo, penso, poi forse io e Laura potremo rivederci.

 

 

 

 

 

         Capitolo 4

 

 

                                                      Mia moglie è malata.  Per questo mi preoccupo. A volte la guardo e mi sembra anche impossibile che entro di lei alberghi qualcosa di così tremendo. Lo specialista fece un discorso complicato quella volta; chiamò a raccolta un sacco di parole, e dopo aver guardato le analisi di rito sentenziò alla fine il suo verdetto. Si spegne, si spegnerà; ma chissà quando, disse. Certo avrà biso­gno del suo aiuto, e di una comprensione fuori del comune. Si, tut­to il sostegno che potrà concederle sarà del tutto necessario. Non mi resi molto conto. Ero quasi contento sugli inizi; forse per sdrammatizzare, un gioco nuovo quello di contare goccioline e di spezzare meticolosamente le pastiglie. Poi, dopo diverse settimane quella tristezza che emanava dalla sua persona e che riuscivo a contenere coi miei modi effervescenti, di rinnovato spirito, scivolò all'improvviso verso me. Un giorno uscii di casa, e camminando iniziai a piangere.

                                                      Ma si fa l'abitudine a qualsiasi cosa, e pian piano cominciai a convivere con quell'idea del male, del maligno, della malattia sempre vicina, sempre presente, con la quale si dividono le scelte, si fanno tutti i conti, e per la quale si inizia a poco a poco a vivere, tanto che alla fine è difficile accettare anche l'idea di un organismo senza guasti, che non abbia bisogno in qualche modo di rimedi. Le hanno concesso l’invalidità permanente, così non ha più bisogno di certificati e può starsene a casa con maggiore tranquillità. A volte ripenso alle sue giornate giù al negozio, tutto il giorno in piedi ad incartare pane e dolci, un’espressione sorridente per tutti ed il suo infaticabile trotterellare dietro al banco di vendita, con la preoccupazione di incassare i soldi, di far bene il resto e tutto quanto.

                            Mia moglie deve prendere dei pasti controllati ed accurati, e spesso li preparo io, riservandomi per me soltanto della frutta o un po' di riso al burro.  A volte addirittura mi dimentico del tutto di mangiare, e mi limito in quei casi a sedermi accanto a lei e ad osservare la sua masticazione lenta e continuata. Spesso, quando mangia, le parlo di qualcosa per distrar­re la sua attenzione dai suoi guai. Mi diverto ad iniziare dei discorsi senza ben sapere cosa devo dire; ma mentre le prime parole mi sono già uscite dalla bocca, ecco che subito sopraggiungono le altre. La prima frase di solito è un po' ambigua, ma poi, stentatamente, trova in qualche modo una giusta conclusione, ed allora sento nella testa che l'argomento si delinea, prende forma, e a me non resta che seguirlo, che andare dietro al tema che viene fuori.

                            In questo modo a volte mi ritrovo a inerpicarmi in dei discorsi veramente strani, a difendere talvolta posizioni insolite; e scopro di impegnarmi, con una passione per me rara, nel rigirare attorno a delle frasi che all'improvviso, forse perché costruite casualmente, mi appaiono importanti, degne veramente di essere discusse. Mia moglie spesso obbietta qualche  cosa, ed io allora mi affondò ancor di più nell'argomento. Poi, all'improvviso, mi rendo sempre conto di aver parlato troppo, di averla anche annoiata coi miei discorsi inconcludenti, e allora smetto, e torno a riguardarla, ad osservare quei suoi piccoli comportamenti.  E trovo che il suo sguardo, così pieno zeppo di significati, vale molto più di quelle mie parole, e sento allora di esser sciocco, di aver contato troppo sulle mie capacità intrattenitrici.

                            E poi rifletto: cosa possono mai essere quegli stupidi discorsi, quelle frasi, quelle chiacchiere, nei confronti di quel semplice battito di ciglia?; nei confronti della luce che passa per un attimo su quelli occhi con centrati, densi di pensieri, di significati, di immaginazioni e senti­menti?  Niente; solo voglia di fermare all'istante tutto quanto, e di celare quell'immagine ottenuta tra; le cose che si possono scomporre, suddividere, capire. Mia moglie mi osserva di nascosto a volte, proprio mentre cerco di riflettere, di aggiornarmi mentalmente su qualche elemento più sfuggente; e allora mi viene di sorridere. Trovo appagante il fatto che si vedano all'esterno quei miei sforzi, ma quel compor­tamento rimette tutto quanto in discussione, e i presupposti mi sfuggono di nuovo, i punti cardine divengono fasulli, criticabili.

                            Ci sono delle volte che mi ritrovo disarmato. Per esempio mi succede di avviare dei piccoli ragionamenti collegati tra di loro, i quali prendono vita e si dipanano in virtù della spiegazione razionale di un qualsiasi fatto il quale mi colpisca, o che per qualche ragione mi interessa.  Ebbene sono sicuro già all’inizio di scoprire che alla fine, dopo aver seguito a lungo e con impegno quei miei fili, mi sono dimenticato della partenza, e tutta la mia impegnata costruzione si trova ad essere insensata, priva di uno scopo.  Allora, tanto per trovare una ragione, scarico la colpa alla mia solita stanchezza; e spesso esco di casa, per distrarmi, per passeggiare in lungo e in largo per le strade, specialmente la sera, quando i negozi sono chiusi.

                            Ci sono delle volte che vado in un  caffè che si apre in una piazza poco frequentata. Prima guardo dai vetri con disinvoltura se per caso non ci sia troppo affollamento, e dopo, se mi sembra che tutto vada bene, entro dentro e mi dirigo verso il banco. Dico buonasera al chiacchierone sempre impegnato a lavare tazze e cucchiaini, e poi, con calma, gli chiedo gentilmente di servirmi qualche cosa.  Intanto, un po' distrattamente, mi guardo in giro con la finta di mostrare l'evenienza di un saluto, e poi, sorseggiando dal bicchiere, mi sposto lentamente verso un lato del caffè, dove si apre una grande sala di biliardi.  E lì, ostentando un po' di indifferenza, mi siedo da una parte, e mi diverto ad osservare il gioco e i giocatori.

                            Sul panno verde le sfere si accostano e si sfuggono, ed io guardo interessato le loro traiettorie, i rimbalzi sulle sponde il sempre nuovo ridisporsi tra di loro. Tra i giocatori, che si conoscono tutti, ce n’è sempre uno o due che attraggono la mia attenzione più degli altri.  Dopo poche volte ho imparato a riconoscere i più abitudinari, e così seguo interessato il loro comportarsi.  Quegli strani soprannomi sembrano studiati a tavolino tanto si attagliano ai caratteri, a quei visi, alle persone; e i loro modi di giocare, di tenere nelle mani quelle stecche, di guardare con occhi scrutatori e scrupolosi le pos­sibilità per piazzare un nuovo tiro, appaiono tutti perfettamente collegati alle loro più diverse personalità.

                            Ognuno ha un suo contegno nel prepararsi ad un tiro, e trova in più proprie parole per dare quel ragguaglio tecnico o per notare quel particolare. Ciascuno ha ritagliato un ruolo nella sala da biliardo, ed ogni sera ne ridiviene interprete  Ogni battuta, ogni risata fa da tessera per costruire quel mosaico. Spesso, quando qualcuno non si fa vedere da parecchio tempo, si sente un filo di imbarazzo tra quegli altri; ma poi le cose riprendono con regolarità, ed il gioco sfila avanti spianan­do le incertezze.  C'è sempre, poi, qualcuno che deve ridere di tutto, ed allora più di tutti è preso in giro, ed ogni volta che apre bocca per riprendere fiducia peggiora di qualcosa la sua sorte. Tanto che alla fine ci si immerge in quella sorte, ne è convinto, ed è felice solamente interpretando quella parte.

                            Sicuramente, fuori da quel bar, nessuno tra coloro che adesso si divertono ironizzando sul suo gioco un po' sconclusionato, si sognerebbe di ripetere lo stesso atteggiamento.  Ma questo non significa che davanti a quel biliardo non si debba fare in quel tal modo. Un giorno quell'uomo potrebbe anche meravigliare tutti quanti, ed io immagino che all’improvviso dica a tutti con voce decisa:  "Assurdo! Assolutamente strano! Ho sognato all'improvviso di avere anch'io una dignità; anzi, di avere solo quella; di esserne costi­tuito, insomma, semplicemente!". Per questo penso è preso in giro quel qualcuno di turno; perché probabilmente è l’unico a cui potrebbe passare per la testa una cosa di quel genere, e va isolato preventivamente, prima che succeda. Si parlerebbe d'altro, comunque, senza dubbio.  E tutto quanto verrebbe ricomposto.

                            E poi c'è "il professore".  Un uomo alto, distinto; gioca il ruolo del sapiente. I suoi modi appaiono compiti, senza sbalzi. Non può permettersi neanche un filo d’emozione su un tiro più difficile.  Ed allora non lo tenta. Segue un ritmo di buon gioco un po' monotono, ed è ingolfato nel suo ruolo, dimo­strando di astenersi da battute troppo ardite o fuori luogo. Non commenta ad alta voce; tiene però un contegno tale per cui gli altri commentano per lui; tende a darsi un tono da regista, direttore di espressioni e di comportamenti, ed il suo è un atteggiamento attento ed accurato, fin nei minimi dettagli. Da lui sfuma del fa­scino; è temuto, ma nessuno simpatizza coi suoi modi, con il suo comportamento.  Nel gioco non primeggia, eppure fa pesare la presenza di se stesso sul biliardo.

                            Alla fine non si sa neppure se ha vinto o meno, anche se ha perso, ed è antipatico per questo. Non è assiduo come gli altri alla sala da biliardo, solo qualche volta lo si vede, e in qualche caso ha degli orari fissi, deve andare via, forse ha degli appuntamenti, qualcosa di importante da sbrigare. Chissà se è veramente un "professore"; in ogni caso il suo comportamento appare degno di una classe sociale più elevata, forse economicamente più distinta, senz'altro quella che detiene la cultura. Io lo osservo con grande applicazione.  A tratti cerco di incarnarmi dentro lui per tentare di provare le sue stesse sensazioni. Delle volte ho anche cercato di pensare, per il gusto delle ipotesi, alla possibilità di scegliermi un nuovo personaggio in cui calarmi, e di presentare poco a poco questo ruolo a tutti gli altri giocatori.

                            Io non so giocare, non ho mai tenuto tra le mani una stecca da biliardo, e le mie ipotesi hanno il destino di rimanere ciò che sono. Ed in realtà, per quanti sforzi ho fatto, non sono riuscito a dare un senso ed una credibilità a questo nuovo giocatore che dovrei rappresentare, e poi, probabilmente, mancherebbe a lui quel giusto grado di naturalezza che gli altri sembrano possedere.  E allora ho cercato di dare un maggior senso all'importante ruolo di accorto spettatore che incarno, e qualche volta ho riso anch'io di una battuta o di uno scherzo, tanto per dare l'impressione della mia presenza. Qualcuno mi ha osservato per una attimo e un giocatore che avevo visto solo un'altra volta mi ha detto ridacchiando qualche cosa; cercava approvazione, giustificandosi per un tiro non riuscito.  Ed io ho sorriso con partecipazione, e quando, in seguito, è terminata la partita, ha smesso di giocare e ha salutato tutti per andarsene, si è voltato verso me e mi ha detto buonasera.

                            Allora mi sono fatto forza, e il giorno dopo sono andato ad acquistare un grosso manuale per il gioco del biliardo. L'ho studiato a fondo, ho costruito dei diagrammi, ho riflettuto bene su tutti i possibili rimbalzi e le eventuali traiettorie; ho imparato perfettamente qualsiasi regola di gioco, ed ho scovato tra le righe tutti i più piccoli segreti, tanto quanto basta  ad essere scambiato per un perfetto giocatore. E poi sono tornato a quella sala, dopo un po' di tempo, armato delle mie riflettute conoscenze.  Ho lasciato per un po' che la partita prendesse il proprio corso; ho guardato con sussiego qualche sponda messa su con scarsa precisione. Ho osservato quelle stecche non curate, quegli angoli approssimativi formati con i pollici, e mi sono sprofondato dentro al gioco proprio come se stessi conducendo una ricerca. E poi, dopo un rinquarto un po' difficoltoso, mi  sono alzato in piedi, senza fretta, e con il fare del sapiente che però non ha pretese, ho dato a tutti quanti l'opinione che tenevo celata dentro me.

                            Un momento di imbarazzo che avevo già previsto ne è subito seguito. Qualcuno si è voltato guardandomi le scarpe e anche le mani; mi studiavano i vestiti, l'espressione, ed io esponevo regole di gioco e consuetudini ad altissimo livello. Il professore si teneva un po' distante guardando verso il basso e fingendo di curare la sua stecca. Un giocatore poi, sdrammatizzando, ha obiettato qualche cosa in maniera un po' scherzosa, e la sua opinione divertente ha messo d'accordo quasi tutti; il mio parere, comunque, è stato accolto favorevolmente, tanto che quando il gioco è poi ripreso tutti si sono impegnati per giocare meglio e con più stile.

                            Allora io mi sono seduto e ho sorseggiato la mia bibita. Poi qualcuno ha chiesto un mio parere a proposito di tattica ed io, avvicinatomi al biliardo, ho spiegato con calma le mie idee. Il "professore" in quel momento mi ha guardato, si è avvicinato di due passi verso me, ed ha disteso la sua stecca, concentrandosi in un tiro. Allora l'ho osservato attentamente. Qualcosa in lui tradiva il senso della sfida, ed il suo corpo era proteso a dare il meglio di se stesso; la sua calma era ostentata, il suo interesse un'ap­parenza.  Dopo quel giorno non sono più tornato in quella sala da biliardo; andar fin là a guardare il gioco altrui ormai mi sembra soltanto una sciocca perdita di tempo.

 

 

 

                  

 

 

                              Capitolo 5

 

 

                              Nel letto, alla mattina presto, aspettando con pazienza il giorno, le cose forse appaiono migliori. E c'è il coraggio di pensare a dei programmi, di scovare nuovi aspetti per le ore che verranno; e questo impulso a vivere gioca senz'altro la sua parte. Farò un caffè leggero, aggiungerò del latte, e la tazza sul vassoio span­derà il suo aroma intenso nella camera da letto.  Mia moglie lentamente si rigirerà su un fianco e dirà grazie, sorseggiando con piacere. Allora l'iniezione, la fialetta, la siringa; operazioni asettiche, da luci al neon azzurrine. E poi il massaggio, senza fretta, e una gran voglia di gioire, di ridere con gusto, di sghignazzare senza remore; forse per annullare quel filo di tensione, per rompere quel senso quotidiano di riconoscenza.  E quelle assurde abitudini ad azioni armai standardizzate. Vestirsi a luci basse, senza dirsi niente; i turni dentro al bagno, a riguardarsi il proprio viso nello specchio.

                              Ci sono i libri ed i giornali accumulati sopra ai comodini; prima o poi verranno riordinati, per adesso rimangono una traccia, il segno preciso di un passaggio che si rinnova ad ogni sera, una volta coricati, proprio prima di dormire.  E poi ci sono i sogni, che probabilmente rimangono a mezz'aria sopra al letto; ma appena per un attimo, finché le lenzuola e le coperte non vengono sistemate; agitandole ogni cosa si confonde, e i fili di fumo fermo e raddensato si mescolano in aria, si disperdono, appena viene aperta la finestra. Mia moglie poi non sogna mai; o almeno non ne parla. Solo una volta, appena sveglia, mi raccontò una storia strana.

                              Stava sdraiata, in una gran vasca da bagno, e dentro all'acqua tiepida si era lentamente rilassata. Sulla finestra batteva un sole allegro, lo stesso che ogni inverno tornava a rischiarare le mattine di domenica.  Dentro al bagno l'aria appariva zeppa di vapore e di profumi caldi, tanto da appannare qualsiasi superficie.  La stanza era grandissima, diversa dalla solita, estremamente ricca di accessori e dl particolari; e la porta alle sue spalle era ben chiusa, come divisorio insuperabile tra i problemi quotidiani e quella solitudine felice. Allora, all'improvviso, mia moglie si accorgeva di uno strano movimento; la superficie d'acqua saponata si increspava, e come per una specie di sottili vibrazioni il pavimento sembrava si spostasse. Il suo corpo, abbandonato dentro l'acqua, oscillava leggermente, e la sua tranquillità, ottenuta con fatica, appariva subito irrimediabilmente compromessa.

                              Mia moglie allora si osservava attorno, guardava dappertutto, quasi con terrore, con la paura pazza per qualcosa assolutamente incomprensibile; e tornava a riguardare, sugli angoli dei muri, sulle piastrelle lucide, sul pavimento attorno a quella vasca, come per cercare spiegazioni.  Ma niente sembrava fuori luogo, solo quei caparbi movimenti, che comunque adesso sembravano calmati.  Poi lei immaginava che qualcosa, dallo scarico pur chiuso della vasca, stesse penetrando lentamente dentro l'acqua, come da una piccola fessura; qualcosa di prensile e di vivo, come un ragno nero, una assurda mano elastica e mossa dall'interno cavo, o un pazzesco gruppo di tentacoli mollicci e appiccicosi; qualcosa di schifoso, di viscido, terribile. Allora cercava di vedere, di osservare meglio sotto alle bolle di sapone denso, dentro a quell'acqua diventata all'improvviso un po' gelatinosa; ma le più piccole difficoltà apparivano insolubili, e le sue mani nervose e tremolanti non riuscivano a far niente.

                              Quasi piangendo dal terrore voleva in ogni modo far qualcosa ma si trovava immobile, paralizzata da paura folle.  Il sole era sparito, la sua finestra prima grande e luminosa era divenuta all'im­provviso un piccolo pertugio.  Anche il bagno adesso si era ridotto di parecchio, e tutto quanto attorno appariva rovinato, squallido, cadente. Poi mia moglie, facendo forza su alcune piccole certezze, ritrovava un po' di calma, e si accorgeva all'improvviso che l'a­cqua lentamente stava calando di livello; in breve la vasca rimaneva vuota e lei si alzava in piedi con estrema titubanza, uscendo poco a poco cori un ultimo filo di coraggio. Le vibrazioni erano ces­sate, ma tutto quell'interno bianco, dove prima c'era l'acqua, adesso era chiazzato, come sporco, imbrattato da una patina di grasso per meccanici.  Anche il suo corpo era sporchissimo, più o meno dappertutto, e quelle macchie nere sembravano indelebili, come un muschio radicato sotto pelle, qualcosa di profondo, penetrato nella cute ed aggrappatosi ai suoi nervi.

                              Allora si vestiva, cercava di coprirsi, di nascondere quell'orribile sozzura, ma anche il viso, e il collo, e le sue mani, quelle mani piccole, morbide, bianche e ben curate, adesso erano sporche, o almeno come sporche, con quelle sfumature di grigio e nero sotto pelle, dappertutto, come tatuate da un pazzoide. Metteva i guanti allora, ed una sciarpa attorno al collo che coprisse anche un po' il viso.  Ed usciva, di corsa, dimenticandosi qualcosa.  Andava via senza il regalo, un piccolo pen­siero già incartato, da donare alla sua amica, a quella festa a cui stava ora recandosi, un compleanno forse, una ricorrenza a cui non era possibile mancare.  E lì c'erano tutti, e alcuni la guar­davano, altri fingevano completa indifferenza. E lei rideva e poi piangeva, non sapendosi spiegare, lei stessa non capendo, non riuscendo a dire nulla.

                              Poi si innamorava, all'Improvviso; delle sue macchie, delle sue muffe sulla pelle. Toglieva i guanti, lentamente, la sciarpa attorno al collo.  E si mostrava in ciò che era, con le sue chiazze dappertutto, come sporca, imbrattata da ogni par­te. Si divertiva allora, di tutta quella assurda situazione, ed iniziava a ridere, a ridere forte, sulla faccia degli afflitti che continuavano a guardarla, e si svegliava all'improvviso, decisamente in preda al panico. Io ero commosso ascoltando questa storia, e avrei voluto penetrare di soppiatto dentro al sogno, confondermi tra gli invitati a quella festa; e tirare fuori delle convinte rimostranze, battermi con tutti per difendere mia moglie.  Avrei pian piano posato il mio bicchiere, assunto lentamente un'espressione più seriosa, e avrei gridato in faccia a tutti quanti il mio pensiero.

                              Un'energia e una fiducia senza pari mi avrebbero investito all'improv­viso, e avrei reagito senza remore, piangendo forse, ma per la gioia di sentirmi grande, generoso, pieno di una immensa vita nuova arrivata solo allora a pulsare nel mio corpo.  Anche mia moglie avrebbe pianto, cosi improvvisamente commossa e confortata dalla mia strenua difesa; e assieme, lanciando epiteti e invettive, saremmo scivolati in un angolo da soli, lontani da chiunque, e guardando tutti in faccia avremmo aperto la porta per uscire, per fuggire anzi, per isolarsi da quegli sciocchi conformisti. Ed ancora sulla soglia avrei gridato i miei ultimi pensieri, brucianti e irriflessivi, esagerando leggermente, trascinato dalla foga, forse dalla facile vittoria. Qualcuno avrebbe riso, e alcuni  si sarebbero scambiati parole di sarcasmo.  E allora mi sarei imbrogliato, avrei confuso un po' i discorsi tra di loro, senza dubbio, ed una volta sulla strada, sbattuto il portone alle mie spalle, avrei sentito ridere forte dentro casa, e qualcosa sarebbe crollato all'improvviso dentro me.

                              Avrei voluto ritornare indietro, riprendere il discorso, cercare di spiegarmi meglio, ma sarebbe stato senz’altro troppo tardi.  Allora avremmo camminato, io e mia moglie, ma in silenzio, fino a arrivare a casa nostra; ed una volta raggiuntala ed entrati sarebbe apparso all'improvviso il conforto degli oggetti e degli angoli ben noti.  Sprofondarsi in un buon libro, iniziato da tre mesi e del quale ormai s’ignora il lento inizio; sprofondarsi nella solita poltrona, comodissima e sicura.  Tutto ciò risulta forse un comportarsi già scontato, forse esageratamente di difesa.  Ed allora sviluppare i miei interessi addentro alla cucina, ed introdursi a riordinare piatti e pentole e organizzare qualche salsa, e riguardare quell'avanzo di patate da due giorni dentro al frigo.  E con il fare del creativo improvvisare una cenetta, qualcosa che mi prenda, che dia libero sfogo alla nevrosi.  Qualche fiore secco e una candela sulla tavola, con le posate ben disposte e la tovaglia ancora fresca di bucato.

                              Mia moglie ha avuto un capogiro sul lavoro.  Mi hanno telefonato durante il pomeriggio, e sono corso a prenderla, a portarla a casa. La mia macchina era guasta, dal meccanico, così ho chiamato un taxi. Dentro la banca, dove svolge il suo lavoro, mi hanno guardato tutti con sospetto.  Qualcuno incuriosito si è affacciato sulla grande porta a vetri, forse solo per guardare la faccia di uno che riesca a reggere una situazione di quel genere, e il collega di mia moglie mi ha fatto semplicemente un cenno. Ho salutato tutti, cortesemente, e mi sono preoccupato soltanto di mia moglie.  Probabilmente non è niente, il solito disturbo, ma questa sua fragilità è qualcosa che mi impegna, che mi spinge ad essere più forte.

                              Sul comodino ho preparato la siringa. Guardo mia moglie con amore, forse perché ce n'è bisogno, e lascio che si stenda, che si corichi su un fianco. Forse dovrei ucciderla, con una dose mortale di qualcosa da iniettarle in intramuscolo, ma tremerebbe troppo la mia mano, rischierei di farle male, o di essere scoperto.  Lascio quindi che tutto si ripeta. Però ogni volta penso ad una decisione che sia più definitiva. Per scacciare qualsiasi pensiero che sia troppo pessimistico intavolo una qualunque discussione. E tiro fuori ciò che covo dentro me da tanto tempo. Urlo che la casa è in un orribile disordine, e che ci vuole proprio poco per vuotare i posacenere o gettare via vecchi giornali. Poi mi guardo attorno con gli occhi presi dalla mia vertigine improvvisa, e mi sembra proprio che assolutamente niente sia sistemato in modo giusto; nessun oggetto, nessun mobile sembra sia curato.  Allora mi metto a girare come un pazzo per la casa, raddrizzando quadri, raccogliendo vecchie buste, foglietti di nessuna utilità, e striscio con le dita su qualsiasi superficie orizzontale evidenziando una polvere già spessa. E dopo, in malo modo, spalanco i miei cassetti, e scopro altro disordine, tra le mie carte, i miei libri, le mie lettere; però tra le mie cose metto le mani solo io, non posso dire niente in questo caso, ed è come una doccia d'acqua fredda.

                               Tutto a un tratto, come se non lo avessi mai pensato prima, scopro di non essere ordinato; anzi capisco di esser preda dell'impulso deprecabile che porta al disordine totale ed omogeneo. Anche dentro alla mia mente i miei pensieri non seguono un ordine corretto: tutto è confuso e mescolato, ed anche ciò che credo di aver organizzato in modo sistematico e preciso, in verità è arruffato e senza logica, alla stessa maniera di come le mie idee appaiono spesso casuali, a volte addirittura senza senso. Forse tutto questo è una reazione, immagino; forse è una difesa messa assieme dal mio istin­to, dalla mia personalità già travagliata, messa a dura prova da una situazione troppo ostica.  Guardo mia moglie per cercare appena un po' di comprensione, e scopro che era chiaro già da tanto tempo, tutto quanto; lei già lo sapeva, ne teneva conto, ed è questa la ragione per cui non dice niente degli atteggiamenti assurdi, dei comportamenti sciocchi che tengo qualche volta. Non soltanto capisco di venire giustificato; mi rendo addirittura conto che mi si sopporta, con tutti questi nei e le mie diverse debolezze. E si sopporta un po' di tutto: il mio scarso senso di equilibrio, quei miei scatti senza scopo, la nevrosi che dimostro; forse è tollerato il mio carattere asociale, la mia personalità quasi schizoide, le mie paure fantasio­se. Mi abbandono tristemente sulla mia poltrona, lasciando sprofondare il corpo all'improvviso fiacco e senza forze.  E' un duro colpo questo, ne sento tutto il peso. Probabilmente mi impegnerò tutta la sera a digerirlo; e forse non sarà neppure sufficiente.

 

 

 

 

 

         Capitolo 6

 

 

         Rimanendo dentro al letto seguo interessato un suono esile che raggiunge con fatica le mie orecchie.  Domani il collega di mia moglie ci porterà sua figlia; le darà un gran bacio frettoloso mormorando raccomandazioni senza senso. Poi andrà via salutando frettolosamente, e mia moglie abbraccerà con tenerezza la bambina.  Le chiederà qualcosa, la metterà a suo agio con quel suo comportamento protettivo. E le regalerà quell'orsacchiotto che ha acquistato.  Lucia sarà contenta, non avrà parole. Stringerà a sé quel rotolo di stoffa e ci farà sentire piccoli, sciocchi, un po' piagnucolosi, tutti quanti. Stupidi, forse, nel nostro almanaccare dentro a una vita di cui a volte ci sfugge il senso e della quale, tanto spesso, comprendiamo poco.

         Ed io uscirò di casa; forse per andarmene a comprare qualche cosa; o per lasciar stabilizzare un po' di più quel fragile equilibrio; oppure per seguire da vicino quel suono esile rincorso stamattina, sforzando il più possibile la mia immaginazione, quasi per gioco, come per scherzare; con un filo interno di terrore, quello stesso che si prova quando si hanno a mente delle cose sconosciute. Chissà a che cosa penserò camminando per le strade, osservando le vetrine dei negozi e lasciandomi attirare da qualcosa di curioso, di sicuramente insolito: forse alla fuggevolezza dei giorni e della vita, all’incapacità di rispettare dei programmi e dei propositi a cui si giura fedeltà quando si è soli e che fatalmente poi scompaiono appena il magma quotidiano ci riassorbe e ci rifonde, a suo piacere; o forse all’incostanza della nostra volontà che tanto si impegna a dirigersi in un senso, per poi rapidamente, con il variare di piccoli semplici dettagli, cambia direzione per andare ad occuparsi di tutto un altro scopo. Oppure, molto più concretamente, mi ritroverò a pensare a Laura, a questo nostro piccolo segreto che custodiamo e che ci unisce, ed al bisogno di definirlo meglio, di dargli un senso, oppure di affiggergli sopra un giudizio conclusivo con il quale collocarlo nell’archivio delle cose irripetibili.

         Forse il mio camminare da solo mi apparirà subito noioso, e allora cercherò un telefono per parlare con qualcuno. Cercherò il mio amico, Roberto, probabilmente, che subito mi dirà di correre da lui perché è certo che deve mostrarmi un libro o farmi ascoltare della musica, qualcosa del genere. Salirò su un autobus allora, ed una volta insieme brinderemo a qualche cosa, e ci sistemeremo sulle sue poltrone ad ascoltare musica, sicuramente, come dice lui, “qualcosa di straordinario”. Poi parleremo d’argomenti vari e magari ci sprofonderemo in una delle nostre consuete discussioni. Ognuno farà le proprie analisi e trarrà le dovute conclusioni da mettere a confronto. Io di certo mi confonderò ampiamente su una parola o due, sbaglierò l’interpretazione di una frase, e non saprò cosa rispondere a una domanda semplice, ma piena d’invischianti sfumature. Forse berrò troppo, magari per cercare di nascondermi. Forse sentirò dentro di me la voglia urgente di parlargli dei miei guai, di ciò che sta accadendo, ma con un certo sforzo riuscirò a tenermi sul vago sfiorando gli argomenti senza mai affrontarli.

         Il mio amico è un tipo alto, alquanto riservato; sorriderà osservando il mio bicchiere. Abita da solo, suo padre è morto ormai da molti anni e sua madre, alla quale lui è molto affezionato, dopo il funerale se ne andò a vivere da certi parenti in un paese distante. Roberto ogni tanto va da lai a farle una visita, e considerata la distanza, si trattiene da lei per qualche giorno, mai più di due o tre. Per tutto il tempo che lui è lì, stando a quello che racconta, la madre continua ad investirlo di domande, a parlare e a commentare tutto quanto lui dice, abbracciandolo continuamente e dicendogli, come se lui non fosse lì e lei stesse parlando con altri, che tutto quello che fa suo figlio è sicuramente ben fatto. Poi lei è un’ottima cuoca, e per tutto il tempo continua a cucinare sfornando piatti e terrine con salse, carni, sughi di ogni genere. Roberto quando torna è sempre stanco, si sente ingrassato a dismisura ed appare più irritabile del solito. Però è contento, sa che sua madre gli vuol bene e sui suoi modi per dimostrarglielo è del tutto inutile discutere.

         Una volta sono andato assieme a lui e ho conosciuto questa donna gioviale, infaticabile, perennemente indaffarata. Assieme a Roberto, che conosce bene il paese, si è girato a lungo per le strade, siamo entrati nei caffè e ci siamo intrufolati tra i discorsi di gente semplice e socievole. Quando il giorno dopo siamo venuti via da lì ci sentivamo inevitabilmente confusi ed ingrassati.

Roberto tempo fa visse un periodo strano. All'improvviso sentì il bisogno di fuggire, l’esigenza di trovare attorno a sé un qualche cosa di diverso. In breve tempo iniziò a frequentare una ragazza; una persona troppo giovane d’età, forse neanche troppo intelligente, però sensibile, anzi, estremamente pronta a soffrire e ad infiammarsi per ogni piccola evenienza.  E lui perse la testa, e gli parve un suo preciso compito proteggerla, animarla, aiutarla a migliorare. Gli sembrò che niente valesse più la pena di tirare avanti quella vita piatta, se non concedere se stesso a quella donna, a quella ragazzina, anzi, e cer­care di capire ogni più piccola sciocchezza, la sfumature della voce, lo sguardo più o meno accigliato o sorridente.  Dopo poco tempo tutti quanti attorno a Roberto iniziarono a capire cosa stava succedendo; e più di tutti iniziò a capirlo Laura, da sempre la sua donna.  La cerchia degli amici, io compreso, si interessò ben poco; sembrava in fondo che tutto potesse trovare soluzione all'improvviso, così come il problema si era posto.  Solo che una volta Laura mi prese da una parte e mi parlò sinceramente, rovesciandomi addosso qualcosa che avevo sinceramente trascurato.

         La situazione in verità sembrava poco più di una sciocchezza, ma non lo era affatto, e lei con tutta la lucidità del caso stava male, e si sentiva estremamente messa da parte.  La differenza d'età tra lei e quella ragazza, proprio per cercare un confronto, era di circa quindici anni, e ciò era a dir poco disarmante.  Per di più Laura e Roberto ormai si vedevano pochissimo, e lui risultava sempre fuori casa a giro chissà dove, a volte per dei giorni, coprendo tutto quanto con ambigui atteggiamenti neppure troppo giustificativi.  Promisi allora che avrei cercato di parlargli, di chiedergli qualcosa, in fondo era realmente l’unica cosa che potessi fare.

         Un giorno Roberto venne a casa mia con la sua strana ragazzina.  Sembrava un po' nervoso ma continuava a far battute, a tirare fuori sciocchezze e a ridere di gusto.  Lei stava in silenzio, sorrideva sempre a tempo e si guardava leggermente attorno, senza insistere, come apprezzando più di ciò che le poteva essere consentito, quel suo stare fuori posto.  Poi trovammo un argomento che ci univa tutti e tre, e lei disse la sua opinione circostanziando con criterio alcune cose.  E mentre lei parlava per noi due, riferendosi alla stanza in cui eravamo come se fosse in mezzo ad altra gente, quella iniziale, sottile diffidenza che avevo provato e che mi era apparsa inamovibile, parve perdere costantemente di valore; svanendo quasi, mentre l'espressione del suo viso, dei suoi occhi, perfino della bocca diveniva più diretta, più immediata, chiarificatrice.

         Poi, una volta che i caffè furono pronti, lei sorseggiò dalla tazzina con dovizia, usando atteggiamenti dì maniera, quasi da gran dama. Si parlò dell'amicizia e Roberto tirò fuori una teoria un po' discutibile. Io dissi qualcosa senza troppa convinzione, e poi mi resi conto che continuavo a farmi forte delle mie esperienze, del passato, della mia maturità. Non poteva essere giusto, la discussione non appariva equilibrata. Allora mi interruppi, e brancolando in mezzo ai dubbi guardai negli occhi la ragazza che sedeva in fronte a me; quindici anni circa era la differenza d'età tra lei e noi due, e tutto quanto in quei discorsi sembrava che servisse ad esaltare quel divario, a sottolinearlo di continuo. Anche lei, senza affrettarsi, disse ciò che aveva in mente, e così ne venne fuori un'opinione estremamente contrastante rispetto a quella del mio amico.  Le sue parole erano facili, leggere in apparenza, a volte dolci, pilotate dalla voce rilassata, quasi sottotono. Roberto allora concentrò i suoi sforzi e tirò fuori un analisi notevole, all'interno della quale molte cose anche diverse avevano il suo spazio. Sembrava una provocazione intellettuale, di principi, di valori, di convincimenti radicati, e lei doveva pur difendere le idee manifestate, doveva dare prova di se, del suo carattere. Rimase zitta invece, e guardò noi due assumendo una espressione dolce, vagamente sorridente, decisamente ambigua. Con il suo comportamento dette forza a ciò che aveva prima riferito e in un solo momento la costruzione di pensiero messa su da Roberto vacillò come ridicola cadendo in mille pezzi.  Posammo le tazzine, riempimmo quel silenzio con pallide sciocchezze, poi sembrò il momento di lasciarci.  Roberto chiese scusa e andò nel bagno mentre erava­mo tutti in piedi; allora io mi ricordai qualcosa e giocai il tutto per tutto.  Le andai vicino senza più guardarla e le sfiorai una mano con la mia. In quell'attimo si volse verso me ed io guardai i suoi occhi come cercando di far giungere un messaggio.  Non sembrava imbarazzata, forse solo un po' sorpresa, e ad un tratto mi sorrise, come per fermare quel momento, per dargli un cornice. Chiesi il suo telefono e lentamente lei mi disse i numeri.  Due giorni domo ci vedemmo in una piazza, all'angolo del bar, e fatti alcuni convenevoli andai subito al punto che per me era più importante. Dissi che tra noi non c'era affatto bisogno di parole, di discorsi, superficiali spiegazioni, e che qualsiasi tentativo per chiarire era superfluo, anzi addirittura negativo.  Le misi un braccio sulle spalle e passeggiammo un po', senza affrettarci, fermandoci ogni poco. Lei chiese poi come riuscivo a passare sopra ad un mio amico come potevo pensare che con Roberto sarebbe rimasto tutto uguale.  Allora dissi ciò che lei voleva sentir dire. Era senz'altro più importante quel momento tra  di noi che non l'analisi che io potevo fare sui rapporti tra me e Roberto.  Lei ne fu felice, ma sotto sotto io mi sentivo estremamente imbarazzato, anche se lei non se ne accorse.  In un lampo i  suo disegno apparve superiore al mio e ne provai paura; poi abbandonai l'idea.  Ad un tratto la baciai giocando su due piedi la mia tecnica migliore.  Un uomo passando commentò e noi trovammo giusto di sorridere.  Qualche imbarazzo, assieme al nostro, transitava in quel frattempo sugli opposti marciapiedi, e in mezzo a questi le macchine veloci urlavano qualcosa rincorrendosi insensate.  Riconobbi una vetrina o due, mi guardai dentro a uno specchio un po' provocatorio di un negozio, poi osservai con interesse quel profilo del suo viso, riconoscendolo noioso.  Era giunto già il momento di lasciarci; c'erano amici, libri, discussioni un po' barbose che aspettavano, e siccome lei tirava fuori tutte assieme le sue cose, io, per il gusto di mostrare una vita molto intensa, fermentata di emozioni da trattare con distacco, cercai alla disperata di stravincere.  Dissi del mio tempo risicato, di persone che dovevo assolutamente contattare, del lavoro, dello studio, e dopo mi confusi.  Allora lei mi chiese, appartando le emozioni, se sarei andato proprio quella sera oppure il giorno dopo a riferire a Roberto tutto quanto.  Il suo sguardo era deciso e convintissimo, ed io barcollai ridicolmente sulle mie poche certezze; poi intravidi un guizzo sulla sua espressione e capii che aveva superato senza sforzo tutti i miei sciocchi disegni.  Balbettai qualcosa che non mostrava convinzione e poi la salutai, tornando frettolosa mente sui miei passi.  In tutta la faccenda mi convinsi che era Roberto ad essere nei guai, ed ebbi la certezza di non avere la statura sufficiente ad aiutarlo; poi me ne estraniai del tutto.  Passata qual­che settimana Roberto al telefono mi disse che tutto era risolto e che avevano smesso di vedersi, e di tutti gli interrogativi che quella sua ragazza mi aveva sollevato non mi rimase quasi nulla.  Cancellai perennemente dall'agenda il suo telefono, ma poi la rincontrai, per caso, riprovando all'improvviso tutto il senso di profonda trasgressione che emanava.  Si disse qualche cosa con maggiore sincerità e mi trovai a pensare che il suo nome, Chiara, era già dolce ironia o forse tentazione disillusa e deludente.  Allora andai da Roberto e riparlai di tutto.  Non arrivammo a niente ma si mise qualche disco da ascoltare e ci trovammo a ridere di gusto delle solite, medesime faccende, rifondando l'amicizia sulle cose durature e risapute.  Proponemmo una serata d'allegria per un giorno dei seguenti, una sbronza con gli amici, rimanendo già d'accordo che era utile, utilissima, estremamente necessa­ria.  La settimana dopo ci si dette appuntamento da un amico ed io giocai tutta la sera a far l'emozionato e a porre Roberto un po' in disparte.  Lui cercò di congelare i miei svolazzi ma poi si rese conto che qualsiasi variazione era importante perché spostava i ruoli, ri­metteva tante cose in discussione; insomma ci faceva vivere.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Capitolo 7

 

 

                                   Un giorno mi trovai a fare un viaggio.  Ero da solo e guidavo la mia macchina un po' nervosamente.  Dovevo consegnare delle carte in un ufficio, spiegare alcune cose a una persona che già stava aspettandomi e poi tornare indietro, senza altri compiti.  Ma quella strada che passava via velocemente al di sotto delle ruote sembrava compiacersi del suo asfalto, delle curve, dei cespugli che nascevano sui bordi. Mi facevo prendere via via dal suo disegno coinvolgente e mi pareva di esser libero su quella strada, privo di legami con il resto.  Dietro ogni curva qualcosa mi attirava, come una piccola porzione di un insieme già stupendo, che si aggiungeva poco a poco per formare un grande quadro, meraviglioso scopo, un’enorme voglia non neutralizzabile.  Ad un tratto mi pareva che una febbre mi prendesse, come se alcuna ragione potesse essere valida se non quel gusto di viaggiare, quella voglia di raggiungere qualcosa un po' più in là, del tutto incognita, del tutto da scoprire.

                                   Raggiunto il posto dove ero diretto proseguivo avanti, senza fermarmi e senza volgere lo sguardo, guidando ancora per chilometri e chilometri indifferente ai paesi e alle campagne che mi sfreccia­vano vicino.  Ad un distributore di benzina mi fermavo, ma solo poco, giusto il tempo per il rifornimento, e oramai stanco raggiungevo poco dopo un piccolo paese, alcune case sulla strada con una insegna di locanda su di un lato.  Prendevo una camera in affitto e mi sedevo a un tavolino per la cena, senza pensarci, come fosse già scontato. Chiedevo qualche cosa al cameriere, giusto per parlare, poi, dopo un caffè, uscivo a fare due passi. Nelle tasche avevo qualche spicciolo e sopra a un marciapiede una cabina del telefono sembrava mi invitasse a farne uso. Due persone, sottovoce, parlavano tra di loro, e mimando larghi gesti si guar­davano negli occhi, come a cercare di capire qualche cosa che le semplici parole non fornivano. Mi muovevo lentamente verso loro e intanto avrei voluto dire anch'io qualche parola, discutere con quella gente sconosciuta, magari fino a tardi, come fosse stata la cosa più importante; e dire le mie cose, i miei pensieri, decifrare giudizi e sensazioni.  E poi ascoltare i loro modi, le loro soluzioni, ed impara­re qualche cosa da quelle mani mobili, da quegli occhi sottili. Ma i due si allontanavano ed io rimanevo a costeggiare quello stretto marciapiede; poi giravo attorno al primo angolo ed osservavo una finestra illuminata subito dentro ad una abitazione scura.

                                   La mia camera era spoglia, costituita solo di essenziale. Sdraiato sopra al letto cercavo di riflettere qualcosa. Ma non riuscivo a concentrarmi, sentivo solo una stanchezza profonda in tutto il corpo.  Il giorno dopo tornai a casa. Mia moglie non capiva perché cercassi di spiegarmi e non mi chiese niente. Adesso mentre rimango dentro al letto, mi viene da sorridere ripensando a quel mio comportamento. Io e mia moglie ci siamo conosciuti da ragazzi, al tempo degli studi, all'università. Per caso, a una lezione, ci trovammo seduti fianco a fianco. Si disse qualche cosa prima che arrivasse il professore ed io ero contento, chissà perché, addirittura canticchiavo sottovoce. Parlai con lei di noia e dì comportamenti strani e stravaganti; ci osservammo vicendevolmente i blocchi di fogli per gli appunti e anche le penne, poi lei iniziò a fare dei disegni sopra ad un volantino che consegnavano certi fanatici all'entrata in facoltà.

                                   Mi sembrava interessante, un tipo di persona dalla quale si ha qualcosa da imparare.  Particolare, esuberante, senz'altro diversissima da me.  Ci vedemmo alle lezioni altre due volte e ci scambiammo gli indirizzi. Poco tempo dopo, per problemi di quattrini, smisi di andare in facoltà.  Trovai un lavoro, una strana occupazione un po’ snervante che non ressi molto a lungo ma con la quale guadagnavo bene. E con quei soldi che iniziarono a girarmi nelle tasche la portai nei ristoranti, nei cinema, a teatro, e nei locali improvvisati che a quell'epoca nascevano dappertutto.  Mi sembrava importante lavorare tutto il giorno perseguendo qualche scopo, uno qualsiasi; così in quelle serate, nonostante i rimproveri di lei che ovviamente non aveva mai un quattrino, spendevo tutto ciò che guadagnavo e mi sembrava bello, straordinario.  Poi, nel periodo degli esami, ci perdemmo un po' di vista, e per l'estate lei tornò dai genitori, al suo paese.  Quando sì decise di sposarci, due anni dopo, non eravamo per nulla convinti dell'idea, però ci divertiva, ci ritrovavano spesse volte a ridacchiare della cerimonia o delle facce dei parenti, immaginandoci la scena. Si rapportava quel particolare più importante con quell'altro che subito seguiva, e poi ci dicevamo che non sarebbe stata una sciocchezza di quel genere a cambiarci l'esistenza.

                                   Ci volevamo bene ed eravamo liberi; nessuna gabbia avrebbe compromesso quella libertà che sentivamo dentro, nel profondo. Tutto quanto sopraggiunse un po' velocemente; e a dir la verità non eravamo neanche pronti, non avevamo la maturità richiestaci. Però giocavano ancora a dire che noi stessi, le nostre idee, i nostri sentimenti, non sarebbero cambiati di una virgola.  Subito dopo le iniziarono i disturbi, le avvisaglie del suo male. Tutti quanti, parenti e conoscenti, fummo presi dalle cure, dalle analisi, professori e specialisti ad ogni angolo, e il rapporto tra di noi prese un tono conseguente. Poi lei si sentì meglio ed il dottore disse che senza affaticarsi avrebbe potuto lavorare. E lei trovò un impiego in una ditta di import - export dove è ancora adesso e dove si è sempre trovata molto bene. Sbriga la corrispondenza, parla e scrive nelle due lingue straniere che ha studiato e senza aspettarsi grandi cose svolge il suo lavoro degnamente e con  passione.  In tutto questo tempo, da quando è avvenuto il matrimonio fino ad oggi, di quel periodo tanto ingarbugliato ne abbiamo riparla­to solamente un paio di volte e sempre con notevole imbarazzo.

                                   Pro­babilmente preferiamo non scambiarci le opinioni più profonde su tutta la faccenda, e ciò che sembra ogni volta contare più del resto è quella sua grande gratitudine per me, per quel nemico da sconfiggere ogni giorno, specialmente in quel periodo. Mia moglie spesso dice che ò una prova, un qualcosa anche più grande di noi stessi messo là per misurarci, per raffrontare la nostra sensibilità con l'esistenza quotidiana, e per frenarla, per piegarla alle esigenze, quando è il caso. E' certo che le nostre voglie, i nostri desideri, diventano sciocchezze nei confronti del problema da affrontare tutti i giorni. Il male, nella sua essenza più vera, convive assieme a noi. Ed ecco allora che quelle poche volte quando usciamo per andare a un cinema, a teatro, a uno spettacolo qualsiasi, cerchiamo di divertirci ad ogni costo e di goderci in ogni nodo la serata, come se stessimo rubando qualche istante alla tristezza quotidiana. Mia moglie d'altra parte è fortunatamente una persona spiritosa, abbastanza intraprendente, e riesce ad innestare rapporti d'amicizia con notevole facilità. Così quasi ogni sera, per esempio, quando ambedue ci ritroviamo a casa per la cena, ci sono sempre come minimo due o tre telefonate che la inchiodano per un'ora all'apparecchio; e sono amici e amiche che le chiedono qualcosa, che le parlano di loro, che vogliono sapere come sta.  A vol­te allora usciamo in compagnia, e spesso andiamo in quei locali dove e possibile rimanersene seduti a conversare davanti ad una birra. Io di solito mi tengo un po' in disparte, e lascio agli altri tutto lo spazio necessario per parlare. Intervengo solo quando mi va di raf­forzare una battuta di qualcuno, oppure per conferma a qualche cosa che mia moglie va dicendo.

                                   Non molto tempo fa siamo andati a fare visita a due amici, un ragazzo e una ragazza un po' più giovani di noi che circa un anno fa hanno deciso di abitare assieme. Non ero psicologicamente dell'umore adatto, ma dietro l'insistenza di mia moglie ho ceduto facilmente. Così mi sono seduto su una comoda poltrona ed ho fatto alcune feste al grosso micio che convive assieme a loro, e mi sono lasciato prendere dal gusto delicato di alcuni pasticcini. L'argomento utilizzato per mostrare confidenza era composto dagli strani atteggiamenti di una comune conoscenza, una ragazza molta in gamba che io stimo moltissimo. Maria, così si chiama questa amica, è spessa criticata per la sua maniera di essere arrogante, di avere comportamenti troppo energici, dei modi troppo entranti. In realtà, secondo me, nasconde dietro a questo un'incredibile dolcezza, ma questa mia profonda convinzione non aveva assolutamente ragione d'essere dentro ad una discussione impostata in altro modo. Così stavo in silenzio, come al solito, soffrendo entro di me delle facili battute che si stavano sprecando. Mia moglie cercava di difendere qualcosa, ma in generale, per amore della serata, assentiva alle opinioni degli amici.

                                   Dopo un certo tempo, esaurito l’argomento, l’attenzione si è spostata agli spettacoli, ed il cinema ha richiamato l’interesse generale. Si parlava di quel film, di quel regista, e con molta leggerezza di un attore o di un’attrice. Allora, in un momento casuale di silenzio, ho messo fuori in maniera un po’ imprecisa il mio pensiero. Ho detto che era triste utilizzare sempre gli argomenti già scontati; ho spiegato come a me il cinema non piaccia ma che spesso quando chiunque dice una cos di questo genere è subito preso per uno che va capito, poveretto, perché spara incredibili idiozie. Sostenevo che, sinceramente, sembra quasi che visionare i films via via che vengono prodotti costituisca per ciascuno la paura di rimanere senza validi argomenti, in modo speciale durante serate come quella. E poi ho detto che Maria è una persona un po’ difficile, e che non è pensabile criticarla soltanto su un aspetto che talvolta manifesta, perché altrimenti si rischia di spostarsi solo sulla superficie delle cose, nel qual caso è meglio evitare di parlare.

                                   Dopo di che, con tutta fretta, ho cercato di concludere spiegando che non credo nelle serate di quel genere, anzi mi annoiano; così come non credo alle amicizie a doppia coppia: si parla per parlare e si dicono sciocchezze sulle quali tutti quan­ti devono essere d'accordo.  Il gelo a questo punto era profondo, e proprio nel momento in cui per essere autoironico avevo messo in bocca un altro pasticcino è suonato il campanello della porta. Altri due amici, un'altra coppia che veniva ad allietare la serata e a dare un ulteriore contributo. Evidentemente abbiamo subito parlato d'altro, e dopo un po' ci siamo decisi a fare un gioco con le carte, un gioco nuovo, estremamente divertente, che mi è sembrato utile per tutti.

 

 

 

 

 

 

         Capitolo 8

 

 

         Le lenzuola del mio letto a volte sembrano stanche. Fanno le grinze dappertutto e si incollano al mia corpo appena cerca di girarmi. D'altronde rimanere troppo fermo per me è proprio impensabile. Mi muovo e mi rimuovo assumendo posizioni diversissime.  E poi sposto il cuscino, lo metto un po' di lato, lo comprimo da una parte e a volte lo ripiego per tenere la testa sollevata.  Spesse volte mi diverto con i bordi, e inseguo con le dita le diverse cuciture; della coper­ta mi attrae la morbidezza, delle lenzuola il fatto che sono lisce. E poi mi sembra di aver caldo, di sudare, e tiro giù un po' di coper­ta, mi scopro il più possibile e anche con i piedi cerco gli angoli più freschi.  Poco dopo provo un brivido di freddo e mi ricopro.

         Il caldo mi trascina verso il mare e il mare mi riporta ad un'altra epoca. Ero ancora un ragazzino, nelle estati scorrazzavo sulla spiaggia e con me c'era un amico, Roberto. Già a quell’epoca appariva un tipo alto, molto serio. I genitori rimanevano più in là, tra gli ombrelloni per il sole, ed ogni tan­to ci chiamavano e dettavano banali condizioni. Poi si correva fin nell'acqua e si restava indifferenti alla moltitudine dì gente; a me pareva sempre che fossimo noi soli. Ormai era tardi per giocare con palette e con secchielli ed allora si parlava, si diceva dì esperienze e di vicende. Niente di importante, ma tutto ci sembrava riferibile. Qualsiasi piccola confronto, nuoto, corsa, lotta li­bera, dava sempre lo stesso risultato: io ero minuto, lui robusto e più sicuro di se stesso.

         Una volta si fece gruppo con degli altri e si decise di dar forma ad una pista, una di quelle per le bilie. Quand'era già finita litigammo, ed un ragazzo con un piede sbriciolò la galleria che avevo costruito. Tutt'e due alzammo la voce e ci si spinse. I miei genitori erano lontani e Roberto forse stava pensando ad altre cose. Così sentii improvvisamente di essere da solo e fu una sensazione molto triste

         In autunno tornai a scuola, come tutti gli anni. Gli insegnanti erano i soliti e con i compagni ci salutammo cordialmente, com’era giusto fosse. Come banco scelsi il primo, proprio di fronte alla lavagna, e dietro a me venne a sedersi una ragazza nuova che l'anno avanti aveva frequentata un'altra scuola. Parlava con accento strano, di non so che città nordica, ed ogni volta che volgevo la mia faccia verso lei per domandarle qualche cosa ecco che mi sentivo leggermente imbarazzato.  Cosi la maggior parte delle volte evitavo di guardare quei suoi occhi troppo chiari.

         Un giorno, uscendo a fine orario, ci ritrovammo fianco a fianco nella confusione delle scale, ed allora ci dicemmo qualche cosa.  Anna era il suo nome, e ricordo che in quel caso lo usai con titubanza. Affabilmente lei mi chiese da che parte io abitassi, e così ne venne fuori che andavamo nella stessa direzione. Senza affrettarci si parlò degli insegnan­ti, dei compagni, degli amici; ed io l'accompagnai fin sotto casa. Mia madre ebbe da dire qualche cosa sul ritardo, ma io probabil­mente non l'ascoltai neppure.

         Adesso, stranamente, ripensare a quelle cose non mi lascia più sentire il gusto, quell'intensa sensa­zione che allora sembrava trascinarmi. Anzi, tristemente mi sembra tutto un po' scontato, niente di pazzesco insomma, anche se tutti i ricordi sono ancora come vivi; e allora mi rigiro dentro al letto e so per certo che non potrò riaddormentarmi  Sento delle macchine isolate che percorrono il viale, da qui poco distante, e mi immagi­no i fanali gialli che perforano la notte. Qualche auto probabilmen­te va più forte del dovuto, e qualche autista rischia troppo azzar­dando sorpassi sconsigliabili. Alcuni pedoni si vedono sfiorare da bolidi ruggenti, e prendono paura, borbottano tra loro parole sconvenienti però giustificate. Ci sono altri piloti improvvisati che frenano d'improvviso, aspettano proprio l'ultimo momento, quando il margine per non creare un inci­dente si è ormai terribilmente assottigliato.

         E' una vera e propria corsa contro il tempo, per cercare qualche cosa che rimane proprio li, dietro alla curva, in quella zona della strada un po' più buia. Ci sono autisti che ridono di paura mentre il motore sale su di giri, e i loro amici li spronano dicendo cose assurde, senza senso, a vol­te a voce alta, quasi urlando. Frammenti di carta e di minuta spaz­zatura volano via sui margini asfaltati, e spesso si raggrumano coi rari fili d'erba e con qualche sassolino.  Chiazze d'olio sgocciolato dai motori, che spesso surriscaldano mostrando il loro sforzo, si trovano qua e là, un po' dappertutto, e sull'asfalto rimangono strisciate di pneumatici che lasciano pensare alle terribili frenate delle quali sono il segno. Scarsissimi pedoni si avventurano talvol­ta in questo caos, cercando con fatica di raggiungere un qualsiasi mar­ciapiede. Su tutta la lunghezza del viale i semafori continuano a oc­chieggiare e gli alberi già vecchi, con le radici affondate nella strada, creano solo dei fastidi, togliendo spazio nei parcheggi per le macchine.

         Un giorno, quando già faceva caldo ed era ormai l'ultimo mese per la scuo­la, la baciai. Era molto che cercavo un buon momento per una cosa di quel genere, ma ogni volta tutto quanto mi pareva rimandabile, troppo affrettato. Poi mi prese la paura che la scuola terminasse e che io non avessi ancora detto niente, che non le avessi fatto chiaro ciò che mi sentivo. Così, approfittando di un momento perfino inopportuno, mentre stavamo chiacchierando di qualcosa e si era rimasti gli ultimi ad uscire dalla classe, avvicinai il mio viso verso il suo, tenendo gli occhi chiusi, ed accostai le mie labbra alla sua bocca, appena un attimo, giusto il tempo per sentire la mia faccia che arrossiva Poi lei disse qualche cosa, ma mi sentivo sciocco, terribilmente imbarazzato. Lei in silen­zio mi guardava e forse sorrideva; alla fina disse che mi voleva bene e le piaceva che io fossi il suo ragazzo.

         Durante l'estate ci vedemmo poche volte. Anna aveva detto a tutti quanti di quella nostra cosa, ed i miei amici mi chiedevano di lei, e qualche volta allungavano benevoli ironie. Così pian piano smisi di cercarla. Quando andai al mare mi sentii parec­chio sollevato e passai tre settimane divertenti, spensierate, e lei, senza fatica, usci dalla mia mente. La rividi poi per caso, qualche giorno prima di riprendere la scuola. Era con due amiche e ci salutammo cordialmente. Lei rideva molto, forse troppo, e si impegnava a dire cose divertenti. A un tratto la guardai dritto negli occhi: d'improv­viso, con quel suo fare un po' sfuggente, mi pareva splendida. Avrei voluto essere ancora il suo ragazzo ma oramai mi pareva tutto compromes­so; e lei, probabilmente, non mi avrebbe più accettato.

         Invece, quando tutti eravamo ritornati sui banchi della nostra vecchia scuola a completare l'ultimo anno prima del liceo, qualcuno in confidenza venne a dirmi che semplicemente mi moriva dietro: sul suo banco, che rispetto al mio quell'anno rimaneva dall'altra parte della nostra aula, aveva scritto il mio nome a grandi lettere, ed ogni giorno rinfrescava quella scritta coi pennarelli colorati. Tutto ciò mi allontanò da lei in maniera irreversibile. Non so cosa successe, ma non la vidi più, non c'era più tra i miei pensieri. Finimmo quella scuola, in qualche modo, e scegliemmo vie diverse. Un giorno, poi, avevo all'incirca diciotto anni, mi ero ritrovato ad una festa e mi annoiavo un po' gironzolando da una parte al l'altra con un bicchiere in mano. A un tratto mi voltai, senza ragione; c'era Anna accanto a me, e mi guardava. Ci baciammo con trasporto, senza dirci niente, e a me sembrava all'improvviso di sognare.

         Dentro di me era un ribollire di emozioni e per un attimo lasciai andare tutto per suo conto; poi, subito dopo, mi immaginai un po' stupido, bloccato in un atteggiamento senza senso. Parlammo di insignificanti aspetti di qualcosa cosa che neppure mi ricordo, ed io mi persi a definire un mio profilo artificioso. Così la persi ancora, sen­za riuscire a dirle niente, a spiegarle quella cosa che sentivo all'improvviso. Poi trascorse tanto tempo, e di sicuro capitarono gli eventi più fondamentali per la vita di chiunque. Quando la rividi ancora aveva già un bambino e anche un marito, e dentro a quell'immagine stavano andando a spasso, senza fretta. Ebbi l'impressione di un doloroso adattamento, ma subito recai censura al mio primitivo egocentrismo. Erano passati tanti anni ed io pensai che forse proprio in me, a modo suo, lei aveva cercato quel marito e quel bambino, e che qualcosa, per ragioni indistinguibili oramai, forse delle sottili sfumature e per nient'altro, non aveva funzionato.

         Ed una notte, tempo dopo, la sognai: ci tenevamo per la mano e si camminava lentamente, senza meta. Lei mi guardava sorridendo e sembrava dimostrasse di sapere qualche cosa che a me allora sfuggiva. Teneva la mia mano con maggiore decisione di quanto lo facessi io e certamente in qualche modo la invidiavo; invidia­vo sul suo viso la mancanza dei miei dubbi, delle mie grandi incer­tezze, e nel sogno avrei voluto perdermi con lei, dentro al suo mondo, e abbandonare la mia indole, le mie paure assurde.

         Intan­to una moto si era schiantata contro un palo, laggiù, lungo il viale. Alcuni avevano fermato le vetture ed erano scesi per soccorrere; altri si erano chiesti tra di loro che cosa fosse mai accaduto e in poco tempo il viale era bloccato per colpa di curiosi perdigiorno. Poi, dal fondo della fila di automezzi, dei nevrotici avevano ini­ziato a far suonare i loro clacson dando un aspetto surreale alla vicenda. Subito dopo le sirene della polizia e delle ambulanze avevano coperto ogni altra suono; in poco tempo tutto era risolto e la viabilità risultava prontamente ripristinata. Sull'asfalto forse c'era ri­masta un'altra chiazza, una traccia di qualcosa di terribile; do­mani forse nessuno si ricorderà di nulla, e sarà più conveniente; e anche la chiazza, quella che adesso sembra così intensa, proba­bilmente per un perverso sortilegio, sarà già quasi sparita.

 

 

 

 

 

         Capitolo 9

 

         Tra alcuni giorni dovrò andare in prefettura. Per telefono ho già preso appuntamento. Mi alzerò da questo letto con un poco di fastidio, all'ora giusta in cui tutti si svegliano. Mia moglie è una casalinga, una persona semplice, non si è mai occupata di cose di questo genere, per cui non è neanche il caso che io le parli dei documenti che devo preparare, non capirebbe e mi ascolterebbe solo per bontà d’animo. Così le dirò semplicemente che ho da fare, e poi uscirò di casa, ma solo per andarmene subito ad infilarmi nel bar di fronte, a quell’ora sempre pieno zeppo di impiegati, cosa questa che faccio solo qualche volta, anzi raramente, proprio quando ho di fronte una giornata un po’ difficile, e devo trovare una giusta carica per essere all’altezza di affrontare compiti del genere. Prenderò un caffè, nient’altro, e cercherò in qualche maniera di comportarmi come tutti gli altri, dandomi le arie di chi assapora il gusto di una giornata indaffarata, riempita dagli impegni. Sali­rò sull'autobus, timbrerò il biglietto e guarderò dal finestrino case e strade, rincantucciandomi in un angolo.

         Per raggiungere gli uffici che a me interessano ci sono due rampe di scale un po' particolari, molto ampie, che infondono un gran senso di imperioso. Salendo lentamente quelle rampe s’incontra sempre qualcuno che di fretta sta scendendo, e scalpiccia con le scarpe, esagera i rumori sulla pietra dei gradini. Si se­gue un primo, lungo corridoio, e poi si deve chiedere ad un uscie­re quale sia l'ufficio giusto. Vado avanti, penso alle mie cose, mi trovo solo a camminare senza fretta, guardando i muri grigi. Poi la situazione cambia all'improvviso.

         Qualcosa non va bene, cammino con fatica e tutto attorno sembra ostile. E un certo dolore lancinante mi colpisce. Mi sforzo di pensare che sia solo soggezione ma tutto appare inutile. C'è il petto che mi duole da morire e le mie forze sembrano annullate. Sono preso dall'an­goscia che qualcosa di tremendo adesso inizi a liberarsi, a insi­nuarsi dentro me, senza il mio assenso. Mi accosto a una parete e prendo tempo, respiro a fondo con il naso e penso ad un pugnale che da solo abbia affondato la sua lama nelle carni, recidendo qualche organo. Poi socchiudo gli occhi, mi concentro sul mio corpo, sui miei sensi, mi difendo come posso da un attacco inso­stenibile.  Il dolore continua imperturbabile, e poi sudo, non riesco a contenermi. Mi prende all'improvviso una profonda na­usea, non capisco se il dolore sia alla bocca dello stomaco o nel petto, so per certo che sto male, e questo basta.  Fortunatamen­te trovo un bagno ed entro dentro, senza che nessuno mi abbia visto. Richiudo bene a chiave alle mie spalle e mi fermo un attimo, così, per riprendere le forze.

         Forse avrei bisogno di liberare un po' il mio stomaco, di vomitare insomma, Così cerco di mettermi le dita di una mano nella bocca e di spingerle più in giù, verso la gola. Con i denti mi ferisco un dito ed ho la faccia tutta rossa per lo sforzo. La saliva mi cola dalla bocca e ripetutamen­te sputo nel lavabo. Mi guardo nello specchio compiangendomi: all'improvviso scopro di esser brutto, vecchio, con un'espressio­ne da stravolto. Anche i capelli non mi stanno niente bene e sen­za dubbio li dovrei tagliare un po' più corti. Ma è proprio il tipo di pettinatura che mi sembra non sarebbe adatta per un viso come il mio, e poi oltretutto manca proprio di carattere, di un qualcosa pur velato che dia personalità. E poi ci sono quelle rughe, quelle piccole, invischianti, evidentissime grinzette at­torno agli occhi, sopra al collo, accanto al naso. Anche lo spec­chio, in questo bagno, decisamente è rovinato, non riflette affatto bene, e poi sembra anche sporco, offuscato da una patina che si è depositata sulla liscia superficie, a poco a poco. Tutta la stanza è molto brutta, mal tenuta, sporca, direi proprio sgradevole.

         La situazione certamente appare strana, ma ad un tratto tutto quanto sembra quasi divertente; potrei sentirmi ancor più male, non aver neanche la forza per aprire questa porta. Potrei acca­sciarmi all'improvviso, svenire mentre guardo la mia immagine al­lo specchio; cadere senza vita, riversarmi a terra con un gemito, adagiarmi sopra un fianco lungo questo pavimento. Non avere nean­che il tempo di far niente, di pensare ad un qualsiasi tentativo. Le forze sono rimaste insufficienti a permettermi una mossa, una qualunque. Ne' gridare, ne' attirare in qualche modo l'attenzione di qualcuno su di me. Niente. E l'istinto di sopravvivenza che non sembra sufficiente a procurarmi quelle forze già svanite. Fra mezz'ora, forse un'ora, qualcuno girerebbe la maniglia per entrare in questo bagno. Ma è occupato, è chiuso a chiave, andrebbe via, a cercare un altro bagno. Chissà quante saranno le stanze dei servizi igienici tra questi uffici, lungo i tanti corridoi di questo piano. Nessuno noterebbe che la porta rimane chiusa troppo a lungo. Agonizzerei, senz'altro, e non avrei la forza di far niente, di chiedere un aiuto pur generico.

         Presto gli uffici chiuderanno: qualche impiegato continuerà a scherzare tra i colleghi; control­lerà la sua cartella sotto al braccio rifacendo il corridoio a ritroso, e si guadagnerà l'uscita dopo un ultimo saluto, fretto­loso. L'impresa delle pulizie avrà la chiave, senza dubbio; ca­pirà immediatamente che qualcosa non funziona, che non è tutto normale. Forse un energumeno sfonderà la porta, scardinerà la serratura. Ed ecco, io mi presenterò cosi, steso su un fianco, con la bocca spalancata, la saliva sopra al mento, gli occhi aperti ben sbarrati. Mi troveranno ancora vivo, certamente, ma che spavento; per loro soprattutto, con quelle facce incredu­le e quei discorsi di rigore per una settimana.  Inaccettabile, sentirsi male in un posto come questo, in questi bagni sudici, incolori. E poi, tirato su, una lieve rinfrescata sulla faccia e via, va tutto bene, grazie tante.

         Nei giorni prossimi la porta di quel bagno sarà aperta con un po' di titubanza, lentamente, guardando bene che in un angolo non ci sia qualche sorpresa. Ma pian piano tutto andrà avanti verso una normalità scontata e ordinaria, e nessuno si ricor­derà, nell’ambito di pochi giorni, di quel fatto, di quella anomalia, cancellando dentro a se tutti i rimandi. L'impresa delle pulizie farà come sempre il suo lavoro, come ogni giorno, ed ogni giorno poi è simile ad un altro, senza possibilità di variazioni. Poi una donna, cantando a voce alta, entrerà di scatto dentro al bagno. Sta pensando quasi niente, ai detersivi, alle spugnette, uno spazzolone da cambiare. Ed io mi faccio trovare lì, gli occhi sbarrati, immerso nel mio sangue già rappreso, le pareti schizzate dappertutto, i miei vestiti strappati nella fu­ria di strappare la mia vita.  Oppure sto seduto sopra allo sgabel­lo che c'è qui ed ho le braccia e le mani abbandonate lungo i fianchi.  Ho infilato la mia testa dentro a un sacco, uno di quelli che danno i negozianti, in nylon bianco, e l'ho tirato sopra al collo, il più possibile, aspettando che all'interno tutta l'a­ria terminasse, che rimanessi soffocato.

         Sono rimasto cosi, con il cappuccio in testa, come qualcosa di inventato. Adesso la mia figura appare plastica, ed il mio corpo mostra determinazione. C'è un senso di rilassamento in tutto quanto, come se qualcosa fosse ormai compiuto. Le donne delle pulizie si sono litigate a fondo aspettando che la telefonata avesse effetto. Nessuno aveva voglia di toccarmi, non potevano neanche farlo, ma tutti quanti non riuscivano a capire e così continuavano a guardarmi, a dire tra di loro che ero vero, che ero li, come un fagotto, e chissà che faccia c’è sotto a qual sacco, chissà quale espres­sione, magari si conosce. La donna che per prima mi ha trovato è sotto choc, sono venuti anche i fotografi. Tutti quanti in grande fretta hanno subito iniziato a imbalsamarmi, specialmente nei discorsi tra di loro e negli articoli di cronaca.

         Con dei lunghi aghi uncinati hanno tirato via il cervello pezzo a pezzo, sfilando ogni peduncolo attraverso le narici. Con pazienza e ap­plicazione hanno svuotato la mia testa e in una simile maniera hanno pulito la mia pancia dalle viscere. Al loro posto è stato messo dell'olio profumato, parecchio conservante ed anche certa polvere dorata che alcuni credono magica.  E poi, per seppellirmi, hanno trovato qualche cosa di ordinario, riscattando in qualche mo­do la stranezza del mio gesto. Ma forse, una volta che sia passato un po' di tempo, con più calma, quasi senz'altro costruiranno una piramide, un edificio significativo ed enigmatico, forse proprio al posto del palazzo deve c'è la prefettura; e nella base ci sarà un percorso, qualcosa di tortuoso, labirintico, e qualcuno tra i meandri e le pareti tutte uguali scoprirà di essersi perso, ed userà parole ignomibili ai miei riguardi, beffeggiando tutti gli ori, le vestigia, le preziosità da cui sono circondato.

         Ci sarà qualcuno che verrà a disseppellirmi e appoggerà l'orecchio sul mio cuore, tanto sembro ancora vivo. Ed allora verrà apposta una gran lapide, proprio nel punto dove mi hanno ritrovato, ed il mio nome tornerà ad essere semplice, senza i fregi e senza gli ori che portavo nella tomba. Sarò ricordato dentro a un bagno, frammezzo a corridoi poco piacevoli, del tutto impersonali; e a qualche originale con l'odio per gli uffici ed i modelli da riempi­re verrà a mente di elevarmi come a simbolo. Si metterà fiori di campo sulla lapide, ed i curiosi chiederanno in giro. Presto lo sapranno in molti, e alcuni giungeranno fino qui soltanto per vedere il luogo. Anche i giornali dovranno usare parole convenien­ti, e tutti scorreranno la notizia: "MARTIRE DI UN POTERE BURO­CRATICO", e si farà un gran polverone sul mio nome, e frammezzo alla politica qualcosa verrà smosso. L'opposizione ne approfitte­rà per screditare, e i miei parenti, telefonandosi ogni sera, in poco tempo mi ricuseranno.

         E poi, dopo appena qualche mese, tutto quanto come è nato rientrerà. Anche la lapide andrà tolta, e nes­suno avrà da aggiungere qualcosa. Gli interrogativi decadranno, l'interesse andrà perduto, ed il mio corpo finalmente sarà di nuo­vo ciò che era fin da subito: quello vero, d'uomo morto, solo di un morto come tanti. I corridoi di prefettura rimarranno ciò che erano, ed i moduli e i facsimile saranno ancora come sempre, sogghignando tra gli uffici: "il sottoscritto", e più in giù fir­ma leggibile. E forse allora, di nascosto, io uscirò da dentro al bagno, farò la fila allo sportello, ed a un gentilissimo impie­gato presenterò il mio foglio bianco, lentamente, con la mia ras­segnazione. Ancora vuoto, sarà detto, neppure questa volta c'è riuscito. Nessuno riderà, e si soffermeranno tutti un attimo, un momento doveroso. E qualcuno, di nascosto, con la mano sulla bocca, sottovoce, dirà ad un altro qualche cosa: "ancora niente, non ha imparato ancora niente"; e l'impiegato, con pazienza, con maniere molto attente, spiegherà tutto di nuovo, ed io uscirò da quell'ufficio ben convinto, sicuro di ogni cosa. E forse pian­gerò, ma solo un pochino, e senza neppure sapere bene il perché.

 

 

 

 

 

 

         Capitolo 10

 

 

                                             Sarà strano, ma il mio letto a me pare inquietante. Ricordo che da piccolo stavo spesso inginocchiato, fermo sopra alle coperte, con la testa conficcata nel cuscino. Mia madre mi diceva che ero buffo, e che stando in quella posa il pigiama mi saliva, si sco­privano le reni. Non le davo molto ascolto ed in quella posizione mi sentivo penetrare nello spirito del letto, nella morbidezza dei tessuti. Chissà quali paure mi scuotevano, forse solo voglia di sentirmi rilassato. Ad un'età più indefinita a un tratto mi trovai in una campagna. C'ero arrivato per un sentiero tortuoso, seguendo strani istinti, e mi pareva all'improvviso che qualcosa mi chiamasse. Cosi tiravo avanti guardando sospettoso gli alberi e i cespugli. Una perfetta solitudine urlava dal silenzio e in fondo alla boscaglia alcuni piccoli animali erano in pena e in­curiositi del mio incedere.

                                             Ad un certo punto, in uno spiazzo, mi fermai; sembrava proprio il posto giusto per qualcosa, così guar­dai in mezzo alle felci e tra le chiome di quegli alberi; cerca­vo assurdamente un'espressione, forse un profilo, una qualsiasi forma appena un po' più familiare. E mi sentii disteso, rilassato, nonostante il freddo e il brutto tempo che insisteva. Mi addor­mentai sotto a una pianta, guardando avanti a me le foglie verdi ed i cespugli, e mi sentii talmente bene che il disagio e la pau­ra risultarono atteggiamenti fuori luogo. Al mio risveglio ero diverso, qualcosa era cambiato. Le decisioni mi chiamavano e non potevo farle attendere.

                                             Il rapporto con mia moglie negli ultimo tempi era diventato pressoché inesistente e non mi sembrava più possibile viverle vicino. Tornai in fretta in città e mi diressi quasi subito in un bar dove ero stato già altre volte. Mi sen­tivo elettrico, vibrante, pareva proprio che niente dividesse le mie idee dal naturale realizzarle. Dentro di me avevo preso qual­che importante decisione, ma assolutamente non sapevo quale. Sorseggiai qualcosa guardando attorno a me senza interesse. Poi presi il telefono e chiamai Roberto. Gli dissi che assolu­tamente non sapevo dove andare, che non avevo un posto dove in qualche modo rifugiarmi. Così insistentemente mi invitò ad an­dare a casa sua. Si fece cena, si bevve e si parlò, ed io ini­ziai con l'installarmi nella casa. A lui non dispiaceva, lavo­rava molto, non c'era quasi mai; io al contrario passavo a letto degli interi pomeriggi, e mi leggevo strani libri nei quali mi imbattevo casualmente o che pescavo in una enorme biblioteca del­la quale ero sempre stato socio.

                                             Poi mi venne a noia ed iniziai con l'essere irrequieto. In pochi giorni parlai al telefono con tutte le persone delle quali avevo il numero, e a tutte quante o quasi raccontai le stesse cose; e cioè, senza tanta convinzione che ero stufo del grigiore e che era tempo di cambiare. Così iniziai a vedermi con una ragazza della quale, in fondo in fondo, non mi interessava proprio niente, e dopo un po' mi sembrò giusto di portarla a casa del mio amico. Per alcune settimane fu un idillio che andò avanti senza impegno, del quale neanche mi ac­corgevo, poi, durante una mattina in cui cercavo chissà cosa da qualcuno, conobbi Laura. Sorrise, molte volte, sì schernì, parlò poco di sé e più che altro mi ascoltò, con interesse quasi, mentre dicevo sicuramente cose assurde, forse appena di­vertenti. Dopo due ore circa se ne andò con la sua amica che appariva un po' scocciata, ed io fui colto alla sprovvista, non riuscii neppure a chiederle il telefono.

                                             Furono giorni senza senso, dovevo rivederla, assolutamente non mi davo pace. In pre­da ad un eccesso di sincerità non contenibile parlai di tutto quanto alla ragazza che continuava a star con me e anche al mio amico; sembravano divertiti mentre dicevo le mie cose, però sicuramente non capivano e a loro capitavano altre cose, ben diver­se. Girai tutte le strade dove normalmente si affollavano per­sone di ogni genere, girai per i negozi, quelli grandi, entrai distrattamente nelle librerie più frequentate. E poi iniziai a pensare che era un sogno, che dovevo essermi inventato tutto quanto, quello sguardo, quel sorriso; e che soltanto il sogno mi era rimasto nella mente, senz'altro niente di reale. Dovevo far volgere i pensieri su altre cose e quindi iniziai a telefonare a tutti quanti. Poi la vidi.

                                             Camminava senza fretta in una strada, ed io provai un'incredibile emozione. Trotterellai ri­dicolmente verso lei e l'abbracciai senza parlare, con traspor­to. Disse che anche lei stava cercandomi, che dovevamo rivederci; mi dette il suo indirizzo, il suo telefono, e poi mi strinse ancora in po', sempre ridendo, sempre con gioia. Il giorno dopo pensai di aver atteso già anche troppo, quindi andai da lei. Nella sua casa abitava con altre due amiche che non andavano d'accordo, così lei mi pilotò immediatamente dentro alla sua stanza. Sembrava tutto strano, tutto oscuro; le luci erano basse e lei si lamen­tava; la sua vita era un disastro, diceva con tristezza, e subito, di nuovo, sorrideva. Sorrideva per qualcosa che era in me, che lei vedeva, di cui aveva bisogno. Passammo la serata senza dirci quasi niente, come ascoltando nel silenzio il decantare dei minu­ti. A me pareva bella, la persona più stupenda che avessi mai incontrato. Ad un tratto della vita sembrava che nient’altro meritasse importanza se non quel suo sorriso, quel suo modo di guardare. Avrei voluto star con lei per cento anni, che quella sera non trovasse conclusione.

                                             A notte fonda eravamo ormai stanchis­simi. Si decise che era meglio salutarsi, e così, di malavoglia, me ne andai. Fuori, per le strade, era il silenzio che la faceva da padrone e mi piaceva così tanto che d’istinto rinunciai all’autobus notturno; girai a piedi tutta quanta la città e vidi l'alba: dapprima un debole chiarore laggiù in fondo, poi la lu­ce più decisa che avanzava. A casa del mio amico, nel mio letto, la ragazza dormiva con impegno. Lentamente mi infilai nelle co­perte addormentandomi. Il giorno dopo, verso l'ora cena, ricominciai a parlare. Ero stato in silenzio tutto il giorno e mi ero perso in cose sciocche; adesso avevo voglia di sentire la mia voce, di tornare sulla terra. Mangiando dissi a Roberto che ero innamorato. ­Lui era nervoso, ma io non vi badai e gli spiegai che nulla adesso mi importava se non di Laura e della sua dolce espressione.. La discussione si animò, chiesi consigli per il mio futuro, per le mie prossime mosse, poi ci trasferimmo sul divano per prenderci un caffè.

                                             Roberto parlava, diceva le cose in modo quasi concitato ed io cercavo di ascoltarlo, ma la mia mente vagava per conto proprio, lontano da quei discorsi.­ Poi si interruppe, e mentre continuava a girellare per la stanza e per la casa, probabilmente io mi addormentai, scivolando lungo lo schienale del divano. E feci un sogno, un sogno pieno, colorato, con personaggi strani che saltavano fuori da ogni parte. Ero piccolo, un bambino pieno di vitalità, proprio un furbetto, molto diverso da come era cresciuto nell’infanzia. Non c’erano genitori nel mio sogno, solo persone che io non conoscevo; ed erano forse attori di teatro, mettevano sul viso strane maschere, gesticolavano parecchio e recitavano qualche cosa senza senso, ogni tanto ridendo loro stessi delle battute interpretate. Anch'’o ero sul palco e mi divertivo andando avanti e indietro con dei buffi marchingegni, saltellando senza tregua sulle tavole, strofinandomi ai drappeggi, urlando cose strane e infastidendo tutti quanti. Poi saltava fuori un tipo alto, un uomo ben vestito, molto serio, forse il regista o il direttore del teatro. E si fermava in mezzo al palco, proprio di fronte a dove anche io, come gli attori, ero rimasto immobile. E mi diceva qualche cosa di imperioso, incomprensibile ma energico, e poi puntava un dito verso l’alto, come fosse una minaccia.

                                             Allora mi svegliai e mi sorpresi scoprendomi da solo sul divano. Pensai che Roberto fosse in cucina, o magari in camera da letto, ma non c’era, forse era uscito, mi aveva lasciato solo in casa. Decisi allora di telefonare a Laura anche se con una certa titubanza. Mi dispiaceva farmi vedere così perso dietro a lei, ma mi pareva inconcepibile fare a meno di sentirla, di ascoltare la sua voce. Riuscii, pur lentamente, a comporre quel suo numero che già sapevo a memoria, e l’apparecchio all’altro capo del filo suonò diverse volte con regolarità. Lasciai che lo squillo intermittente andasse avanti ancora lungo mentre cercavo di pensare a quella casa, a quella stanza, a quelle luci basse; poi riappesi la cornetta. Come giocando ad essere stanco mi gettai sopra al mio letto, a faccia in giù, e mi disposi come facevo da bambino, sulle ginocchia, con il viso affondato nel cuscino. Pensavo alla mia mamma, alle raccomandazioni, a quei rimproveri bonari. Mi sentivo abbandonato, dovevo in tutti i modi fare qualcosa.

                                             Uscii di casa, probabilmente per inerzia, per una sorta di abitudine a rinviare ogni problema, e quasi subito mi diressi in centro, verso la stazione ferroviaria. Nella sala d’attesa per la seconda classe c’era un normale affollamento di persone. Mi sedetti accanto a un uomo indifferente ed attesi che qualcosa mi chiamasse. Il traffico dei treni era annunciato di continuo dai megafoni, ed ogni tanto giungeva lo stridore dei freni sulle rotaie. Mi ritrovai seduto su un vagone senza sapere bene perché, per andare dove, a quale scopo. Mi sistemai vicino al finestrino, su un sedile di velluto comodo e accogliente. Altre persone entrarono nel mio scompartimento e tutte quante mostrarono qualcosa che occupava i loro sforzi, le loro volontà. Io ero vuoto, assolutamente incapace di impegnarmi ad uno scopo, un risultato minimo.

                                             Ero contemporaneamente tutto quanto assieme: allegro, triste, indifferente, compiaciuto, timoroso, sicuro di me stesso. Quando il treno si fu mosso e si sortì dalla stazione andai nel corridoio. C’era gente che fumava, qualcuno che parlava degli orari, dei ritardi, dei normali disservizi delle ferrovie. Ci fermammo due o tre volte e alcuni scesero; altri, frettolosamente, salirono sul treno preoccupandosi dei posti per sedersi. Quando vidi il controllore andai più avanti, noncurante. Dopo mezz’ora ci fermammo nuovamente  ed io alla svelta scesi. Era la piccola stazione di un paese, un posto anonimo, dove non ero stato mai. Girai un po’ a caso, studiai le strade così come apparivano, illuminate dai lampioni, e mi comprai un panino. Pensai che avrebbe fatto freddo un po’ più tardi; con me avevo soltanto la mia giacca.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Capitolo 11

 

 

         Le panche di legno per la seconda classe notoriamente sono duris­sime.  E la loro superficie appare lucidata dai tantissimi sederi che vi passano. Un giornale abbandonato da qualcuno può servire in modo egregio alla funzione di cuscino e per il resto l'impor­tante è avere sonno. A notte fatta, in una piccola stazione, ri­mangono soltanto un paio di ferrovieri che dormicchiano alla sala dei bottoni, e nessun altro. Distrattamente, durante la nottata, si fermeranno solo due o tre treni, non di più. E molti altri invece passano via veloci, con sopra le cuccette, i ristoranti, le moltissime persone rigonfie d'importanza. Forti rumori di me­talli in movimento, le luci che guizzano nel buio, e in un attimo tutto quanto è già finito, il capostazione può rientrare.

         Mi ri­giro molte volte nel mio letto scomodissimo, però mi sento bene. Nessuno al mondo sa dove mi trovo; potrei restarci sempre, cam­biare nome, riconoscermi in un altro. Variare i miei principi, le mie idee, tutto quanto l'apparato a cui ho prestato fede trop­po a lungo. Sostituire tutto in me, rifondare la mia vita, sce­gliere oculatamente un ruolo ed incarnarlo. E poi cambiare qual­cosa nell'estetica, i miei abiti, la mia pettinatura; e la mia linea; potrei fare anche una dieta dimagrante, divenire molto ossuto, senza neanche un po' di grasso in tutto il corpo. Sceglierei i vestiti con estrema assennatezza, preferendo un certo capo tra i tantissimi già visti, non adatti. Abbondanti giacche per­manentemente abbottonate ed un deciso portamento, testa in alto, busto eretto, come per mostrare un qualche orgoglio di me stesso. Avrei lo sguardo attento, carico di capacità di osservazione; po­trei concedere solo una scarsa confidenza a tutti quanti, sarei cordiale ma deciso, estremamente serio con chiunque, a proposito di qualsiasi riflessione. Forse ci sarebbe un filo di mistero nei miei modi, ma nessuno chiederebbe troppo in giro.

         E la sera, avanti cena, girerei per queste strade salutando con un cenno od un’occhiata, unico sguardo solamente più profondo. E la not­te intanto fila via in maniera lenta, scandendomi i minuti nelle orecchie. C'è come un suono dentro l'aria, e sibila lontano, riempie in qualche modo questo vuoto. Chissà che sogni affiora­no nel mio immobile cervello; o se invece non c’è spazio, tutto è preso dal mio sonno, dal rimanermene agganciato a questa pan­ca, a questo legno, come a uno stupido relitto di una barca nau­fragata. E' presto, e ancora molto presto; è ancora notte. E già qualcuno viene ad aspettare; si siedono, uno, due, parlotta­no tra loro. Saranno pendolari, penso io, e mi giro con la faccia verso il muro. Riprendo i miei pensieri, riprendo quel mio sonno allucinato.

         Mi risveglio poi, e la sala è quasi piena. Allora poso i piedi sopra al grigio pavimento e mi sistemo in qualche modo. Tutti quanti continuano a osservarmi, parlano piano e si conoscono tra loro; io invece sono solo un forestiero. Allora esagero il mio ruolo: alla signora più vicina, a bassa voce, chie­do se non abbia qualche soldo. Lei si guarda attorno, sembra stupita, apre la borsa e con rapidità mi da' qualche moneta. Sono più soldi di quello che speravo, così esco da li e vado al bar subito a fianco, e senza salutare mi mangio una brioche. Ma è ancora presto, albeggia giusto adesso, dovrei dormire ancora un po'. Vado avanti e indietro lungo il marciapiede, ed ogni tanto mi soffermo per pensare, ma non riesco a maturare delle idee ed in compenso mi preoccupo per i brividi di freddo.

         Arriva un treno, fischia e poi si ferma; e i pendolari uno ad uno si infilano nei vagoni e si sistemano seduti. La sala per l'attesa adesso è quasi vuota. Con passo un po' svogliato vi ritorno, ma mentre sono sulla porta vedo in fondo alla stazione il magazzino per la posta. Ci sono sacchi, pacchi, e cartoni dappertutto; approfitto che non c'è anima viva e mi sistemo da una parte, dove non posso essere notato; e mi addormento come un sasso mentre penso a tutti i nomi, agli indirizzi, a quei mit­tenti delle lettere, dei pacchi, dei cartoni. Dovrei scegliere anche un nome, come gli altri, farmi pur chiamare in qualche modo. E portare anche un cappello, colore grigio, proprio giusto calato a mezza fronte. Coltiverei il rispetto, la fiducia, e fumerei parecchio, con decisa indifferenza verso i danni alla salute.

         Una mano sulla spalla mi risveglia. Non è gente cattiva, dico­no che è un po' che mi hanno visto e mi hanno lasciato fare. Ades­so devono togliere dei pacchi, proprio quelli attorno a me, distur­berebbero comunque. Mi chiedono qualcosa, non insistono, mi ve­dono confuso e allora scherzano. Hai bisogno di qualcosa, noi ci conosciamo quasi tutti, a volte ci aiutiamo. Mi rifilano dei soldi senza aggiungere nient'altro, che è come dire non tornare qui a scocciarci, però in modo bonario. Esco lentamente e mi ritrovo in piena luce; ho perso il mio cappello colore grigio e a mezza fronte, ma forse ho già imparato qualche cosa. Uscendo, sulla piazza antistante la stazione, sopra l'edificio leggo il nome del paese. Mi sembra un nome stupido, non avrei mai imma­ginato qualcosa di quel genere. Delle tre o quattro strade che vanno via da quella piazza prendo quella in apparenza più dirit­ta, la più lunga, che mi porta più lontano.

         Dopo circa un quar­to d'ora di cammino sono fuori del paese. C'è una pompa di ben­zina sulla strada e un uomo piccolo, solerte, che lavora su un motore. Ci salutiamo rinviando a un'altra volta un po' di enfa­si, ed io chiedo qualcosa tirando là domande sciocche, proprio giusto per parlare. Non sembra che abbia voglia di rispondere e forse, penso, non è suo solito far conversazione, stare a per­dere del tempo. Finalmente molla tutto, si rilassano le sue mani un­te e quegli arnesi rugginosi, e tiratosi su in piedi mi spiega qua­si a gesti che il paese, quello prossimo, è vicino, ci sono solo tre o quattro chilometri. Però è piccolo, saranno dieci case, se hai bisogno di qualcosa non c'è niente. Comunque puoi andare un po' più avanti: prendendo la corriera alla fermata qui vici­no puoi arrivare oltre a tutti questi piccoli paesi, quelli che si trovano per strada.

         C'è una bella cittadina laggiù in fondo, dice, e ci si trova un po' di tutto, cinema, negozi, divertimenti di ogni genere. Se ti andasse puoi perfino stabilirti per un po' lì nei dintorni, cercarti del lavoro, magari una ragazza seria: conosco della gente che affitta delle stanze a dei ragazzi come te, magari puoi trovarti bene, proprio sulla piazza principale, al numero quattordici. Puoi dire che sono io che ti ho mandato, sarebbe senza dubbio molto meglio. La corriera passerà solo tra un'ora, c'è del tempo per pensarci, puoi decidere ogni cosa, sen­za fretta. Quei discorsi mi parevano noiosi, senza senso; ascol­tavo il benzinaio esprimendogli interesse e sorridevo ed annuivo con la testa; ma guardandolo negli occhi pensavo ad altre cose e forse lui, in fondo a se stesso, lo sapeva, ma superata la sua prima riluttanza adesso aveva solo voglia di parlare.

         Sapevo den­tro me che non sarei mai andato a qual numero quattordici e sola­mente l'esserne convinto me faceva già star bene. Avrei voluto chiedergli un panino, se ne aveva, o anche dei soldi per pagare la corriera, ma c'era il rischio che cosi lui si offendesse. Alla fine domandai se non aveva qualche spicciolo, e allora certo, disse lui, se tu mi aiuti per spostare quel motore. Le mie mani presero subito il colore delle sue e lui sembrò contento. Adesso andava bene, mi mise in mano qualche soldo, uno straccio per pulir­mi e mi sorrise. Poi ci salutammo.

         Il paese più vicino era davve­ro poco più di dieci case, e in un attimo sfilò a lato della mia corriera. Poi arrivammo nella cittadina e quattro o cinque passeggeri avanti a me scesero in fretta, proprio all'ultima fermata, sulla piazza principale. Abbandonati sopra alle panchine dei vecchi ci guardavano, e qual­cuno conversava. Entrato in trattoria con le mani sprofondate nelle tasche mi sedetti dentro a un angolo. Avrei mangiato qualche cosa; poi qualsiasi decisione sarebbe andata bene.

         Durante quella settimana tornai a casa di Roberto. Nessuno si era preoccupato troppo della mia assenza ed io, nel giro di pochi giorni, trovai un lavoro. Niente di serio, scaricavo le cassette con la frutta da sopra degli autocarri tutti uguali. Il sudore era copioso e parlavamo a voce alta tutti quanti. Si inventavano battute e stupidaggini per cercare di salvarci dalla noia, dalla fatica, dalle azioni più ripetitive. Qualcuno era più forte, più robusto, indifferente a quegli sforzi. Per scherzo ci incitava, ci sfidava a far veloce, a scaricare tutto quanto più alla svelta All’incirca dopo un mese caddi indietro da una sponda. Un braccio si era rotto e mi faceva un male da morire. Mi caricarono su un'auto e in un attimo arrivammo all'ospedale. Niente di grave, una frattura. Al medico di turno gli dissi che anche la testa mi faceva male; o meglio, mi sentivo un po' confuso, tutto intor­no mi sembrava si muovessecome fuori da una giostra.

         Mi assegna­rono un armadio, un comodino, ed un letto ben rifatto; nella stan­za si era in dieci ed ognuno chiacchierava dei suoi guai. Mi fecero le analisi di rito e dopo un paio di settimane mi dimisero, guarito. L'assicurazione mi pagò piuttosto bene e in poco tempo mi dimenticai di tutto. Adesso, mentre continuo a rigirarmi nel mio letto, ripenso a quale senso di riposo mi concesse in quel periodo l1ospedale, il letto bianco, le infermiere gentilissime. Si stava bene, c'era luce, si potevano leggere dei libri e anche parlare. Per trovare comprensione mi inventai parecchie cose1 ma di solito, invece di parlare dei miei fatti, mi mettevo da una parte ed ascoltavo tutti gli altri, qualsiasi cosa stessero dicen­do.

         Una sera ero voltato con la faccia verso il muro e dopo un po’ cominciai a piangere. Allora cercai di controllarmi, tossii parecchie volte e feci venire l'infermiera. Si chiamava Rita ed io le dissi senti rimani qui con me dieci minuti. Tenni una sua mano tra le mie e dolcemente mi sfogai, senza vergogna. Mi chiese cosa avessi, ma io le dissi che era troppo complicato, impossibile spiegarlo. Rettificai immediatamente; il mio dolore si chiamava solitudine. Lei mi capiva, disse, e si parlò parecchio in quei restanti cinque giorni d'ospedale. Quella sera mi fece un'inie­zione, un semplice calmante, assicurò. Dopo dimesso ci vedemmo qualche volta. Andavamo in giro e si parlava dolcemente, senza fretta. Poi ci si perse e tutto quanto finì lì.  Il perché non saprei dirlo.

 

 

 

 

 

 

         Capitolo 12

 

 

         Di mia moglie non mi fido. La osservo mentre dorme e mantengo le distanze. Sì approfitta del suo stato, recita una parte punti­gliosa; e mi chiede il più possibile misurando il sentimento. Sen­za di me non riuscirebbe a sopravvivere ed anche adesso sa per certo che ci sono. Mi cerca, anche nel sonno, si appoggia su di me. Ha bisogno del mio amore, dei miei modi, di maniere consu­mate in tanti anni. Abitudini leggere, come neve che cadendo si deposita. Uno zoccolo di ghiaccio che alla fine è scivoloso, un poi antipatico. Mia moglie mi perseguita. A volte sono stanco, disattento, e questo non lo accetta.  In qualsiasi modo mi compor­ti la maggior parte delle volte la deludo, e di questo me ne fa una colpa. La sua arma è quel silenzio ricercato, quel suo sguar­do che mi evita.

         Passa giornate relegata dentro a un angolo aspet­tando con pazienza che io sbotti o che mi faccia perdonare. Sento la colpa su di me, dentro di me, e una sottile angoscia mi pervade. So di aver già fatto tutto ciò che era possibile, però mi interro­go per capire se potrei fare di più. Quando poi si sente meglio per reazione la tradisco. O meglio, vado in giro, cammino per le strade, nei mercati, e cerco gli occhi di altre donne. Ne osservo i capelli, i lineamenti, e tento di capire quale vita possano condurre. Mi appaiono tutte quante più felici di lei, e allora torno a interrogarmi. Mi chiedo se per caso abbia sbagliato qualche cosa. O se non possa mitigare il mio carattere, i miei modi.

         A volte ho proprio l’impressione che lei non dica tutto, che tenga celati entro se stessa dei segreti. Cose importanti, basilari, che stanno alla base della formazione del carattere, del suo modo di pensare. Allora mi sprofondo per cercare di intuire, di suppor­re delle ipotesi. Poi ritorno finalmente verso il mio disinteres­se. A volte usciamo assieme, facciamo delle compere, ciascuno ti­ra fuori i propri gusti e in genere troviamo un certo accordo. Ci divertiamo molto ironizzando con sagacia su questo o quell'ar­ticolo. Una volta, sotto alla mia giacca, nascosi una camicia troppo cara. Eravamo un po' in tensione e appena fuori, sulla stra­da, continuammo a ridere per molto, indifferenti a quanti ci osser­vavano. Andammo avanti per un pezzo sgraffignando delle cose; lo facevamo praticamente dove capitava, e si prendeva proprio niente di importante, tutta roba della quale avremmo anche potuto fare a meno. Ci dava gusto un po' di rischio, sentire di esser furbi; o forse l'importante era quel filo di complicità, proprio tra noi, così lontani, quell'incredibile sentirci uniti in qualche modo.

         Poi ci videro e il direttore del supermercato ci trattò malissimo. Tutto apparve triste, grigio, incanalato. Niente fughe dal reale, guadagnare soldi per poi spenderli, questo tutto il grande ammo­nimento. Trovai un lavoro in quel periodo. Lo seppi da una let­tera che aprii con titubanza. Mi davano soltanto dieci giorni pri­ma di iniziare, ma prima ancora avevo l'obbligo di andare in un ufficio e di firmare qualche cosa, roba burocratica, l'accettazio­ne forse, non ricordo.  Il primo giorno fu abbastanza divertente. Conobbi i miei colleghi e si parlò parecchio di argomenti un po’ svagati; del lavoro, delle donne, normalissime superficialità. Sorrisi molte volte a tutti quanti e guardai dritto negli occhi chiunque mi parlava. Comportandomi così ero sicuro fin da subito che avrei dato di me una favorevole impressione. Ed effettivamente non avevo torto.

         Da piccolo un amico mi aveva spesso affascinato per la sua capacità di essere sempre sorridente. Sapeva rendersi simpatico e piacevole anche a quelli che in segreto avrebbe volentieri stran­golato.  In questo modo ricavava sempre dei vantaggi ed alla fine risultava sempre vincitore.  Inutile dire quante volte abbia cercato di emularlo non riuscendoci  Però in certe occasioni mi veniva na­turale fin d1allora, non so proprio perchè1 e questo fatto devo proprio riconoscere che spesso mi ha aiutato. Il lavoro vero e proprio era un'emerita sciocchezza; la cosa più difficile era cer­car di mantenere dei rapporti equilibrati coi colleghi. C' erano alcuni che parlavano molto e cercavano dagli altri solo considera­zione. Un paio di solito ridevano, a volte un po' smodatamente, come per cercare di mostrarsi enormemente divertiti. E tutti quan­ti si parlava e si scherzava di ogni cosa, del lavoro, di sciocchez­ze, qualche volta degli altri e degli assenti.

         Dopo qualche diffi­denza fui accettato come tutti e in poco tempo i miei colleghi la finirono di farmi domande sulla mia vita privata. Inutile dire che rispetto alle domande di quel tipo cercavo d’essere il più possibile evasivo. Dopo qualche settimana cominciai a stare un po' di più per conto mio, e questo fatto, almeno mi sembrò, non infastidì quasi nessuno. Avevo notato una ragazza, fin dai primi giorni, che non usava le maniere dei colleghi. Sempre appartata, silenziosa, si applicava al suo lavoro e basta. Dopo due o tre settimane, quando oramai avevo capito come funzionavano le cose, con una scusa andai da lei, e con circospezione cominciai a parlarle. Il suo problèma non sembrava legato a timidezza: semplicemente si portava dentro sé un disinteresse verso tutti. E sicuramente aveva un buon motivo per giustificare il suo comportamento, ma dava l'impressione che non l'avrebbe rivelato neppure in una stanza di tortura. Parlava a frasi secche, senza tante spiegazioni, e di se stessa lasciava intravedere solo l'immediata superficie. Le sue difese insomma erano tante e tutte ben organizzate, ed il suo sguardo non cercava comprensione, ma riposava sulle cose, sugli oggetti, a volte anche di là dalle finestre.

         Non mostrai curiosità, par­lai molto di me cercando di apparirle familiare, comprensivo, de­gno di fiducia. A qualche anno di distanza ripensando a quale tipo di interesse poteva suscitarmi in quel periodo, mi sembrò che fosse la sottile sofferenza che ambedue, da qualche parte, ci portavamo dentro; ed anche oggi ripensandoci mi pare che do­veva esser così. In fondo mi sentivo curioso; dovevo in tutti i mo­di scoprire qualche cosa. Nei giorni che seguirono non la vidi quasi mai. Poi, durante una mattina, venne lei da me. Mi chie­se qualche cosa, così, per attaccare. Si sedette fingendo non­curanza, giocò con qualche penna sul mio tavolo e mi parlò di una sua amica. Non capivo se il suo scopo era di chiedermi un consiglio oppure un'opinione; poi mi resi conto che usava un argomento preso a caso, di quelli che ti spremono i pareri, e che lei su questa base mandava avanti la sua indagine. Era chiaro che cercava un'altra prova su di me; voleva assicurarsi che io fossi il tipo giusto a cui concedere qualcosa, per parlarmi dei suoi guai, forse, e ma­gari soltanto di una parte. Stetti al gioco facendo il disponibile, e do­po qualche scambio di battute tornammo tutt'e due al nostro lavoro.

         A quel punto era mio compito escogitare qualche cosa. Però con calma, senza fretta. Indifferentemente tutti quanti i miei col­leghi continuavano a ridere e a parlare, ed a nessuno venne in mente di notare il mio interesse che nasceva. Ogni volta che in­contravo lei, il suo sguardo, o le passavo accanto, tiravo fuori ogni virtù camaleontica. Giocavo ad essere gentile, premuroso, come con tutti d'altra parte, ma con lei in modo speciale, sempre sorridente e disponibile; qualche volta, in maniera ricercata, fingevo noncuranza, indifferenza, tralasciavo di guardarla o di sorriderle, e questo era notato, ne ero sicuro. In fondo, dentro me, non pensavo altro che a lei, a cosa mai stesse pensando, a quello che aspettava che facessi. Quando uscivo dal lavoro mi scoprivo sempre più convinto che il mio interesse verso lei era la valvola di sfogo della noia, del fastidio di trascorrere le ore su quei tavoli. E forse in quel periodo era così, ma in se­guito le cose si mostrarono diverse.

         Alcuni giorni dopo appoggiai sopra al suo tavolo, assieme a delle carte di lavoro, un piccolo biglietto ripiegato. Mi assicurai che lo notasse e senza dirle nulla continuai ad occuparmi delle mie mansioni. Sbrigativamente le chiedevo di aspettarmi, a fine turno, subito all'angolo, fuori dall'ingresso. Devo parlarti, le dicevo, e poi nient'altro. Ero in tensione, quella parte mi prendeva, e la mattina sgocciolava via in una lentezza esasperante. Ad un tratto mi passò vicino, e con lo sguardo molto serio, quasi di rimprovero, accennò che an­dava bene, si sarebbe trattenuta ad ascoltarmi.

         Cercai di concen­trarmi su qualcosa, ma non riuscivo in nessun modo a procurarmi altri pensieri. C'era lei, probabilmente sulla difensiva; avrebbe tirato fuori con tutte le sue forze l'espressione indifferente. Indifferente verso tutto, verso me, verso il lavoro; vedevo già la situazione, e tutto quanto probabilmente sarebbe sprofondato. Le mie parole erano retoriche, dentro di lei non creavano interes­se.  Il suo spiraglio di fiducia, facendo quella mossa, probabil­mente lo avevo già bruciato. Non capivo in nessun modo come mi fossi lasciato trascinare; dalla mia fretta, forse, dalla mia cu­riosità, o dalla voglia di arrivare fino in fondo. Un biglietto, che idea assurda, scritto e ripiegato in malo modo. Come se fossimo due amici; oppure conoscenti. Senza dubbio avevo chiesto troppo; e poi, pensando all'improvviso a quell'appuntamento, mi pareva che non avrei neanche saputo cosa dirle. Precipitoso, ecco tutto il guaio; con le mie mani, per un pensiero disgrazia­to, stavo rovinando quell'intesa a cui tenevo, che sarebbe matu­rata senza sforzi, sospinta da noi stessi. Pensai di spifferare tutto quanto appena fuori; le avrei detto che pensavo a lei tutti i momenti, che pensavo a quei suoi occhi, a quell'espressione as­sente. Mi avrebbe riso in faccia, dovevo in tutti i modi stare al gioco ed andare fino in fondo, usando modi di fare decisi, convin­centi.

         Avrei voluto prenderle le mani, con dolcezza, dirle qual­che cosa di carino, ma avrei sciupato tutto. Mi sentivo sopra a un filo: difficilissimo sarebbe stato conservare l'equilibrio. Però al mio tentativo non avrei mai rinunciato. Quando arrivò l'ora mi sentivo stanco. Dopo aver messo la firma sul registro salutai qualcuno dei colleghi e senza fretta mi avvicinai all'usci­ta. Sulle scale, mentre lentamente guadagnavo il marciapiede, l'aria fresca all'improvviso mi faceva stare bene, come se tutto fosse già passato. In un attimo arrivò anche lei ed io iniziai con lo scusarmi.

         Mantenendo gli occhi bassi lei mi chiese se po­tevo accompagnarla non so dove, però non c'era fretta, bastava al­lontanarsi da quel luogo. Era chiaro, si sarebbe dispiaciuta se qualcuno degli uffici si fosse incuriosito su noi due; questa con­sapevolezza mi dette più coraggio; mi pareva, all'improvviso, che io e lei si fosse in qualche modo più vicini. Andammo in un caffè e ci sedemmo dietro a un tavolo. Non mi pareva il caso di introdurre con distinguo e con sagacia l'argomento, perciò andai subito al sodo. Le chiesi dei quattrini, spiegai che avevo qualche guaio; al mio stipendio assicurai che le avrei reso tutto quanto. La prese molto bene, non era una gran cifra, me l'avrebbe procu­rata il giorno dopo. Sul suo viso si notava finalmente una legge­ra meraviglia e forse anche una briciola di curiosità, ad ogni modo non mi chiese quasi niente. Anch'io rimasi freddo: se ero li, feci capire, era soltanto per i soldi.

         Quando uscimmo ringra­ziai frettolosamente e poi la salutai con cortesia ma evitando le maniere sdolcinate. Il giorno dopo, in una busta che mi dette di sfuggita, c'erano i soldi e niente altro. La settimana che segui, come promesso, restituii la cifra. Assieme a quegli stessi soldi c'era un bi­glietto scritto a penna. La invitavo a cena fuori e le spiegavo che volevo ringraziarla; per merito suo tutti i miei guai erano risolti, le dicevo. Ci pensò un intero giorno; poi, durante la mattina che seguiva, venne al mio tavolo. Sei un tipo strano, disse; però va bene, possiamo uscire questa sera. E quella sera fui rapito; dai suoi occhi, dai suoi modi. Era chiaro, non l'ave­va bevuta la faccenda dei quattrini, però le era piaciuta. O per­lomeno mi faceva credere di averla un po' gradita. Forse, in fondo in fondo, a lei non era interessato proprio nulla dei miei guai veri o fasulli; aveva solo approfittato della possibilità che le era offerta. Magari, quand'era poi rimasta sola, aveva anche sorriso ripensando al panegirico che avevo messo in piedi per uscire assieme a lei. Certo che a me di sapere tutto questo oppure no non importava proprio niente. Guardavo nei suoi occhi, la sua espressione un po' sfuggente, quei suoi sguardi a volte ambigui e mi pareva affascinante. E affascinanti quei suoi modi, quei silenzi, quell'ascoltarmi senza alcun commento, lasciandomi dire tutto, esattamente tutto quello che volevo.

         I miei pensieri li esternavo, li dovevo tirare fuori scavando dentro me fin nel profondo, cercando di far sì che lei capisse bene, che non mi fraintendesse. Dentro di lei l’esigenza era contraria: mantenere i suoi pensieri il più possibile nascosti, occultarli in qualche modo e non dir nulla di se stessa. Ecco, non dire nulla di se stessa, questo era il proposito che pareva si imponesse.

 

 

 

 

 

 

 

         Capitolo  13

 

 

         Cominciammo col vederci abbastanza assiduamente.  Si girava in lungo e in largo la città, si scoprivano locali, angoli un po' nascosti, ci pareva tutto interessante. L'avevo già baciata, durante questi giri, ed era stato bello, estremamente delizioso. Anche a lei non era dispiaciuto, ne ero certo, però non aveva det­to nulla, aveva solo cercato di rimanere indifferente. Si parla­va molto, ci scambiavamo dei pensieri, e delle volte ci tenevamo per la mano con dolcezza. Poi si decise che era giusto andare al mare per un fine settimana. Non prenotammo alcun albergo, si pen­sò di divertirsi ad ispezionarli di persona.  Con mia moglie ebbi una scusa che filava, e tutto quanto scivolò nel verso giusto.

         Mi piaceva tutto quanto, ero contento. Far l'amore, dormire as­sieme a lei, tutto stupendo. E fu così anche al di sopra di qualsiasi aspettativa. Quando tornammo si era tristi: si chiudeva quella piccola parentesi. Qualcosa era cambiato e lentamente ci stavamo innamorando.  Si parlava tra di noi e ci sembrava di co­noscerci da sempre. Le cose più ordinarie apparivano stupende e qualsiasi chiacchierata era importante, come un piccolo elemento di una nostra conoscenza più profonda. Prima di lasciarsi parlam­mo di noi due e lei mi disse ciò che già sapevo, o che almeno immaginavo. Era gelosa, le pesava che tornassi da mia moglie e che rientrando dovessi fingere qualcosa, inventami delle storie, sfug­gire alle domande. Avrebbe voluto dire a tutti che eravamo stati assieme e che si era stati bene, meravigliosamente. Ma non poteva farlo, il nostro era un rapporto clandestino e tutto questo le pesava.

         Aveva però voglia di me, di star con me, d1avermi ancora, e adesso sapeva che ero buono, che poteva aver fiducia. Immaginai che un giorno, forse presto, mi avrebbe senza dubbio rivelato il suo segreto. Fu bello ritornare da mia moglie. Adesso sopportavo meglio i suoi difetti, il suo carattere difficile. Il giorno dopo ritornai al lavoro e c'era lei. Occhieggiai tra tutti quanti per cercarla e quando vidi che era là come suo solito e guardava verso di me ebbi un tremore, uno sconquasso nel profondo.

         Nelle settimane che seguirono si decise di vedersi con una certa regolarità. Sul lavoro la situazione era tremenda. Ogni tanto si scambiava qualche occhiata tra di noi e perlopiù si sospirava. Raramente, per non essere notato, andavo verso lei e le sorridevo. Qualche volta si parlava ma pareva che i colleghi non volessero lasciarci mai da soli. E le serate andavano via come in un lampo.

Adesso, in questo buio, in questo letto un po' antipatico, mi sembra quasi di sentire quel profumo, quell'odore del suo corpo, quei suoi fianchi, le sue mani. La situazione iniziò ad essere ogni giorno più difficile. Una sera lei mi disse che era stata violentata. Erano comunque già passati alcuni anni, ma per lei le sensazioni erano vive. Pianse ricordando tutto quanto, ogni particolare, e anch'io ero un po' commosso.  In seguito scoprii che non era vero.  O alme­no, se pur non era tutto falso, nei racconti che faceva qualche cosa non quadrava. Ci conoscevamo sempre meglio e con un solo sguardo si capivano le cose.

         A un certo punto, dopo diversi mesi, le sue contraddizioni cominciarono a infittirsi.  Allora anch1io cercai di ritirarmi nel mio guscio. Si venne a degli scontri e pian piano si capì che era tutto insostenibile. La sua gelosia era pazzesca e le sofferenze che provava erano forti. Così re­stituiva tutto quanto sotto forma di nevrosi e qualche volta mi attaccava anche se spesso ci amavamo. Si stava ancora bene ma era difficile sentirsi un po' tranquilli. Allora, senza tante spiegazioni, io mi feci trasferire.

         Per lavorare andavo ad un al­tro ufficio e non vedendoci in un luogo così odioso pensavo che qualcosa si sarebbe sistemato. Invece continuava tutto uguale e oramai una scelta si imponeva. Qualcuno, in quel periodo, scris­se una lettera a mia moglie. Era un anonimo e spiegava con detta­gli tutto quanto. La crisi fu notevole ed in virtù di discussio­ni senza fine sia con lei che con mia moglie nessuna delle due voleva più vedermi. Cercai dei compromessi poco onesti e poi al­la fine me ne andai Un mio amico mi ospitava, potevo star da lui quanto volevo. E fu un periodo molto triste.

         L'amico era simpatico, tutto quanto era perfetto, ma io mi sprofondavo nei miei guai pensando e ripensando le mie cose.  Delle volte passavo davanti al vecchio ufficio; sapevo che era là, che lavorava, col suo segreto, la sua sfiducia, tutto il suo mondo. Probabilmente per lei provavo amore; si, senza alcun dubbio, l'amavo senza re­more, ma tutto quanto era talmente complicato che i sentimenti mi sembravano secondari. Spesse volte passeggiavo meditando, e poi fumavo sigarette molto forti. Un giorno, proprio mentre ne accendevo una soffermandomi davanti ad un negozio, mi ritrovai di faccia con mia moglie. Passava là per caso, non c'era alcuna intenzionalità nel nostro incontro, ma tutto quanto era piuttosto divertente. Ridemmo un po’ senza spiegarsi e poi ci salutammo. La nostra cortesia, in ogni caso, era profonda e anche spontanea, come data da un gran senso di rispetto.  Allora mi spiegò cosa cercava in quella strada ed io le dissi che cos’era che facevo; infine, quando poi ci  salutammo, tutto quanto sembrava un'ironia. La settimana successiva tornai a casa.

         Trovai buone parole per spiegare alla mia amante ciò che stava succedendo.  E lei mi dis­se che ero un mostro, senza dubbio non avrebbe mai voluto rivedermi. Io e mia moglie ci impegnammo subito a spostare qualche nobile, a comperare qualche quadro, a sistemare la cucina. Ci divertimmo un po' a immaginare un' altra casa, su due piani, più spaziosa, andammo addirittura ad un'agenzia. Poi, in poco tempo, tutto riprese il tono solito. E poco dopo all'improvviso le ricomin­ciarono i dolori. Soffriva molto, specialmente nella notte, e certe volte mi cercava. Allora mi svegliavo, con pazienza, e lei mi sorrideva nella luce della lampada. Era contenta di trovar­mi, di sapere che ero lì, ed io mi prodigavo, un poco d'acqua, le pastiglie, qualche volta un'iniezione.

         All’ incirca un anno dopo ebbi occasione di cambiare il mio lavoro. Ero piuttosto dispiaciuto pur andando a migliorare, e allora feci il giro ritua­le dei saluti. Quella mattina mi recai anche al vecchio ufficio e già salendo quelle scale sentivo un gran disagio che cresceva dentro me. Lei era là, dov'era sempre stata. Tutti quanti mi stringevano la mano e si dicevano contenti. Qualcuno mi parlava di qualcosa ed io gli sorridevo senza ascoltare una parola. Poi, ad un tratto, sembrò che non ci fosse più nessuno. Lei si era alzata dalla sedia e lentamente mi veniva incontro.  Forse anche lei voleva salutarmi, come gli altri, ma il suo viso era più triste, più offuscato. Quando si fermò, di fronte a me, i suoi occhi la­crimavano. Allora la presi tra le braccia, la strinsi forte for­te e le baciai i capelli. Probabilmente tutti quanti ci osservavano, ma a noi non importava. Non ci scambiammo neppure una pa­rola, però giurammo qualche cosa, senza dirci nulla.

         Uscendo dal palaz­zo degli uffici i miei pensieri turbinavano. Ero confuso, e nei pensieri la mia vita era in disordine. Ce l'avevo con me stesso. Ce l'avevo con qualcosa anche più grande di me stesso. Mi senti­vo come un pesce, un pesce stupido che si è impigliato in una re­te fabbricata da se stesso. La mia vita fino allora era sempre scivolata senza salti, senza scelte troppo ardite;  e all'improvvi­so tutto quanto mi appariva definito, come se, pur non scegliendo­lo, la mia vita avesse preso un suo indirizzo, in modo autonomo, settario, e a me fosse richiesto di seguirlo, solo questo.

Camminando senza meta andavo dietro a dei ragazzi che ridevano e scherzavano tra loro. Tanti anni prima, ad un'età come la loro, non avrei mai sospettato che la vita stesse riservandomi quanto stava capitando. Non mi era mai successo, ad ogni modo, di tro­varmi dentro a un nodo di problemi come quello. Non riuscivo ad essere deciso, ad avere volontà per far qualcosa. Il pensiero martellante mi riportava ad una realtà immodificabile: tutto era deciso, stabilito, niente era possibile cambiare. La mia natura era difficile, contorta, nessuno avrebbe avuto l'alto ingegno di comprenderla, pensavo. Aiuti o anche consigli da qualcuno non potevo pro­prio chiederne, dovevo risolvere da me quei miei problemi, ma ero ben conscio che purtroppo non sapevo come fare. Anzi, era senz'al­tro molto meglio se mi tenevo tutto questo per me stesso, evitan­do d'inquinarmi con consigli stravaganti.

         Lasciai i ragazzi e girai un angolo. Era pesante continuare ad accettare quella resa, ma non potevo in nessun modo fare altro. Avrei voluto tanto che le condizioni mi avessero spiazzato, magari fin da subito. Ma tutto invece era fluito lentamente, un po' troppo lentamente; avevo fatto l'abitudine a ogni cosa, perfino a quegli affetti, ai sentimenti, ai miei dolori. Mi fermai a una farmacia e com­prai una medicina che serviva per mia moglie. La mia vita si era già stratificata, adagiata su costante indifferenza. E que­sto dato, con mia piena sicurezza, era un fatto inoppugnabile. In un negozio di prodotti per la scuola comprai dei fogli bian­chi, a grana grossa, carboncini per disegno e alcuni lapis. L'indifferenza era la mia, verso ne stesso, verso ciò che mi era sempre capitato. Non mi ero preoccupato, non avevo fatto niente, ed adesso era ornai tardi.  Portai a casa tutto quanto assieme a un poco d'apprensione.

         Mia moglie era già uscita. Il suo lavoro al guardaroba del teatro le impegnava ogni serata, allora corre adesso. Va via prima di cena, con la macchina, e arriva fino in centro. Quando torna è sempre stanca, fa un orario che è qualcosa di impossibile. A volte esce fuori dal teatro a notte fonda. E spesso quando arriva sono a letto e mi trova addormentato, con la luce ancora accesa ed il libro sopra al viso. Da quella sera cominciai a fare disegni  All' inizio limitandomi a giocare con le rette e con le curve. In seguito scegliendo delle forme defi­nite. Cercai di riprodurre delle rocce, delle pietre, sassi e ciottoli alle volte spigolosi, in qualche caso tondeggianti. I massi mi apparivano pesanti, inamovibili; c'era un fascino che senz'altro mi prendeva. Pian piano quelle pietre diventarono più piccole e qualcuna cominciò con lo squadrarsi. E venne fuori qualche parallelepipedo un po' vago, appena un po' sbozzato.

         Qual­che volta usavo le matite per cercare sfumature di colori ed ar­ricchire la materia.  In seguito orientai il mio impegno per de­scrivere lo sbozzo delle pietre. Serie di tre o cinque disegni che illustravano il passaggio dalla roccia senza forma a dei so­lidi squadrati. Torreggiavano di sbieco sopra al bianco dei miei fogli, ed a volte erano alti, un po’ imperiosi. Quelle pietre era­no ferme, inamovibili, sicure. E con la loro posizione segnalavano un passaggio, dimostravano una traccia. Stabili, imprecise nelle forme come se la forma fosse solo debolezza, tutte quante infisse nella terra, e nella terra freddamente dimoravano. A mia moglie nascondevo tutto quanto; quei miei fogli erano celati in un arma­dio, bene in fondo. E in quel periodo non ne avrei parlato con nessuno, neanche per un'ottima ragione.

         E quelle pietre ogni vol­ta che nascevano sul foglio mi parevano più belle, più naturali e definite. Come mie, come una parte di me stesso. Scartai i miei primi disegni; gettai via i meno riusciti.  Ed alla fine, di tutto quel lavoro, mi rimasero soltanto alcuni fogli. Allora smisi; appena un gruppo di disegni era rimasto di tutto quel lavoro, ma bastava, era senz’altro sufficiente. Dopo dei mesi durante i quali meditai altri soggetti da trascrivere sui fogli, ripresi in mano le mati­te.  Disegnavo a brevi sprazzi, con impegno, e mia moglie mi osser­vava qualche volta. Le dimensioni, durante la mia maturazione, si erano fatte più minute, e tutti i fogli erano tagliati alcune volte prima di essere impie­gati. Alla fine mi risolsi ad appuntare dei soggetti su un qua­derno. In luoghi inusuali, nei momenti più diversi tiravo fuori il mio quaderno e disegnavo. In questo nodo tirai avanti alcuni anni, e tutto questo mi bastò.

 

 

 

 

 

 

         Capitolo 14

 

 

         Forse ho trovato un sostituto. Avevo iniziato a pensarci qual­che tempo fa, quasi per scherzo, proprio senza alcuna convinzione. Poi, quasi a continuazione dello scherzo, avevo messo un'inserzione sul giornale, telegrafica, di comprensione minima però efficace;  ogni parola in più il doppio del prezzo per l’inserzione. Il significato però era ben chiaro, avevo composto quel messaggio varie volte, provando e riprovando. Ero andato all'a­genzia con una certa titubanza. Si trattava di copiare tutto quanto su dei moduli precisi, scrivendo bene ogni parola, det­tagliando la punteggiatura, e apporre in fondo i propri dati.

         Negli uffici cera molta gente, perlopiù professionisti, mi sem­brava. Sugli scrittoi appoggiati alle pareti tutti quanti con­centravano i pensieri. Alcuni continuavano a sbagliare e a ri­provare;  e i cestini traboccavano di moduli stracciati. Accan­to a me un signore anziano ripeteva a bassa voce le parole, pro­prio come per sentirne il suono, per misurarne l'impressione. Altri erano di fretta e cercavano di sbrigarsi. Di là dai banchi, dove accettavano le inserzioni compilate, signorine snobbanti si muovevano veloci, quasi a scatti, registrando tutti i dati con solerzia. I loro sguardi rimanevano abbassati quasi sempre sopra ai fogli. Solo qualche volta sorridevano e in genere alle vecchie conoscenze. Probabilmente non avevano quel tempo necessario per sorridere di più, e poi, in qualunque caso, nessuno ne vedeva la necessità.

         Una ragazza alta, masticando qualche cosa, prese l'inserzione che tremava in mano mia. Controllò qualcosa, trascrisse qualche dato poi alzò gli occhi per guardarmi. Fu soltanto per un attimo, e in quell'attimo controllò, forse d'istinto, pensai io, se almeno in apparenza fossi normale. Senza più guardarmi la signorina mi allungò la ri­cevuta sopra al banco ed indicò la cassa per pagare. Uscii con senso di sollievo e poi mi preoccupai di altri problemi.

         La set­timana successiva l'inserzione era stampata. Alla prima voce tele­fonica che chiedeva chiarimenti risposi con cautela, dilungandomi su cose ininfluenti ed usando il miglior tatto che riuscii a rastrellare tra i miei modi. Era difficile, lo sapevo fin da subito, trovare per mia moglie un buon marito. I primi cinque o sei pur dimostrando l'interesse doveroso si lasciarono probabilmente spaventare dal carattere difficile. Non potevo essere falso, era mio compito il metterli al corrente sen­za nascondere niente. Un paio di loro si giustificarono che la malattia li spaventava, ed anche a questi non potevo dare torto. Uno poi spiegò che aveva molti soldi, abitava una gran casa, avreb­be preso un'infermiera per attendere a mia moglie. Ma a me solo alla voce dette idea di un tipo autoritario, abituato a comandare, e cosi con una scusa lo scartai.

         Per ultimo, dopo quella lunga lista di telefonate, un signore intimidito confessò che tutto quanto era proprio quello che cercava; si sen­tiva molto solo, il suo bisogno era quello di essere utile a qual­cuno. Con poche frasi gli fissai un appuntamento, ed io fui ben felice di dettargli l'indirizzo. Avrebbe visto coi suoi occhi me, mia moglie, questa casa, si sarebbe facilmente formato una sua idea. La casa era modesta ma abbastanza confortevole, e il salotto era ideale per il the e per conversare. Il campanello fece un trillo proprio all'ora pattuita, e questo fatto mi sembrò di buon auspicio.

         Ci sedemmo, dopo le presentazioni, con inviti e convenevoli, e si disse qualche cosa di banale dimostrandoci impacciati. Poi lui disse che una casa come questa era adatta per un cane. O meglio, non capiva come mai noi non ne avessimo mai avuto almeno uno, visto che tutto era ideale, pareva proprio fatto apposta. Si, certo, anche a noi i cani piacevano, però semplicemente non avevamo mai pensato di legarci a un animale. Lui si; era entusiasta, innamo­rato dei giganti terranova. In gioventù ne aveva avuto uno, poi la vita lo aveva portato a preoccuparsi di altre cose.  Quello era morto, si, sotto a una macchina, uno strazio;  giorni e giorni di speranze, poi più niente.  Soltanto un gran dolore e un posto vuoto, disse.

         Quell'uomo era simpatico, anche mia moglie pareva divertirsi. Lei disse che se il cane gli sembrava strettamente necessario non avrebbe fatto opposizioni. E questo fu un invito più che esplicito. Si congedò quasi di fretta, ma con gran cordialità. Tutto era perfetto, andava tutto proprio bene, sarebbe tornato per la cena, giovedì. Così portò del vino, di gran marca, e anche del dolce;  non si accorse quando a noi venne da ridere guardandoci da dietro alle sue spalle. Ci aveva portato le fotografie di quel suo cane, e noi avevamo cucina­to. Roba di pesce, con le ricette pressappoco originali tirate fuori da un librone polveroso. Tutto squisito, disse, e ci parlò del suo lavoro. Un impiegato, ci spiegò, e ora sperava in capouf­ficio. Quasi vent'anni di carriera, e proprio niente da eccepire.

         Si fecero le chiacchiere più strane con del grande vino bianco, e a tarda sera si decise tutti quanti che era meglio se dormiva sul divano. Non era in condizioni, tutta la strada con la macchina e poi per starsene da solo. La mattina successiva avrebbe detto a quell'arcigna segretaria che non si era sentito troppo bene. E così sarebbe stato un po’ con mia moglie.  Avrebbero parlato di spostare qualche mobile, di imbiancare la cucina. Si poteva sistemare la terrazza, comprare piante e fiori un po’ più allegri, da metter bene in alto, in evidenza; e la cuccia per il cane proprio in fon­do.

         Io, per mio conto, al mattino, uscii abbastanza presto. Non mi sentivo particolarmente sollevato, però quell'uomo mi piaceva, era cordia­le.  Bastava stuzzicarlo un po' di più e lui iniziava a dire e poi a ridire. Nessuna cosa sciocca; la sua vita, le sue cose, soprattutto i suoi pensieri. Un tipo pratico, concreto, però quasi impaurito dalla gente. Appariva soddisfatto di ciò che sta­va succedendo. Una sera confessò che il suo problema principale, quello di tutta la sua vita, era stato da sempre la mancanza di amicizie. Quelle vere, s'intende, quelle con le quali essere sin­ceri e dire tutto. Si era sempre sentito in solitudine, fin da ragazzo, e pian piano gli era parso di richiedere amicizia co­me fosse carità.  Così si era rinchiuso ancor di più, dentro a se stesso e con quel cane.  A giro su dei prati periferici, in estate e anche in inverno, senza alcun vizio, nessun caffè da fre­quentare, neanche qualcuno per un po' di compagnia. La nostra casa adesso gli riempiva tutto il cuore.

         Non voleva in nessun modo che io andassi via da li; ma se stiamo così bene, diceva. Lui si sarebbe sistemato sul divano, i primi tempi, poi pian piano avrebbe portato tutta quanta la sua roba. Poche cose, dei vestiti, qualche libro. Dopo un mese, in una stanza adibita fino allora a salottino, allestimmo la sua camera. Era felice. A tratti sem­brava un bambinone che giocasse con la sua esistenza. Mia moglie era serena. Le rimaneva congeniale avere due persone che giravano per casa. Molte cure le spendeva per quell'ultimo arrivato, e mi pareva giusto, ma anche con me aveva subito adottato un diverso atteggiamento, più dolce e comprensivo. Le serate andavano via tranquille e c'era sempre qualche cosa da studiare e da inventare. Cominciamo a far dei giri con la macchina di lui, un vecchio modello, ma molto comoda. Guidavo io ordinariamente, perché lui era distratto e si annoiava. Si andava a delle sagre, a delle feste di paese, a volte anche a vedere qualche chiesa.

         Poi una volta si decise di dormire in un albergo. Eravamo un po' lontani, io ero stanco di guidare e sulla strada c’era proprio una pensione. Con una certa titubanza da ogni parte chiedemmo di tre camere singole, e nel corridoio ci augurammo buonanotte. Tutta la faccenda risultava abbastanza divertente. Il giorno successivo, forse lo strapazzo, forse il mangiare trop­po insolito, a mia moglie le ripresero i suoi soliti disturbi. Lui all'inizio cercò di essere utile come meglio gli riusciva. Continuamente trotterellava in qua e in là, e dentro casa non riu­sciva a star seduto, e preparava medicine, alimenti adatti e de­licati, e così via; cercava anche di alzare un po' il morale di mia moglie, pur non riuscendoci, e sottovoce mi chiedeva delle cose, se era meglio questo oppure l'altro.

         Dopo due giorni era stremato. Venne da me e mi chiese quanto mai poteva andare avan­ti la faccenda. Gli dissi che era meglio se teneva i nervi sal­di, e lui rispose che era dura, aveva bisogno di una mano. Mi resi conto che la situazione era un po' troppo assurda, così gli chiesi di andar via, per qualche giorno, qualche settimana al massimo, e ripensare in solitudine tutta quanta la faccenda. Il giorno appresso dopo lorario di lavoro non tornò. Mia moglie intanto cominciava già a sentirsi meglio e non mi chiese niente, con mol­ta intelligenza.

         Dopo alcune settimane ne parlammo, in termini un po' vaghi, a tratti ironici  Ad ognuno di noi due quell'uomo ci sembrava un tipo buffo, gran simpatico, molto diverso da noial­tri.  Decidemmo di telefonargli, qualche volta, per sentire come stava, che faceva, insomma cose di quel genere. Qualche mese do­po ci comunicò che si era fidanzato. E la cosa che maggiormente lo attraeva in quel rapporto era la possibilità di avere un fi­glio. Io e mia moglie ridemmo molto pensando ad un figlio di quell'uomo, immaginandoci una sua fedele miniatura. Due anni do­po, quando lui e sua moglie ci portarono quel bel bambino biondo da vedere, rimanemmo stupefatti. E all'improvviso parve d'essere così stupidi e ridicoli da arrossire sulle guance. Quell'uomo era felice, si era incarnato dentro a un ruolo che in precedenza non aveva mai supposto. E noi, con tutti i nostri tentativi tristi e sterili, eravamo ancora i soliti, quelli che si era sempre stati.

 

 

 

 

 

 

         Capitolo  15

 

 

         Rimango a letto, ci rimarrò ancora per molto. Nessuno mi coman­da di vestirmi, pettinarmì1 magari prender freddo. Non mi atten­dono, non ho nessun appuntamento. Posso rimanere qui ancora per molto, a sonnecchiare, a ripensare alle mie cose, a quel che pos­so fare durante la giornata. Niente di speciale, un bagno caldo, scegliere il vestito da indossare, e poi un pranzo leggero, qual­cosa di gustoso. Forse in serata potrei fare qualche compera, oppure un giro senza meta. Potrei divertirmi con lo spendere dei soldi, magari fare una pazzia. Un acquisto assurdo, giusto per buttare i soldi, sprecarli in un oggetto inutile, qualcosa di su­perfluo. Entrare in un negozio e dire forte buonasera, vorrei l'oggetto esposto là in vetrina, il fattorino può recapitarlo all'in­dirizzo sul biglietto. Una fine porcellana, o un pezzo origina­le di vero antiquariato; non so neanche decidere tra il vassoio d'argento e la collana d'oro. Ma no, mi creda, cer­cavo proprio qualcosa d’altro, mi dispiace di aver fatto perdere del tempo.

         Un giro in cen­tro, bighellonando, guardando le vetrine dei negozi a passo calmo, quasi indolente. Si capisce che non sempre ho la fortuna di trovare ciò che voglio. Spesso corre l'obbligo di fare qualche scioc­co compromesso. Niente di importante, comunque, il mio desiderio risulta in ogni caso soddisfatto. Io e mia moglie abbiamo molti soldi. Spesso io li sperpero con gran disinteresse. Compro cose assurde per vedere l'espressione dei commessi dei negozi. Non faccio nulla, non ho bisogno di un lavoro. In vita mia ho avuto un mestiere soltanto prima di sposarmi. Lavori saltuari, qualche mese da una parte e poi da un'altra e non mi sono affezionato a nessun posto. Mia moglie invece era una ricca ereditiera.

         Quando la conobbi cominciai con l'aiutarla nel gestire quei suoi beni. Beni immo­bili, terreni, attività industriali; e poi dei titoli, parecchie azioni, insomma investimenti di ogni genere. Mi divertiva molto andare assieme a lei a quegli appuntamenti di lavoro, parlare di inflazione, di percentuali, di interessi. Si andava nelle banche, ci riceveva il direttore. Mia moglie salutava sempre tutti come se fossero semplicemente vecchi amici e poi chiedeva che tirassi fuori i fogli, i documenti, la sua calcolatrice sempre pronta. Quando poi eravamo soli ci divertivamo come pazzi prendendo tutto quanto come un gioco.  Si decideva sul comportamento da tenere, si rifacevano le facce e le espressioni di quello e di quell'altro.

         Eravamo sempre un po' di corsa e a volte si arrivava con ritardo. Le scuse erano facili e mia moglie andava avanti con parole e com­plimenti che disarmavano chiunque. A quell'epoca pareva a me una gran donna d'affari, tagliata giusta per quell'attività. Adesso non saprei, mi sono disinteressato di ogni cosa. Si diventava seri davanti alle persone più importanti, riprendevamo ognuno il proprio ruolo. Io scrivevo appunti ed ogni tanto ricordavo qualche cifra o qualche informazione che a mia moglie era sfuggita. Quan­do tutti i fogli ritornavano ben dentro alle cartelle tiravo un gran sospiro di sollievo. A volte tutto quanto veniva addirittu­ra prolungato in una cena di lavoro. Mia moglie debolmente rifiu­tava ed allora la pregavano.  Pareva proprio, a quelli li, che davanti a una tovaglia lei perdesse la sua grinta.  Non era mal di niente farlo credere e mia moglie si scherniva. In realtà era tutto un gioco, e con buon gusto lei infilzava tutti quanti tra i bicchieri e le risate.  Io di solito rimanevo silenzioso, sorri­devo giusto a tempo ed osservavo tutti quanti.

         Dopo un anno circa ci sposammo, in doverosa pompa magna e anche regali di ogni genere. In tutto quel periodo, poco più di un mese, gli affari furono messi in second’ordine. Poi ripresero, ma io sentivo nascere all'in­terno una decisa indifferenza, se non peggio. Preferivo non veder­li i sorridenti direttori, e quelle scrivanie impeccabili mi da­vano fastidio. Rimanevo sempre nel mio solito silenzio, ma pen­savo ad altre cose, fantasticavo, lasciavo libera la mente di sva­garsi.

         Qualche volta, nelle mie fantasie, mi lasciavo andare a certe voglie assurde e irrazionali, e quegli uffici mi ispiravano i bisogni più pazzeschi. Mi venivano alla mente di continuo dei pensieri un po’ devianti. Legare agli scaffali quei pinguini incravattati, per esempio, e dare sfogo a quei miei istinti delittuosi. Disordinare tutti quan­ti gli schedari, far sparire qualche foglio ed appallottolare gli importanti documenti Gli impiegati esterrefatti mi avrebbero gridato qualche cosa e poi qualcuno avrebbe pianto, pensavo. Oppure introdurmi negli uffici a notte fonda e nel silenzio rovesciare quei cestini di immondizie sulla grande scrivania del direttore, sulla foto incorniciata della moglie. E poi, naturalmente, presenziare la mattina al carosello di espressioni quasi incredule e a quelle frasi sbigottite, e sghignazzare entro di me, dietro alla maschera.

         Alcuni dei contratti già stilati e con le firme sarebbero bruciati in mano mia, quasi per caso, e le pesanti penne d'oro si sarebbero spaccate. Gli impiegati, ad occhi chiusi e con le mani intrappolate nella schiena avrebbero pigiato un campanello, richiamata l'attenzione di qualcuno, insomma in qualche modo avrebbero cer­cato di tradirmi. Qualcuno avrebbe detto pazzo, ed io avrei fatto una risata. Mia moglie, arrivata all'improvviso, avrebbe urlato qualche cosa. Sarebbe andata via furiosa e poco dopo tre o quattro poliziotti avrebbero fermato le mie gesta. Allora gli avvocati, discussioni, cercare di risolver tutto quanto degnamente. Forse una dichiarazione medica sulla momentanea semi-infermità mentale avrebbe messo tutto quanto al giusto posto. La separazione susse­guente sarebbe stata d'obbligo, ma gli alimenti per me, nullatenente, sarebbero bastati ad addolcirmi.

         E invece no, rimanevo ancora li ad annusare aria d'ufficio, ad annaspare coi pensieri in mezzo a cose assurde. Rimanere nell'ufficio ad osservare quelle facce tutte identiche e non avere mai il coraggio di far niente, ecco tutto il problema. Dopo un po' smisi di andarci a quegli appuntamenti, e lo feci senza tante spiegazioni. Mia moglie in pochi giorni si trovò una segre­taria, una persona estremamente di fiducia. Sugli inizi, per in­gannare il tempo, mi interessavo di finanza, poi smisi anche quel­lo. Adesso me la godo, vado in giro, lascio le preoccupazioni a chi ne ha voglia. Rimango a letto molto a lungo e penso alla mia vita, alle mie cose, a quel che posso fare durante la giornata. Finisce che la principale attività che riesco a svolgere è proprio questo starmene nel letto.

E' un letto comodo, notevolmente sof­fice.  Lo scelsi io dal mobiliere, ben spazioso, che troneggiasse nella camera, nel mezzo. Chiaramente per mia moglie era uno spre­co, il dormire è solo perdita di tempo. Lei si spoglia in bagno, con gran rapidità, ed esce fuori già in pigiama. Sopra al como­dino, dalla parte sua, si radunano ogni sera carte e fogli di la­voro da sbrigare. Lei si corica, sistema il suo cuscino, e prende in mano qualche foglio. In capo a due minuti o poco più sta già dormendo, e allora io raccolgo le sue carte, lentamente, senza fare alcun rumore, e spengo la sua luce. Poi rimango ad osservar­la, e penso a lei, alla sua giornata, a quegli uomini d'affari così grigi che ha incontrato, e riesce a farmi quasi pena.

         Tempo fa, durante una domenica un po' lenta, sonnacchiosa, parlammo di noi due, come non avessimo altri argomenti. Con una certa indifferenza da ogni parte si decise che era meglio separarci, così, per far qualcosa, per dare impulso nuovo alle nostre esistenze rispettive.  Mi potevo pren­dere la casa, lei sarebbe andata via, e per il resto che ognuno si arrangiasse, si diceva. In tribunale mi presentarono il fac­simile: "separazione consensuale" era la formula e così noi presen­tammo i fogli scritti. In poco tempo arrivò il giorno del verdet­to; il giudice sarebbe stato ad ascoltarci e poi avrebbe deciso. Ma mia moglie era impegnata, qualcosa di importante, così fu tutto nullo e noi non ci pensammo più. Non ci si perse a presentare nuovamente i fogli, considerammo quel problema come una cosa su­perata e si lasciò che tutto riprendesse il suo corso naturale.

         In quel periodo a me prendeva voglia di viaggiare; ogni tanto com­peravo delle carte e le studiavo, poi ficcavo il naso dentro ai libri fotografici e mi innamoravo della Cina, dell'Arabia o della Svezia. A volte progettavo fin nei minimi dettagli dei viaggi di sei mesi alla scoperta di qualche angolo di mondo. Salivo so­pra treni, navi, dorsi di cammelli o di elefanti, e raggiungevo posti impervi, fantasticando su sentieri inerpicanti, tra strade di montagna, in mezzo alle foreste, costeggiando fiumi o laghi o mari chissà dove. Tornavo sempre molto in fretta e dimenticavo subito i progetti.

         Poi un giorno un po' più insolito degli altri comprai un biglietto aereo per Parigi con tanto di prenotazione per l'albergo. Non so cosa successe ma in un attimo ero lì, ero arrivato, non c'era più bisogno di pensare, progettare, fare ipo­tesi. Poi nel quartiere di St. Germaine des Pres mi persi tra la gente. Andai al Cafè de Flore e incontrai pittori, artisti, gente sensibile e grondante di cultura, e sorseggiai qualcosa, guardando quel via vai lungo la strada, attraverso le vetrate. Sentii la notte camminando in rue de Rennes, e stetti a Montpar­nasse ad osservare quei locali illuminati sopra ai larghi marciapiedi. Gli esistenzialisti mi guardavano con occhi stralunati ed io ondeggiavo tra la Rome e la Coupole, a cercare qualche co­sa, proprio lì, probabilmente a la Rotonde, che ero sicuro di tro­vare anche senza una piantina delle strade.

         Dopo una settimana lasciai l'albergo dove ero stato fino allora e trasferii la mia valigia e i miei bagagli a Le Petit Trianon al 2 di rue de l'Ancienne Comèdie, dove c'era un uomo an­ziano, un po' scorbutico, ed una camera raccolta, luminosa. La mattina passeggiavo sulla Senna, il pomeriggio visitavo qualche mostra. A cena mi infilavo in dei chiassosi restaurant a riguar­dare le espressioni dei clienti ed i modi compassati dei veloci camerieri. Diverse volte provai a scrivere a mia moglie. Veni­vano fuori dei biglietti strani, laconici o indecisi; a volte dei messaggi un po' sentimentali, in altri casi delle liste di momen­ti in cui rivendicavo qualche cosa. Non ero mai me stesso, e lo sapevo bene, tanto è vero che non spedii mai niente. Mi fondevo con le strade e con la gente di Parigi1 e non potevo concentrarmi su nient'altro.

         Poi mi invaghii dì una ragazza che vedevo lavora­re in un bistrot. Capelli biondi, viso parigino, passavo li davan­ti e la guardavo; qualche volta lei mi sorrideva, ma forse lo fa­ceva per mestiere. Stavo lì nei pressi anche per ore, poi rientra­vo nel locale ed ordinavo qualche cosa. Il suo nome era Monique. Un giorno, dopo un gran sorriso, chiesi se potevo accompagnarla; quella sera, un'altra sera, verso casa, da altre parti, come lei desiderava. Mi disse rispondendo al mio sorriso che non vedeva affatto la necessità di una cosa di quel genere. Aveva il suo ragazzo, mi spiegò, ci stava bene e si vedevano ogni sera; era chiaro, dovevo in tutti i modi rinunciare. Non insistetti, pagai la birra ed andai via.

         Camminai lungo le strade, lentamente, ver­so il mio albergo, Le Petit Trianon. Nessuno al mondo sapeva che ero lì, e sulle scale fino alla mia stanza non incontrai nessuno. La mia camera era anonima, come il letto, quella carta da parati, la finestra sulla strada. Andai nel bagno e mi guardai allo spec­chio. L'acqua nel lavabo scorreva via veloce, gorgogliante. Ed anche quella mia espressione, la faccia stessa, avanti a me, scor­reva assieme a lei. Acqua sorgiva, rimbalzante tra le rocce, pu­rificatrice.  Immersi allora le mie mani nel lavabo. Tutto era calmo ed anche il tempo non batteva.  Solo il mio sangue, via dai polsi, gorgogliava nello scarico.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Capitolo  16

 

 

         Credo che mia moglie stia guarendo. Forse, probabilmente, è già guarita, e questo mi spaventa orribilmente. Negli ultimi tempi quei suoi piccoli acciacchi gradualmente sono spariti, ed il respiro si è fatto un po' più regolare, il suo viso rilassato, privo dell'espressione di dolore a cui avevo fatto l'abitudine. Ancora non ho avuto il coraggio sufficiente per chiederle qualcosa, e in questi giorni mi sono limitato ad osservarla, spesse volte di nascosto. I suoi gesti si sono fatti più decisi, quello sguardo sempre vuoto più sfuggente. Una sfumatura di malizia a tratti pare che divampi nei suoi occhi; e qualche volta sembra che un abbozzo di sorriso le si formi sulle labbra. Io mi volto di scat­to per guardarla, come richiamato all'improvviso dalla sua presen­za; e la scopro ad osservarmi. I nostri sguardi si incrociano tra loro per un attimo, una piccola frazione di secondo, e poi lei sfugge di nuovo, chissà dove. Non riesco a capire cosa pensi, cosa faccia quando guarda fisso avanti a sé.

         Ho controllato per più giorni le sue scatole di farmaci; mi sono reso conto così che non si cura. Il suo appetito non mi pare sia aumentato, pero le sue esigenze si sono fatte complicate. Io la assecondo, come sempre, e lei ha fatto delle aggiunte alla sua dieta, ed ogni tanto mette il naso dentro ai libri di cucina. Forse avrebbe voglia di mangia­re qualche cibo a lei proibito. Io, peraltro, non direi certo di no se  lei chiedesse qualche cosa un po' particolare per il pranzo; solo qualche volta, sia ben chiaro, raramente. Ma lei non dice niente, guarda le foto degli arrosti, degli intingoli, dei sughi, e forse se ne immagina i sapori.

         Qualche Settimana fa ho sospettato che un'amica le portasse di nascosto delle cose da mangiare. In seguito, per ottimismo naturale, ho immaginato che potessero servirsi un po' di the coi pasticcini, o dei biscotti con della cioccolata, e niente d'altro. Poi, rovistando casualmen­te in un armadio, mi sono trovato tra le mani una bottiglia di li­quore. Assolutamente appare assurdo il fatto che lei beva di nascosto. Quando la conobbi, ormai molti anni fa, sembrava che la cosa ai suoi occhi più infamante fosse proprio questo vizio. E più o meno la sua idea è rimasta sempre la medesima. Così ho pensato a una riserva per gli amici, per la gente che frequenta casa nostra. E' chiaro che per il suo organismo qualsiasi tipo d'alcool fa malissimo. E' impossibile che beva, lo do per dato certo.  C'è un amico, per esempio, che ogni volta si presenta a casa nostra ci fa fuori mezza bottiglia di qualcosa.  E lei si è presa una normale precauzione, immagino.  Ho riposto la bottiglia nella stessa posizione e non ci ho pensato più.

         Soltanto un paio di settimane avanti ave­va fatto alcune analisi, e i risultati erano stati regolari: tran­quillizzanti, insomma, considerato il suo stato di salute. Così ho dimenticato la bottiglia e tutto il resto.  Poi una sera, gior­ni dopo, ho capito che era sbronza. Aveva una gran voglia di parlare, rideva per un niente, e continuava ad osservarmi con degli occhi innaturali. Con una scusa sono andato a controllare la bot­tiglia, e l'ho trovata li, allo stesso posto. Ed era quasi vuota. Ho imprecato, ho cercato in tutti i modi di infuriarmi, di farle intendere la mia profonda delusione, ma è stato tutto inutile. Del mio sdegno a lei non importava.

         E allora sono uscito, avrei voluto sprofondare, e invece ho camminato, senza meta, e all'im­provviso ho respirato una profonda solitudine. Il mio impegno, il mio comprendere, la mia assoluta dedizione, tutto inutile, esattamente senza scopo. Vicino alla stazione ferroviaria, a notte fonda, un cucciolo di cane mi ha seguito  Scodinzolava, annusava le mie mani, aveva voglia di seguirmi, di venire insieme a me dovunque andassi. Si fidava, si fidava del mio passo, dei vestiti, forse del mio modo di fargli le carezze. Siamo andati insieme per alcune strade, abbiamo girato gli angoli, percorsi i marciapiedi. L'asfalto delle vie era già lucido, bagnato, e in­sieme siamo stati ad annusare qualche angolo di casa, alcuni alberi, le aiuole. Scodinzolava, mi indicava qualche cosa, si decideva assieme dove andare. Poi è fuggito via correndo dietro a un gat­to, ma io sapevo che sarebbe ritornato.

         E sulla strada all'improv­viso c'era uno strano movimento, una curiosa agitazione. Da un camion militare scendevano i soldati e si muovevano veloci, allineandosi. Si sentivano i comandi che partivano precisi, e i tacchi delle scarpe sull'asfalto. In fondo ad una piazza passavano altri camion militari e gli autoblindo si muovevano piuttosto lentamente, ma come per schierarsi in posizioni già ben definite. Mi sono rifugiato in un giardino umido ed oscuro e ho cercato di vedere bene. Come impaurito anche il mio cane è tornato a ricercarmi, ed assieme ci siamo messi bassi, ad osservare che cosa stava capitando.

         Truppe regolari dell’esercito si stavano schierando dappertutto e sopra a dei rimorchi e a grossi camion si vedevano passare cannoni, carri armati, si intravedevano le canne lisce di obici e mortai. Dei ragazzi dietro a me hanno fatto segno di seguirli  A testa bassa e cautamente siamo entrati nella casa. Là dentro avevano una radio ricevente e cercavano di mettersi in contatto con qualcosa.  Tutto stava già precipitando, lo si capiva già fiutando l’aria, e si doveva stare at­tenti, qualsiasi cosa poteva tornar utile; cosi mi sono frugato nelle tasche: avevo un temperino, poteva forse servirmi. Ogni tanto gli occhi bassi si incrociavano, in silenzio; qualcuno ra­ramente faceva qualche segno, quasi un gesto, forse ammiccava qualche cosa. Il mio cane era accucciato, non guaiva, non muo­veva più la coda, era in attesa degli eventi, come tutti.

         I primi spari ci arrivarono alle spalle e ci parvero dei mitra caricati con pallottole leggere. Era lecito vederci un po' più chiaro,  e si decise di sortire, solamente in due, un giro semplice, ve­loce, intorno al quartiere o all'isolato. Democraticamente sorteggiammo, e due ragazzi uscirono solerti, passando per il retro della casa. Il mio cane si era mosso, non capiva, forse pure lui si era stan­cato di star lì, dentro a quel buio, ad ascoltare le incessanti sintonie di quella radio. Annotai su un foglio bianco qualche  cosa, ma non sapevo neanche io che cosa scrivere. Forse un mes­saggio, magari per mia moglie, o per gli amici. Potevo addirit­tura scrivere a me stesso, quel me stesso che era rimasto dentro casa, con mia moglie, davanti a quel televisore noiosissimo. Le parole non venivano, non sapevo cosa dire, ed allora lasciai per­dere. D'altronde era impossibile far recapitare una cosa dì quel genere, non era neanche il caso di pensarci. Il futuro era annullato, si poteva respirare solo quel difficile presente.

         I due ragazzi non tornavano ed oramai eravamo tutti quanti preoccupati. Poi qualcuno, con coraggio, sostenne che senz'altro era accaduto qualche cosa. Mi alzai, allora; dissi che uscivo, con calma, con freddezza, con circospezione; avrei compiuto il medesimo percorso, mi sarei guardato attorno, poi sarei tornato. Accennarono di si, che andava bene, solo con lo sguardo, senza neanche una parola. Fuori tutto quanto era di gelo, tutto freddo, inaccostabile. Il mio cane aveva sonno, mi seguiva per rispetto ma non ne aveva af­fatto voglia. Ci mettemmo sotto a un ponte, riparati, e si guar­dava. Sopra di noi un treno lento continuava a far manovra. Era un convoglio di containers, e via via che transitava se ne sentiva come il grave peso sulle spalle. Lo immaginai carico di armi, protette dal metallo scuro dei vagoni; e il cigolare delle ruote sui binari, serve di quel peso, era sinistro oltre misura. Udim­mo da lontano delle voci, e sembravano degli ordini gerarchici. Le truppe lentamente invadevano gli spazi; approfittando dell'e­strema oscurità si infiltravano dappertutto.

         Immaginai che probabilmente ogni luogo di potere era assediato e le arterie principale strettamente controllate. Per strada circolavano soltanto le divise, nessun borghese si vedeva, ed ogni tanto l'eco di uno sparo o di una raffica arrivava fino li, sotto a quel ponte. Pensai di muovermi, bastava una qualsiasi direzione, e allora presi verso il centro della città, senza pensare, come d'istinto. Sulla strada, verso di me, marciavano ordinati tre soldati. Mi videro, rallentaro­no, dissero qualcosa tra dì loro. Forse si sentivano impauriti, e volevano fare qualche cosa, intimarmi qualche ordine. Si guarda­rono tra loro, rapidissimi, e non avevano deciso, si vedeva, la loro insicurezza era evidente, umanissima, spontanea. Ero spauri­to, proprio come loro, non capivo, ma oramai non mi importava più di nulla. Stavo fermo e li guardavo, e all'improvviso mi pareva un atteggia­mento normalissimo.

         Si può guardare le persone ed aspettare qualche cosa, sentirsi a posto, in pace con se stessi, equilibrati. La mia vita superava quelle armi, le divise, tutti gli ordini. Sta­vo bene, come in luogo naturale, come essere in cucina, cercare qualche cosa dentro al frigo, scegliere qualcosa da mangiare. Poi, in un attimo, il mio star fermo congelò ogni mio pensiero, e mi paraliz­zai in quella stessa posizione. Con tutte le mie forze desiderai di diventare trasparente, e forse ci riuscii.

 

 

 

 

 

 

 

         Capitolo  17

 

 

         Con gli occhi chiusi sentivo dentro me che loro continuavano a guardarmi. Non seppi misurare la lunghezza del momento in quanto fu al di sopra del concetto elementare dei secondi e dei minuti. Pero av­vertii ad un tratto che il loro passo era ripreso e quando li sen­tii proprio al mio fianco mi parve che arrivasse sul mio viso un forte schiaffo. Non mi avevano detto niente, mi avevano ignorato, come se non fossi stato li, o come un uomo inutile, anzi innocuo, inoffensivo. La grazia concede una profonda agitazione, ed in noi stessi in qualche modo convivono per un attimo sia la gioia che il rifiuto d’essere in qualche modo ancora vivi; il desiderio dell'epilogo previsto si fa intenso, profondissimo, anche il mio cane in qualche modo lo sentiva.

         Da un lato avrei voluto provocare quei soldati, appel­larli come vili, traditori; dall'altro stavo bene, la mia vita procedeva, superava qualche cosa, si arricchiva. Non so se ero felice; certo era che il sangue circolava e le funzioni del mio corpo erano riprese in modo regolare. Ma forse, in fondo in fondo, desideravo ve­ramente di essere diventato l’eroe di una guerra che neppure conoscevo, o il martire inconsapevole di una sciocchezza politica; oppure un morto, uno qualsiasi da trafiletto per la cronaca.

         Allora il mio disinteresse verso tutto crebbe ancora. Guardai con occhi vuoti tutto quanto ed il mio cane se ne accorse, probabilmente. Andavo avanti per inerzia, non ero più capace di pensare, impossibilitato in ogni mia funzione cerebrale. Dietro ad una pista, forse un odore, forse un guaito, il mio cane se n’era andato, e assieme a lui molte altre cose. Vagai senza pensare, completamente indifferente a dove stavo andando. E nel giro di due ore mi avevano arrestato, ficcato dentro a un camion e tra­scinato chissà dove.  Poi mi addormentai e feci dei sogni.

         Il primo era ambientato su una spiaggia in riva al mare, più o meno all'ora del tramonto. Stavo sdraiato sulla sabbia e sentivo il vento fresco della sera. In un’altra immagine mi ritrovavo in una casa e riordinavo i miei vestiti. Li pigiavo nei cassetti, nell'armadio, dentro a strane cassapanche.  Alla fine c'era un campo d'erba secca e nell'immagine un po' statica non si notava neppure una persona. Non c'ero neanche io, probabilmente, soltanto l'erba gialla, nien­te d'altro.            Nella stanza per gli interrogatori si era in due. Di fronte a me un militare graduato mi chiedeva qualche cosa, gentilmente. Non sapevo che rispondere, cosi stavo in silenzio. Probabilmente al militare non piaceva fare l'insistente, e allo­ra mi guardava, annuiva quasi al mio silenzio. Forse era stanco, non gli importava nulla delle mie risposte, andava avanti con un senso del dovere ridotto al minimo possibile.

         Tutto quanto era un po' assurdo, lo si avvertiva nettamente, pero era anche serio, terribilmente serio. Cosi chiamò qualcuno e in malo modo fui sbat­tuto nella cella. Era buia, c'era altra gente che stava già dor­mendo. Della mia branda sentii solo i contorni, ma immaginai che fosse sporca, scomoda, malmessa. Comunque mi distesi e poco dopo presi sonno. Tre giorni dopo ci invitarono a salire sopra a un camion. Un soldato era nervoso e continuava ad agitare il suo fucile, forse per intimorirci, forse per darsi lui il coraggio necessario.

         Dopo molti chilometri di strada ci fecero discendere. C'era anche altra gente scaricata in malo modo da altri camion. I soldati risalirono sui mezzi e se andarono. Ci lasciarono in un campo, poca gente, quasi trenta ci contammo, al bordo di una strada di campagna. Tutti assieme scegliemmo la migliore direzione da se­guire; poi ci incamminammo. Si parlava, si scambiavano impres­sioni di ogni genere, e a bassa voce si imprecava contro tutto. Quei sistemi erano assurdi, nessuno si spiegava che volessero ot­tenere i militari. Erano soldati di carriera, tutti quanti, professionisti della guerra, delle armi, gente assurda come quei si­stemi. E poi venivano da fuori, senza dubbio; da queste parti, si diceva, non si erano mai viste quelle facce. In ogni caso, aldilà di tutto quanto, potevamo ritenerci fortunati se non c'era capitato qualche cosa di peggiore. Una lunga camminata non era poi la cosa più terribile del mondo, si diceva.

         Avvicinandoci alla città ci si poteva render conto di ciò che stava succedendo. Il giro era un po' lungo, si dovevano prendere le strade secon­darie onde evitare le pattuglie dei soldati, però si era ottimi­sti. Un contadino che incrociammo ci avverti che la città era là in fondo, nella direzione che indicava con la mano, una cinquantina di chilometri, ci disse. Erano tanti, ma con un poco di fortuna il giorno dopo potevamo essere a casa. Io non parlavo; andavo avanti assieme agli altri e camminavo co­me gli altri, senza pensieri, ascoltando quei discorsi e camminan­do. Poi rimasi indietro ad osservare qualche cosa. Avevo fame e mi sentivo stanco, e di andare ancora avanti non avevo affatto voglia. Allora mi sedetti sotto a un albero, in silenzio, ed a­spettai.

         Dietro a una curva tutti gli altri velocemente erano spariti ed io ripresi allora a camminare. C'era un podere, sulla destra, e a tre o quattro chilometri nella stessa direzione un piccolo villaggio. Quando lo raggiunsi scoprii che c'era un negozietto. I sol­dati quando mi avevano perquisito cercavano le armi; soldi e documenti me li avevano lasciati. Adesso potevo comprarmi della frutta, un po' di pane, dei biscotti. Andai dentro alla bettola di fronte e vidi che era buia e anche un po' vuota. Comunque mi sedetti ad un tavolo di legno e ordinai del vino rosso. Se avevo fame, mi disse la ragazza, poteva prepararmi una bistecca. Certo, andava bene, niente di meglio che una cosa di quel genere.

         La ragazza era gentile, anche carina, e la bistecca era ben cotta. Quando ripresi a camminare sulla strada mi sentii di nuovo solo, come altre volte era accaduto. Vuoto, senza uno scopo, senza en­tusiasmo per qualcosa. Andavo avanti e non sentivo niente; non c'erano emozioni, non provavo sentimenti. Salutai qualcuno da lontano passando accanto ad un podere. Poi mi divertii ad osser­vare delle mucche sopra a un prato.

         Ad un momento imprecisato mia moglie mi tornò alla mente. Amici e amiche senza dubbio dovevano averla soccorsa. Qualcuno si era forse rifugiato a casa sua, cioè nostra; la sua capacità di aggregar gente attorno a se era al di fuori di alcun dubbio e di certo le era tornata di una qualche utilità. Allora immaginai che assieme ad altri si fosse rifugiata proprio lì, nella fattoria che avevo accanto. Poteva essere vero, era senz’altro fuggita assieme agli altri, ed adesso si trovavano tutti là, dentro al fienile. Mi avvicinai con molta calma girando con circospezione dietro alla casa. Un cane sonnacchio­so mi guardava indifferente e due o tre polli becchettavano per terra.

         La porta del fienile era accostata; dentro era un po' buio così prima di entrare mi soffermai a orecchie tese. Si sentiva parlottare sottovoce. C'era gente, forse tre o quattro persone sistemate sulla paglia. E si godevano quel fresco, la penombra, la tranquillità della campagna.  Quando entrai non vidi niente, mi pareva tutto buio, ma sentii dire il mio nome. Un'impressio­ne strana; non sentivo più quel nome da parecchio, e su due piedi non mi parve neanche il mio.  Aguzzai di più la vista e subito per prima riconobbi proprio lei. Era già in piedi e mi guardava.  Stupita non sembrava, anzi pareva che fosse stata là solo aspet­tandomi. Però la sua espressione sopra al viso era un po' insoli­ta. Pareva dispiaciuta di qualcosa, forse di avere un vestito non adatto all'occasione, pensai io.

         Attese qualche attimo, poi mi venne incontro e disse d'essere felice del mio arrivo. Qual­cuno degli amici mi chiese come mai fossi in anticipo. Ridemmo un poco, tutti assieme, per l'ironia sui miei ritardi clamorosi. Però era vero, e lo capii da altri discorsi più indiretti, che  mi stavano aspettando da due ore. Pareva tutto preparato. Ave­vano lasciato le automobili distanti e organizzavano una bella improvvisata a un nostro amico. Costui abitava nella casa pro­prio a fianco del fienile. Sua moglie era partita, faccende di lavoro, così lui era solo. Con voce camuffata l'avremmo incurio­sito chiamandolo da lì. E ci avrebbe trovati tutti quanti nasco­sti tra la paglia. Mia moglie e gli altri avevano comprato tut­to quanto l'occorrente per una bella cena, poi avremmo fatto qual­che gioco o raccontato barzellette.

         All' improvviso a me parve di avere già vissuto una situazione di quel genere. Mia moglie era partita con l'intento di star via due settimane, quella volta, e alla metà di quel periodo telefonò che stava via due mesi, forse più. Da solo, dopo appena pochi giorni, semplicemente diventavo pazzo. Ogni sera telefonavo a tutti quanti, ed ogni tanto mi ve­devo con qualcuno, ma era soltanto un palliativo. E dopo poco me ne accorsi. Allora mi protesi interamente dentro casa. Cominciai con lo spostare tutti i mobili, ma dopo grandi faticate finivo sempre col rimetterli dov'erano agli inizio. Continuai con la siste­mazione del giardino. Posi in mezzo dei concimi, alcuni attrezzi e anche sementi, e dopo un paio di giorni ero già stufo. Una se­rata la trascorsi cercando di risolvere un solitario con le car­te. Altre ore più creative furono impiegate alla ricerca di dar forma a delle insolite ricette di cucina, cosa questa che mi diver­tì moltissimo ma mi recò soddisfazioni scarse. Poi scoprii il televisore, odiato da sempre, con dei programmi culturali trasmessi ad ore varie. Infine mi gettai sulla lettura e lì tro­vai rimedio.

 

 

 

 

 

 

         Capitolo 18

 

Capitolo

         Mia moglie adesso e' morta. Cioè, non sono sicurissimo di questo, però almeno mi pare sia così. Sono entrato lentamente nella stan­za e l'ho osservata di sfuggita. Mi guardava, aveva gli occhi puntati su di me. Io ero annoiato, disturbato dal suo sguardo; quegli occhi fissi mi davano fastidio, e allora sono uscito dal­la stanza.  Ho sistemato qualche cosa fuori posto, ho perso tempo, poi mi sono preso un bicchiere d'acqua.  La sua vo­ce mi ha chiamato e cosi, di malavoglia, sono rientrato nella ca­mera. Lei era ancora là e come prima mi guardava. Ho detto ad alta voce che era tardi, non poteva stare a letto tutto il giorno. Ho aggiunto concitato che c'erano parecchie cose da sbrigare. Poi sono sceso giù in giardino.

         Così mi sono reso conto che il piccolo giardino che abbiamo e' tremen­damente malandato. La pianta più diffusa nelle aiuole è una spon­tanea, un'erbaccia polverosa ed irritante.  Ho tolto qua e là le foglie secche, ho sistemato qualche ramo più sporgente; poi sono rientrato. So benissimo che tutto è cominciato quel giorno dello scherzo là in campagna. E' chiaro, passare il pomeriggio in un fienile, in mezzo alla paglia umida, tra correnti d'aria. E poi soltanto lo strapazzo, le emozioni, la fatica; tutto ciò farebbe male a una persona sana. Per lei, così in precarie condizioni, decisamente è stato troppo. E già la sera stessa, rien­trando a casa nostra, la sentii tossire molto. E il giorno dopo aveva già la febbre.

         Il dottore disse le medesime scemenze di ogni volta, e quando lei peggiorò prescrisse delle analisi, le soli­te peraltro. E allora andare in clinica, tenerle su il morale, raccomandazioni agli infermieri. E adesso è lì, senza parole, senza più espressioni. Per tutto il giorno sono riuscito, non so come, ad igno­rarla. Usare indifferenza verso lei è una tattica che uso molto spesso, ed è vincente, quasi sempre. L'unico problema è che mi snerva, ed io odio orribilmente usare atteggiamenti innaturali. Riverso tutto il mio interesse su altre cose, però so bene che è soltanto un palliativo. Alla fine è sempre lei al centro di tutto, e in ogni caso riesce ad essere presente, entro di me, nei miei pensieri.

         Forse, in molti casi e molte volte, avrei dovuto ucciderla. Soffocarla nel sonno con un cuscino ben pre­muto sopra al viso. Poi penso che se pure mi fossi veramente riprovato in un’azione del genere, sono sicuro che avrei fallito in pieno; e lei, in qualche maniera, sarebbe senza dubbio riuscita a sopravvivere. O meglio, sarebbe ritornata in vita, in qualche modo, forse reincarnandosi. Cor­rere il rischio di ritrovarmi in casa una persona con lo stesso suo carattere e che neanche le assomiglia mi pare un po' eccessivo. Comunque adesso lei è distesa nel suo letto e non si muove, non respira, è proprio morta; eppure come sempre riesce a tenermi in soggezione.

         Ci saranno i funerali. Dovrei già cominciare ad avvertire tutti quanti, accettare condoglianze, fare il povero marito inconsolabile. E forse molta gente avrà per me parole dol­ci.  Molti, confortandomi, avranno da dire che la vita continua in qualche modo; e che dovrei pensare al mio futuro, far progetti, forse addirittura rispo­sarmi. Si, va bene, fra un po’ di tempo, una volta trascorso tutto questo momento, si, senz’altro, andrò in un'agenzia, prometterei; così nel giorno designato mi farò avanti tituban­te e certi impiegati sorridenti gentilmente chiederanno qualche cosa.  Starò li seduto a parlare un po' di me, del mio carattere, i miei modi, probabil­mente del passato. Vedovo, scriveranno su dei fogli, e a me verrà da ridere nel sentire una parola di quel genere.

         Dopo qualche tempo mi incontrerò con la prescelta. Sarà senz'altro una persona timida, dimessa, e il mio silenzio creerà qualche imbarazzo. Curata nei vestiti, capelli bene in ordine; niente eleganza, solo precisa, ben pulita. Faremo un giro in auto e poi ci fermeremo. Sopra un prato scambieremo teneri simboli d'affetto. E ad un certo punto io, forzatamente, romperò quell'atmosfera con parole un po' volgari. Lei sarà irritata, mi chiederà di riportarla a casa sua. E allora io le strapperò i vestiti e le userò violenza, senza ri­guardo, con delirante cattiveria. Proverò un'ebbrezza senza limiti e il mio entusiasmo e la mia voglia trascineranno tutto il resto. E lei godrà del mio piacere, a un certo punto, dopo aver fatto resistenza, essersi opposta con tutte le sue forze. In fondo è una ragazza dolce, Franca si chiama, e mi parla volentieri di se stessa.

         Un'infanzia un po'  difficile, genitori litigiosi, poi il collegio, due o tre amiche tutte odiose. E lei a scrivere let­tere, ai parenti, ai genitori, a dei cugini. A volte anche a nessuno, mi dice sorridendo. Immaginarsi una persona che sta li, da qualche parte, e attende una tua lettera. E dire a quella le tue cose, le tue idee, le tue impressioni. Franca fruga dentro alla bor­setta e tira fuori un involtino. E' una lettera di quelle, senza alcun destinatario. La leggo e provo una tristezza incontenibile. Cerco di dirle qualche cosa di carino, però è assolutamente inu­tile, lo so. Poi, sempre ridendo, tira fuori un'altra carta, la dispiega e dice con semplicità: “è la risposta”.  Ma chi può aver risposto, penso io, sembra impossibile. E poi a chi era indiriz­zata quella lettera; non doveva essere uno sfogo, una specie di diario personale messo in forma insolita, mi chiedo. E insomma, pure indirizzata ad un ignoto scelto a caso, perché quello ha ri­sposto, e cosa ha detto alla fin fine?

         Passano momenti di silen­zio imbarazzato. E' mia la firma in fondo a quella carta e riconosco il mio modo di scrivere a quell'epoca. Mi sprofondo nei ricordi e cado in una specie di vertigine. Il passato gira tutto nella mente e accadimenti di ogni genere si mescolano assieme. Ricordo di aver scritto tante lettere. Alcune più importanti, altre solamente per trascorrere un po' il tempo. Possibile che durante quel periodo io sia stato così superficiale? Possibile che una realtà cosi importante e delicata sia passata vicinissima a me ed io non l'abbia colta, non mi sia accorto di nulla? Assolutamente non riesco a ricordare e questo mi fa quasi paura.

         Mi tor­nano alla mente cose assurde, che non c'entrano per nulla con il resto. Da piccolo aiutavo la mia mamma a fare i dolci rompendo­ le uova e cose di quel genere. Altre volte andavo assieme al mio papà che conosceva tutti e con tutti chiacchierava senza sosta. Io, in disparte, mi annoiavo da morire, così mi concentravo sui particolari più insignificanti. In un bar dove giocavano al biliardo osservavo quali scarpe indossassero i presenti e i gio­catori.  Fermandoci per strada a salutare un conoscente contavo quante auto transitassero all1incrocio.

         Poi, in quel periodo, mentre frequentavo la scuola mi accorsi che d1estate i miei compagni se ne andavano in vacanza. Parti­vano alla volta delle spiagge, anche dei laghi, oppure andavano in montagna; e da lì scrivevano lettere, missive, biglietti di saluti, cartoline, tutto quanto era possibile. Anche a me giungeva qualche cosa, ma siccome io non scrivevo mai a nessuno riserva­vo uno scarsissimo intereresse anche a ciò che ricevevo. Anzi, provavo sempre un moto di fastidio quando poi dovevo ringraziare del biglietto o della cartolina ricevuta.

         E poi mi innamorai. Alla maniera dei ragazzi, con una grande timidezza, con la paura folle di cadere nel ridicolo. Lei era di città, di qualche parte lassù al nord, e dopo aver trascorso le vacanze scambiandoci le occhiate più profonde unite a grandi gentilezze, ce ne tornammo ognuno a casa propria.  Ci lasciammo con gran baci e gli indiriz­zi, poi iniziammo a scrivere. Ogni quattro o cinque giorni mi impegnavo per due ore ad inventare dei pensieri, a dire cose dol­ci, a descrivere i miei giorni. Lei mi rispondeva con le stesse cose tenere, soltanto appena un po’ leziose.  Così presi l'abitudi­ne, ed iniziai quasi per esercizio a scrivere a tutti, ad amici e conoscenti, e forse in quel periodo, lo ammetto, esagerai. Scrivevo senza star trop­po a pensare, a chiunque capitasse.  Piazzavo l'indirizzo ed im­bucavo, senza starmi a preoccupare di nient'altro.  Sicuramente anche Franca ricevette qualche cosa.

         Mi vergogno da morire della mia superficialità così smaccata. Non voglio leggere la lettera, non voglio farlo in nessun modo. Così prendo la carta che Franca mi porge, la strap­po in mille pezzi e li sparpaglio dappertutto. Poi, dopo un gran bacio, proprio per far vedere quanto sia cambiato, la riporto indietro, e senza tante spiegazioni la lascio lì, davanti a casa sua. Non la vedrò mai più, lo so, lo sento, ma di questo sono triste da morire.

 

 

 

 

 

 

         Capitolo  19

 

 

         E dal mio letto sorveglio tutto quanto. Il mio passato, voglio dire. E a volte non sono certo neppure di quei fatti, di quegli avvenimenti. Ripenso e poi ricostruisco lentamente le mie cose, ed ogni volta quelle cose sono diverse, irradiano altra luce. Ogni parola è un po' variata, ogni frase ha un suono nuovo. Alla fine sono le solite sciocchezze, lo si sa, lo si da' per accertato; ep­pure sono tutte cose nuove e riparlandone, pensandoci di nuovo, ridiventano ulteriori novità. Mia moglie finalmente si è assopi­ta ed io mi sono preso i tranquillanti. Tranquillità ci vuole, soprattutto. Per riuscire a ridividere i due mondi, quello in­terno e quello vero, l'emozione e il raziocinio. Chissà concre­tamente cosa avviene, come fluiscono le cose, come nascono e co­me si sviluppano. A volte siamo vicini alla realtà, molto vicini, e la si sente sulla pelle, la si sfiora. E subito prende il senso di paura; la si allontana allora, con un gesto, a volte con un battito di ciglia.

         C'è bisogno di bugie, di tante piccole menzo­gne per poter stare tranquilli. Se no riprende la paura e quella non si accetta. Per stare proprio bene bisogna essere falsi, an­che in cuor proprio. E' la paura che ci fa fare tutto quanto. La giornata d'oggi sarà parecchio lunga, quasi infinita. Farò le solite sciocchezze, alcuni errori, dimenticherò perfino qualche cosa. Cose da fare, da sbrigare, le solite incombenze quotidiane. Mia moglie sarà qui, riordinerà la casa. Per un po' mi terrà il broncio, poi farà un sorriso. Ci abbracceremo, a un certo punto, e ci diremo ciao, sono felice che tu esista. Che tu sia qui, che tu mi baci, qualche volta; e mi danneggi l'esistenza, solo guardandomi, solo schioccando le tue dita. Senza far altro, solo co­si, senza pensare.

         E tutti questi giorni, questi anni. Ugualmen­te differenti, diversamente uguali. Le cose che si sa non sembrano più solo ricordi, le dirò. Così questo momento è sempre l'unico. L'unico vero, l'unico reale, l'unico concreto. Abbraccerò mia moglie, allora, solo per questo, per il momento, quell'incredibile momento, assolutamente irripetibile. Sarò felice oggi, ho già deciso. Usciremo, io e mia moglie, senza fretta, e andremo in giro, senza alcuna meta. Ci terremo un po' per mano camminando, e cercherò di accarezzare i suoi capelli, così, in modo affettuo­so. Come altre volte rideremo parecchio parlando di qualcosa o di qualcuno, e ci berremo un grande aperitivo, noi due soli, in un locale molto bello. E la­sceremo la mancia al cameriere che dirà grazie passando di corsa in mezzo ai tavoli­ni. Poi cammineremo ancora per le strade, ancora senza meta, e forse incontreremo qualche amico, qualche vecchia conoscenza.

         Per esempio potremo incontrare Roberto, che magari ci chiamerà dall'altro lato di una strada, sorridendo, in mezzo ad altra gente. E' molto tempo che non lo vediamo, ma forse oggi non è del tutto la giornata giusta per gli incontri. Ci chiederà le solite scempiaggini con l'iro­nia scontata tipica che ha. Poi ci dirà qualcosa su di sé, quello che fa, quello che pensa. Ci spiegherà che ha dei progetti, ro­ba seria, e poi ci parlerà di una sua nuova relazione, senz'al­tro una ragazza in gamba, anzi, indubbiamente fuori dal comune. Andando via ripeterà il "sentiamoci" tipico del caso, poi tornerà indietro all'improvviso. Si sarà dimenticato di dirci qualche cosa, una sciocchezza delle sue, probabilmente. E invece no.

         E' morto Mario, si è impiccato in casa sua, soltanto ieri. Mario è un amico di noi tutti, un tipo serio, una persona generosa. Rimaniamo fermi, noi, quasi impietriti. Non ci affanniamo neppure a domandare. Le impressioni che proviamo sono strane, sconvol­genti. Qualcuno si è ammazzato, penso io, uno qualsiasi, una persona come noi, come può essere chiunque. Ha lasciato qualche cosa, ha scrit­to qualche pagina, la paura del dolore, la liberazione della mor­te, i soliti motivi. Come è possibile; dove eravamo quando stava così male? Nessun aiuto, nessuna comprensione, non gli avevamo dato niente, come tutti. Non si da niente, non ci si accorge mai di niente.

         Forse, come sempre in casi come questo, qualcuno andrà pensando che se lo era meritato. Non si può essere, diremo poi per consolarci, così com’era lui, troppo sensibile, silenzioso, solitario, sempre un po’ triste; fragile, ecco. E si dirà che la vita è fatta di altre cose e che bisogna cavalcar­la come si cavalca un giovane puledro. All'altezza dei tempi si deve essere, altro che, non intimisti rammolliti. Noi tutti dritti sulle nostre strade e lui no; lui sempre a cercare chissà cosa, chissà dove, neanche a immaginarsi in quali modi. Che scopo aveva quello starsene continuamente distaccato? Mentre noi ancora cercavamo di sopportare quella sua malinconia lui si era sparato, un colpo secco, preciso, nella tempia. Tutto quel sangue, assieme ai fogli, ai suoi disegni, alle sue cose. Alla sua vita, fuggita via con tutto il resto.

         Forse, per rispetto, era meglio sospendere il giudizio, pensavo; cercare di capire in questo ca­so non ha scopo, non aiuta. L'unica cosa vera era il suo gesto. Si era affacciato a quel balcone e chissà che aveva visto; for­se una donna; si, senz'altro era una donna. O un'immagine di donna, un'idea, una stupida illusione. Raggiungerla, ha pensato, certo, chissà su quale strada, in quale posto. Andare dietro a lei, senza riflettere, senza chiedersi nient'altro. Solo seguir­la, come una traccia, un disegno mentale, forse quasi un'idea. Una voce che ci chiama, un urlo impercettibile a chiunque, e che improvviso esplode dentro a noi. Si, raggiungerla ha pensato, e lo ha prete­so da se stesso. E così è volato giù, senza gridare, senza far altro, come già morto ancora prima di cadere, di schiantarsi.

         Che ridere. Un motivo come un altro per racchiudersi, per trova­re completezza dentro qualcosa. Cosa di meglio se non dentro a quel gesto, quell'unico, definitivo, meraviglioso gesto? Passato quel momento, quello che contiene il gesto, è lecito darsi delle pacche sulle spalle. D'accordo, tutto a posto. Come in un film, appena finita di girare la scena più drammatica. Finito tutto adesso. Si scherzava. Soltanto degli attori. E' chiaro che era un gioco; qualcosa di inventato sul momento per farci un po' paura. Però che scherzi scemi, subito si pensa. Qualcuno insiste a dire che potrebbe anche accadere veramente. Nessuno gli si da’ retta, anzi, e' preso anche un po' in giro. Te lo immagini, si dice, Mario si getta sotto a un treno in una sera un po' pio­vosa, magari, quasi gelida. Roba da romanzi. Sul treno c'è la gente che sta ben comoda. I signori e le signore fumano, leggono, parlano tra loro; e alcuni ridono mentre le ruote attraversano quel corpo.

         Poi la frenata, pietosa, doverosa, inutile, quasi un chilometro. Nella notte umida le voci spaventate della gente e laggiù in fondo, dentro al buio, i cani che si abbaiano tra loro. E le colline, il prato, le rotaie, tutto fermo, indifferen­te. Figuriamoci. Soltanto scherzi di cattivo gusto. Certo, se una cosa si è pensata, meditata, vuol dire che è possibile davvero. Anzi è accaduta veramente, nel momento che è pensata, nelle no­stre teste, nelle nostre fantasie, dentro ai pensieri. Che stra­zio. Rimasto a penzolare giù da un cavo elettrico, che neanche una corda aveva trovato al momento, trattenuto per il collo, di natu­ra com'era già un po' esile. Non si accetta, è impossibile accet­tarlo. Lasciamo perdere tutto. Prendiamo un altro aperitivo, magari con Roberto. Forse ci vuole. E in qualche modo continuia­mo a sopravvivere.

         Passeggiamo ancora un poco, si gira senza meta ma ormai la giornata è rovinata. Che fare adesso, riflet­tere è vietato, parlare non ci riesce; continuiamo a camminare e a stare zitti, in silenzio come stupidi. Forse è vero. Siamo stupidi. L'umana specie non arriva a concepire tutto quanto. Si va a ca­sa e ci gustiamo l'accoglienza degli oggetti conosciuti, delle stanze quotidiane sempre uguali. Ci leggiamo il giornale, si prepara il pranzo, si sistema qualche cosa. Poi suona il telefono, hai saputo, cosa pensi, ti saresti mai immaginato una cosa del genere, e così via. Sono di­stratto, non riesco neppure a dare importanza a quanto mi circonda. Così preparo la valigia e vado alla stazione.

         Partire, andare via, non so neppure dove. Lascio il mio bagaglio nel deposito e vado su e giù pei marciapiedi tra i binari. Tanta gente se ne va, tant'altra arriva. La stazione col suo traf­fico è sempre la medesima e le perone che l'affollano sembrano sem­pre uguali. Probabilmente sono davvero le stesse, ingaggiate da qualcuno a impersonare le comparse di uno strano film molto realistico. E' lecito pensare che anche io, sen­za saperlo, sono qui per recitare la mia parte. Una semplice, piccola scrittura in questo grande disegno schizofrenico, dentro all' orribile progetto incomprensibile. E cammino avanti e in­dietro come gli altri. Su e giù sotto alle grandi luci elettriche, coi megafoni che urlano gli orari, le città, i binari numerati. A caso salgo sopra ad un vagone e mi dimentico persino la valigia. Mi metto comodo in mezzo ad altra gente e faccio finta di essere serio, anzi, di esser preoccupato di qualcosa, proprio come tutti gli altri. Appena il treno parte mi addormento, rilassato. Mi sveglio a notte fonda e non c'è più proprio nessuno assieme me. Sono solo, soltanto io su questo treno e là di fuori, dentro al buio, la notte scivola leggera. Forse c'è il mare laggiù in fondo, forse i campi coltivati. Non m’importa, non mi interessa più di nulla. Alla prossima stazione scenderò da questo treno; tornerò indietro, senza dubbio, non si può sfuggire a questa recita. Debbo tornare a casa, a casa mia, e impersonare quel ruolo che conosco, che è il mio e di nessun altro, e che oramai so bene, studiato nei det­tagli. E' impossibile sfuggire, stare fuori dal disegno, dall'in­credibile progetto; si gioca, ogni tanto ci si illude, non si può fare nient'altro.

 

 

 

 

 

 

 

                            Capitolo 20

 

 

A un certo punto il mio letto ha scricchiolato. Non so perché, non so cosa possa essere successo, ma qualcosa ha come richiamato la presenza del mio corpo, dei miei sensi, insomma di me stesso. Lentamente sono uscito dal mio strano dormiveglia ed allora mi sono mosso, ho soppesato i pochi gesti ed ho sentito un peso, pre­cisamente dentro me. Un'oppressione non meglio definibile, for­se l'aria chiusa della camera, ho pensato, forse queste tenebre. Nel buio ho cercato la mia lampada e l'ho accesa. La luce ha avu­to un grido nella stanza, e ha riecheggiato a lungo, perdendosi negli angoli, nelle piccole fessure. E' apparso tutto verticale e orizzontale, senza altro, ed il chiarore ha disegnato quelle linee, quei profili. Che strano, ho riflettuto, tutto così fer­mo, così immobile; solo la polvere in continuo movimento, una pol­vere leggera, inconsistente, che si deposita pian piano, senza fretta.

         Poi ho pensato alla mia profonda solitudine. Già, per­ché una cosa devo dire, pur se mi spaventa enormemente. Ho una enorme verità da confessare, una verità che mi sovrasta, che mi tiene inchiodato a questo letto, che evito persino di riflettere. Ed è inutile che continui a dilungarmi su particolari che non in­teressano nessuno; mi comporto in questo modo per perdere del tem­po, per assicurarmi un alibi. Ma adesso devo dirla, questa veri­tà, devo parlare. In questo letto, accanto a me, non c'è nessuno. Mia moglie non è viva. Cioè; non è neppure morta. Non esi­ste, semplicemente. Non è mai esistita. L'ho pensata, l'ho crea­ta nella mente, con i miei pensieri, ma lei non c'e mai stata, ed io non ho mai avuto il piacere di conoscerla.

Ho sempre immaginato in modo anomalo il supremo momento della confessione. Ho pensato ad un evento straordinario, affiancato ad altri eventi straordina­ri: la stanza che si apre come una scatola di carta, per esem­pio. E tutto che avviene in un secondo, in un attimo ventoso ricco di rumore. Il mio letto, i pochi mobili, me stesso, nu­di e assurdi su uno spiazzo, una spianata del terreno, nudo e as­surdo come il resto. Le pareti e tutto quanto vola via ed io sono da solo, senza alcuna protezione.

         Ho pensato di trovarmi sopra a un palco, davanti agli spettatori di un teatro, ed io ad improv­visare un buon comportamento, giustificato, professionale. Tut­to dentro a un attimo ma come fosse già tutto previsto. Ad un tratto si dice la parola magica e tutto si spalanca, si perde qualche cosa e ci si ritrova in un1altra dimensione. Declamare, così, sopra due piedi, manifestando naturalezza, e intanto cerca­re le parole, l'intonazione, il gesto più adeguato. Improvvisare delle idee, una frase chiara, come se tutto fosse già studiato; dare ad intendere qualcosa che in realtà neppure si conosce. E infine sta­re là in un situazione estremamente compromessa e non avere nean­che il coraggio di guardare, di gettare uno sguardo tra la gente, tra quel pubblico paralizzato, fermo in una posizione casuale, forse ridicola. E all'improvviso sentire nella carne quello spro­ne che mancava.

Adesso, solo adesso debbo dirvi tutto. E più che a voi debbo dirlo a me, a quella parte di me che non lo sa, non vuol sapere, rifiuta la coscienza delle cose, della verità. Il pubblico mi ascolta silenzioso. C'è interesse tra le file di poltrone, e l'interesse fa procedere il monologo. Urlo qualcosa contro una profonda solitudine, la mancanza di un motivo per esi­stere, e la gente segue, comprende ciò che dico. Mentre confesso mi coglie l'emozione e delle lacrime mi scendono dagli occhi. Poi riprendo pienamente il controllo di me stesso. Qualcuno mi ha applaudito lentamente, laggiù in fondo, dentro al buio. Chis­sà che cosa vuole, forse riconosce le mie parole come vere, for­se prova anche lui le mie stesse sensazioni. Le parole che rie­cheggiano in teatro hanno qualcosa da spartire con l'insoddisfazione.

Poi dico che tutto è disumano; gli stessi rapporti tra la gente, tra le persone che si incontrano. Bisogna rimanere indifferenti, è richiesto questo sforzo. Nessuna pietà, per nessun altro, an­dare avanti senza sguardi trasversali, e sperare sempre che tutto vada bene, solo a noi stessi, ai nostri passi che procedono., In teatro qualcuno è un po' perplesso; alcuni forse dubitano, le mie parole non appaiono convincenti. Ma oramai io devo andare avanti, devo dirla tutta, fino in fondo. La verità. La mia. La mia opi­nione, ecco.

         Sbotto, e dico ad alta voce, quasi gridando, ma con rabbia: VOI . Con quel silenzio, quel consenso rassegnato. Con quelle facce sempre uguali, solo a volte sorriden­ti. Credete di sapere cosa fare e invece procedete avanti come automi, come tutti. Con quel­la cattiveria inconsapevole. Quei sistemi sempre identici. Super­ficiali. Con lo sguardo sempre a terra, fuori linea da ogni punto cardinale, senza mai affrontare veramente la realtà, solo subendola. E imponen­dola a chi vi sta intorno, perché così si fa, così deve essere, così è la vita, per sempre stabilito e ineccepibile.

Chissà verso dove procedo, a cosa porta tutto quanto; a una ripetizione inutile ed assurda, forse. Rimango silenzioso, non ci sono più parole, niente che si possa dire. E la gente è sempre là, che guarda, che pensa; ed ognuno ha i suoi problemi. Il sipario si abbassa lentamente e mi coglie del tutto impreparato. Forse adesso il teatro crollerà e seppelli­rà ogni cosa,  penso, proprio adesso, assieme alle parole. Succederà, rifletto, forse tra pochi attimi, forse più tardi, però succederà senz'altro. O forse non sarà neanche così.

 

Bruno Magnolfi


Solo fino a un certo punto

        

 

         Mercoledì

 

         Erano le 22,21 quando sono entrato nel letto, ed ho avuto particolare cura per non scalzarlo troppo dal mio lato, in modo che le coperte si mantenessero ben tese. Ho spento subito la luce crollando di sonno e di stanchezza. Alle 2 e 43 però ero già con gli occhi aperti, e la radiosveglia accanto a me, coi suoi grandi e luminosi numeri rossi, mi ricordava implacabile il passare lento e inesorabile della notte.

 

 

         Giovedì

 

         Stamani mi sono svegliato come ogni mattina, alla stessa ora di sempre, ritrovandomi quasi nella stessa posizione che tengo nel letto fino a quando non fa giorno. Non mi sono meravigliato, in fondo non c’era proprio nulla di cui meravigliarsi, anche perché davanti a me non avevo alcuna altra possibilità se non quella di compiere i soliti gesti usuali di ogni giornata.

         Muovendomi lentamente ed evitando di disturbare il mio cane che da sempre passa le notti sdraiato sopra al pavimento ai piedi del letto, ho pensato che l’unica vera differenza rispetto ad un altro qualsiasi dei miei risvegli fosse data dai pensieri. Certo, se tutto era uguale fin nei dettagli dei colori del pigiama e nella posizione del cane, forse l’unica vera differenza era quella, anche se per dati oggettivi restava impossibile da vedere. Sicuro, una volta in piedi, quando fossi stato completamente sveglio, ma forse ancora prima, mentre mi impegnavo nel compiere i miei riti di sempre, la barba, l’acqua, lo specchio, ed anche una volta adempiuti i doveri di ogni mattina, finito di preoccuparmi di qualsiasi altra piccola cosa, bene, potevo pensare. Pensare qualsiasi sciocchezza, immaginarmi le cose più strane e le più ardite, fantasticare su tutto quanto ridisegnando anche gli oggetti che arredano la mia piccola casa e che sembrano emergere dalla nebbia quando vengono rischiarati dalla fioca luce della mattina appena abbozzata. Pensare anche qualcosa di me, oppure degli altri, oppure di nessuno in particolare. Prepararmi alla giornata nascente, o a quella seguente, o a tutta la settimana, ai mesi, agli anni a venire, e poi progettare cambiamenti, trasformazioni, qualsiasi cosa, qualsiasi cosa io potessi desiderare.

         Subito dopo però ho provato una certa paura di quel mio pensare. Ho preso il latte dal frigo, l’ho versato freddo dentro ad un bicchiere, ci ho messo insieme due cucchiaini di zucchero stando ben attento a non prendere l’identico involucro riempito di sale, e dopo aver fatto girare diverse volte quel latte, ne ho bevuto subito un bel sorso.

         Se all’improvviso non avessi avuto pensieri, neanche uno piccolo che ne valesse la pena; se non avessi avuto nessuna fantasia, né sulla casa, né sui gesti di ogni giorno, e neppure quest’atteggiamento critico sui miei comportamenti giornalieri, né su queste povere cose che ogni giorno mi vengono incontro, e che mi aiutano a ritrovare la mia personalità, la mia indole; se non avessi il mio sentirmi persona, che a volte si sdoppia fino a farmi vedere ogni cosa con gli occhi dello specchio del bagno, o del mio cane che alza la sua testa pelosa ad osservare la medesima scena di ogni giorno. Se non avessi tutto questo, ebbene, neppure sarei. O sarei altro.

         Mi sono immaginato la giornata di fronte. Ed ho avuto voglia di cambiarne la struttura, i contenitori stessi del proprio ordinario trascorrere. Poi mi sono reso conto che è del tutto impossibile. Ma in fondo tutto questo è stato sufficiente: avere delle possibilità, anche se non vengono neppure sfruttate, è già sufficiente per poter essere vivi.

 

 

 

 

 

         Sabato

 

         Alle quattro mi sono svegliato. Non di soprassalto, per un rumore, o per qualcosa che avesse disturbato d’improvviso il mio sonno. Senza alcun motivo, in modo direi quasi naturale, come se il mio organismo avesse deciso che non era più ora di dormire.

         Mi sono girato su un fianco, ho osservato la mia fidata radiosveglia, poi ho cercato ancora un’altra posizione. Avevo appena fatto un sogno, poche immagini veloci e definite. Mi trovavo sul retro di un magazzino, su un enorme piazzale all’aperto ingombro dei materiali più insoliti, circondato, su tutti i lati recintati fin dove potevo vedere, dai campi coltivati a mais, esattamente come possono esserlo quelli oltre la periferia di una città. Attorno era buio, solo il piazzale risultava illuminato a giorno da grosse lampade piazzate sopra ai pali della recinzione. E c’era tanta gente in giro, anzi, c’erano tutti, immobili, fermi e in piedi nella forte luce elettrica.

         In questa immagine statica solo il mio punto di vista si muoveva. Spostato vicino ad un lato della recinzione, lentamente io mi innalzavo, come sostenuto da un sottile filo di ferro che mi tirasse verso l’alto. Anzi, guardando meglio mi accorgevo che tra tutti gli altri pali della recinzione si erano formati dei collegamenti di fili, di cavi d’acciaio, brillanti e sottilissimi, ed io lentamente mi libravo nell’aria della notte continuando a salire attorniato da quei cavi. Le persone mi guardavano allibite ed io mi muovevo libero tra i pali come un trapezista del circo.

 

 

         Martedì

 

         Alzandomi dal letto ho cercato le mie pantofole, saggiando il pavimento con i piedi scalzi nell’oscurità profonda della camera, ma non le ho trovate, per quanto abbia setacciato una buona porzione di mattonelle fredde. Ho pensato fossero dalla parte opposta del letto, dal lato in cui, quando torno dal lavoro, in genere mi tolgo le scarpe, o mi siedo per cambiarmi d’abito. A passi scalzi ho evitato il cane che da sempre dorme, fedele ai suoi comportamenti, sdraiato per terra, con la schiena appoggiata al fondo del letto. Mi ha subito sentito ed ha tirato su il capo peloso dal suo giaciglio formato da una vecchia coperta stesa a terra. Forse mi ha guardato nel buio, come sempre, forse ha avuto pena di me, come immagino spesso. Le mie pantofole erano dove immaginavo fossero, e le ho subito calzate, compiaciuto del risultato. In silenzio ho spalancato la porta della camera da letto e sono uscito in corridoio, accostandola alle mie spalle, senza richiuderla, ad evitare il cigolio della maniglia.

         Sono andato dritto in cucina ed ho esitato un attimo ad accendere la luce. I rumori della sera precedente, nella stanza, sembrava si fossero posati sul pavimento, sulle pareti, sui mobili; e un vago odore di verdure bollite era invece rimasto in aria. Dal finestrone una luce tenue di mattino lontano e doloroso attraversava i vetri disegnando i contorni sfuggenti delle cose. Una mattina come tante, come tutte. Eppure unica, irripetibile, senza un perché.

 

 

         Mercoledì

 

         Ci sono delle volte che fingo di dormire. Sto al buio, coperto, con gli occhi aperti e fissi al soffitto, o meglio, considerata la scarsa luminosità, quello che credo essere sopra di me il soffitto. In questa posizione posso solo pensare, ma non vorrei farlo, vorrei piuttosto che un’ombra sfuggente nella stanza mi prendesse per mano indicandomi qualcosa di maggiormente importante, un elemento che valesse la pena di essere qui, di essere stato qua dentro per tutto questo tempo, per tutte queste notti vuote e spesso senza senso.

 

 

 

         Venerdì

 

         La radiosveglia non è suonata neppure stamani. All’ora in cui era puntata la suoneria ero già sveglio, anzi, lo ero già da molto prima. Però sono rimasto ancora qualche minuto a contemplare il niente di un altro inizio del giorno.

         Il mio cane mi ha sentito dalla sua posizione solita, sdraiato sul pavimento accanto al letto, e con deboli movimenti si è tirato su per osservarmi meglio e sbadigliare. In cucina albeggiava e tutto era esattamente come sempre.

         Mi sono ricordato del sogno della notte uscente, e siccome riconsiderandolo mi è parso bello, ho pensato che forse era il caso di tenerlo a mente per raccontarlo a qualcuno durante la giornata. Così ho passato mentalmente in rassegna le persone che avrei probabilmente incontrato durante la mattina, ma nessuna di loro mi è parsa adatta a delle confidenze intime.

         Poi, mentre addolcivo con dello zucchero un bicchiere di latte freddo, ho visto che il mio cane mi aveva seguito, continuando timidamente ad osservarmi. Mi sono abbassato verso di lui e l’ho accarezzato lentamente sul capo peloso. Così, sottovoce, ho detto: “Lo vuoi sentire tu il mio sogno di stanotte?”, e lui mi è parso acconsentire.

         “Avevamo affittato una casa, io e la segretaria del mio capoufficio con la quale a volte prendo qualche caffè al bar del piano terra, più per non adempiere a questo rito da solo che per la simpatia che emana. L’abitazione era davvero grande, formata da molte stanze non allineate tra di loro, ma come piazzate lì in maniera caotica. E la cosa buffa è che questa casa si trovava in una città araba, forse Marrakech, forse Tunisi, non saprei dire.

         Naturalmente io e la segretaria avevano stanze separate e ci vedevamo anche assai di rado durante quei giorni in quanto, per la vita che ognuno di noi svolgeva, avevamo orari assai differenti. All’interno di questo andamento delle cose tutto pareva piuttosto tranquillo e per così dire ormai sedimentato. Ma all’improvviso arrivava uno sconvolgimento imprevisto.

         Due o tre persone con fare molto deciso arrivavano a casa nostra e ci dicevano senza mediazioni che il nostro sfratto era improrogabile, il contratto d’affitto era concluso e il giorno seguente dovevamo liberare tutte le stanze. Per di più all’improvviso crollava il soffitto rosso di una delle stanze più belle del grande appartamento, ed in mezzo al gran polverone che ne scaturiva pareva che la nostra vita, la mia e quella della segretaria del nostro capoufficio, fossero alla rovina assieme a tutto il resto.

         Mentre uscivo per andarmene, come affiorando alla mia coscienza una nota di gusto e di delicatezza, pregavo la segretaria di mettere via con cura e ben protetti tutta una serie di piccoli oggetti in porcellana: tazzine, piattini, soprammobili. Non so dove li avrei portati, ma proteggerli mi sembrava la cosa al momento più importante, in ogni caso.

         Il mio cane a questo punto si è accucciato, mi ha guardato per un altro minuto, poi ha sistemato il muso sopra la sua zampa e ha chiuso gli occhi.

 

 

         Domenica

 

         Mi sono svegliato davanti ad un piccolo golfo in una giornata piena di sole e calma di vento. Il caldo accarezzava i piccoli cespugli che si protendevano dalla piatta vallata alle spalle del mare fino quasi a pochi metri dal bagnasciuga e poche barche ancorate muovevano leggermente la prua, lasciando oscillare assieme agli scafi gli alberi fissati alle sartie.

         Il sole era alto a metà del giorno e il promontorio di fronte oscillava di vegetazione e di scogli rossastri. Incontravo una donna, da sola, ma era troppa la mia timidezza per chiederle come si chiamasse quel luogo, perché mi trovassi lì, o di indicarmi una direzione, un senso, qualcosa verso cui incamminarmi. Lei mi osservava a distanza, come avendo intuito i miei dubbi, quasi interpretando le mie perplessità. Poi si voltava, come cercando con gli occhi qualcosa che stava già da un’altra parte, ed io mi sentivo all’improvviso deluso, ignorato, ancora più solo.

         Ma lei si voltava, ed io, con una sfumatura di coraggio, mi avvicinavo a lei, ed arrivato a tre o quattro passi di distanza, mi fermavo senza staccare gli occhi dalla sua espressione vagamente interrogativa: “Vorrei tanto amarla,” dicevo, “starle vicino, provare per lei un sentimento puro, che non avesse niente di egoistico, come uno sdoppiarsi dentro ad uno slancio indifferente ai risultati, senza alcun disegno, e vivere e brillare per un attimo in quel gesto, e poi nient’altro”.

         La donna era triste, fingeva di osservarmi ma era piena di quel mare, di quel golfo, di quei campi che bagnavano le proprie estremità nell’acqua salata. “Seguimi”, diceva, “la mia vita è sacrificio, solo sacrificandoti puoi comprenderla”.

 

 

         Mercoledì

 

         Erano le 22 e 15 quando sono entrato nel letto, impiegando come sempre ogni cura per non scalzarlo troppo dal mio lato, e che le coperte rimanessero ben tese. Ero stanco, ed ho spento subito la luce. Alle 2 e 56 ho riaperto gli occhi, e la radiosveglia accanto a me, coi suoi luminosi numeri rossi, ha continuato a scandire il trascorrere lento della notte. Ho pensato alla giornata di lavoro che mi attendeva, ed ho passato lentamente in rassegna le varie cose che non dovevo assolutamente dimenticarmi di fare, ma mentre scorrevo i pensieri perdevo concentrazione, ed il mio interesse risultava attratto da altre cose, più vaghe, quasi eteree, persino casuali, fino a che un sottile dolore ad una spalla mi ha riportato in fretta alla situazione.

         Poi si è materializzato davanti a me un campo giallo di grano maturo, e una stradina polverosa piena di sole e di caldo. Era piacevole osservare quella distesa uniforme, senza asperità, ed accorgermi che gli alberi in fondo mostravano delle foglie di verde chiaro, ferme nella luce forte. Con questa immagine credo di essermi riaddormentato, ma non so precisamente quando ho iniziato a sognare, anche se ad un certo punto mi sono ritrovato nella casa dei miei genitori, un appartamento anonimo di un palazzo anonimo.

         Al piano superiore abita una donna severa e scostante con una figlia, che da qualche tempo tutti sanno che ha iniziato a drogarsi pesantemente ed anche a battere il marciapiede, probabilmente per comprarsi le dosi che le servono. Ha una zia, questa ragazza, probabilmente più comprensiva della madre, la quale a volte sale le scale per cercare di parlare con la sua nipote; certe volte alzano un po’ la voce, poi però spesso si abbracciano e piangono assieme. Dai solai leggeri si sente tutto quello che si dice dall’altra parte, e le vicende dell’appartamento superiore per me non hanno quasi più segreti, indipendentemente dalla mia curiosità.

         Così quando dalla ragazza arrivano tre o quattro sbandati con le facce da malavitosi, se ne sente le parole, i discorsi, le risate forti, e quando scendono le scale bussando alla porta dell’appartamento dei miei genitori, so già che sono loro. Non ho niente di cui aver paura, così apro la porta per chiedere il motivo di tanta confusione. Ridono, vogliono drogarmi, forse per scherzo, per impaurirmi. Riesco comunque a conservare un atteggiamento calmo e meravigliato, ed il mio cane rimane tranquillo, in disparte. Le cose vanno per le lunghe, ed io ad un tratto riesco precipitosamente a fuggire per le scale, inseguito da qualcuno, ma una volta in strada entro di corsa nel negozio subito di fronte per telefonare alla polizia. Questa velocemente arriva e riesce senza grossi problemi ad arrestare tutta la banda.

         Dopo qualche tempo però uno di loro, o un loro amico informato di tutto, si para davanti a me in strada mentre sto rientrando a casa, quasi davanti al portone del palazzo. Lui alza le mani in modo minaccioso ed io cerco di difendermi tirandogli dei calci rapidi e nervosi che non riescono purtroppo ad arrivare a segno. Per un movimento inconsueto fatto per schivarmi però, quello cade a terra in malo modo, e rimane lì, stordito. Io trovo una sbarra di ferro al margine della strada, e con una forza residua che sembra comunque mancarmi sempre più, brandisco l’arma tentando di colpirlo e di sfondargli il cranio. Poi mi prende un’angoscia profonda pensando che qualcuno della banda possa essere nello stesso momento con la mia famiglia, ma oramai so che non posso fermarmi, e devo proseguire, andare fino in fondo.

         Giovedì

 

         Oggi mi sono svegliato di soprassalto e ho ripensato al sogno; mi è tornato a mente un vecchio incubo di quando ero piccolo, che forse ha una qualche relazione con questo, non saprei. Avevo quattro o cinque anni ed abitavo in una casa che oggi non esiste più. C’era un cortile piuttosto grande sul retro e noi abitavamo al primo piano. Qualcuno, con la paletta per i dolci che è sempre stata nel cassetto della credenza, con la sua strana forma trapezoidale e orlata da piccole incisioni simmetriche, ha tagliato a fette la mia mamma. Lei giace a pezzi sul cemento del cortile, ed io provo una pena enorme, ma lei muove una parte della testa, che forse è la parte più grossa che le è rimasta, pur con un solo occhio, e con una voce fievole cerca di dirmi qualcosa che purtroppo non capisco.

         Rimango impietrito alla finestra del primo piano ad osservare quel che rimane della mia mamma: non cerco neppure di scendere giù da lei, di avvicinarmi, di toccarla; mi limito a piangere per lei, e a disperarmi con tutte le mie forze, senza poter fare nient’altro.

 

 

         Martedì

 

         Stamani il cane mi è venuto vicino e mi ha annusato. Aveva un’espressione seria, come di chi vuole parlarti di qualcosa di importante a cui tiene. Gli ho dato un biscotto, intanto io ne ho mangiati due; poi ne ho allungato un altro verso la sua bocca lunga e dentata. Mancavano tre minuti alle sei. Era presto. Potevo ancora riempire il tempo con dei pensieri.

         Alle quattro e un quarto esatte ero già sveglio. Mi sono girato dalla parte opposta dei numeri luminosi della radio sveglia, e sono stato contento di avere ancora molto tempo. Non arrivava quasi nessun filo di luce fino al letto, ed un silenzio assoluto ottenebrava la stanza. Ho pensato a me, senza motivo, e per ridere ho immaginato di essere felice.

         Avrei potuto alzarmi dal letto, andare in cucina e aprire il frigorifero, forse versarmi qualcosa di fresco da bere; oppure, in un silenzio circostanziato e teso, accendere la televisione per guardarmi qualche programma assurdo della notte. Mi è parso interessante far parte della schiera dei nottambuli che per un motivo o l’altro riescono a modificare con la loro assiduità la programmazione televisiva delle reti della notte, poi non ho trovato niente d’interessante in tutto questo, e mi sono girato su un fianco, la mia posizione preferita. Ma ormai non era più possibile dormire, ne avevo coscienza piena e completa. Il sonno non sarebbe ritornato, tanto valeva far qualcosa d’altro.

         Svegliandomi del tutto la prima sensazione del giorno è stata l’angoscia. Angoscia per quell’abbandono dello stato di sonno, lasciare quel nido protetto nel quale rinchiudersi a tutto. Poi, con un filo di coraggio, il secondo pensiero è stato sulla giornata in cui far cominciare, fin da subito, le solite, usuali, piccole e grandi attività alle quali dar corso, ineluttabilmente.

         Il cane ha proseguito da solo i miei sogni, e il resto della giornata ha continuato a venire verso di me come una pellicola cinematografica che pian piano si svolge e attraversa appena per un attimo il fascio di luce formidabile della macchina, e poi si riavvolge con precisione sugli altri metri di se stessa, ritornando nel buio. La cucina, coi suoi lievi odori di cibi e di grassi scaldati sopra ai fornelli, il bagno, con le luci taglienti accanto allo specchio, le lamette da barba, con la loro sottile freddezza. Poi sono uscito di casa.

 

 

         Giovedì

 

         Mi sono svegliato di soprassalto, stanotte, per un rumore forte, profondo. Ho immaginato un cataclisma, una variazione profonda dello stato delle cose, e se da un lato ne ho subito avuto paura, dall’altro ho provato il gusto forte del dramma, dell’affrontare realtà diverse dalle giornate ordinarie, forse enormemente disagiate. Era solamente un tuono a fare da avanguardia al temporale che stava sopraggiungendo, e di lì a pochi attimi una pioggia liberatrice ha iniziato a battere sull’asfalto della strada e sopra ai tetti. Mi sono sentito proprio bene così protetto dalla mia casa e dalle coperte del mio letto, ma poco dopo un’uggia incontrollabile mi ha fatto sgusciare nell’oscurità della camera fino ad arrivare alla finestra di cucina. Dopo poco i lampi di luce erano già radi e lontani, ma una pioggia insistente continuava a rimbalzare sulle superfici luccicanti.

         Mi pareva viva la notte, con la sua aria trasparente di buio profondo, denso ed infinito. L’ora canonica del mio risveglio sarebbe sopraggiunta non prima di altri quarantacinque, cinquanta minuti, e questo lasso di tempo era talmente breve da non permettermi neppure di riprendere sonno. Nonostante questa consapevolezza sono tornato a coricarmi, forse più per cercare una meditazione cosciente che per riposarmi.

         La radiosveglia lasciava debolmente tremare nell’aria alcune note musicali distorte dalla cattiva sintonia, irriconoscibili perfino a qualsiasi esperto di musica leggera tanto era forte la loro corruzione, poi, schiacciato il pulsante, il silenzio era tornato immediatamente. Anche la pioggia era cessata, ed il mio cane annusava l’aria della stanza quasi a sentire la fragranza del lavaggio notturno della città. Tutto, velocemente, era di nuovo nell’alveo dell’ordinario.

 

 

         Lunedì

 

         Alle quattro e dodici minuti esatti un boato spaventoso mi ha svegliato di soprassalto. Ho immaginato il tremare dei vetri alle finestre, le sirene degli allarmi impazzite, l’improvviso spegnimento di telefoni e la mancanza totale di energia elettrica, ma niente di tutto questo stava realmente accadendo. Dopo i primi istanti di paura irrazionale, lentamente ho iniziato a rendermi conto che al contrario di quanto avevo creduto tutto appariva regolare, proprio come doveva essere, e che la notte scorreva lentamente come sempre.

         Allora ho chiuso di nuovo gli occhi e mi sono abbandonato con calma sotto alle coperte, cercando di riflettere, ormai sveglio, su ciò che poteva significare tutto questo. Era ipotizzabile un collegamento personale con qualcosa o qualcuno che mi avesse voluto trasmettere un segnale, e ne ho avuto paura. Per un attimo ho pensato anche ad un evento accaduto ad un parente, ad un amico, ma subito ho abbandonato l’idea.

         Poi ho immaginato un qualcosa del quale non aver mai avuto neppure idea dell’esistenza: una persona, un evento, un apparato, un’entità segreta con la quale io fossi all’improvviso entrato in contatto, o meglio, che avesse rivelato a me un qualcosa di terribile ed inspiegabile. Ho immaginato giornate da trascorrere sui quotidiani e i rotocalchi a cercare tra le notizie minori e le più ordinarie, un qualche elemento che tramasse una tela per altri incomprensibile; costruire enormi puzzle mentali rincorrendo legami e collegamenti impossibili tra fatti ed eventi marginali, a grande componente di inspiegabilità, di mistero, ai limiti appunto dell’incomprensibile.

 

 

         Sabato

 

         Anche oggi mi sono alzato dal letto regolarmente, alla medesima ora di ogni giorno. Sono andato in cucina ed una presenza mi ha scosso. Di fatto era tutto in ordine, proprio come sempre, però un alito leggero pareva sortisse da un corpo invisibile e immobile che mi osservava senza un’espressione riconoscibile.

         E’ sabato, oggi, e non devo andare a lavorare. Razionalmente lo so, ma il mio corpo si sveglia alla stessa ora di ogni giorno, nonostante quell’ora non mi faccia sentire troppo riposato. Così inizio a girare per casa, in modo inquieto, senza sapere bene cosa fare e a cosa dedicarmi. Il mio cane scodinzola ed evidentemente vuole uscire.

         Albeggia, ed io sono già fuori, a respirare un’aria frizzante e pulita che nei giorni di lavoro mi pare sempre più pesante e viziata di oggi. Passeggio avanti e indietro per strade che costeggiano i giardini, ed il mio cane si attarda dietro a tracce di odori che lo tengono attento ed impegnato. Poi torno a casa. Mi sento stanco, e mi tolgo le scarpe. Poco alla volta le mie energie si attenuano, ed anche la mia voglia di fare, repressa durante tutta la settimana, si spegne lasciandomi inevitabilmente privo di idee e di pensieri. Lentamente rientro nel letto e spengo la luce. Non so che ore siano, e forse neppure mi interessa.

 

 

         Lunedì

 

         Oggi mi sono svegliato undici minuti prima che la mia radiosveglia iniziasse a spandere le sue note gracchianti della solita musica commerciale fuori sintonia. Ho cercato di fingere ancora di dormire in modo da non essere perfettamente cosciente del mio stato di sveglio, ma è stato inutile. Ho acceso una lampadina e ho tirato su il mio corpo solo parzialmente riposato. Mi sono ricordato di far scattare il meccanismo di spegnimento della radiosveglia e poi ho inforcato le pantofole. Non ho trovato gli occhiali accanto al mio orologio da polso, così ho pensato fossero rimasti in cucina dalla sera avanti, come spesso mi capita, o sul bracciolo della poltrona, però non era così.   

         Di là dalle tendine della finestra si intuiva l’approssimarsi dell’alba, e lontano, forse da sopra un albero, si sentiva il richiamo lugubre di un uccello notturno. Ho acceso la luce sopra ai fornelli di cucina ed ho aperto il frigorifero. Era buffa la realtà senza i miei occhiali: una velatura di fastidio dato dalla incapacità ad avere un’immagine completa e ricca di dettagli, si alternava all’incompletezza fascinosa delle cose, più macchie di colore spruzzate in maniera casuale nel panorama casalingo, che oggetti completi e definiti nella loro immobilità e freddezza.

         Pensavo ad una persona a cui avevo telefonato in sogno. Avevamo parlato di un piccolo favore che avrei volentieri voluto fargli, e scambiandosi reciproci complimenti ci eravamo messi d’accordo sulle modalità. Poi ero stato colto da alcuni dubbi e lo avevo richiamato. Avevo comunque scritto velocemente degli appunti sopra ad un taccuino, ma senza i miei occhiali non riuscivo a rileggere neppure nella mia scrittura. E così era accaduto poco dopo una seconda volta. Con le mie telefonate temporeggiavo continuando a pensare dove avessi potuto cacciare i miei occhiali, ma in questo modo non prestavo sufficiente attenzione a ciò che mi veniva detto.

         In breve era come se continuassi ad avere certezze solo fino a quando chi mi chiamava rimaneva all’apparecchio, a spiegarmi la propria idea. Mi appariva tutto chiaro e addirittura scontato fino al momento in cui riattaccavo la telefonata, e quando rimanevo da solo a ripensare a ciò che mi era appena stato spiegato, ecco che da allora in avanti nascevano in me masse di dubbi.

         Appena abbassavo il telefono tutto appariva nebuloso, poco definito, senza i miei occhiali mi sentivo addirittura perso, e mi vedevo costretto a dover richiamare il mio interlocutore per avere dei dettagli, ulteriori spiegazioni, o addirittura per farmi ripetere ciò che mi era stato appena detto due o tre volte. Era come se dentro alla mia testa le istruzioni appena ricevute si confondessero tra loro, si amalgamassero anche ad altri pensieri che niente avevano a che fare con i primi, e la paura di non riuscire in modo completo e soddisfacente nei miei intenti diventava superiore a qualsiasi vergogna nel farsi ripetere ancora una volta la stessa cosa.

         Alla fine iniziavo a stare male, tutto questo si trasformava in un tormento per me e per il mio conoscente, e immaginavo, nonostante le mie scuse, di essere frainteso, come se cercassi un artifizio per evitare qualsiasi mio impegno. Intanto era tramontata qualsiasi gentilezza ed ogni complimento che ci eravamo scambiati inizialmente, e quella mia inconcludente richiesta di spiegazioni, pur intervallata da pause di qualche minuto, sembrava soltanto una posa ironica.

         Poi arrivava inaspettato un cambiamento del tono di voce e del modo di parlarmi da parte sua: di colpo lui metteva da parte il piccolo favore e tutto il resto di cui inizialmente era parso interessato, ed iniziava a trattare, come da conoscente della materia, dei comportamenti iterativi, dell’instabilità emotiva, di atteggiamenti mentali paragonabili a tic nevrotici, e le sue parole erano dette al telefono con calma, con modi estremamente tranquillizzanti. All’improvviso parlava in generale di un’attività psichiatricamente interessante, di disturbi comportamentali leggeri e curabilissimi, ma di una diagnosi da fare al più presto, e di analisi psicologiche da mettere in campo anche per amore della scienza.

         Sorridevo tra me, e pensavo che per nessuna cosa al mondo avrei parlato con lui dei miei occhiali, e di come riuscissero a farmi infilare quella continua serie di gaffe, di equivoci incredibili. Continuavo a sorridere, immaginando delle sedute ricorrenti e anche parziali, degli obiettivi inafferrabili a cui mirare, delle cure infinite e inconcludenti, con lunghi anni da trascorrere su lettini di analisti a parlare dei miei più reconditi segreti. Immaginavo magri e seri medici occhialuti in camice bianco a studiare i miei riflessi, a ponderare le mie risposte su domande trabocchetto, tortuose interrogazioni compresse di significati apparentemente camuffate da sciocchezze infantili.

         Poi spariva l’uomo, il conoscente, le sue richieste di favori, le telefonate, e rimaneva solo il mio atteggiamento assurdo ed adesso drammaticamente serio, pur pilotato da quella sparizione inspiegabile dei miei occhiali, con quella mia incapacità decisionale superiore a qualsiasi immaginazione, quasi un gusto terribile e profondo dello stallo in cui verticalmente continuavo a cadere, senza possibilità di uscirne.

         Dopo anni di studi sul mio caso immaginavo la mia rassegnazione nel tenere un comportamento deviato, posto alla scoperta della calma e della stabilità mentale solo all’interno di quel mio perdurare con telefonate monotone e ricorrenti, quasi un’ossessiva ricerca della spiegazione ulteriore, del dettaglio da svelare, del superiore chiarimento, forse più certezza di gesto di qualsiasi altra concreta abitudine. I miei occhiali poi erano in bagno, sopra il piano del lavabo, e dove avrebbero potuto essere se non lì?

 

 

         Martedì

 

         Ho sognato di nuovo di perdere i miei occhiali. Continuavo a cercarli dappertutto nelle stanze di casa, ma non ne trovavo traccia in alcun posto dove avrei supposto potessero essere, e ciò lasciava montare dentro di me un’enorme irritazione, sicuramente per il disagio della mia vista sminuita, ma anche di più per il fatto in sé, per quel ritrovarmi preda della casualità, come se io non fossi pienamente padrone neppure dei miei oggetti personali. Non sono abituato a perdere le cose, a non       averne controllo, così la menomazione mi si è ingrandita, mi pareva addirittura di non riuscire a vedere le cose, di camminare e continuare a sbattere contro ostacoli a me ignoti.

         A tratti mi pareva che il cielo, di là dalla finestra, fosse livido, uniforme, incapace di definire i confini delle nuvole, e soprattutto privo delle sfumature di colore che caratterizzano ogni alba. Immaginavo un mondo privo di dettagli e soffrivo della mia incapacità nel cogliere i contorni ed i particolari delle cose. Poi rimanevo in silenzio, con gli occhi fissi sopra una macchia di colore, e all’improvviso, non potendo fare altro, ascoltavo.

         Piccoli rumori arrivavano alle mie orecchie in modo disordinato ed improvviso, e per la prima volta me ne sentivo attratto, come se fossero loro, quei piccoli suoni, a rendermi i particolari delle cose. Ascoltavo un’automobile lontana che passava lungo la strada, il mio vicino di casa che si muoveva sul balcone, qualche folata di vento che faceva frusciare la siepe del giardino.

         Starmene senza occhiali in fondo poteva essere anche una scelta, un modo per acuire gli altri sensi, per rendersi conto di altre cose, magari più recondite e nascoste del normale profilo degli oggetti. Avere un’immagine più ampia, più completa, e annullando i dettagli riuscire a cogliere l’interezza della realtà, senza quel perdersi ossessivo su particolari scollegati, su elementi singoli confinati ognuno all’interno del suo isolamento.

         Mi pareva un arricchirmi incondizionato, un elevarmi a opinionista oggettivo ed obiettivo, proprio per quel fondere i particolari tra di loro, quel trascolorare ogni pennellata a vantaggio del quadro d’insieme, e in questo sforzo affinare un concerto di sensi tutti parificati nella composizione armonica della realtà. Poi mi sono svegliato, e i miei occhiali erano come sempre accanto alla mia radiosveglia.

 

 

 

         Venerdì

 

         Stamani è una giornata come tutte le altre. Non sono contento, ma neppure mi sento particolarmente triste. Mi sono svegliato presto nel silenzio assoluto della casa, ed adesso rimango ancora sotto alle coperte ad assaporare i miei pensieri che scorrono fluidi come sempre. Fuori, penso, sicuramente il freddo pungente avrà reso sgradevole la strada, i marciapiedi, i muri delle case ostili e squadrati nel buio della mattina invernale dall’alba lenta e ritardataria. Lontano, la campagna apparirà sicuramente biancheggiante della brinata della notte, e gli alberi scheletriti appariranno immobili e silenziosi come monumenti al freddo gelido e all’inverno. Sotto alle coperte il caldo del mio corpo si è scavato, durante tutta la notte, un guscio accogliente e magnetico, tanto da dilatare al massimo il momento in cui dovrò decidere di alzarmi dal letto.

         Forse potrei isolarmi dal resto del mondo, penso, evitare di rispondere al telefono e staccare i fili elettrici dal campanello della porta. Potrei rimanermene da solo e tagliare via per qualche tempo i comportamenti rituali di ogni mattina. Non ho voglia di affrontare le piccole difficoltà di tutti i giorni, uscire di casa, raggiungere l’ufficio, scambiare i soliti buongiorno con le stesse persone di sempre.

         Potrei fuggire, tanto per rompere di botto con quanti si aspettano da me lo svolgimento dei miei doveri di sempre. Sparire, ecco la parola giusta; senza portarmi dietro niente, se non i miei abiti con me stesso dentro. Arrivare in fretta alla stazione e salire sopra a un treno, il primo che transita, senza destinazione prefissata.

         Mi immagino il mare, in una giornata fredda ma piena di sole, oppure un piccolo paese di campagna, dove sedersi al tavolino dell’unico caffè, e bere lentamente qualcosa leggendo i titoli di un giornale di provincia. Sulla spiaggia potrei trovare un cagnolino a cui fare le carezze, lo stesso che potrebbe venirmi dietro alla fine del paese di campagna, là dove dietro l’ultima casa si aprono le colline grigie e offuscate da una leggera foschia e dalla distanza.

         Un’isola, piccola, appena accennata, sull’orizzonte di un mare calmo che mostra tutte le miglia di distanza che mi separano da là; oppure una chiesetta biancheggiante sopra un’altura senza niente di significativo. Uno scopo, un senso, una direzione verso cui guardare, a cui ispirarsi, e poi più niente, perché niente ha più importanza, nient’altro.

         “Chissà cosa pensi di me. Di me che cerco di sfiorarti con le mie parole. A te che a volte mi sfiori in silenzio e non puoi riconoscermi.” Così avevo scritto sopra ad un foglietto quadrato, ripiegato diverse volte su se stesso con cura, ed inserito di fretta, ma con grande attenzione, dentro alla leva del freno di una bicicletta da donna, proprio lì, attaccato al manubrio, che non ci fossero equivoci. Sapevo esattamente quando sarebbe stato ripreso, riaperto, osservato in silenzio, con grande interesse, speravo, forse letto d’un fiato, con dolcissimo incanto. O almeno desideravo talmente tanto che fosse stato così, da immaginarmi tutto per filo e per segno. Uscivo di casa, al mattino, che ancora doveva albeggiare, ed intorno osservavo le facciate delle case ancora offuscate di sonno. Mi muovevo con calma, proprio evitando la fretta, ed in breve comunque arrivavo davanti ad un portone ben chiuso, e ad una finestra che certe volte a quell’ora mostrava un chiarore di luce filtrante da dietro le persiane.

         C’era un cortile, di fianco alla casa, e in fondo, appoggiata con cura al muro perimetrale, quella bicicletta celeste. Immaginavo una ragazza dolce, timida, ma allo stesso tempo decisa e risoluta. Mi sentivo felice di quella presenza, tante altre mattine ero andato a vedere se era lì, come sempre, magari posizionata in qualche altro modo. Immaginavo la fretta di un giorno o la maggior cura impiegata in un altro, quasi ne vedevo i comportamenti studiandone il risultato.

         Era stato un giorno qualsiasi che mi era nata la voglia di dirle qualcosa. Neanche qualcosa di preciso, mi sarebbe bastato un segno, una traccia qualsiasi. Così avevo sistemato un fiorellino, strappato ad una piccola pianta che tenevo in cucina, proprio sopra al manubrio, e mi ero accorto così che la giornata era diventata migliore, serena, quasi gioiosa.

         Il primo biglietto era arrivato più tardi, quando mi ero accorto che nessuna variazione nei giorni seguenti era stata apportata alla posizione della sua bicicletta. Se non c’erano risultati tangibili, avevo pensato, non c’erano comunque neppure atteggiamenti di ostilità. Una domenica di sole mi ero attardato lungo il marciapiede di fronte con la scusa del cane, ed avevo aspettato il momento in cui era uscita di casa, ad una distanza di qualche decina di metri, così l’avevo osservata, catturando per me ogni piccolo gesto dei suoi movimenti. Non aveva guardato verso di me, e questa era forse la cosa più importante.

         Qualche mattina passando da lì mi ero sentito ridicolo, triste, ma non vi avevo dato gran peso. Così ogni tanto mi tornava la voglia di scriverle un pensiero, e in certi momenti questo mi pareva bellissimo. Mi sentivo felice di quel mio comunicare, e forse non c’erano neppure altre intenzioni tra i miei desideri. Però stupendo era quel manifestarsi, quel cercare un canale di scambio così esile e soffuso da non avere quasi alcun peso. In fondo non aveva proprio importanza per nessuno se io lasciavo un segno di me ogni tanto, solo per lei poteva essere qualcosa, ed io speravo tanto che lo fosse veramente.

 

 

         Domenica

 

         Questa mattina ho sentito la campana di una chiesa che rintoccava per cinque volte. Ho aperto gli occhi ed ho pensato che potevo permettermi di rimanermene nel letto ancora qualche minuto, così ho cambiato posizione e sono tornato a chiudere gli occhi. Solo quando la mia radiosveglia ha iniziato a gracchiare ponendo fine a quel dolce limbo mi sono reso conto di una stranezza. Non ci sono campanili né chiese vicino casa mia, e non avevo mai sentito prima suoni di campane dalla mia camera.

         Ho sorriso pensando di essermi sognato tutto quanto, ma anche dopo che mi sono alzato dal letto ho continuato a provare un soffuso senso di disagio. Possibile non avere coscienza di un fatto concreto? Possibile non riuscire a delimitare il confine tra la realtà e la fantasia? Superficialmente concludevo tra me che non c’era da dare molta importanza a tutto questo, era sufficiente esserne al corrente, ma di fatto un’inquietudine costante manteneva l’argomento in primo piano tra tutti i miei pensieri.

         Se mi era possibile sognare una cosa come vera, pensavo, allora era anche possibile farne una costruzione mentale più spessa e articolata, addirittura trovarne un senso, una logica spiegazione; era possibile inventare di sana pianta un mondo intero di piccoli e grandi elementi articolati che dessero addirittura un significato a ciò che sicuramente era più vero, la realtà, ma non così vicino ai miei gusti e ai miei desideri, come i miei sogni e le mie fantasie.

         Il mio cane mi aveva osservato in silenzio, poi aveva sbadigliato, ma in maniera composta, stirandosi e aspettando qualcosa da quel risveglio. Era difficile dire quanto sarebbe stato facile neutralizzare tutto quanto sotto un mantello di normalità. Di fatto mi pareva sconcertante pensare che i miei spazi fossero inventati, che le mie piccole abitudini di ogni giorno si fossero poco a poco piegate alle mie fantasie, fino a risultare significative e importanti solo per me, all’interno di un microcosmo solamente mio.

         Il mio solito bicchiere di latte freddo stentava a sciogliere lo zucchero che vi avevo immerso, ma anche se cercavo di osservarne i risultati con curiosità, di fatto sapevo benissimo che anche quello era un gesto rituale, di ogni mattina.

         Curioso immaginare di poter vivere all’interno di un piccolo mondo costituito di elementi simbolici, ma mentre pensavo a quanto potesse essere normale questo comportamento, al contempo iniziavo a provarne un sempre maggiore disagio, quasi paura. Era come se sapessi d’improvviso che tutto attorno a me fosse poco a poco stato piegato ai miei voleri, fino a perdere consistenza di realtà e di concretezza. Forse avrei dovuto immediatamente aprirmi ad un’autocritica forte e rigorosa su questi temi, fino a ritrovare un senso più comune, ma questo mi pareva un compito enorme, faticosissimo, pieno di insidie fatte di depressioni e di abbattimenti. Il mio mondo di ogni giorno mi cullava quanto il caldo del mio letto, come era possibile abbandonarlo, svuotarlo dei propri contenuti, eliminarlo come fazioso e inconcludente?

         Forse, al contrario, avrei dovuto spingere tutto quanto fino alle estreme conseguenze, avrei dovuto costruire un mondo ben più imponente e articolato, perché così richiedeva la mia personalità, così richiedeva il mio volere profondo, la mia necessità di vita. Solo pensare ai miei piccoli vizi di ogni giorno spostava immediatamente la mia attenzione verso un magico oblio del quale probabilmente non sarei riuscito a fare a meno, tanto valeva saperlo e basta, e andare avanti così fino a costruire un sistema intero, completo e perfetto, che mi permettesse l’allontanamento da ogni infelicità.

         Però sapere che tutto quanto rimaneva comunque fittizio e sorretto soltanto dalla mia personalità e dal mio pensiero, ne faceva cosa di poco conto, perlopiù elemento senza importanza. Ma era comunque la mia vita in ballo, e se tutto questo ne permetteva uno scorrere più leggero e sereno, non poteva essere poco importante. E in ogni caso, anche volendo con tutte le mie forze eliminare questa parte di me, ero cosciente che questo sarebbe stato impossibile.

 

 

         Venerdì

 

         Continuo a svegliarmi presto, al mattino, e a cercare una dimensione così intima e personale da non permettere ad una qualsiasi insidia, neanche ad un piccolo rumore accidentale, di disturbarne l’equilibrio. In un attimo, nel silenzio della notte, sono cosciente di essere sveglio, e all’improvviso tutto quello che poteva essere, fino ad un attimo prima, pura fantasia di sogni e di pensieri fantastici, si trasforma in una dura realtà data dai numeri luminosi della mia radiosveglia, e dal tempo che mi resta fino al distacco inevitabile anche da questa ovattata realtà, quando ineluttabilmente dovrò affrontare la giornata e i miei soliti impegni. Allora chiamo a raccolta le mie piccole certezze di ogni giorno, usufruisco delle mie residue frangiature fantastiche a cavallo tra il sogno finale e la mia prima razionale riflessione, e inizio a crogiolarmi nei miei usuali pensieri costellati di immagini e di personaggi consueti e rassicuranti.

         Credo sia qui che riesco a trovare tutte le energie che mi servono per affrontare in modo degno le difficoltà della giornata, anche se a volte mi chiedo se le complicazioni che registro durante le ore del giorno, non siano proprio loro a trasmettermi l’energia necessaria ad avere, durante l’unico momento della mia vera intimità, tutti i pensieri che servono per sentirmi vero e in qualche modo unico.

         Mi chiedo anche perché dovrei sentirmi unico, diverso da altri, dagli altri colleghi dell’ufficio, per esempio, oppure da qualcuno dei miei vicini di casa che a volte mi sembrano, quasi per un gioco di parole, così distanti e lontani dai miei modi di essere e di pensare. Qualche volta ho riflettuto che probabilmente tutti quanti provano, dentro loro stessi, sfaccettature più o meno incomplete di ciò che io provo, ma anche se ciò fosse vero, accade con un diverso grado di immedesimazione in ciò che a me passa per la mente, e già questa è ineluttabilmente una diversità incommensurabile.

         Così mi pare che molto difficilmente qualcuno possa assomigliarmi, ed anche questa riflessione, pur accarezzando vagamente il mio ego, mi lascia un senso di solitudine e di isolamento. Certamente continuo a pensare profondamente che similitudini tracciate sulla riga della sensibilità e del rapporto profondo con le minime cose di ogni giorno, devono per forza di cose trovare in altri simili modi di comportamento; però è la difficoltà concreta e profonda nel riuscire a dare traccia di me stesso in chiunque nutra un modo di essere e di pensare simile al mio, che crea la difficoltà più forte ad avere dei veri contatti umani.

         In fondo non ritengo di avere bisogno degli altri, almeno non di quelli con cui non trovo praticamente niente di cui sentirmi somigliante; e coloro che potrebbero essere come me, o avvicinarsi molto ai miei modi di essere e di pensare, mi incutono paura: meglio sfuggirli.

 

 

         Martedì

 

         Stamani mi sono svegliato sognando di trovarmi nella stessa posizione in cui ero veramente. Ho aperto un occhio ed ho pensato che forse stavo sognando di essere sveglio, in attesa dell’ora per alzarmi. Ma se, come si dice, i sogni sono, o dovrebbero essere, evasione dalle consuetudini e dalla realtà ordinaria, per quale motivo, mi chiedo, a me succede quasi il contrario?

         Mi sono tirato su nella fioca luce della mia camera da letto, ed ho intravisto il mio cane che continuava beatamente a dormire nel suo solito angolo: per un momento ho invidiato il suo disinteresse per i problemi esistenziali, poi ho scostato le coperte ed ho cercato le mie pantofole.

         In cucina l’oscurità profonda della notte, di là dai vetri della finestra, lasciava un lieve spazio ad un’alba ancora lontana e costellata di grandi nuvoloni che si immaginava a malapena nel contrasto della profondità scura del cielo. Ho versato il mio latte e l’ho addolcito con lo zucchero. Poi mi sono seduto al tavolo.

         Non c’era niente di speciale in tutto quello che stavo facendo, un inizio di giornata esattamente identico a mille altri assolutamente intercambiabili tra loro, una serie concatenata e meccanica di operazioni così masticate e decantate sino a farne uno strato di roccia geologicamente inattaccabile, marmo o granito così compatto e antigraffio da risultare neppure lavorabile. Eppure, nonostante tutto questo, mi sentivo bene, ero contento.

         Impossibile a volte chiedersi il motivo di certi stati d’animo, anche perché il rischio finale potrebbe anche essere quello di non riuscire a prolungarne gli effetti, di interromperli insomma, lasciando un’amarezza e un disagio ancora più inspiegabili. Così, con gli occhi nel piccolo vortice che il movimento rotatorio del cucchiaino provocava dentro al latte, pensavo a come far sprigionare da me quella mia voglia di ridere e di essere contento, anche se pareva una ricerca inutile.

         Poi mi sono vestito in fretta e sono uscito. Fuori era quasi chiaro, e assieme al mio cane che continuava ad annusare l’aria e qualsiasi cosa esistente, sono scivolato lungo il marciapiede noto. Nella penombra del cortile c’era la bicicletta. L’ho osservata per un lungo attimo, cercando di immaginarmi la ragazza mentre stava pedalando, poi, in un attimo, ho preso una decisione dalla quale, pensavo, non avrei dovuto mai tornare indietro. Sarei andato ad aspettarla, una di quelle sere, sarei rimasto sul marciapiede tutto il tempo che sarebbe occorso, e poi le avrei fatto un cenno, le avrei parlato, le avrei spiegato tutto, di me e di tutto quello che mi passava per la testa.

         Mi sono sentito leggero allontanandomi da lì, ed ho immaginato con forte realismo la scena in cui lei avrebbe alzato gli occhi dalla strada e dalla bicicletta, e dapprima con serietà, poi allargandosi in un sorriso delizioso e spontaneo, avrebbe ascoltato le mie parole e le mie confidenze. Probabilmente non avrebbe detto nulla pur rimanendo colpita e favorevolmente sorpresa di quella improvvisa conoscenza, poi mi avrebbe detto il suo nome ed io mi sarei sciolto dentro a quel dolce suono delle sue parole.

 

 

         Mercoledì

 

         Certe volte le giornate sembrano tutte uguali. Pare quasi impossibile che le stesse sensazioni provate per tante volte di seguito continuino a ripresentarsi. Andarsene a letto, addormentarsi con le stesse immagini di ogni sera negli occhi, e poi dormire come sempre, ricercando le stesse posizioni del viso e delle mani per far tornare tutto esattamente lo stesso di ogni giorno.

         Certe volte invece di abbandonarmi alle stesse sensazioni e agli stessi pensieri di sempre, mi sforzo di immaginare qualcosa di diverso. Non è facile, è un po’ come nuotare controcorrente, però è piacevole quando riesco a provare la sensazione come se qualcosa di importante possa essere vicino, a portata di mano. Mi sforzo anche di fare dei progetti, ed in questo modo mettere a confronto cose abbastanza realistiche e concrete, con dei pensieri che invece sono completamente assurdi. A volte arrivo a conclusioni talmente improbabili che pare anche a me tutto impossibile. Così metto in relazione i miei pensieri con il modo di essere che era tipico di mia mamma e di mio papà, prima che venissero a mancare.

         Penso: “chissà cosa avrebbero detto in questo caso?”, e così trovo una moderazione e una supervisione delle mie riflessioni che non mi fa perdere mai il senso delle cose. E’ come se il loro ipotetico giudizio, a volte anche severo, funga come monito per il doveroso contenimento dei miei voli di fantasia. Mi sono anche sforzato, qualche volta, proprio per riuscire a trovare uno stile di giudizio altrettanto moderato anche in altre persone; un modo di pensare e di essere che fosse paragonabile a quello che era dei miei genitori, ma per un motivo o per l’altro mi è sempre sembrato, il loro, il miglior metro di misura.

         Così da qualche tempo mi si è conficcata nella testa la credenza che il miglior pensiero al mondo sia quello moderato. Rifletto che mescolando tra loro i vari giudizi di tante persone si arriva ad un pensiero che si innalza cercando di contenerli tutti, e questo punto di arrivo non contrasta con nessuno di loro, mostrando un alto punto di equilibrio. Manca di passione, è vero, un modo d’essere del genere, però permette di mantenere indifferenza e neutralità nei confronti di tutto o quasi.    Sorrido a chiunque con la mia certezza in tasca, senza esagerare; vado in ufficio e non ho da guardare nessuno di traverso per i piccoli torti che a volte subisco; incontro i miei vicini di casa che hanno sempre da ridire per quelle rare volte che il mio cane abbaia, per un gatto che sente miagolare o per un rumore insolito, e mi sento costantemente oltre tutto questo, quasi superiore nei miei punti di arrivo. Mi sento tollerante, morigerato, a posto ed in pace con il mondo.

         Però quando vado a letto e cerco di prendere sonno, tutt’altre idee iniziano a passarmi per la testa. Mi sento vuoto nella mia moderazione, e la giornata trascorsa mi appare inutile, priva di elementi significativi che siano in qualche modo ricordabili. E’ assurdo, ma è come se mi mancasse qualcosa di importante, ed il mio sonno arriva in modo agitato, come se qualcosa dentro di me reagisse ai miei comportamenti pacati e tranquilli tenuti durante la giornata. I miei sogni sono forti, a volte violenti, rapidi, tanto da non lasciare traccia nella mia memoria del mattino, solo il sapore di qualcosa che è passato in fretta, ed ha scaricato dentro di me reazioni convulse e contraddittorie.

 

 

         Giovedì

 

         Ho sognato di starmene in un piccolo albergo di campagna, per non so quale motivo, assieme ad un mio vecchio amico che purtroppo da molto tempo ho ormai perso di vista. Si sta seduti nel giardino dell’albergo, e con tutta la calma che può infondere un luogo come quello, si parla di un vecchio film di cui lui è stato l’autore. Ma mentre si parla, forse anche grazie al potere forte di immedesimazione, ci si ritrova ambedue sopra ad un autobus che ci porta da qualche parte senza che sappiamo precisamente dove.

         Cambia la scena e ci ritroviamo ai piedi di un enorme palco dove tra poco dovrà esibirsi qualche musicista che però non so cosa suoni o come si chiami. Io ed il mio amico ci muoviamo tra le file di sedie in maniera un po’ nervosa, e si continua sempre a parlare di qualcosa, come cercando nervosamente di riempire qualsiasi vuoto ed ogni pausa silenziosa. Lui non mi guarda mai, continua a muoversi e a parlare, gesticolando espressivamente con un’immancabile sigaretta accesa tra le dita, ed io cerco di ascoltarlo anche se spesso non lo comprendo.

         Ad un tratto io mi ricordo di avergli scritto una lettera, diversi anni fa, alla quale lui non ha mai risposto. Adesso gliene chiedo il motivo, interrompendolo bruscamente e quasi in malo modo, ma lui non dà importanza alla cosa, ed anche in questo momento, nuovamente, neppure si prende la briga di rispondermi.

        

 

         Martedì

 

         Mi coglie sempre una certa apprensione quando passo davanti al cortile della bicicletta. Mi soffermo sempre un po’ troppo ad osservarne la posizione, ne soppeso ogni particolare e confronto la forma ed il colore con ciò che avevo in memoria. Ho immaginato che qualcuno da qualche finestra possa essere lì ad osservarmi certe volte, senza alcun altro intento se non quello di capire cosa io cerchi, che cosa mi passi per la testa.

         Ritengo odioso dovermi difendere da certi curiosi sempre in agguato, ma sicuramente non posso fare molto, se non guardarmi attorno con circospezione cercando di intuire qualsiasi sguardo. Naturalmente il pericolo maggiore da cui mi tengo distante più che da qualsiasi altra cosa, resta l’incontro improvviso e accidentale proprio con lei. Tremo solo all’idea di farmi sorprendere mentre osservo il cortile o la sua bicicletta; non sarei più capace di tornare fino lì se questo succedesse, e meno che mai di metterle un altro biglietto sotto alla leva del freno.

         Così rallento impercettibilmente il passo osservando con la coda degli occhi ciò che mi interessa, e continuo ad approfittare del mio cane, che sembra abbia capito, ed annusa con insistenza sempre in quella zona, tanto da farsi richiamare, ed invitarlo a continuare dritto per la strada. Sono innocenti sciocchezze, penso, ma non posso fare a meno di rincorrere per tutta la giornata, certe volte, quel momento in cui di nuovo potrò passare da lì. Contemporaneamente rifletto e immagino ciò che saprò scriverle ancora, come e fino a che punto riuscirò ad incuriosirla, farle capire quanto possiamo essere simili.

         In genere continuo a camminare con il mio solito passo cadenzato, e immagino, tanto per dare colore ai miei pensieri, che lei esca dal suo portone, raggiunga in fretta, senza essere vista, la sua bicicletta ancora fresca delle carezze del mio sguardo, ed arrivando al marciapiede mi osservi allontanarmi lentamente, solo col mio cane. E’ un pensiero così forte, intenso, ricorrente, che certi giorni mi pare sia già accaduto, ed allora sogno accada ancora. Sarebbe come se all’improvviso la mia personalità fosse svelata e riconosciuta degna di attenzione.

 

 

         Giovedì

 

         Stamani mi sono svegliato presto, quasi di soprassalto, con un senso di disagio che pareva non mi avesse abbandonato mai durante il sonno. Ho aperto leggermente gli occhi senza muovermi, e nel buio della mia camera da letto ho avuto l’impressione netta che qualcuno fosse lì, in piedi, nella stanza, fermo ad osservarmi. Non ne ho avuto paura, ma mi sentivo determinato a conservare per me qualcosa che in ogni caso non avrei voluto mostrare. Potevo prendere tempo, ma ad un certo punto avrei dovuto alzarmi, accendere la luce, evidenziare che mi ero accorto di quella presenza.      Continuavo a starmene immobile, fermo nel letto e coricato su di un fianco, voltato dalla parte del comodino. La radiosveglia mostrava con la luce rossa le cinque e dieci, ed ancora avevo qualche tempo prima di dovermi alzare. Nessun rumore arrivava, ed io sarei rimasto volentieri ancora in quella posizione prima di fare qualsiasi movimento, se non fosse stato per quella presenza che mi agitava così profondamente.

         Ho chiuso gli occhi ed ho immaginato potesse dissolversi, non tanto per magia, quanto per la mia forte determinazione, una specie di prolungamento della mia volontà così potente da eliminare alla radice i miei disagi. Ho pensato a lungo e mi sono concentrato sulla mia capacità d’essere e di volere. In certi casi i poteri della mente possono essere enormi e sconosciuti, ed io ho richiamato dentro di me tutto ciò che potesse servirmi per scacciare ciò che era per me disagio, afflizione, incongruenza con le mie abitudini.

         Quando sono tornato con la mente a riosservare la staticità della stanza, la presenza era ancora lì, immobile come prima, solo che adesso era come metabolizzata dall’armadio, dai mobili, dalle pareti stesse, e solo vagamente rimaneva estranea alla mia camera da letto. Io stesso, oltre agli oggetti, pareva tollerassi molto meglio la nuova situazione, ed anche se i miei occhi non riuscivano a scrutare nel buio ciò che soprattutto mi giungeva sotto forma come di un alitare leggero e caldo nella stanza, mi sentivo tranquillo, conscio di avere la situazione in pugno, sotto il mio controllo.         Per qualche attimo ho chiuso nuovamente gli occhi, e subito un sonno profondo e intenso mi ha portato via, fasciandomi la mente con un sogno rapidissimo e insensato, quasi una serie di immagini proiettate sopra alle pareti del mio cervello in rapida sequenza. Ad un tratto quelle immagini diventavano dei dipinti veri e propri, e in un corridoio lungo ed austero di una galleria d’arte desueta, osservavo il divenire di uno stesso quadro che progrediva trasformandosi, andando ad inserirsi nella cornice successiva dopo aver subito piccoli ritocchi e cambiamenti.

         Guardavo meglio e vedevo un gruppo di persone sopra la riva di un lago, in silenzio, che camminava ognuno per proprio conto, e in mezzo a loro io stesso, molti anni addietro, quand’ero quasi un ragazzo, con un’espressione triste e rassegnata. Nelle tele successive la scena cambiava di poco: ognuno continuava a muoversi per proprio conto, e anch’io cercavo di fare come gli altri. Non avveniva niente di essenziale, neppure si capiva verso quale direzione si dovesse immaginare quel progredire della scena.

         Così chiedevo qualche spiegazione al guardiano della galleria che se ne stava in piedi da una parte, ma faceva segno con grande serietà che non era possibile parlare, ed anzi era doveroso rispettare il massimo silenzio. Uscivo, ma la luce di un cielo bianchissimo, velato di una sottile foschia dietro alla quale si immaginava il sole, mi accecava gli occhi, lasciandomi da solo nel forte chiarore della giornata luminosa.

         Aprendo gli occhi la stessa sensazione di abbagliamento rimaneva dentro di me, come fossi riuscito a trasportare un oggetto da una dimensione all’altra, e dopo avere velocemente acceso la luce del comodino ed essermi guardato attorno in ogni angolo della mia camera da letto, trovavo finalmente la certezza di essere da solo.

 

 

         Mercoledì

 

         Non sono più passato davanti al cortile della bicicletta da molto tempo. Non che l’argomento mi sia diventato indifferente, anzi, mi costa molto tenere questo atteggiamento; piuttosto cerco di trovare dentro di me uno sforzo di volontà che mi faccia sentire ancora capace di scegliere e di desiderare. E’ come se tenessi dentro di me una possibilità talmente vera ed importante che da sola è quasi sufficiente a farmi sentire bene, vivo, aperto alle possibilità che ogni pur piccola porzione di futuro può offrirmi.

         A volte è come se mi staccassi da me stesso, e alzandomi in volo sopra ai tetti delle case fino ad abbracciare tutto il quartiere, individuassi la mia persona che cammina sopra al marciapiede ad una distanza di poche decine di metri da quel cortile. Nel mio pensiero questo avviene contemporaneamente all’uscita di casa della ragazza: lei scende le scale con passo veloce, apre il portone facendo scattare la serratura, arriva nello stretto cortile e si guarda rapidamente attorno. Poi giunge alla sua bicicletta, la osserva per una frazione di secondo e constata concretamente ciò che aveva già notato arrivando, ma che ancora poteva essere una svista: non ci sono biglietti, neppure oggi, ed un leggero moto di delusione, del quale forse non sa dare conto, la prende di nuovo, pur lasciando in aria un filo di speranza.

         Tutto avviene come ogni giorno, ed ogni gesto ha un suo metodo ed una sua finalità. Il mio cane non mi pare troppo contento di quel leggero cambio di itinerario, visto che non stiamo più andando al solito giardino, però si adegua a ciò che io propongo senza mostrarsi contrariato. In realtà non sono ancora riuscito a trovare cosa scrivere su un nuovo biglietto che vorrei lasciarle al freno della bicicletta. Non è facile dire qualcosa che ogni volta abbia il sapore della novità, che sia delicato come vorrei che fosse, e che conservi un certo stile. In fondo non la conosco, non so quali siano i suoi pensieri, le sue attese.

        

 

         Sabato

 

         Oggi è una giornata come tutte le altre, penso, non succederà niente di importante, neppure se volessi. Ripercorro i miei soliti pensieri come itinerari consueti, e mi sento nella mia solita posizione di stallo, in cui per prendere qualche pur piccola decisione dovrei procurare una piccola violenza ai miei modi di essere, per cui lascio che le cose scorrano senza alcun intoppo. Mio padre e mia madre non avrebbero certo nulla da dire, e questa sensazione, invece di rassicurarmi, mi agita parecchio, non so neanche perché.

         Continuo a fare i soliti giri attorno al quartiere ma poi, qualcosa mi sorprende. Velocemente rientro in casa con una folgorazione in testa che pare lasciarmi senza fiato. All’improvviso voglio sapere tutto di lei, il suo nome, i suoi gusti, le sue preferenze, le sue scelte; dov’è che va ogni giorno con la sua bicicletta, quali sono i suoi orari, tutto, anche se questo significa andare a casa sua, presentarsi, farsi riconoscere, oppure pedinarla, starle dietro ogni giorno per intuire i suoi pensieri, i suoi comportamenti, tutto.

         Mi viene l’affanno a pensare tutte queste cose assieme, ma quando arrivo al mio portone di casa mi calmo. Non c’è motivo, penso, per tutto quel veloce circolare di sangue nelle vene, posso pensare con calma qualsiasi cosa e trovare in mezzo la soluzione migliore, quella più moderata, senza grandi colpi di testa. Entro in casa e mi viene già da sorridere: non avrei mai fatto niente di ciò che avevo pensato, e se lo avessi fatto avrei sciupato tutto, ne sono sicuro.

         Allora mi siedo al tavolo della cucina dopo aver preso un quaderno ed una penna. Con le forbici ritaglio un piccolo foglietto, ma subito lo strappo. Ne piego un altro delle stesse dimensioni e lo taglio con precisione lungo le piegature: va già molto meglio.

         “Ciao. Ti voglio bene”, scrivo. Non riesco a dire altro, a dirle niente. Piego il foglietto diverse volte fino a farne un involtino delle dimensioni di un grosso francobollo e lo ripongo velocemente nella tasca della giacca. Va già bene, è già una prosecuzione precisa dei miei desideri.

 

 

         Domenica

 

         Continuo a dormire e forse sogno. Nei sogni il prigioniero è libero e il re perde ogni sua potenza. Il silenzio della notte che avvolge le case è una culla magica dentro la quale lievitano pensieri fantastici, senza connessione con ciò che siamo veramente.

         Mi ritrovo dentro una chiesa e sul fondo c’è un pianoforte a disposizione di chi vuole suonarlo. Attorno ci sono diversi ragazze e ragazzi convinti di saper suonare e che ridendo e parlottando strimpellano qualcosa sopra alla tastiera. Penso che mi piacerebbe tanto saper suonare bene per dar loro una lezione, ma non è così. In fondo alla chiesa, superando il pianoforte ed il gruppetto di ragazzi chiassosi, si passa per una porta e si attraversano alcune stanze. Poi si sale per qualche scalinata angusta, e tramite dei gradini con la forma a chiocciola si raggiunge una piccola ma alta piattaforma che domina il paese ed il fiume che l’attraversa.

         La piattaforma non ha senso: è un semplice quadrato di cinque o sei metri di lato senza alcuna ringhiera o parapetto, ed il senso di vertigine che provoca è estremamente forte. Guardo il fondo del paese, dove finiscono le case e la campagna verdeggia di campi coltivati e di grandi alberi in file regolari. Conosco una persona che quando parla della sua campagna si commuove, ma adesso non ricordo neppure come si chiami.

         Non conosco neppure quel paese, però ne sono attratto, vorrei tanto poter dire che vi sono nato, o che vi ho vissuto l’infanzia e anche dei momenti belli e spensierati. Torno a scendere le scale svogliatamente: vorrei starmene lì molto più a lungo, osservare il cambio dei colori del paesaggio durante lo scorrere del giorno e della luce del sole.

 

 

         Martedì

 

         Anche stamani mi sono svegliato presto, dopo aver dormito profondamente per circa tre ore. Ho pensato che avevo tanto tempo prima di alzarmi, e questo mi ha fatto stare bene. La mia non è un’insonnia vera; probabilmente le poche ore di sonno in cui dormo sono sufficienti per il mio riposo. Però quando mi sveglio non so come impiegare il tempo, e questo mi crea angoscia.

         Il letto rimane una calamita fortissima che difficilmente riesco ad abbandonare, e d’altronde non saprei proprio cosa fare girando per casa a quell’ora con la vestaglia stretta sul pigiama e le pantofole calzate ai piedi. A volte ho provato a leggere qualcosa, ma mi sono sempre sentito così sciocco che ho smesso quasi subito. Ma forse stamani è diverso, ho pensato.

         Ho inforcato i miei occhiali ed ho aperto un vecchio quotidiano rimasto sopra al comodino da chissà quanto tempo. Ho scorso qualche vecchio titolo senza interesse, poi ho provato un brivido. Mi sono vestito in fretta e sono uscito. Fuori era ancora notte, ma io mi ero fatto scivolare nelle tasche una piccola torcia elettrica. In fretta ho raggiunto il cortile della bicicletta dove qualche giorno avanti avevo lasciato il mio biglietto, ed ho osservato a lungo e con una certa soddisfazione che il mio biglietto era stato rimosso, che non c’era più.

         Ho girato attorno alla bicicletta un paio di volte, poi ho acceso la torcia per osservare meglio i dettagli. Per terra, leggermente coperto dalla ruota, c’era un foglietto, uno scontrino rilasciato da un negozio a comprova di qualche acquisto fatto da qualcuno, un elemento normalmente senza alcuna importanza, ma che ai miei occhi è subito apparso estremamente interessante. Intanto non c’era alcuna cifra a testimoniare un pagamento effettuato da un cliente del negozio, ma solo una fila di zeri accanto alla voce “totale”; e poi, soprattutto, era riportato il nome e l’indirizzo dell’esercizio: “Luisa - Abbigliamento da donna”, risaltava in grassetto nella parte alta, e nel rigo sottostante era riportato l’indirizzo del negozio.

         Frettolosamente ho messo lo scontrino in tasca, ho spento la torcia e mi sono incamminato velocemente verso casa. Non so bene cosa mi vorticasse nella testa, ma all’improvviso un tumulto forte e irresistibile mi prendeva. La ragazza della bicicletta forse svolgeva lavoro di commessa, oppure era in qualche modo legata a quel negozio, e se questo fosse stato vero, allora non era un caso che quello scontrino fosse a terra: era una traccia messa per me, per indirizzarmi verso di lei.

         Sono rientrato velocemente in casa, ed una volta accesa la luce di cucina sono tornato ad osservare ciò che avevo trovato: un sottile senso di imbarazzo pareva prendere campo dentro di me; non riuscivo neppure a mettere a fuoco la cosa migliore da fare, anzi, una parte di me pareva quasi voler fuggire da quelle possibilità che forse mi erano offerte.

 

 

         Domenica

 

         Stamani mi sono svegliato di soprassalto. Ho immediatamente preso coscienza che era domenica, non dovevo andare a lavorare né in nessun altro posto, non avevo appuntamenti, potevo prendermela comoda; eppure un senso vago di angoscia mi spingeva a rimanermene malvolentieri sotto alle coperte del mio letto, pur non avendo cose particolari da fare se non occuparmi di me stesso e della mia abitazione.

         Sentivo il mio cane in cucina che beveva l’acqua con la lingua dalla sua ciotola, e mi sentivo riconoscente di quel rumore familiare e vivo, quasi incoraggiante. Con un leggero sforzo mi sono alzato, ho inforcato le pantofole e la mia vestaglia, ed ho raggiunto la cucina. Il cane mi ha guardato ed io gli ho fatto un complimento. Poi mi sono sentito triste.

         In fondo credo che niente nella mia vita sia mai andato particolarmente bene. I piccoli traguardi che sono riuscito a raggiungere, lavorare, avere una casa mia, possedere un cane, mi sono costati sacrifici, forse anche superiori a ciò che sarebbe stato possibile ipotizzare. Non mi sono mai legato a nessuno, forse per diffidenza, forse per il gusto forte e profondo di starmene da solo; e questo forse chiude già la strada a tante piccole gioiose emozioni.

         Ma quante innumerevoli volte ho continuato a ripercorrere questo pensiero restando ogni volta in equilibrio tra la vita solitaria che conduco e quello spingermi in fuori, verso gli altri, che reputo fondamentale per una vita completa, e che è sempre mancato tra le mie inclinazioni. Questo rimanermene sdraiato alla domenica mattina, senza nessuno di cui occuparmi veramente, senza la ricerca continua e spontanea di un miglioramento della relazione, del risolvere dolcemente e con slancio i piccoli problemi e le normali ansie di ogni giorno, ebbene, alla lunga diviene insopportabile, anche se fortunatamente solo in certi giorni. Io mi alzo, svolgo i compiti quotidiani di sempre quasi senza pensarli, e mando avanti un giorno dietro all’altro, quasi senza distinzioni.

         La segretaria del mio capoufficio con la quale a volte condivido un caffè di fretta al bar del piano terra è sposata ed ha due figli. Certe volte mi parla della sua vita coniugale, ed anche se non sembra esattamente una persona estremamente felice, anche se lei dice di esserlo, almeno è sicuramente una persona molto occupata. Non invidio niente di quello che mi racconta, però lei è sicuramente una persona molto diversa da me.

         A volte mi pare di essere arrivato ad un punto senza ritorno, come se le mie decisioni da questo momento in avanti non fossero più libere, ma obbligate dalle condizioni costruite giorno dopo giorno dai miei inconsapevoli comportamenti. Forse è proprio questo ciò che normalmente mi accade, ma preferisco non pensarlo perché mi pare terribile.

         Il mio cane si accuccia vicino a me e a volte mi guarda forse cercando di intuire il filo dei miei pensieri. Probabilmente vorrei che qualcuno mi indicasse dove sta la mia fonte d’errore, dove il motivo della mia costante inquietudine, ma non saprei cosa dire di me, da che parte iniziare per spiegare la mia vita, le mie giornate, il mio riflettere incessante. La mia solitudine spesso mi fa perdere di vista valori importanti: rimango ad assistere passivo lo scandire del tempo dato dalle mie piccoli abitudini, ma voglio che restino così solo le cose del passato, ciò che ormai non riuscirei più a cambiare, il resto, ciò avviene adesso o che avverrà nel futuro, dovrà essere diverso, mai più elemento di acritiche consuetudini.

         A volte sogno di dovermi sottoporre a degli esami, situazioni in cui oscure commissioni di esperti fanno delle domande ambigue e indagatrici cercando di sondare il grado della mia preparazione, ed è il non riuscire a capire cosa effettivamente gli altri si aspettino da me l’elemento più doloroso nei miei pensieri. Nel mio sogno mi sento succube completo delle domande oziose che affiorano da dietro imperiose scrivanie, ma dentro di me sento di poter ancora contare su qualcosa che mi fa sfuggire a questa morsa.

         In qualcosa sono superiore a tutto quello che mi trascina contro la mia volontà, e riesco, grazie a quel qualcosa, ad essere me stesso, non completamente spersonalizzato come si vorrebbe fossi. E’ come nuotare dentro ad una corrente alla quale non posso far fronte, cosciente però di avere legata attorno a me una corda ben salda assicurata ad una riva, una cima capace di sostenermi e di salvarmi. I miei sogni si imbrogliano sempre quando tento di arrivare all’epilogo della situazione, e tutto quanto pare capovolgersi senza far mai risultare né vincitori e neppure vinti.

         In fondo ogni giorno vorrei essere diverso, ma questo desiderio si spegne velocemente, alle prime monotone azioni e ai primi pensieri di ogni mattina. E’ troppo semplice lasciarsi trascinare sul terreno più familiare, quello dove ci si muove senza necessità di critica, dove si percorre ad ogni passo il solito sentiero, e l’abitudine è padrona di ogni azione. E’ durante la notte che tutto sembra orribile, e i desideri appaiono leggeri, a portata di mano. E quando sogno sono libero.

         Sto bene quando penso di aver assolto i miei compiti; soffro solo quando non so più quali essi siano. Esco di casa, respiro l’aria fresca della sera mentre il mio cane annusa ogni odore interessante si presenti, ed io sono tranquillo, posato in mezzo ai piccoli valori delle persone che normalmente mi assomigliano. Poi torno a casa, sposto il mio punto di vista, e tutto crolla mostrando risultati angoscianti e menzogneri. Vorrei tante altre cose che non ho, ma assolutamente non saprei proprio come fare per averle.

         Mi convinco che l’apice di tutto sia non accettare acriticamente ciò che mi piace, o che mi fa piacere, ma poi ritengo non sia possibile vivere immerso nell’acredine di chi svolge un ruolo ordinariamente apatico, oppure odioso, anche per se stesso.

        

 

         Mercoledì

 

         E’ già qualche giorno che sto sperimentando un comportamento molto interessante. Come sempre mi sveglio molto presto al mattino, spinto da qualcosa al mio interno che non riesco a controllare. Rimango lì, a rigirarmi nel buio della mia camera da letto e ad osservare accanto a me la radiosveglia coi suoi luminosi numeri rossi. Lascio scorrere i pensieri, chiudo gli occhi e cado in un dormiveglia assurdo in cui perdo cognizione del tempo pur conservando la coscienza di essere lì, esattamente dove mi trovo.

         A volte riapro gli occhi ed è passato appena un minuto o due; altre volte il tempo scorre estremamente più veloce, e in un attimo se n’è andata mezz’ora o anche di più. E’ quasi diventato un gioco per me entrare in questa fase del risveglio definitivo. I miei pensieri sono veloci, confusi, e vanno via per loro conto, lasciandomi ansimante a rincorrerli, ed appena riapro gli occhi svaniscono tutti, immediatamente.

 

 

         Giovedì

 

         Il mio capoufficio ha fissato un colloquio con me per domani. Mi sono sentito morire quando mi ha avvertito, forse per la paura di aver combinato qualche errore nello svolgere il mio lavoro, o per qualcosa di cui dovermi spiegare, o dispiacermi, pentirmi di aver provocato disservizi. Poi, lentamente, ho digerito la cosa come un qualsiasi elemento del mio lavoro, ritrovando l’indifferenza di ogni giorno.

         Anzi, ho pensato, probabilmente ci sono elementi nuovi di cui devo cominciare ad occuparmi, e forse devo essere avvertito di alcuni comportamenti da tenere, informazioni delle quali tenere conto, chissà. Sono quasi contento che qualche variazione venga a rompere la monotonia delle mie giornate di lavoro.

         Certe volte ho pensato che fosse proprio il mio lavoro a spaventarmi, a non farmi dormire bene, a farmi svegliare sempre troppo presto al mattino. Ma poi ho deciso che è impossibile, non ci può essere alcuna relazione tra una cosa e l’altra. Il mio sonno ha una sua natura propria: è assolutamente indipendentemente da qualsiasi altro elemento. Mi consolo e mi affeziono sempre più al mio dormiveglia quotidiano. Non sono mai troppo stanco, non sento particolarmente questo problema. Anzi, la mia voglia di dormire e riposarmi certe volte mi sembra sia in funzione di ritrovare quello stato di strana veglia che ogni mattina si ripropone.

         Tutto questo mi è parso più che ragionevole in questi ultimi giorni, ho pensato che anche i miei genitori non avrebbero avuto nulla da dissentire, ma poi, stanotte ho fatto un sogno. Tutto è iniziato come i miei sogni di sempre, con una mia leggera apprensione spiegata da situazioni poco chiare, quasi confuse. Mi ritrovavo su una strada serpeggiante di una scogliera a picco sopra al mare. Era notte ed un treno lentissimo e parecchio malandato mi aveva scaricato in una zona che non conoscevo affatto.

         Alcuni ragazzi che stavano dalla mia parte mi avevano spiegato da cosa guardarmi, ma non era molto chiara né la nostra strategia, né quella degli altri. Si diceva che forse ci sarebbe stato uno sbarco, forse c’era già stato, non si sapeva che pensare, fatto certo era che si vedevano distintamente delle luci sul mare neanche troppo lontane, e al disopra, più in lontananza, aerei veloci che si incrociavano con traiettorie inconcludenti.

         Eravamo tutti quanti scesi dal treno presso una vecchia stazione in disuso, e sulla strada si era fermata immediatamente una vecchia grossa auto di marca incomprensibile. Eravamo saliti sopra tutti quanti, strizzandoci un po’ sopra ai sedili, ma dopo poche centinaia di metri eravamo di nuovo fermi presso una piazzola di terra battuta. I ragazzi velocemente parlavano tra loro senza che io riuscissi a capire la situazione, poi quello che guidava si rivolgeva a me dicendomi di scendere a terra, che loro sarebbero ripassati da là più tardi, o avrebbero mandato qualcuno a prendermi, e di stare attento comunque, e di non fidarsi di nessuno.

         La macchina ripartiva subito sollevando polvere e lasciando nell’aria un forte odore di benzina e olio mal bruciati, ed io mi ritrovavo solo, al margine di una strada non frequentata, nella notte rischiarata da una luna velata da nuvole che si rincorrevano veloci. Guardingo andavo avanti, in fondo senza neppure sapere se era quella la direzione giusta, cercando di tenermi fuori dalla strada, il più possibile a ridosso di una recinzione rugginosa e in qualche caso anche divelta, di là dalla quale si intravedeva un bosco di alberi radi.

         In un punto poi la recinzione arretrava dalla strada ed io andavo ad infilarmi in un angolo protetto da cespugli. Avevo intravisto degli uomini che camminavano ognuno per proprio conto e mi avevano fatto nascere qualche sospetto: adesso avevo bisogno di starmene immobile e di capire. Poi, con calma aprivo la sacca che mi avevano dato i ragazzi prima di andarsene e della quale mi ricordavo solo adesso. Dentro c’era una piccola balestra di precisione ed un fascio di sottili frecce, e quest’arma così insolita e insidiosa mi faceva subito sentire più tranquillo.

         Intanto dentro al bosco si vedevano le luci di alcune torce elettriche che sondavano il buio, e capivo che lo sbarco doveva già essere avvenuto. Uno degli uomini mi aveva visto e con un fucile in mano si stava avvicinando. Mi coglieva il panico solo a vedere avanzare verso di me questa figura risoluta, e scagliavo con mani tremanti una prima freccia che si perdeva nel buio. L’uomo si fermava e dava il segnale agli altri dalla parte opposta di dove mi trovavo. In un attimo ero braccato, e mentre cercavo di ricaricare la balestra sentivo alle mie spalle che qualcuno parlava nervosamente e a voce alta per organizzare un piano contro di me.

         Nella concitazione di poche frazioni di secondo, saltavo fuori dai cespugli tirando una freccia quasi a caso, e mentre correvo via mi rendevo conto di aver colpito un uomo. Continuavo a scappare a perdifiato lungo la strada sopra la scogliera, costeggiando dei margini fortunatamente molto cespugliosi, mentre avvertivo gli uomini dietro di me che proseguivano a corrermi dietro con l’aiuto anche di alcuni cani. I latrati mi facevano sentire disperato, e continuavo ad inciampare con il fiato agli sgoccioli mentre mi sentivo tutti quanti addosso.

         Proprio quando stavo per cadere e per lasciarmi andare a ciò che sarebbe inesorabilmente accaduto, l’auto dei ragazzi si fermava accanto a me sollevando una nuvola di polvere, ed in due o tre, in una frazione di secondo, mi prendevano di peso gettandomi all’interno della vettura in malo modo, appena in tempo per chiudere le portiere e ripartire. Un attimo e via, ero salvo, ma in balia di una situazione incontrollabile e pericolosa.

         Poi una sospensione senza tempo si materializzava dentro di me. Mio padre e mia madre mi avevano camminato accanto senza guardarmi, senza espressione, ed io mi ero sentito ignorato. Non riuscivo a capire cosa dovessi fare: qualcosa di importante sicuramente mi sfiorava, ma non riuscivo a coglierne né il senso né il grado. Avrei voluto essere solo, ma capivo che era impossibile.

         Il mio risveglio era impellente, era come ne sentissi il lento approssimarsi, pur continuando a ritardare qualsiasi eventualità. L’ondeggiare del tempo adesso era un elemento della coscienza, quasi un fastidio la sua mancanza di controllo. Avrei voluto continuare a sognare, trovare degli elementi su cui far ruotare le mie esperienze, le mie fantasie, tramite le quali convogliare i miei pensieri verso qualcosa di innocuo, quasi di cosciente. Alla fine mi svegliavo, ed era una delusione ritrovare tutto uguale.

 

 

         Giovedì

 

         Per recarmi in ufficio prendo l’autobus. D’inverno è notte quando arrivo alla fermata a qualche centinaio di metri da casa mia. Ci sono sempre due o tre persone che arrivano alla fermata prima di me, quasi sempre i soliti. L’ultimo marciapiede lo attraverso rallentando il passo. Si vede tutta la prospettiva della strada da dove arriva il mezzo pubblico, così non c’è nessun motivo per raggiungere in fretta il resto dei passeggeri. Penso che gli altri mi abbiano notato in tutti questi anni, così non vorrei dover parlare del più e del meno con qualcuno di loro.

         In genere, già nel momento in cui sto per uscire di casa mi immagino la strada che porta alla fermata dell’autobus, e quelle solite due o tre persone immobili nella foschia notturna. A volte guardo la mia porta di casa ancora chiusa e penso a quel diaframma che mi divide da tutto ciò che sta aspettandomi. L’autobus è sgradevole e rumoroso, e fuori dai finestrini scorrono le case. Mi immagino nell’atto di uscire dal portone e mi appaio come una persona anonima tra le tante che svolgono attività tanto ordinarie da apparire indistinguibili.

         Quando sono ancora in casa penso a tutto questo e a volte mi sembra tutto assurdo, inutile. Ma è fino a quando sono ancora tra le mura della mia casa che mi sento ancora forte, sicuro del mio essere, dei miei gesti, del mio poter pensare. Tutto questo è un lampo dietro ai miei occhi mentre il mio risveglio inizia a martellarmi come ogni mattina, quando la mia radiosveglia è ancora lontana dal segnare l’ora in cui devo alzarmi dal letto. Vedo la mia giornata scorrere, e mi immagino possa essere diversa, ricca di qualcosa che non so intuire cosa sia, ma che vorrei.

         Odio profondamente quelle solite due o tre persone che stazionano alla fermata dell’autobus al mattino. Ti osservano ma senza insistenza, abbassano gli occhi e muovono qualche timido passo da una parte o dall’altra del marciapiede. Quando arriva l’autobus sporgono una mano per farsi vedere dall’autista, come se ognuno fosse solo, indifferenti al fatto che un autista d’autobus solo se avesse perso la ragione potrebbe ignorare un capannello di persone sotto a quella fermata.

         Forse pensano qualcosa, si formano giorno dopo giorno delle opinioni, sicuramente sono anche pronti a deprecare moderatamente chiunque non sia o non si senta esattamente come loro. Quando saliamo sopra l’autobus spariscono, inghiottiti dall’eterogeneità dei passeggeri. Da dentro casa mia, solo il forte rumore dell’autobus che accelera lungo la strada vicina, carico di gente, mi fa venire i brividi. Certi giorni mi siedo accanto al finestrino e cerco di ignorare tutti. Ma mio padre e mia madre non me lo permettono, e mi chiedono di alzarmi e di lasciare il posto a chi lo merita: ad un anziano, oppure una signora, ad una donna con il pancione della prossima gravidanza. Mi sento toccare, strusciare, ed ho il ribrezzo di tutto quel contatto.

         E’ la mia radiosveglia che si accende, sintonizzata sempre su stazioni radio casuali, che fa la differenza nella mia giornata; il resto lo avverto come un ingranaggio meccanico che si muove indipendentemente dai miei pensieri e dalla mia volontà. Il mio cane mi guarda evitando opinioni, ed anche lui svolge regolarmente la sua parte.

 

 

         Venerdì

 

         Stamani sull’autobus c’era la solita gente, ed anche in ufficio, evidentemente. A metà mattinata il mio capo mi ha visto e mi ha fatto cenno di seguirlo nel suo ufficio. Il mio lavoro si è fatto poco preciso, diseguale, a volte pieno di errori, dice. E’ costretto a trasferirmi ad altre attività, dove la mia incoerenza lavorativa e la mia sbadataggine non possano avere ripercussioni gravi. Lo sto ad ascoltare senza grande interesse. In fondo me lo aspettavo.

         Esco dal suo ufficio con gli occhi bassi e mi metto immediatamente a liberare i cassetti della scrivania. D’ora in avanti la mia stanza sarà quella dell’archivio, proprio in fondo al corridoio, niente scrivania, solo un piccolo scrittoio, una sedia ed un paio di mobili di metallo con le schede. Tutto sta prendendo una piega che porterà anche ad altri cambiamenti, ma nonostante quanto possa cercare di resistere, forse è un processo inevitabile, penso. Mia madre e mio padre arriccerebbero il naso di fronte a tutto questo, e senza dirmi niente mi farebbero sentire estremamente in colpa. Anche se io oggi non mi sento così.

         Ieri mi sono alzato dal mio letto come faccio ogni giorno. Mi sono lavato nel bagno poi ho cercato i miei vestiti e li ho indossati, come sempre. Ho trafficato in cucina con il latte, lo zucchero e i biscotti secchi, proprio come ogni giorno. Poi ho scostato la tendina ed ho guardato fuori l’aria della notte che lentamente svaporava lasciando spazio ad una debolissima alba nascente. Tutto uguale ad ogni giorno.

         Ma quando mi sono seduto per un attimo al tavolo della cucina ho sentito dentro di me qualcosa di diverso. I miei pensieri erano i soliti, ma era come se cercassi con la normalità di ogni giorno di coprire qualcosa, di evitare a me stesso l’incombenza di affrontare un argomento difficile. Sapevo che cos’era, ma il solo pensarci mi costringeva a prendere delle decisioni, fare delle scelte, e questo era proprio quanto avrei voluto evitare.

         Oggi, poi, mi sono svegliato di nuovo con la stessa sensazione che mi è apparsa anche sotto forma di un sottile dolore alla schiena. Ho cercato di muovermi flettendo il busto, ho ruotato velocemente le spalle e le braccia, ho piegato il collo e la testa in ogni direzione possibile, mi sono chinato in avanti cercando di sfiorare i piedi con le dita, poi ho maturato una specie di affanno sgradevole che mi ha fatto sentire come uno stupido dentro al suo pigiama da notte.

 

 

         Lunedì

 

         Dovevo andare al negozio indicato sopra lo scontrino, non esisteva alcuna alternativa. Ho sorriso dello stato nervoso che mi provocava il dover prendere una decisione di quel genere, poi mi sono vestito ed ho cercato di pensare ad altro. Quando sono uscito di casa era già l’ora giusta per l’autobus, ma una corrente elettrica insidiosa e rapidissima ha attraversato tutto il mio corpo in un attimo. Non mi sono guardato attorno, forse poteva essere accaduto un cataclisma durante la notte, macerie in strada e cadaveri dappertutto, ed io probabilmente non me ne sarei neanche accorto. In un momento ho percorso la strada, quasi correndo, non avevo alcun bisogno di pensare, tutto mi arrivava come per istinto, come se per tutti quei giorni non avessi avuto altra attrattiva che quella, quasi che l’acqua contenuta dalla diga crollata avesse preso naturalmente il suo corso, la via più breve verso valle, e sono arrivato al cortile dove la bicicletta se ne stava lì, come sempre, senza alcuna variazione.

         Non posso evitare di recarmi in ufficio, almeno questa mattina, ho pensato, nonostante il mio affanno, nonostante il mio evidente malessere, ma con lo stesso slancio che mi ha spinto fino a qui, con lo stesso coraggio che mi ha fatto infilare i messaggi sotto al freno della bicicletta, ho deciso di chiedere un semplice permesso di lavoro, la cosa più stupida del mondo, ed il giorno seguente chiarire tutto quanto era possibile.

         La giornata, da quel momento in avanti, è scorsa come sempre, incappucciata nei doveri quotidiani costituiti da un impegno minimo e da una frequente osservazione delle variazioni delle lancette dell’orologio. La segretaria del capoufficio non ha cercato di evitarmi anche se ha tenuto un contegno molto serio con me, così sono andato a prendermi un caffè, a metà mattina, completamente da solo, ma senza alcuna ansia. Mi sentivo addirittura sollevato per come le cose stavano sistemandosi. Era come se gli assestamenti che stavano verificandosi scongiurassero la possibilità di ritrovare tutto ancora invariato, e questo, a parte il nervosismo dato dalla mia inerzia naturale, alla fine mi sembrava positivo.

         Per la mia giornata libera nell’ufficio ragioneria mi è stato detto che non c’erano problemi, ed anche questo era un tassello importante della costruzione appena nascente, un altro elemento naturale che si aggiungeva al resto senza strappi, come la lenta mutazione dei colori del cielo durante una giornata. Più tardi uscivo dal lavoro e tornavo a casa con l’autobus. Il mio cane mi aspettava paziente come sempre, così presi il guinzaglio per portarlo a fare il solito giro ai giardinetti. Ero libero il giorno seguente, potevo alzarmi tardi, girare in pantofole per casa, ascoltare la radio con completa indifferenza per le segnalazioni dell’orario. Avevo un appuntamento in centro, anche se potevo aspettare qualsiasi momento buono per andarci.

 

 

 

         Martedì

        

         Durante la notte un sogno leggero ha tenuto compagnia ai miei soliti pensieri. Una senso di positivo e di sorridente sprizzava dal mio sogno, ed anche quando sono apparse le figure del mio precedente datore di lavoro assieme alla ragioniera ed al figlio del capo, persone che mi avevano portato quasi all’esaurimento nervoso quando svolgevo presso di loro mansioni di magazziniere, non ho provato il senso di angoscia che avrei immaginato.

         Anzi, tutti si sono dimostrati gentili e carini nei miei confronti, chiamandomi con il mio nome e sorridendomi. In fondo mi sentivo quasi l’eroe di una storia, protagonista di qualcosa che trovava il suo senso nello stesso attimo in cui quel qualcosa vedeva la luce, Non so se tutto questo affanno era imparentato con una certa particolare soddisfazione, però ero contento di essermi messo su una via senza ritorno, cioè un percorso che mi stava portando da qualche parte da dove non avrei mai avuto rimpianti per ciò che ero stato fino ad oggi.

         La mattina è iniziata come sempre, ed io ho perso tempo in qualcosa che neppure ricordo. Quando sono uscito di casa mi sentivo un po’ confuso, però ero deciso ad andare fino in fondo ai miei propositi. Ho preso l’autobus e sono sceso in centro. Ho percorso una strada, poi ho girato a destra ed ho camminato ancora per qualche centinaio di metri. C’erano molti negozi nella zona, e quando assieme ad altra gente sono confluito nella strada verso cui ero diretto, non riuscivo a rendermi conto se avrei dovuto andare a destra oppure a sinistra.

         Mi sono guardato attorno con la mia naturale incertezza, poi ho girato su me stesso, ho scorso rapidamente i nomi sulle insegne ed ho visto che il negozio era esattamente lì, dove lo immaginavo, a cinquanta metri da me. Le sue vetrine erano enormi, e diversi manichini erano stati immobilizzati in gesti sciocchi, con i loro bei vestiti perfettamente stirati e innaturali. Mi avvicinavo lentamente mentre venivo sfiorato da altre persone, e dietro ai manichini iniziavo a vedere clienti e commessi che si davano da fare all’interno del negozio.

         Non avevo un disegno, non sapevo cosa avrei dovuto fare veramente, soltanto una volontà forte e decisa mi spingeva, quel qualcosa di nuovo che non avevo mai riconosciuto fino ad allora tra i miei comportamenti. La grande porta di vetro si era aperta almeno un paio di volte mentre la osservavo, lasciando in aria un piacevole suono soffocato. Mi sono accostato alla prima vetrina ed ho osservato cercando di assumere un atteggiamento di distacco.

         Lei era lì, stava parlando con dei vestiti tra le mani, e sorrideva. Non so se volevo mi vedesse, ma lei era troppo impegnata con il suo lavoro, non c’era neppure questa possibilità. Poi si è mossa, ha detto qualcosa con un gran sorriso ed è sparita sul retro. Quando è tornata aveva ancora quel suo sorriso che subito si è trasformato in una risata piacevole e leggera, che non potevo sentire, ma che immaginavo tutta dalle espressioni del suo viso.

         Ho mosso qualche passo lungo la strada con indifferenza un po’ affettata, ho osservato ancora qualche altra cosa, poi sono tornato indietro. Quando infine sono entrato dentro al negozio l’ho fatto seguendo una volontà non mia, come se fossi spinto inspiegabilmente da qualcosa o da qualcuno. Mi sono diretto verso di lei e le ho detto buongiorno, interrompendo il suo sorriso per un attimo e facendomi notare in tutta la mia solita goffaggine.

         Lei ha detto: “Un attimo signore, vengo subito da lei”, ed io mi sono sentito felice di essere almeno considerato un cliente come gli altri. Ma non ho saputo attenderla, e immaginando un comportamento che non era assolutamente il mio, ho detto: “Non vorrei disturbarla , ma ho bisogno di dirle qualcosa, mi serve solo qualche momento”. “Capisco”, si è affrettata a dire lei con un gran sorriso, “Finisco con i signori e sono a sua disposizione”.

         Così io ho girato su me stesso per guardarmi attorno, mi sono osservato le mani per un attimo, poi, alzando la voce, ma senza guardarla direttamente, le ho detto: “Andrebbe tutto benissimo, già; se non fosse che lei sorride troppo a questi suoi clienti, perde tempo in chiacchiere e risate insignificanti per il suo lavoro. Le sue colleghe sono più serie e composte, e lei dovrebbe adeguarsi di più al loro comportamento”.

         Alle mie parole alterate nel negozio si è subito formato un silenzio irreale e assurdo, così che tutti mi osservavano con incomprensione, e a lei non era chiaro se era il caso di interrompere le mie parole in qualche modo, oppure di ignorarle.

         “La osservo, l’ho osservata da tempo, e mi sono fatto un’idea molto chiara sui suoi modi di essere: forse lei crede di dare un’importanza maggiore alla sua personalità, di ingigantire le sue caratteristiche ridendo a tutti e mostrandosi così allegra, ma ad una seconda occhiata si capisce subito che è soltanto un semplice castello di carte che la sostiene, e nient’altro”.

         “Adesso basta”, ho subito sentito dire da qualche parte alle mie spalle, proprio mentre lei si era portata un fazzoletto al naso forse per controllare quel pianto che stava sopraggiungendo. “Ma chi è quest’uomo?”, aveva detto qualcun altro mentre si formava una certa confusione. Avrei voluto rispondere qualcosa, ma non avrei proprio saputo cosa dire.

         Perciò approfittai del momento di indecisione da parte di tutti, e con una gran spinta mi aprii la porta a vetri guadagnandomi la strada. A grandi passi mi allontanai velocemente, preda di mille pensieri. Mi sentivo addosso una specie di febbre mentre sull’autobus tornavo a casa. Cercavo di essere contento, e forse lo ero, di ciò che stava accadendo. Non avrei mai immaginato fosse tanto facile essere se stessi, dire ciò che ci passa veramente per la testa. I miei genitori sicuramente non ci avevano mai pensato, ed adesso erano dappertutto, fuorché nella mia testa.

         Sapevo che ero stato io a dire quelle parole a voce alta dentro al negozio, rivedevo la scena in modo febbrile, tra le immagini che mi passavano veloci davanti agli occhi e come se io fossi stato uno spettatore inerme di tutto quanto. Rivedevo tutti, stupiti del comportamento di quello strano signore che non ero io, tutti immersi in un’atmosfera irreale, inimmaginabile. I clienti, con le loro assurde pretese. Le commesse, forse contente di una ventata di novità della quale parlare sottovoce tra loro nei momenti di calma.

         Quando finalmente rientrai in casa, lasciai trascorrere diverse ore senza alcun comportamento attivo, solo muovendomi ogni poco da una sedia all’altra o dalla cucina alla camera da letto. Tutto era al proprio posto, anche il mio cane qualche volta mi guardava e basta.

         Sopraggiunse la notte più velocemente di quello che mi sarei aspettato. Quando mi decisi ad uscire di casa, fuori regnava un silenzio perfetto. La bicicletta si mosse docilmente quando la toccai; la portai a mano fin sulla strada, poi salii sopra. All’inizio pedalavo piano, poi con un po’ di convinzione in più.

         Fu per caso che arrivai fino al ponte sopra al fiume, e mi fermai un attimo ad osservare il luccichio della superficie scura. Il tonfo nell’acqua fu leggero, e la bicicletta scomparve subito sotto la coltre liquida. Tornai a casa a piedi, compiendo un ampio giro.

 

         Bruno Magnolfi


Il delirio di Giaco (particolari del diario e lettere alle amanti)

 

 

Agosto

 

Lo so che ho sbagliato, è chiaro, è fin troppo evidente. Ma è stata una passione inspiegabile, qualcosa che mi ha travolto tutti i sensi. Non sono riuscito a pensare, a far funzionare la testa e riflettere bene su quello che facevo. Tutto mi è apparso all’improvviso come in un sogno pazzesco dove un burattino che ero io, si ritrovava mosso come da fili immateriali. Non riuscivo ad essere me stesso, non mi era assolutamente possibile. Come in mezzo agli incubi in cui si ha la coscienza di essere nel letto, di dormire insomma, e pur stando malissimo non riusciamo a svegliarci.

Mia cugina mi guardava con quei suoi occhi da bambola, dolci ed ammiccanti, ed io in certi momenti la osservavo un po’ rapito, facendo un certo sforzo per non farmi scoprire a guardarla. Non c’erano state ragioni, la giornata era uguale a tutte le altre; ero andato in visita alla famiglia dei miei parenti, quei miei zii, e non c’era proprio niente di anormale, visto che capitava di frequente. Ed ero rimasto a pranzare assieme a loro, e si parlava, si scherzava come sempre. Dopo il caffè tutti quanti avevano trovato qualche cosa di cui occuparsi, lo zio sempre preso dai suoi impegni di lavoro, la moglie, sorella di mia madre, con la testa rapita da un’amica ammalata; e così si era rimasti soli, io e Beba, con la cameriera sparita nella cucina e il pomeriggio tutto per noi due.

Dapprima avevamo studiato, qualche compito da fare, e quella matematica che non voleva entrarle in testa, col professore che ogni giorno la incalzava. Io peraltro mi ricordavo poche cose del periodo della scuola, nozioni insufficienti per aiutarla veramente, però il mio impegno lo mettevo, e forse a qualche cosa poteva anche servire. Poi avevamo preso a scherzare e a divertirci, a ridere di tutto, e così avevamo riposto libri e quaderni. Mi piaceva giocare assieme a lei, far finta di avere vent’anni di meno; e lei ci teneva a quei miei giochi, a quegli scherzi. E quella volta, chissà perché, dentro di me, avevo cominciato a sentire una morsa tremenda, un impulso incredibile, indecifrabile.

Lei aveva preso a parlarmi, a chiedermi cose insensate senza neppure aspettare la risposta. Giocava a fare la stupida, come i bambini fanno a volte, ma lei bambina ormai non era più. Chiacchierava da sola senza mai fermarsi, e gli argomenti erano sciocchi, ancora più infantili di quello che i suoi tredici anni avrebbero indicato. E mi prendeva in giro, diceva che era piccola e che io ormai ero vecchio. E poi rideva e continuava a dire che non avevo mai fatto niente di buono. Era sua padre che di solito diceva queste cose, e lei riprendeva le sue frasi, ma ironizzando anche su lui, su quel suo modo burbero di fare e di parlare. Mi stuzzicava insomma, in tutti i modi, e mi imponeva ridendo di star zitto, di ascoltarla, per il mio bene, mi diceva.

Eravamo andati giù in giardino, a camminare sopra al prato, ma faceva troppo caldo e in mezzo agli alberi non arrivava neppure un po’ di vento. Allora si decise di andarcene in soffitta, un’enorme soffitta, tutta piena di armadi e di bauli, zeppa di roba di nonni e di bisnonni. Probabilmente roba ammuffita, di nessun valore, ma a spingerci era il fascino della curiosità. Avevamo salito i tre piani di scale una volta tornati nella villa, e si era presa subito la chiave, senza far rumore, di nascosto. Dappertutto c’era polvere e questo rendeva sgradevole ogni cosa. Vecchi armadi, sedie rotte o fuori uso, inservibile mobilia d’ogni genere.

Beba apriva tutto, pareva voler trovare chissà cosa, e ad ogni oggetto dedicava la sua osservazione, soppesando e valutando, facendo continuamente dei commenti. Forse continuava col prendermi un po’ in giro facendo solo finta di meravigliarsi di quello e di quell’altro, ma a me ora piaceva ogni suo modo e la seguivo ad ogni passo, senza mai distrarmi.

Poi si era aperto un grande armadio e dentro c’erano i vestiti dei suoi nonni. Fogge inusuali, stoffe ricercate, tutti i vestiti erano belli, strani, interessanti. Beba decise di fare una sfilata provandosene alcuni, lì, dietro l’armadio, e girando poi per la soffitta come fosse una modella. Io avrei fatto il pubblico e mi sarei seduto su una vecchia poltrona polverosa; da lì avrei scelto quale vestito ero il più bello.

Così iniziammo e tutto quanto sembrava divertente. Lei andava avanti e indietro tirando su le gonne ad evitare di pestarle ed io applaudivo con un fare compassato, come da copione. I vestiti erano bellissimi e anche Beba lo era, e sembrava una signora, si tirava su i capelli, faceva la gran dama di altri tempi. Poi, da dietro quell’armadio, sembrava non dovesse più sortire. Metterà in ordine, pensavo, o si sarà stufata e combinerà qualche altra cosa, forse uno scherzo. Mi alzai, così, e andai a vedere. La trovai che stava quasi nuda alle prese con occhielli e con bottoni e mi colse una vertigine.

Il suo viso era stupito, forse dalla mia espressione, e quel suo seno così piccolo, stupendo. Si stette fermi per un po’, non saprei dirlo, forse parve solo a me, e tutto invece accadde in un secondo. Le toccai la pelle liscia, il corpo dolce, ma lei cercava di sfuggirmi. Volevo farle delle semplici carezze, sfiorare quelle forme così piccole, ma lei non lo voleva e per me ormai era impossibile fermarmi. La distesi sui vestiti sparpagliati e cercai di essere gentile, ma lei ancora annaspava, mi diceva delle cose che a me non arrivavano, chissà, forse mi chiedeva solo di smettere.

Beba era stordita, forse aveva anche paura, e finalmente io le stavo dimostrando qualche cosa che neppure io sapevo bene. Poi mi guardava con degli occhi che io mai avevo visto, e forse mi chiedeva ancora qualche cosa, ma con una voce tenue, ormai non opponendosi più a nulla. Mi misi sopra di lei e così la penetrai. Le sue forze si erano come raccolte ad aspettare quel momento; sentii di possederla, finalmente abbandonata alle mie voglie, ma in quell’attimo, mentre la violavo, lei lanciò un urlo tremendo. Ed io rimasi lì impietrito, in un attimo sconvolto, cosciente finalmente di ciò che era successo, dell’orrore di quel mio comportamento.

Beba gridava, gridava e poi fuggiva. Fuggiva via da me, mi rifiutava, col suo piccolo corpo ancora nudo ed oltraggiato, e poi tutti correvano, si lanciavano su per quelle scale, e mi trovavano lì, increduli, ad osservare le mie mani, la mia follia inspiegabile eppure tanto cruda.

 

 

 

 

 

Settembre

 

Cara Mariù, dolcissimo amor mio; scriverti per me è un sollievo ineguagliabile. Già il solo prendere la penna, organizzare il foglio, la luce sopra al piano della scrivania, pensare a ciò che voglio dirti, sono tutte operazioni che mi riempiono di gioia, di un senso profondo di benessere.

Ho ricevuto la tua deliziosa lettera solo stamani e subito mi sono reso conto ulteriormente di quanto sai essere carina, usarmi gradite cortesie, ricordarti, ogni volta in maniera inusuale, del nostro rapporto stravagante. Però voglio ricordarti che da quando sono stato relegato in questo luogo dove nessuno mi conosce, in questo esilio di meditazione dove fatico ad organizzare le giornate, solo due volte mi hai scritto poche righe, ed hai sempre preso tempo quando ti ho chiesto di raggiungermi anche solo per un giorno o almeno qualche ora.

Capisco perfettamente la tua risoluzione nel definirmi un buon amico; probabilmente in un periodo come questo hai molte cose che ti passano per la testa, e mi rendo soprattutto conto di quanto tu abbia bisogno, la maggior parte delle volte, di sentirti integrata nell’ambiente dove vivi e di trattare evidentemente con distacco le situazioni che te ne porterebbero lontana; ma comprendo meno bene il tuo oscillare tra un comportamento ora appassionato ora quasi derisorio. I tuoi atteggiamenti qualche volta pieni di trasporto e di attrazione e poi, per la maggior parte delle volte, velatamente ironici, quasi beffardi, senza più né desiderio né passione. E poi soprattutto, mi torna del tutto incomprensibile il tuo negare a qualsiasi costo un nostro nuovo incontro. (In certi momenti ho perfino creduto che tu stessi usando queste armi per far nascere in me un folle desiderio…). 

Certamente il nostro rimarrà solo un capriccio, una voglia che ci siamo tolti, magari cedendo anche un po’ troppo alla passione. Ma quello che ancora non capisco è il perché tutto ciò non riesca a tradursi in una conoscenza un po’ più approfondita tra di noi: è bello senz’altro sganciarsi dalla logica, dalla rettitudine forzata, dalla morale che ci ingombra, e godere di quell’attimo come fosse una parentesi al grigiore quotidiano; però notevole appare anche conoscersi, con calma, lentamente, scoprire i nostri meriti, le nostre debolezze, complottare con le diverse sensibilità, trovare l’equilibrio che lasci corrispondere tra loro i nostri strani spiriti, le nostre personalità. Credo che tu, dietro ai tuoi veli, alle tue strane ambiguità, ai paravento un po’ forzati, nasconda una persona dalle connotazioni senz’altro interessanti, forse uniche, sicuramente fascinose, almeno per un assurdo solitario come me.

Non posso dirti altro adesso, se non che vorrei toglierti quei veli, vedere i tuoi veri profili, denudarti senza remore, e godere del conoscerti, dello scoprirti magari poco a poco, dell’ancorarmi con te ad un rapporto che abbia il gusto di dimostrarsi un definito, forse addirittura stabile…

 

 

 

 

 

Ottobre

 

Sono sicuro che tutti quanti sarebbero subito pronti a criticarmi. E sicuramente qualcuno si è già esercitato proprio dietro alle mie spalle, indicandomi con un’occhiata, che so, forse al caffè, notando magari la mia prima colazione durante la tarda mattinata. E la signora dell’appartamento a fianco al mio chissà quante volte avrà cercato di scoprire, origliando i miei passi sulle scale, osservando le mie passeggiate serali, cos’è che nascondo dietro a questi occhiali, a questa maschera di indifferenza poco definibile, ai miei saluti sempre pacati e rispettosi, che non concedono nulla alla sua curiosità.

E poi ne avrà parlato il vicinato, senza dubbio, e qualcuno di sicuro avrà stabilito che ricevo soldi da una rendita, o che qualche parente ricco mi mantiene, e lo fa tenendomi in disparte. Anzi, probabilmente paga le mie spese purché rimanga relegato in questa cittadina, pur graziosa ed accogliente, neanche troppo piccola. E durante questi sei o sette mesi, da quando il mio dorato esilio è stato messo in piedi, tutto ciò non mi ha cambiato in niente: sempre con quegli occhiali scuri, avranno detto, sempre con quella faccia inespressiva. E non sono certo distanti dalla pura verità, e forse si chiedono anche loro come riesca a far trascorrere le mie giornate lente, solitarie, tra le mie stanze silenziose.

Qualche amica, qualche volta, anzi, aggiungo io, superficiali conoscenze di turiste sole, un po’ annoiate, incontri casuali da passeggio, tra il porticciolo con le barche e il lungo lago, e forse anche in numero maggiore di quanto sarebbe consentito in un luogo di provincia come questo. E poi sempre il quaderno sotto al braccio, avranno tutti ben notato, e quella penna pronta a scrivere chissà cosa; e sempre quel suo passo lento, cadenzato, probabilmente in uso solo tra fantasmi.

Non credo che potrebbero capire come si possa riempire il tempo con se stessi, con il proprio meditare, con i pensieri che corrono su dei binari autonomi, che scelgono loro stessi la strada da seguire. E mi scansano, e mi scanserebbero ancora di più, solo sapessero: accozzaglia di individui ripiegati sulle proprie occupazioni, che oramai parlano solo con i termini del mestiere esercitato, che rivestono una figura sociale proprio in funzione di quella loro attività, e mai si integrerebbero con gente disinteressata ad essere parte attiva dell’ingranaggio che li esalta. Non posso chiedere loro del lavoro, accettare una qualsiasi occupazione, anche se ne avessi un bisogno disperato. C’è diffidenza dentro ai loro occhi, sono sicuri della mia diversità; e poi io mi crogiolo troppo nell’equilibrio perfetto delle mie ore da riempire, e mi sento al di fuori della loro sciocca logica. Sono leggero, rispetto a quelli, libero, padrone di me stesso.

 

 

 

 

 

Dicembre

 

Io non posso progettare; posso solo lasciare che il pensiero improvviso, la volontà immediata mi determini. Dovevo mettermi in viaggio, nel mio sogno stravagante, dovevo raggiungere qualcuno. Qualcosa mi forzava, un’ossessione indescrivibile mi riempiva la mente e i pensieri, e mi spingeva alla partenza, alla ricerca di una persona che adesso non saprei assolutamente definire, proprio mentre la città era impazzita e tutto sembrava che crollasse in un momento; poteva succedere qualcosa di tremendo, nell’aria se ne avvertiva l’imminenza, e tutti subivano l’oppressione sorda di un elemento incontrollabile, mentre una tensione senza pari attraversava strade e case, quasi come una corrente elettrica.

Poi, in una pozza d’acqua verde, proprio accanto alle mie scarpe, un minuto pipistrello invischiato dentro al liquido cercava, dibattendo le sue ali, di salvare la sua stupida esistenza. Ma qualcosa continuava a trattenerlo, ed un senso di morte disgustosa saliva da quell’acqua. Passavo oltre, con lentezza, lasciando scricchiolare le mie scarpe sulla ghiaia. E alla stazione ferroviaria i treni continuavano convulsamente a manovrare, muovendosi con pesantezza su una serie quasi infinita di binari. Gente rapida, alcuni anche correndo, andava ancora avanti, tra tabelloni frettolosi segnati di città, di luoghi sconosciuti, di nazioni strane. I telefoni risultavano occupati, ognuno con una lunga fila di persone fuori dalle cabine insonorizzate. Lontano da lì, sicuramente, tutto si svolgeva in altro modo, ed in quella precisa direzione qualcuno aveva già iniziato ad aspettarmi, forse inconsciamente, forse escludendo possibilità ulteriori, altre variabili di imprecisa applicazione.

Ero enormemente concentrato sul da farsi; potevo andare, senza nessuna razionale spiegazione, e ritrovarmi del tutto in quella impresa, come qualcosa che si compia reagendo per automatismo ad uno stimolo. Oppure non reagendo affatto, facendo a meno degli stimoli e delle loro risultanze; però potevo anche infischiarmene di tutto, rimanere dove mi trovavo, dare retta ad una coscienza immobilista, dagli slanci assenti, neppure previsti. Però dovevo andare, era evidente.

Il treno era immediato, velocissimo; la sua presenza, nei confronti della determinazione con cui affrontavo quel viaggio, assolutamente eterea, superficiale, quasi ininfluente. Allineavo dentro me tutte le cose che avrei dovuto dire, probabilmente per spiegarmi, per essere compreso, ma un rumore infernale distoglieva di continuo la mia attenzione, e ogni sforzo per pensare risultava vano. Tutto questo mi infastidiva enormemente, e quasi con certezza sentivo preponderante la voglia di fuggire, anche se dovevo per forza dar corso ai miei doveri, impegnarmi in un’azione, lottare, senza dubbio, sacrificarmi per salvare qualche cosa.

E troppa gente intorno mi stringeva, piena di gesti, perlopiù, di grida straziate e di parole affannate, spesso incomprensibili; e tutti ripiegati su di loro, contorti dentro ad azioni precise, rapide, nervose. Alla stazione scendevo in mezzo agli altri e lentamente attraversavo il marciapiede tra gente che correva. Allora mi ritrovavo nella zona affollatissima degli uffici e degli sportelli per le informazioni. Adesso sapevo con certezza cosa fare e il senso come di imminente cataclisma sentivo che si faceva ancora più accentuato e percorreva come una corrente elettrica i pensieri di ciascuno.

Al telefono Papi non mi chiedeva nulla; accettava quasi subito, veniva a cercarmi alla stazione ferroviaria, e abbassava il suo ricevitore con una serietà assolutamente logica, quasi una perfetta comprensione di quegli accadimenti o un adeguarsi al mio turbato stato d’animo. Rimanevo immobile tra la folla agitatissima, e districavo i miei pensieri, per quanto era possibile, concedevo importanza ad alcune decisioni tentennanti, pur trovandomi preso in mezzo ad una confusione maledetta, e alla fine imponevo a me stesso di rimanere fermo ad aspettare, proprio accanto ad un tabellone elettronico impazzito con sopra continui aggiornamenti spesso errati degli orari ferroviari; infine mi muovevo, come preso da una smania, e continuavo a circolare senza sosta, tra le biglietterie brulicanti di persone e gli uffici per le informazioni assaltate dalla folla.

E lei arrivava; all’improvviso, vicino a me, da dietro le mie spalle, mi chiamava col mio nome. Ne avvertivo la presenza, intuivo che stava per raggiungermi, avrei probabilmente potuto anche indicare quel momento esatto in cui da dietro avrebbe sussurrato che era lì. Mi voltai di scatto, allora, e subito iniziai a parlarle, d’improvviso, come preso da un affanno, rendendomi forse conto di avere una profonda necessità di comunicare i miei pensieri. Lo sguardo della persona che avevo davanti sembrava soggiogarmi, rendendomi impotente a comportarmi in altro modo.

Non era Papi, non era la persona che aspettavo, non era la mia amica, però si comportava come se lo fosse, ed io dovevo forzatamente accettare questo fatto, prendere coscienza che potevo essermi confuso, aver sbagliato qualche cosa durante un momento disgraziato. Andavamo assieme a casa sua, subito dopo, e in una stanza grande affollata di mobili e di oggetti rimanevo solo all’improvviso; o meglio, solamente ad un tratto mi accorgevo di essere solo. E poi sentivo in me un’enorme confusione, e forse mi assopivo, o comunque qualcosa mi accadeva, ma un qualcosa di infinitamente esile, quasi come un soffio che nel sonno fosse sopraggiunto a sfiorarmi il viso. Allora mi rialzavo dal divano e mi guardavo intorno; con circospezione e un vago senso di paura andavo fino al corridoio ed a caso entravo in una stanza. Lei era là, rivolta verso la finestra, immobile e in silenzio.

La camera era costituita un armadio, da un letto, da un tavolinetto, un comodino, forse anche un piccolo tappeto; le pareti erano chiare, il letto ben rifatto con sopra una coperta che cadeva a pieghe dalle parti. Sopra al comodino, sulla destra, c’era una rivista aperta su una pagina qualsiasi, con foto di nudi femminili; nell’angolo a sinistra, appoggiata sul tavolinetto, una bacinella bianca con dentro un fondo d’acqua bianca e immobile. Accanto, un vecchio mazzetto di fiori appassito dentro al cellophan, probabilmente un anonimo regalo di un cliente timido. Mi sedevo sopra al letto dalla parte verso la finestra; lei rimaneva ferma, come ad aspettare, continuando a voltarmi le spalle.

Le toccavo le mani, le braccia, con lentezza, senza una parola. Poi la lasciavo voltare, con infinita calma, ed iniziavo a spogliarla accortamente. Lei appariva un po’ come emaciata, seria, con i capelli che le ricadevano leggeri sopra alla pelle liscia e sottile; mi lasciava fare le mie carezze esplorative, ma conservava lo stesso atteggiamento come di indifferenza a tutto, e quando le sfioravo le mani le scoprivo fredde, indifferenti, la sua espressione composta e ferma, quasi assente. Dentro di me avevo completamente perso la coscienza degli avvenimenti; il mio corpo pareva adattarsi alla nuova situazione e pulsare in sintonia perfetta con il suo.

Nonostante tutto, di lei avvertivo distintamente, forse ricavandola dal fondo dei suoi occhi, una grande determinazione, una profonda propensione ad esserci, a disciogliersi dentro quella nostra intesa; in testa adesso avevo la percezione del suicida che guarda con distacco religioso il proprio sangue che si perde; e tutto il resto, all’improvviso, era diventata una stupida sciocchezza.

Questo tutto il sogno di una notte.

 

 

 

 

 

Marzo

 

Scrivere una lettera. Mettere assieme le parole, articolare frasi; collegare tra loro dei significati, trovare dei nessi e magari fare con naturalezza degli esempi. E poi lavorare con intelligenza su alcune semplici parole per disporre bene la lettura ad una adeguata comprensione e per creare quel poco necessario di curiosità; mettere magari qua e là qualche aggettivo che rompa la tensione e usare alcuni verbi un po’ importanti che alimentino con moderazione l’interesse.

E poi essere chiari, soprattutto, e trovare un ritmo espositivo che ben si ricolleghi all’orchestrazione generale; architettare la punteggiatura, usare bene un giusto numero di adeguate congiunzioni e creare un’atmosfera di sospensione e leggerezza, qua e là, senza strafare. Usare una cadenza e una musicalità che si posino adeguatamente con lo scorrere di ogni singola parola, e appuntare l’interesse, con coerenza, sul significato di qualche frase che denoti le fondamenta del senso generale. Adottare un calligrafia distesa, interessante, che dia il senso di una volontà ferma e decisa, e che contemporaneamente porti con sé qualcosa di piacevole; lasciarsi andare ad un inciampo o due, del tutto casuali, un po’ autoironici e senz’altro divertenti, e poi, soprattutto, creare un piccolissimo, significativo senso di tensione, ben organizzato e raddensante, subito prima di esporre in maniera chiara e naturale, senza incagli né tentennamenti, tutto ciò che ci sembra opportuno ed importante assuma il ruolo di nucleo di tutto quell’insieme.

Dirlo forte e chiaro ciò che ci interessa veramente, e non lasciare nessun adito a dubbi; scartare l’ombra di qualsiasi ambiguità e soprattutto usare solo due o tre frasi per esporre quella tesi, come se nient’altro avesse più importanza, solo quella.

E poi scrivere a te Senni, proprio a te; o meglio, far finta che tu finisca in qualche modo per avere sotto agli occhi queste righe, anche se tu hai già deciso di non interessarti più di me, delle mie cose. Scrivere per te, per il tuo viso, per i tuoi bellissimi capelli fluenti; per i tuoi occhi, che mi pare già di immaginare mentre si muovono avanti e indietro lungo queste righe un po’ pesanti, faticose; per le tue mani, che se capitasse veramente, terrebbero sicuramente questa carta ben distesa, quasi a scoprire persino gli angoli, per vedere quest’insieme di scrittura con più obiettività, eliminando il più possibile qualsiasi increspatura.

Mi è accaduto qualcosa l’altro ieri.

Ero andato a spasso lungo il lago, durante il pomeriggio, a guardare l’erba tremolante e le onde piccole, appena pronunciate, sottili increspature sulla superficie piana ed omogenea, lenta nello scorrere, quasi svogliata, eppure costantemente in movimento. E’ un piccolo lago, questo, piccolissimo; ma io mi illudo che sia grande, che sia enorme, che le sue acque arrivino, chissà, tanto lontano. Ed ero poi rientrato, tranquillamente, senza preoccupazioni di alcun genere.

Ed una volta che la notte era calata avevo iniziato ad avvertire, provenienti da sotto questa mia finestra, degli strani rumori estremamente diversi tra di loro, ma confusi, imbrigliati e mescolati assieme in maniera tale da non apparire decifrabili. Poi, ad un tratto, senza che ancora la mia curiosità fosse caduta, ecco che arrivava un suono un po’ più forte, continuo e regolare, quasi monotono forse, come un soffio che si ingrossa, come un vento innaturale che avesse iniziato a scaricarsi senza enfasi né impeto, riversandosi su tutta la città mezza assonnata. Ed io ho pensato di fantasticare e immaginare che dopo quell’avviso, durante la nottata stessa, una volta che il vento fosse un po’ calato, ecco che assieme a dei deboli e piacevoli rumori d’acqua in movimento, fosse sopraggiunto il mare, inglobando dentro a sé l’acqua del lago.

Una sua lunga, debole, fresca onda improvvisa che superati i cento e più chilometri di distanza tra questa città e la costa più vicina, si fosse sparpagliata tra le case, lungo le strade principali, per poi andarsi a riversare subito di là da un costone di terra poco lontano, annullando di colpo quegli ostacoli trovati tra quel luogo e la sua sede naturale. Un improvviso contatto tra questo silenzioso cumulo di case estranee al mondo, così disperatamente fuori mano, e tutte le città di mare bagnate da quell’onda, quegli stupendi porti pronti per essere visitati, per mettersi in contatto anche con noi.

Un mare nuovo insomma, proprio qua, dove prima non c’era e neppure si poteva immaginare, e con la sua portata di grandi cambiamenti subito da decidere e da pianificare, con le sostanziali variazioni di vita un po’ per tutti gli abitanti della zona. Ed ecco subito nati dei negozi di articoli da spiaggia; altri commercianti si potenziano per vendere le canne, i galleggianti, lenze e gli ami per la pesca, e alcuni altri che ancora si rifiutano di mettere nelle loro esposizioni ombrelloni e sedie a sdraio. Ed ancora qualche piccolo cantiere che si mantiene titubante e poi è subito assalito da chi ha l’ambizione di farsi una barchetta per l’estate, e dappertutto variazioni sugli indirizzi economici di tutta questa gente; ed ecco le stazioni balneari, i ritrovi rinfrescanti proprio sulla spiaggia, insomma tutto ciò che serve per un litorale ben vivibile.

E poi pianificare subito la costruzione di un bel porto per l’attracco di navi passeggeri, e anche dei pescherecci probabilmente, forse anche di qualche petroliera. Insomma un’onda durante la nottata e profondi e radicali cambiamenti fin dal giorno dopo. Qualcosa che annulla e che distrugge, certamente, però in modo bonario, quasi ridente; una speranza di grandi novità, un salto improvviso del quale usufruire e con il quale migliorarsi, una variazione positiva, insomma. E dopo tutto, rimanersene lì semplicemente ad aspettare che quel mare sopraggiunto lentamente, durante una magica nottata, altrettanto  lentamente si ritiri, intristito dalla visione dell’interno, o magari stufo di essere adoperato poco o poco bene.

Probabilmente in breve tempo si stancherebbe veramente di essere trattato con freddezza, con eccessiva indifferenza, come se tutti i cittadini avessero saputo chissà da quanto tempo del suo arrivo, come se ne avessero avuta la notizia già da piccoli, ognuno dai propri genitori. Nessuno si sarebbe comportato bene con quel mare, sono sicuro; nessuno sarebbe rimasto sbalordito come davanti ad una vera novità, e la mancanza di qualsiasi profonda sensazione sarebbe stato probabilmente il colmo per qualcosa del genere.

E poi quelle auto che transitano di continuo lungo tutto il litorale, spesso ad alta velocità, schivando i robusti pali dei semafori e quelli dei lampioni; e poi evitando anche gli angoli delle case, qualche volta proprio all’ultimo momento, con dei motori urlanti, gracchiosi, dalle valvole mal regolate e le marmitte, per la maggior parte delle volte, rugginose o rotte, già sfondate dall’usura e forse anche un po’ dalla salsedine. Ed autisti anziani che probabilmente rincorrono le proprie gioventù aspettandosi magari di trovarle dentro agli occhi di qualche ragazza appariscente, carina se rivista da lontano, non tanto dissimile da te, Senni, ma poi proprio diversa, con le rughe sul viso e le borse sotto agli occhi. E chissà che cosa possa averne mai fatto della vita una ragazza giovane e vecchia come quella, che magari per un po’ pensa a scappare, di resistere all’assedio, ma dopo poco torna indietro e forse si concederebbe perfino ad un signore che non sembra neppure incuriosito, e difatti chiede scusa gentilmente e passa oltre.

E l’altro giorno, un giorno pensieroso, non sono poi riuscito a superare bene tutte quelle fantasie e sono rimasto a ripensarci per tutta la giornata; e tutto questo si è confuso con la voglia, con la mia intenzionalità decisa a rivederti ed a parlarti ancora, tenendoti la mano, come abbiamo fatto tante volte.

 

 

 

 

 

Giugno

 

Figuriamoci se ci sono andato per cercare del lavoro. E’ la curiosità che mi ci ha spinto e nient’altro. Un amico, anzi a dire la verità un conoscente che incontro a volte nel caffè vicino a dove abito, mentre con alcune persone stava parlando addirittura di altre cose, aveva detto l’indirizzo a voce alta per non ricordo più quale motivo, ed a me, per puro caso, era rimasto in testa per tutta la mattina; per combinazione poi dovevo passare proprio là vicino, e così sono andato a curiosare.

C’era già una gran fila di facce serie e compunte avanti a me, e avrei voluto andare via, senz’altro; anzi, stavo già per farlo, ma qualcuno era subito arrivato dopo di me e aveva chiesto ai presenti quale fosse l’ordine di arrivo, insomma chi lo precedeva. Un altro poi mi aveva subito indicato con un cenno, e prima che potessi far qualcosa mi ero già ritrovato ad aspettare, a far la fila come gli altri per essere ricevuto.

Ormai ero preso tra le maglie e così mi ero seduto, con le spalle al muro, sopra ad una scomoda seggiola di plastica. Dalla mia tasca era scappato fuori un piccolo foglietto di una pubblicità insensata, perciò mi ero sprofondato nell’osservazione di ogni particolare del depliant, evitando così gli sguardi delle persone presenti nella stanza che intanto avevano iniziato a parlare tra di loro. Via via che la signorina con un gran sorriso incoraggiava ognuno ad accomodarsi, tutti, ad uno ad uno, sparivano veloci e con la testa bassa dietro alla porta opaca dalla maniglia d’acciaio. Io rimanevo ad osservare il tavolo basso di vetro trasparente che rimaneva ad un metro di distanza dai miei piedi, continuando ad assumere varie posizioni più o meno comode. 

Poi qualcuno è uscito da una porta e senza dire niente se n’è andato; allora mi sono fatto avanti, era il mio turno, e senza ripensarci sono infilato nell’ufficio in preda ad una profonda soggezione. E dietro a quegli occhiali e a quell’enorme scrivania c’era un’espressione anonima, una faccia seria, uno sguardo quasi assente, poco interessato. Io stesso, in quella situazione, mi sentivo orribilmente anonimo, privo completamente di qualsiasi personalità.

Mi sono seduto e avrei voluto piangere. Mi sarebbe anche piaciuto ridere forte, urlare a caso qualche frase, complimentarmi con quell’uomo per la stupenda messa in scena; e poi strappare la sua maschera, sempre ridendo, battere una mano sopra la sua spalla e dire a tutti quanti, anche a quelli che aspettavano di fuori, che tutto era stato semplicemente un grande scherzo, che eravamo tutti amici, che non c’erano conflitti e prove da superare.

Qualche domanda generica, qualche sorriso compiacente, alcuni silenzi leggermente imbarazzanti; e dopo questo: vede, cerchiamo una persona che abbia almeno un poco di esperienza, e che vanti, se non altro, qualche conoscenza in questo campo. Ed io subito: certo, la capisco più che bene, ed anzi me ne scuso; ed anche: mi capisca, il mio è stato soltanto un tentativo distratto.

Ma appena rialzatomi dalla sedia di velluto pronto per stringere di fretta, anzi, appena per sfiorare con la punta delle dita quella mano già notevolmente stanca di altre mani, di altre scuse, di altri discorsi insensati, abituata all’ultimo sorriso compiacente, formale, di sottomissione ad un potere impalpabile fatto di sguardi e di piccoli gesti impercettibili, ecco, improvvisa, inaspettata, l’umanissima voglia di reagire e di riconsiderare tutto quanto.

Lei non saprà mai chi fosse veramente la persona qui seduta ad ascoltarla; come non saprà mai se era migliore o peggiore di quella che è appena andata via. Non potrà mai immaginarsi se qualcuno tra quelli rifiutati fino ad ora sia adesso sul punto di impiccarsi per l’occasione ormai svanita, o se semplicemente un genio, in questa vostra attività, in questo stupido lavoro per cui con grande modestia si era offerto, stia già affermandosi a quest’ora in un’alternativa occupazione che a lui non interessa affatto, e che forse lo renderà sterile e anonimo, proprio come lei; e tutto ciò proprio quando sarebbe potuta risultare un’autentica fortuna in questo vostro mestiere. Lei, che crede di poter svolgere indagini entro coloro che su questa sedia nervosamente si dispongono a seguirla nelle sue argomentazioni e nelle sue domande; lei, che crede di capire, da dietro a quei suoi occhiali un po’ offuscanti, qualcosa che è nascosto dentro l’animo umiliato di chi è senza lavoro o non si sente realizzato in un’occupazione poco adatta; lei, che non ha neanche pensato di sedersi, per una volta almeno, da questa parte scomoda della scrivania. Ebbene si, lei è un superficiale; anzi, un campione di codesta vostra categoria rattristante.

Tutto ciò, dentro alla mia testa, si era messo in moto in un momento solo, all’improvviso, rimbalzando tra le pareti del mio cranio come una palla impazzita tra le sponde di un biliardo, ed ancora continuavo a contarne i rapidissimi rimbalzi mentre già avevo raggiunto la porta, la maniglia, il primo passo nell’aria aperta e libera. Ero sconvolto, sentivo il sangue martellarmi nelle tempie, e soprattutto provavo una grande voglia di tornare indietro, piantarmi sulla soglia a gambe aperte per inondare tutta intera la stanza con la mia voce e con la mia presenza, e puntandogli addosso un dito accusatore, dirglielo davvero, tutto quanto.

 

 

 

 

 

 

Settembre

 

Amore mio, cara Pili. Dire che ti penso è dire poco. Ti desidero, soprattutto. E scriverti mi risulta estremamente naturale, come lo avessi sempre fatto. Pensare a te è divenuto per la mia povera mente un nutrimento quotidiano; e mi perdo volentieri a meditare sui profili del tuo viso. Quando arrivo a scriverti è come se ti avessi qui vicino e ti potessi sussurrare in un orecchio le mie parole appassionate.

L’impressione generale che mi rimane di noi due è quella di una grande intesa, di un rapporto intenso, tutt’altro che superficiale: a volte mi sembra che tu ci sia da sempre dentro alla mia mente, e non mi riesce assolutamente di capire come io abbia fatto a vivere prima di averti conosciuta. E poi ci sono quei giorni stupendi, intensissimi, che sembravano creati solo per noi due, attorno alla nostra voglia di sentirsi insieme; e mi ritornano alla mente fin nei minimi dettagli, ed a volte mi pare quasi di riviverli. Poi mi logoro pensando alle ore stupide di inedia che trascino in questa inattività che pesa, ed a quanto vorrei che tu potessi essere qui, a riempire di colore questi giorni.

Ultimamente mi riconosco troppo serio e pensieroso, e certe volte mi sfuggono di mano intere giornate che trascorrono adagiate nel torpore, in una monotonia estenuante. Poi mi scrollo, esco di casa e cerco di svagarmi, e incrocio sguardi concentrati su qualcosa di immediato. Allora mi ritrovo ad esserne invidioso e a provare un folle desiderio per i pensieri che infiammano i cervelli, per quelle sensazioni indirizzate verso un fine e dei significati che assumono quei gesti, quelle azioni, quelle parole appena pronunciate e subito tradotte in qualcosa di concreto, di reale.

A me, da solo come sono, quasi confinato in questo luogo che a volte penso proprio mi rifiuti, che spesso mi risulta odioso, o troppo malinconico, non rimane altro che inventare  uno spiraglio fantasioso per la fuga, una strada immaginaria dove si transita veloci fin là dove si vuole, fino magari a ritrovare la persona che si ama, per poi sfiorarla, parlarle con dolcezza, assaporarne la presenza…

Sono uscito di casa nel primo pomeriggio e mi sono messo in tasca, di proposito, la carta e la penna per scriverti qualcosa, per andare in qualche posto solitario a spiegarti con calma le mie ore, a parlarti dei miei guai, a chiederti di te, se mi hai già dimenticato, se sei stanca, se ti sembra diventata ormai impossibile la nostra relazione, o se, al di là di tutto, provi ancora gli stessi sentimenti che io provo, e se ciò ti sembra basti.

E così ho camminato, senza chiedermi per dove, e sono infine giunto in riva al lago, in una zona fuori mano, verso la quale non mi ero mai spinto, e dove si erano riunite, davanti ad una gran villa, alcune persone immobili, eleganti, non troppo vicine tra di loro, tutte rivolte ad osservare l'acqua quasi ferma. Sulla superficie liquida, trasparente e tranquilla, in una giornata quasi senza vento, le barche dalle vele candide lentamente si sfioravano, spesso manovrando con destrezza e virando di bordo al momento più opportuno, più raramente affiancandosi tra loro, mostrando i loro scafi quasi identici, immersi in un silenzio rotto solo in qualche caso dallo sciabordio leggero delle ruote di prua o dai piccoli timoni.

Sulla rive del lago, poco distante dal punto di maggior affollamento delle barche, le persone ben vestite che avevo notato sembravano seguire le fasi più salienti della flemmatica regata, però con interesse distaccato, privo di emozione, a volte mormorando leggere esclamazioni di biasimo o di assenso, altre volte parlottando a gruppi di due o tre a proposito dell’equipaggio di una barca o di quell’altra. Un uomo ed una donna, poi, ambedue con un’apparenza giovanile, sembravano decisamente indifferenti a tutto ciò che stava attorno a loro: eleganti, belli, completamente apatici di fronte a ciò che gli altri potevano pensare, continuavano a discutere animatamente su un forzato basso tono, e a parlottare uno accanto all’altra, in certi attimi con una foga malcelata che certe volte sfociava in qualche frase più vivace, e in altri istanti lasciva spazio ad un silenzio non privo di tensione.

Le finestre che si aprivano lungo le linee regolari della facciata della villa il cui giardino sul davanti, formato da via­letti e siepi basse, rimaneva un po' arretrato rispetto al molo ed alla darsena, occhieggiavano con calma su tutte le immediate circostanze, lasciando intravedere, dietro ai vetri luminosi ri­flettenti l'azzurro chiaro del cielo di quel giorno, meravigliose tendine merlettate, tanto bianche almeno quanto quelle vele che a momenti, con poca convinzione, si gonfiavano di leggera brezza accompagnante la giornata tiepida, arricchita di quel sole alto, piacevole, lucente.

E poi d’un tratto, senza che niente ne avesse segnalato il susseguirsi anomalo, mentre io, ti giuro, continuavo semplicemen­te ad osservare quelle immagini, tutto ciò è degenerato, e dopo un urlo femminile alto e straziante proveniente dalla costruzione, tutti quanti si sono messi in movimento, alcuni correndo verso ca­sa e attraversando i vialetti del giardino, qualcun altro cominciando a richiamare le barche più vicine. La ghiaia ha iniziato a scricchiolare forte sotto alle suole delle scarpe, e gli equi­paggi delle imbarcazioni, subito affannati e parlando a voce alta tutti assieme, si sono dati subito da fare, e rinunciando all'aiu­to delle vele che rimanevano blande come prima e indifferenti a quel trambusto, hanno iniziato a remare a cavalcioni delle prue, usando le piccole pagaie in dotazione ed a volte schizzando dietro a loro qualche maldestra lingua d'acqua. Ho approfittato della confusione per andarmene, senza peral­tro essere notato da nessuno, e solo quando sono tornato tra le vie del paese ho ritrovato un po’ di calma, e mi è sembrato neces­sario sedermi ad un caffè per ripensare all'accaduto e per scriver­ti una lettera.

 

 

 

 

 

Marzo

 

Ritrovarsi solo, all'improvviso, in un momento.  Una canzone martellante nella testa con delle parole spesso scollegate tra di loro; alcune immagini senza preciso significato ed un dolore forte, dentro, da qualche parte. Intorno la similitudine perfetta con ciò che da sempre è stato fermo ad aspettare quel momento, il risultato immediato della continua stratificazione del tempo, delle esperienze, delle idee, forse anche della materia nuda; di qualcosa di tangibile come un pezzo di legno leggero che suona quando rotola nella strada, e sedimenta sensazioni poi inservibili, ma che solo in apparenza sono inutili.

 

 

 

 

 

Aprile

 

Carissima Lori;  lo so che vedendo questo foglio starai già faticando a ricordarti chi io sia; e ti sembrerà probabilmente strano che ti scriva, tanto più che quella volta in cui ci siamo visti a te non venne neanche in mente di dettarmi il tuo indiriz­zo. E' vero, l'ho cercato sull'elenco degli abbonati telefonici; ma è proprio perché ci conosciamo cosi poco che io posso parlarti e posso dirti dei miei guai con la disinvoltura e la sincerità di cui ho bisogno. Mi infonde coraggio sapere che sei quasi un'estra­nea, che quella volta ci siamo detti solo qualche frase e perlo­più di circostanza. Ed è proprio per questo che tu puoi dimo­strarti più obiettiva di chiunque, mettendo a frutto la tua sensibilità, l'intelligenza che già notai e che brillava nei tuoi occhi in quel lontano pomeriggio.

Ti devo dire di uno strano caso, e dopo, se vorrai, potrai rispondermi cosa ne pensi, ma se magari non ti an­dasse, puoi farne a meno con tutta tranquillità: a me è già sufficiente confessartelo. Però se a te ciò che è successo sembrerà giustificabile, se ti parrà possibile rispondermi, se ti farà piacere dirmi qualcosa su di te, ecco che la nostra po­trebbe diventare un'amicizia ineguagliabile, un rapporto epistolare di sincera confidenza. E poi spero tanto che potremo rivederci qualche volta, ma­gari qui, durante la stagione buona che già inizia. Siccome io saltuariamente annoto le mie cose su un diario, per parlarti del mio caso non trovo niente di più giusto che direttamente ricopiare quel che avevo scritto in quelle pagine, la sera stessa in cui successe tutto.

 

Il giardino in aprile è cosi fiorito, fresco, spesso profu­mato, ed ogni piccolo angolo o qualsiasi minuta parte più remo­ta, come anche ogni immagine d'insieme di quel verde così lussureggiante, riesce ad essere talmente ridente ed espressivo da in­fondere, in chiunque ne osservi la bellezza, visioni di sogni feli­ci o di realtà gioiose, regalando un'allegria e una spensieratez­za veramente fuori del comune.

Le siepi, ben potate di fresco in forme regolari, si rincor­rono continuamente via via che lo sguardo ama seguirne i profili ora curvi ora diritti, formando una magnificenza di geometrici disegni, in un gioco senza eguali, nell'esaltazione di una natura così imbrigliata dalla creatività dell'uomo, da apparire contrastan­te con quei naturalissimi cipressi scuri e puntuti, diritti e in-colonnati tra di loro sui margini dei vialetti principali, a far contrasto a loro volta e per ben altre ragioni con gli enormi eucalipti ombrosi e freschi, dalle mille foglie svolazzanti per la brezza leggera della primavera ormai matura.

Il pensiero corre veloce sopra al verde, intersecandosi tra le linee multiformi disegnate nell'aria dagli uccelli, e la fan­tasia viaggia tranquilla dietro a loro, soffermandosi alla vasca, a bere l'acqua limpida, o posandosi su un ramo, ad osservare il panorama. La calma, la tranquillità, la lentezza del tempo che scorre senza intoppi, con moto inesorabile e pacato, regalano a tutto l’insieme un magico respiro, una vita sollevata dall'affanno, e la similitudine dei giorni rimane giustificata dall'incanto, da qualcosa che risulta già completo e non ha bisogno delle idee o di un apporto esterno che ne differenzi anche di poco i suoi parti­colari; solo la natura, addentro a questa logica, gioca il suo ruolo lentamente, da una stagione all'altra, lasciando sbocciare i propri fiori e crescere sui rami le nuove foglioline, o ingial­lire, in altri mesi, intere file d'alberi, cespugli, e quelle aiuo­le che si accostano, ma sempre silenziose, e con la calma congenia­le al loro essere, all'annuale assetto dell'autunno o dell'inverno.

L'acqua verde e trasparente delle vasche, delle fontane e dei rigagnoli, rimane la medesima in tutte le stagioni, rifletten­do il cielo scuro di giornate cariche di pioggia, oppure il sole caldo dei momenti di bel tempo. E poi le pietre, quelle grigie delle grandi scalinate, altre ai bordi dei viottoli, e ancora quelle di panchine e di muretti, tutte di un colore similare, colmo di vecchiezza e di esperienza. Tutto all'insegna di un amalgama perfetto; e di ogni cosa conta il condividere uno scopo uguale, una stessa sorte, un'esi­stenza identica attraverso la quale, singolarmente, immortalarsi nell'insieme, nello splendore coerente dell'unione, dell' uguale combaciare di immagine e di senso, come un solo corpo, un unico pulsare, uno stesso vivere.

Tutto quanto, in questo parco, trova una sua logica naturale spiegazione, e se qualcosa sfugge alla chiarezza, rimane vago in aria ad ispessirsi come qualcosa d'importante, oppure a rifuggire come elemento impalpabile, pronto a concedere speranze e delusioni nelle notti insonni maggiormente tenebrose, quando la differenza tra realtà e fantasia si assottiglia fino a diveni­re nulla, amalgamando assieme l’impossibile e il concreto, l'a­stratto e la materia, l'uomo e la natura.  In quell'ambito tutto viene per un attimo risolto e poi rimesso in discussione, in una continua interpretazione di simboli e di segni, di costrutti e di possibilità, come una fucina continua dove il metallo risul­ta forgiato in mille forme diversissime e poi rifuso ancora, a volte lasciando qualcosa che conserva ancora l'aspetto primitivo, un aspetto del vecchio stile e dell'immagine passata, ma più spesso risulta ammassato dentro a un nuovo oggetto, a volte dentro una sostanza del tutto ricomposta, formata da un amalgama oltremodo eterogeneo e dissimile rispetto ai materiali di partenza.

Una donna solitaria mi aveva oltrepassato camminando senza fretta lungo uno dei vialetti principali, e poi era andata a seder­si sopra una panchina, una di quelle anch'esse solitarie in fondo a qualche fila di cespugli. Io avevo continuato a seguirla con lo sguardo, e dopo aver percorso un lungo giro mi ero diretto an­che io, con lentezza, come se tutto quanto fosse casuale, verso quella fila di cespugli, verso la panchina. Avvicinandomi, non so bene spiegarne la ragione, ma probabilmente tutto dipendeva da quel luogo, dal momento, dalle mie esa­sperate riflessioni, il cuore mi batteva in petto come poche volte mi è mai capitato, ed il mio passo, ora più incerto e meno caden­zato, procedeva in mezzo a mille dubbi, a delle remore profonde, contrastato da qualcosa di cui avvertivo il freno, ma spinto da un bisogno non neutralizzabile. Le passai vicino, guardando avanti a me come in preda ad una febbre, ad un malessere che mi spingeva a quel comportamento, notandomi osservato con la parte più estrema del mio campo visivo. Feci ancora alcuni passi, sempre più incerti, sempre più indecisi. Finalmente mi fermai. Mi osservai d'attorno cercando un fare na­turale. Girai su me stesso lentamente. E la guardai con interes­se, lì, vicina, a pochi metri.

Le sorrisi, a cavallo oramai tra l'estasi e il delirio. E le fui subito accanto. Le toccai le braccia, le spalle. Sentivo le sue forme sotto al vestito leggero e profumato. Le misi le mani sulle gambe, tra le cosce larghe e calde, e cercai di pos­sederla, li, sulla panchina. Un urlo; qualche parola grossa; la mia fronte che sudava. Qualcuno corse ed io mi allontanai, in preda ad una febbre che bruciava le mie tempie; ed avevo movimenti meccanici e nervosi, però quasi correvo, mi dirigevo verso la parte più lontana da quel luogo. Raggiunsi l'uscita chissà in quale maniera e mi persi tra la gente, sui lunghi e affollati marciapiedi. Lentamente ritro­vai la calma e tornai a casa.

Ecco, cara Lori, questo è ciò che mi è accaduto in quell' at­timo di possessione demoniaca; e adesso scusami se ho voluto coin­volgerti scrivendo proprio a te. Però ti giuro, non avevo proprio nessun altro a cui parlarne.

 

 

 

 

 

Luglio

 

Solo adesso mi è tornato a mente ciò che mi successe qualche tempo fa, un giorno che mi ritrovai seduto, senza una ragione si­gnificativa, dietro a questa scrivania; e senza una ragione mi ero messo a scrivere, così, senza averne troppa voglia e senza domandarmi perché dovessi farlo. E poi non sapevo neppure cosa scrivere, e neanche se in virtù di un qualche scopo, oppure come mai proprio quel giorno e non un altro. Forse in fondo avevo solo voglia di uscire dalla stanza, di andare fuori, in giro, a passeggiare. Ma non potevo confondermi la testa con domande, con problemi sciocchi, e perciò dovevo scrivere, imperturbabilmente, senza neppure sollevare lo sguardo dal mio tavolo.

Certo, le prime parole erano apparse un poco stente, tremolan­ti, poco adatte per quel foglio di carta e per quell'ora del primo pomeriggio; alcune poi continuavo a cancellarle sostituendole con altre. A intere frasi seguitavo a dare inizio per accanto­narle quasi subito, e dei passaggi decisamente oziosi dimostravano di essere cosi tanto distorti che non riuscivo più a seguirne il senso neppure rileggendoli; pian piano, andando avanti, la situa­zione pareva migliorare, ed un senso pur vago era sembrato lentamente dipanarsi da quel folto di segni e di caratteri. Via via, sempre più speditamente, avevo ormai iniziato a con­centrarmi su qualcosa che ritenevo interessante, e dei particolari che sembrava scaturissero da me con grande naturalezza, non aspettavano nient’altro che correlarsi tra di loro, ma al momento di es­ser scritti sopra al foglio mi sfuggivano di mente contrastando l'uno contro l'altro, confondendosi. La traccia, ad ogni modo, era imbastita, e il resto sembrava adesso venir fuori per suo conto, come seguendo un filo proprio, sollevando minute riflessioni mentre l'argomento appariva più chiaro e più scorrevole.

Ogni nuova frase si concatenava al re­sto, e l'unico sforzo che io dovevo fare era quello di confronta­re le frasi tra di loro. L'operazione andava avanti senza uno scopo ben preciso, e la mia buffa scrittura dondolante aveva ormai riempito un paio di fogli. Era già un'ora o quasi che continuavo ad andare avan­ti a scribacchiare, e nonostante ciò non mi sentivo affatto affa­ticato; l'unica cosa di cui non mi ero ancora reso conto era quel­la autonomia della mia mano, e all'improvviso il prendere coscien­za che oramai scriveva per suo conto, mi dette uno spavento. Non era importante che sforzassi la mia mente; non aveva senso alcuno per me cercare di collegare le parole o le frasi, o fare in modo che i significati seguissero una traccia. Tutto avveniva per un meccanismo autonomo. Perciò presi a disinteressarmi della mano, del suo scrivere, dei suoi modi in fondo un po' monotoni, e dopo essermi accorto che era superfluo perfino il rimanere ad osservare il suo lavoro, girai lo sguardo su altre cose.

Con la mia mano sinistra avevo intanto cominciato a far gio­cherellare alcuni oggetti che si trovano li attorno, sulla scriva­nia, e con una matita un po' spuntata avevo disegnato qualche fio­re fantasioso. A un mazzolino stilizzato avevo poi infilato i gambi dentro un asimmetrico vasetto, e siccome quel disegno era carino, scrissi sotto, tanto per perdere del tempo, una dedica bur­lesca: "Per la donna che cercherà di amarmi senza tentare di capir­mi". Così facendo mi accorsi che lo scrivere con la mia mano si­nistra non risultava tanto male, e che quindi potevo andare avan­ti con tutt'e due le mani, scrivendo magari cose diversissime tra loro. 

Richiamata la sinistra all'ordine, visto che adesso aveva cominciato a giocherellare con le pagine di un libro, le feci apri­re un quaderno ancora nuovo che tenevo in un cassetto, ed iniziai, senza pensarci su due volte, a scrivere, con quella, alcune cose che mi passavano per caso nella mente. Mi concentravo anche parecchio su quella mia povera mano, ma al contrario della destra, che continuava tranquillamente per suo conto a vergar giù i propri discorsi, quella sinistra sembrava difettosa, lenta oltremodo, e le sue frasi apparivano scorrette, con i verbi spesso errati. Così smisi, spostando l'attenzione su altre cose, e in questo modo diedi un'occhiata involontaria alla scrittura della mano destra che continuava imperturbabilmente a stendere le parole sopra al foglio.

Allora, tanto per perdere del tempo, mi disposi a control­lare le parole leggendole al rovescio, e mentre proseguivo questa strana operazione, ecco che la mia mano sinistra, prendendo l'iniziativa per suo conto, cominciava di nuovo a scrivere e stavolta con estrema speditezza. Anche l'altra mano, a dir la verità, andava avanti un riga dopo l'altra, ma se devo essere sincero lo faceva molto lentamente, come se avesse delle difficoltà rispetto a prima, op­pure qualche impedimento di natura psicologica, forse emotiva. Decisi così di disinteressarmi del tutto anche di questa, non foss’altro che per vedere se ripartiva più spedita. Ma in quel frangente mi sentii improvvisamente la testa più pesante, un poco vuota, e senza sapere di preciso cosa fare iniziai a leg­gere, un po' distrattamente, i titoli e gli autori evidenziati sulle costole dei libri che mi stavano di fronte, ben riposti nel­la libreria.

Non so bene perché, ma concentrandomi su un libro più in ri­salto di quegli altri, o su una chiazza di colore o di scrittura stampata sull'esterno, mi fissai a tal punto e così a lungo, che alla fine, senza accorgermene neanche, mi assopii completamen­te, senza muovermi per nulla dal mio posto né da quella posizione. Dovevano oramai esser trascorse alcune ore quando decisi di svegliarmi dal mio strano dormiveglia; riaprendo gli occhi mi ac­corsi quasi subito di non essermi spostato di un millimetro, e che ancora ero rimasto ad osservare la copertina di quel libro colorato.  Le mie mani si erano fermate tutt'e due ed apparivano un po' stanche, tremolanti, senz'altro affaticate. Le ultime ri­ghe di scrittura risultavano fitte di caratteri, con le parole raccorciate, striminzite, rimpicciolite fino quasi a rendersi illeggibili. Probabilmente sarebbe stato interessante mettersi a leggere da capo quegli scritti cercando di penetrare a fondo gli argomen­ti e i fili logici di tutte quelle parti, ma ero ormai talmente stufo di rimanermene seduto nel silenzio di quella scrivania che la voglia di vedere della gente, di sentire dei rumori, di andare per le strade, era ormai diventato un bisogno da soddisfare con urgenza, a cui dare un credito immediato, senza nessun'altra intromissione. 

Ricomposi quindi quei fogli tra di loro e li infi­lai dentro un cassetto. Ero convinto che sarei andato a ripescarli il giorno dopo, forse quella sera stessa; e mi pareva che quel senso di curiosità che senz'altro suscitavano non sarebbe stato assolutamente accan­tonabile. Per forza sarei andato a riguardarli, ma solo quando avessi sentito dentro di me la pacatezza di cui c'era bisogno, la calma necessaria per studiarli, per capirne i passaggi più sottili, le piccolezze più introvabili.  Dovevo aver la mente sgombra, adat­ta a concentrarmi su quei fogli, su quelle serie di parole; dovevo attendere, aspettare con pazienza che il momento fosse giusto, e lasciare poi che il resto si snodasse per suo conto. Uscii in­somma, e tutto il mio ragionamento non mi tornò più a mente per parecchi giorni.

Soltanto alcune settimane dopo, mentre ero intento a ricer­care delle lettere, mi capitarono di nuovo tra le mani quelle car­te misteriose. Per un attimo stentai a ricollegare tutto quanto, ma rileggendo i primi fogli mi tornò a memoria tutta quanta la faccenda. La calligrafia era la mia, o almeno quella della mano destra, ma gli argomenti erano strani, un po' sconclusionati.  Si parlava dei problemi legati alle città, al caos continuo delle strade ur­bane, alle folle di persone che riempiono le vie; si diceva della gente che si sfiora sopra ai larghi marciapiedi, a coloro che si immergono in mezzo a questa folla, che amano perdersi tra i tanti. E si trattava di coloro che vivono soltanto tra la gente, e che si sentono da soli pur tra enormi assembramenti, ed anche se non possono astenersi dal cercarle, sembrano sperduti tra le decine di facce e di espressioni.

Poi, sempre di seguito, l'argomento diventava più intimista, e si trattava allora delle case, delle anguste abitazioni grigie e piccole, delle stanzette umide, delle pareti troppo bianche. E si diceva di tavoli puliti e dei mobili squadrati, delle finestre sempre semichiuse, dei piccoli rumori quotidiani di ordinarie abi­tazioni. E poi c'era una frase strana dedicata ai larghi spazi, ai grandi laghi e alla campagna sterminata; e ancora al cielo, al mare, addirittura all'infinito. Poi, all'improvviso, c'era un cambio di argomento, e la scrittura si faceva più minuta; le parole erano queste:

"Sei tu, adorata M., la mia vita, il mio respiro. Adesso tutto quanto attorno sembra girare come un turbine, ed io mi sen­to ossessionato dall'idea che tu possa fuggire, possa impaurirti dei miei modi. Forse appaio rozzo, forse lo sono veramente; e tu meriti senz'altro maniere deferenti.  E poi io non sarei assoluta­mente adatto per avvicinarti di persona, presentarmi con decoro, adularti in qualche modo. No, assolutamente. Il mio luogo è la penombra, il chiuso delle stanze, la solitudine profonda. Ed ecco, per pazzesco sortilegio, come dentro a questi luoghi io mi senta coraggioso e senza intimidirmi possa pensare di vederti, di incontrarti, di ammirare le tue forme. E mi vedo qua, di fronte, la tua figura esile, le tue espressioni deli­cate, la tua pelle fresca, profumata.

Forse le mie povere parole non ti fanno troppo onore, e appaiono anch'esse un poco troppo sciagurate. Ma i miei pen­sieri, credimi, sono ciò che di più intenso e maggiormente appassionato si possa immaginare. E continuo a rigirarmi nella testa l'idea pazzesca che io possa convincerti; della mia sincerità, del desiderio ineguaglia­bile che sento. E provo ancora quell'assurda voglia di essere capito e di veder compresi, una volta almeno durante questa vita, i miei slanci impossibili, le mie folli passioni. E non da tutti quanti; e nemmeno da qualcuno che conti più di altri. Solo da te, da quei tuoi occhi così intensi, da quel tuo viso così bello.

Vorrei osservarti di nascosto, attraverso lo spiraglio di una porta, vederti tra gli oggetti che più ami: i tuoi vestiti ben curati, i tuoi belletti sopra al mobile, davanti a quello specchio che ti osserva tutti i giorni. E ancora quella bambola se­duta sopra al letto, con la quale a volte parli, confidi i tuoi segreti, i tuoi tormenti, le gioie più irrefrenabili, senz'altro.

Guardandoti per strada ho notato tante volte la tua disin­voltura, le tue espressioni sorridenti; ed ho intuito, in quegli atteggiamenti, l'amore per la vita, il desiderio di raccogliere su te gli sguardi e le lusinghe. La tua bellezza è senza dubbio una concessione verso gli al­tri, un piccolo regalo per chi riesce ad apprezzarlo; per me, che ti ho sempre nei pensieri, oramai la stessa vita.

Giorni fa, da dietro alla finestra, ti ho vista divertita assieme a quel ragazzo troppo alto.  Parlavate di qualcosa, for­se di altri amici, di altre persone, probabilmente di locali e di ritrovi dove andate certe volte. Camminavate lentamente, con un passo dondolante, come di chi rimanga indifferente verso il tempo e verso gli altri. Da dietro le mie tende vedevo che quel tipo si volgeva spes­so verso te, e riferiva cose divertenti alzando le sue mani per spiegare, per essere più chiaro o per darsi più importanza. Tu ridevi molto, allargavi la tua bocca in dei sorrisi coinvolgenti ma continuavi ad osservare avanti a te come non dandogli troppa importan­za. Poi lui, sempre parlando, ti ha girato un braccio attorno ai fianchi, e allora tu hai mutato l'espressione del tuo viso, fin­gendo un poco d'imbarazzo.

Non credo che sia un tipo adatto a te quel giovanotto; certo, io non ho nessun diritto di parlarti in questo modo, però credimi, lo faccio soltanto per te, per il tuo bene. Lui allora si è subito ritratto, ma credo che il suo gesto sia ugualmente apparso del tutto fuori luogo, una gratuita liber­tà che assolutamente non doveva prendersi. Poi avete girato a un angolo, ed io non vi ho più visto. Sono rimasto dietro ai vetri a pensare ancora a voi, alla vostra passeggiata, ai vostri intenti. 

Sicuramente prendi in gi­ro tutti quanti. Ti fai beffe di chiunque ti corteggi, e ti la­sci accompagnare dappertutto, ridendo degli sforzi che si spreca­no per farti innamorare. Tante volte mi son chiesto se sia possibile che tu, almeno una volta o due, mi abbia notato; se ti sia resa conto, anche solo per un attimo, di essere osservata mentre passi dalla strada. Io, quan­do ti guardo, provo sempre il terrore maledetto di essere scoper­to, e allora mi nascondo il più possibile. Le poche volte che per caso ti ho incontrata per la strada ho sempre provato un tuf­fo al cuore non indifferente: ho comunque evitato di guardarti, mi sono voltato verso un'altra direzione, ed ho sofferto enormemen­te dentro me.

Spesso, da solo, io mi inoltro dentro certi luoghi pubblici, nei cinema ad esempio, in mezzo a tanta gente; e in questo modo, sprofondato nella semioscurità, mi trovo bene. Sono uno tra tutti quelli che mi circondano, sono in mezzo a loro, e nella sala quasi buia sia­mo tutti somiglianti. E i miei pensieri ondeggiano, si fanno pren­dere da un caso e poi da un altro, ma rimangono legati alle mie voglie, ai miei bisogni. Certe volte mi riconosco in qualcun altro, cerco di provare le sue stesse sensazioni, mi calo fino in fondo in quel diverso stato d'animo. E poi, subito dopo, come in seguito ad un sogno, ritrovo a poco a poco il mio equilibrio, le mie più personali sensazioni.

Mi sveglio, insomma, e son contento di aver colto un'esperien­za in più, di essermi imbattuto in qualcosa d'importante. Sono sicuro che è cresciuto il mio bagaglio, che sono un po' migliore, e tutto questo senz'altro mi giustifica. Altre volte mi concentro su qualcosa, su un evento, su un pensiero che risulta ossessionante. Ed osservo la gente attorno a me in una maniera talmente distaccata che è come se avessi la coscienza di non esserci. Non mi importa nulla di quel che gli altri possano pensare, e nemmeno mi interessa di apparire strava­gante e un po' bizzarro. La cosa più importante è il mio pensie­ro in quel momento, e tutto il resto al suo confronto diviene una sciocchezza.

Probabilmente assumo delle pose decisamente eccen­triche in tutti questi casi, e quando scopro che qualcuno mi os­serva incuriosito subito ritorno alla realtà e mi vergogno da mo­rire. Un uomo poi mi urta con un fare un po' sbadato, e forse mor­mora una scusa. Delle sue scuse a me non interessa: mi piacerebbe incenerirlo se fosse in mio potere. Ma mi sento bene, fingo indifferenza e lascio correre. C'è un caffè dove mi reco; mi siedo a un tavolino e penso a te. Tu arrivi lentamente, ti guardi attorno appena entrata e ti dirigi verso di me. Hai un passo leggerissimo, la faccia se­ria, incuriosita. Ti soffermi per un attimo continuando ad osservarmi, ed aspetti che ti guardi, che tolga gli occhi dal giornale.

Allora ti sorrido, ed anche tu sorridi a me. E poi ti sie­di, qua vicino, senza ancora dirmi niente. Il cameriere mi chie­de se ho bisogno di qualcosa. Glielo lascio ripetere due volte, e dopo dico che un aperitivo andrà benissimo. Tutto quanto trema forte, come grosse gocce d'acqua che stan­no per cadere. Forse è l'ora di andar via, di ritrovare le mie forze. Ma sulla strada tutto sembra ancora immobile: esattamente identico a poc’anzi".

Tutte queste parole che la mano aveva scritto adesso mi ap­parivano incredibili. I miei occhi erano presi da quei segni co­me fossero qualcosa di me stesso e su quei fogli sembrava fosse scritta la mia più profonda verità. Eppure in fondo non ero io quella persona che scriveva, e non avevo mai provato le sensazioni lì descritte. La calligrafia degli altri fogli era terribilmente tremolante, poco chiara, ed all'inizio anche le cose scritte là sopra erano confuse. Senz'altro era la mia mano sinistra che si era esercitata nello scrivere, e dopo alcune righe un po' insensate attaccava in questo modo:

"Ciao, piccola M.; lo so che mi guardi. Forse mi sorve­gli. Per il mio bene, senz'altro; affinché non mi accadano di­sgrazie, brutti incontri, che mi scivolino cattive idee dentro alla mente. Per tutto il giorno sono stato disturbato da uno stupido gruppo di bambini scorrazzanti. Proprio qua sotto, accanto a questa mia finestra. Adesso se ne sono andati via ed io riesco finalmente ad avere un po' di pace, una tranquillità di cui ho bisogno. Tu lo sai, comunque; senz'altro te lo immagini. Non devi credere a quello che riescono a inventare le per­sone. Sono cattive, tante volte, e hanno lo sguardo infido, mali­gno. Ce ne sono di quelle che pur di rovinare qualcheduno sono pronte anche a giurare come vere delle enormi falsità, invenzio­ni sciagurate spacciate per veraci. Che cosa possono conoscere, quelle persone, di qualcuno che per caso abita di fronte, o che incontrano per caso qualche volta? Nulla. Eppure quella loro fantasia si mette in moto in un momen­to e subito diventa un processo irreversibile. Parlano tra loro di nascosto e dicono cose irripetibili; oppure mormorano e basta lasciando immaginare tutto il resto. Non tengono conto delle personalità, della natura, delle tempre differenti al loro modo d'es­sere; e il loro impulso è dato solo da quella gran malignità che li corrode. I fatti più innocenti, in quelle bocche, diventano terribili, e quelle labbra mostrano espressioni soddisfatte al solo costruire pazzesche insinuazioni. Ma tu lo sai benissimo,sai perfettamente tutto quanto ciò che dico. E ti tie­ni alla larga, il più possibile, da quel genere di gente.

So bene quanto cerchi di proteggere anche me; lo so che tu ci pensi, che spesso ti preoccupi. E qualche volta vai a cercar­mi, chissà dove, per le strade, o in quei locali rumorosi. E ma­gari poi mi trovi, e allora ecco che io cerco di sfuggirti un'altra volta. Ma tu subito insisti, e mi porti assieme a te, da qualche par­te, e mi prendi per la mano, mi conduci verso casa, in fretta qualche volta, probabilmente perché è tardi, e non possiamo litigare sull'orario, che deve essere preciso, definito, soprattutto rispettato. Ed io lo so che è giusto, e so perfino che non devo andare mai contro alle regole, e rispetto senz'altro certi ordini, mi ci attengo quasi alla lettera, quand'è possibile, lo sai benis­simo. Ma c'e' sempre qualcuno che mi guarda, che mi osserva, a cui probabilmente non vado proprio a genio. E vorrebbe cancellarmi dalla vista, sgrana gli occhi, si concentra sui miei modi, sugli atteggiamenti, e mi dispone ad uno stato d'animo affannato.

Probabilmente mi comporto in modo poco naturale, gestisco male qualsiasi contegno tenti di tenere, e alle volte ecco che tutto quanto mi sfugge dal controllo. E allora scappo, penso di essere braccato e mi pare che ciascuno, tra quelli che mi guar­dano passare, abbia qualcosa da rimproverarmi. In fondo tutto ciò appare proprio una stranezza. Perché so bene di esser sempre benvoluto da chiunque mi conosca; e so an­che che ci sono alcuni amici che mi vogliono un gran bene. E so­prattutto ci sei tu, sempre protesa verso di me, sempre pronta a preoccuparti dei miei guai. Ma ho paura ugualmente, tante volte. Mi sembra di provare una vertigine dei sensi.

So con certezza che qualcuno sta riden­do alle mie spalle. Ed ha passato voce a tutti gli altri. Mi cercano, tentano di mettermi al corrente di ogni cosa. Certamen­te per gustare il mio tormento. Ed anche questa è un'altra enor­me cattiveria. Peraltro anch'io mi trovo in giro per cercare una persona. Una persona che non so, che non conosco. Ma c'è, quella persona, esiste senz'altro, un po' più avanti, forse laggiù, dietro quell'angolo. Ma tutti san­no già ogni cosa, hanno già capito. E allora ridono, sogghigna­no, si fanno beffe delle mie sdolcinature. Credono che sia un sentimentale e dicono di certo che sono buffo. Ma io li frego tutti a un certo punto. Pensino pure che io sia solo un gran vi­gliacco. Posso dimostrare quando voglio che tutto questo non è vero. Ho una gran forza dentro me e riesco ad essere persona più di tutti.

L'individuo che io cerco è quel qualcuno a cui saprò chia­rire ogni particolare; capirà da sé, probabilmente, senza biso­gno che mi inerpichi a spiegare la mia vita. Basterà uno sguardo, un'occhiata approfondita, e neanche una parola dovrà uscirmi dalle labbra. Sarà notevolmente sufficiente ciò che sono, ciò che cer­co attorno a me; i miei pensieri diverranno una sciocchezza nei confronti delle azioni, dei gesti che io compio tutti i giorni. Quasi subito dirà che non c'era alternativa, che era impossi­bile che io fossi differente. Confesserò che spesso una paura insidiosissima si insinua con facilità nella mia mente: ho paura di me stesso, della mia capacità di essere illogico, estremamen­te irriflessivo. Ma lui dirà che era già chiaro, era evidente dall'inizio, tutto quanto, non c'è assolutamente di che meravi­gliarsi. Gli stringerò la mano, avrà ragione di parlarmi in que­sto modo, gliene sarò riconoscente.

Non sei tu quella persona. O forse si. In ogni caso puoi aiutarmi a trovarla, far si che essa ci sia. Io mi guardo attorno di continuo e a volte c'è qualcuno che mi osserva in modo più bonario. Allora gli sorrido, mi avvicino un po' di più, gli chiedo se vuol prendere un caffè in quel bar poco lontano. Camminiamo con lentezza, mi racconta di un problema che si trova ad affrontare e mi chiede di che cosa io mi occupi. Mi sen­to preso alla sprovvista, invento qualche cosa su due piedi e in­tanto entriamo nel locale. Lui conosce qualcun altro, sorride salutando, e poi inizia a chiacchierare con gran naturalezza. Mi sento preso in giro, tutti quanti rideranno dei miei modi appena sarò uscito. Mi guar­do attorno dentro al bar per trovare qualche faccia di fiducia. E vedo te.

Ti guardo fissa per mostrarti che ci sono, che sono qui. Ma tu mi sfuggi, ti trattieni pochi attimi e poi esci dal caffè. Allora, in grande fretta, esco anch'io, ti vengo dietro; ma sul­la strada non ci sei, sei già sparita. Allora corro fino all'an­golo, poi arrivo fino all'altro. Fa caldo e la mia fronte è già imperlata di sudore. Ti troverò, devo trovarti, e non importa se dovrò pentirmene".

 

Tutto quanto era incredibile. Mi dava quasi il senso di uno scherzo. Quei fogli in qualche modo definivano qualcosa, descri­vevano qualcuno, e chiaramente ero io stesso quel qualcuno. Ma tante cose erano strane, poco chiare. Pur non ritrovandomi per nulla in quelle frasi eppure in qualche modo erano mie, io lo sa­pevo, mi appartenevano. Mi sentivo enormemente infastidito dal dover formarmene un parere. Era impossibile parlare di quei fatti con qualcuno, perciò dovevo farmene un'opinione in completa solitudine. Ed il senso di quei fogli era invischiante, non riuscivo in nessun caso ad essere obiettivo; ed anzi, più di tutto ero impaurito dalla possibilità di esserne succube. Mi pareva che in futuro avrei pensato quelle cose, avrei com­piuto quelle azioni, avrei seguito quel copione; e mi sarei ade­guato a poco a poco al senso di quei fatti lì descritti. E tutto questo era terribile.

 

 

 

 

 

Novembre

 

Mi sono concentrato su di un punto, giorni fa. Era lon­tano, ed ho provato ad osservarlo senza mai distogliere lo sguar­do. Dentro di me provavo delle strane sensazioni. Poi ho visto salire il pennacchio di un gran fumo. Ho pen­sato ad una nuvola un po' bassa, ma forse, più probabilmente, era un incendio. C’era un fuoco, entrato chissà come in un pagliaio di quelli enormi, o in una casa di famiglia contadina. Due o tre uomini piccoli e ridicoli che coi secchi si davano da fare, inutilmente. Crepitando a dismisura tutto quanto finiva divorato in pochi attimi. Ed ho pensato che ero io, con il mio sguardo, con il mio sem­plice osservare. Ed ho creduto che nel punto preciso sul quale mi ero concentrato nascessero le fiamme; il mio sguardo in quel momento inceneriva, portava distruzione.  bastava che mi concentrassi, un po' di decisione, un atto risoluto di profonda volontà, e il resto succedeva senza altre necessità.

Sorridevo nel sentire le urla disumane, nel vedere la gen­te che correva dappertutto.  Qualcuno urlava: ancora acqua, altri allontanavano i bambini che piangevano; e tutti quanti non capivano, non riuscivano a spiegarsi le ragioni del disastro. C'era un palazzo alto quasi quattro o cinque piani, e le fiamme tutto intorno, dalla strada fino alla cima. E poi una nave, bella, gran­de, quasi ferma. E all'improvviso una vampata dal didentro. Uno scoppio in sala macchine e le fiamme dappertutto. E subito in un attimo la crociera è già tragedia. Una giusta epurazione, una pronta pulizia. Era improbabile che qualcuno si salvasse, pensavo. E no­nostante tutto quelli ci provavano, dalle murate giù nell'acqua, e le scialuppe subito approntate. Ho pensato che era inutile, che li avrei colti dovunque, ma poi sono rimasto poco attento agli sviluppi. E da una barca hanno remato il più possibile, e si sono avvi­cinati verso me. Allora ho visto che all'interno si era sistema­ta tanta gente: soprattutto donne, ma anche uomini, e con loro c'erano i bambini che tremavano dal freddo.

Forse avevo pena di quei naufraghi, ma ugualmente ero irri­tato da quel loro salvataggio. Dovevano soffrire il più possibi­le, respirare l'illusione della terraferma già vicina, immaginarsi di raggiungere le case, i propri oggetti, i familiari tutt'intorno. E loro a raccontare la sciagura, e di aver perso una collana, o la tranquillità. Sonni agitati, tutte le notti, a riveder da­vanti quelle scene di tortura. Ed ecco il mio verdetto: la sofferenza quotidiana per chi crede di aver tutto, sia nella semplicità che nel benessere.  E nel palazzo le fiamme alle finestre e la gente che impazzisce. Altri che accorrono, affollano le strade tutt'attorno. E cercano magari di qualcuno, e si accalcano, si torcono le mani. E al­lora un crollo, all'improvviso, ed il palazzo che vien giù, che seppellisce tutti, che soffoca le voci. E anche la barca all'im­provviso che si rovescia, ed i bambini sono i primi che spariscono sott’acqua.

Tutto è pagato con il prezzo pattuito. E anche l'amore, quell'amore che donavano con generosità, che ricevevano da altri, che scambiavano tra loro, con il massimo di impegno; anche quello è seppellito, scompare tra le fiamme o in mezzo alle onde, assieme ai corpi nudi.

 

 

 

 

 

Giuqno

 

Questa notte ho sognato di mia madre.  Del sogno non ricordo già più niente, se non la sua espressione, la sua faccia che insi­steva nel guardarmi. Poi, durante il giorno, camminando, ho ripensato agli occhi freddi, inespressivi, e a quel suo modo di par­lare. E ho immaginato che giungesse all'improvviso una sua tele­fonata. Avrei voglia di vederti, di averti un po' con me, ha subito detto. Ed io, senza volerlo, ho cominciato ad agitarmi. C'è di vero che lei usa un sacco di aggettivi quando parla, e non si sa mai bene i suoi soggetti quali siano. E poi non è mai chiara, non si capisce fino in fondo ciò che vuole.

All'apparecchio ho preso tempo, e mi sono subito inventato qualche cosa:  di me non ho detto quasi niente anche se lei insi­steva per sapere. E ci sono molte cose che ancora devo sistemare, molte persone a cui ho promesso di parlare, e in questi giorni devo ricambiare dei favori.  Praticamente ho continuato a dirle queste cose, ma tenendomi sul vago, decisamente sul generico. Mi divertivo a immaginare una telefonata di quel genere, co­si la prolungavo a dismisura. Le parlavo soprattutto della mia vita sociale e di come passo le giornate, perché di questo soprat­tutto lei si interessa.

E a un certo punto mi sono impappinato e non ho saputo più spiegarmi su non so quale faccenda, e allora si, capisci, certi impegni, alcune cose che risultano impellenti. E lei ha subito detto che non è proprio possibile che io abbia sempre dei segreti, che attorno a me ruotino sempre tante cose da sbrigare. Sei sem­pre impegnatissimo, ha detto, ma non si sa mai bene in quali cose.  Forse se si lascia passare qualche giorno ho un po' di tempo, ho risposto, non pri­ma di due o tre settimane. No, assolutamente, prima no.

Che bella idea quella di avere un appuntamento con mia ma­dre. Al solo pensiero mi rallegro. Come tra due innamorati, tro­varsi in quella piazza, quella solita, accanto al monumento.  Di sicuro non vorrei apparire incerto, far vedere che qualcosa mi impaurisce. Così lo fisso io l'appuntamento, ed immagino di dir­le per telefono di avere una gran voglia di vederla. In realtà non è che mi va troppo di ceder facilmente; non vorrei dargliela vinta, mi piacerebbe che insistesse. Ma lei cambia discorso e mi parla all'improvviso di altre cose e di un parente che neppure mi ricordo;  e poi dei suoi malanni, della casa da risistemare, e di altri fatti un po' confusi.

Se ricevessi veramente una telefonata da mia madre vorrei che non facesse le sue stupide allusioni, i suoi giri di discor­si che non approdano mai a nulla. E poi quell'incredibile maniera di tirarmi fuori tutto senza neanche chiederlo; e ancora i suoi consigli, quelli forniti dal buon senso, dalla sua maggiore età. Tutte cose che non riesco in nessun modo a sopportare. Negli ultimi tempi, prima di morire, sembrava solo preoccupata della mia maturità, che non fossi cresciuto a sufficienza, e continuava ad osservarmi di nascosto, a guardare le mie mani. Al telefono le ho detto che curo le mie unghie, le taglio sempre, con regolarità; non le rosicchio con i denti, stai sicura, quello è un vizio del passato.

Ciò che vorrei più di ogni cosa è che non si preoccupasse così tanto, che mi desse più fiducia. Continuo a dirle in ogni modo di sentirsi più tranquilla, di stare rilassata. Non farei mai qualcosa che potrebbe dispiacerti, le ripeto spesse volte, ma le mie assicurazioni non giovano quasi mai. Non mi piace di vederla rassegnata, sentire i suoi sospiri per telefono men­tre cerco di spiegarle qualche cosa. E poi, chissà perché, ogni volta che la sogno, il giorno dopo non ricordo quasi nulla;  al mio risveglio quelle cose che ho in­travisto nella notte, tutti i fatti, i personaggi della mente, se ne fuggono veloci. A malapena mi ricordo che c'è stata, che era qui, da qualche parte, e forse mi guardava, mi diceva qualche cosa.

Ad un tratto la comunicazione si è interrotta;  forse un guasto sulla linea, mi è venuto di pensare. Ed io, come uno scioc­co, sono rimasto a rigirare l'apparecchio tra le mani. Dopo ho riattaccato la cornetta, ho fatto due o tre passi nella stanza e mi è venuta voglia di svagarmi, di impegnarmi in qualche cosa per trovare un po' di calma. Allora sono uscito, sono andato a sedermi a un tavolino di un caffè ed ho iniziato ascrivere una lettera. Questa:

 

 Cara, dolcissima Lietta. Mi sono seduto a un tavolino di un caffè all'aperto, oggi, accanto al viale che costeggia il lago. Ero da solo e mi sono fatto portare una spremuta di arance. Vicino, a un altro tavolo, due ragazze continuavano a ridere e a parlarsi e a me sembrava quasi di divertirmi assieme a loro. Ridevano, scher­zavano, senza l'ombra di un pensiero che fosse stato solo appena triste. E a me pareva di vederti, e di essere noi due quelle ra­gazze, e di giocare a ridere di niente, come abbiamo fatto qual­che volta.

In qualche circostanza sono colto da pensieri strani. Ho quasi l'impressione che tutto quanto abbia preso una sua piega, che mi stia come sfuggendo dalle mani; a volte credo di aver perduto ogni controllo razionale su ciò che mi succede: certi giorni sono triste perché non riesco ad essere nella maniera che vorrei, in altri mi convinco del contrario, o che probabilmente non sarei potuto mai essere diverso. In qualche occasione sono felice della mia sensibilità, della mia profonda inclinazione a lasciarmi trascinare dagli eventi, e della mia bravura nel vibrare in simpatia con ciò che vibra at­torno a me. E poi, subito dopo, mi viene a mente una profonda verità: nella mia vita sei tu la persona più importante, quella che io amo; eppure non riesco a creare le dovute condizioni per dividere questa vita assieme a te. Oscillo di continuo, in un assurdo equilibrio poco stabile, tra la voglia continua di veder­ti, di averti qui con me, e il mio bisogno esasperato di esser solo, di trascinare le giornate in solitudine.

Sarei felice assieme a te, sono sicuro; ma una parte di me respingerebbe questa gioia. E nonostante ciò le mie giornate ades­so sono tristi, e mi sento come vuoto senza te. Però sarebbe bello che tu mi raggiungessi;  provare, noi due soli, ad inventarci un'esistenza, a migliorare tutti i gior­ni la nostra grande intesa. Siamo sensibili noi due, ci rallegria­mo anche per cose ininfluenti. E il nostro amore, la tua dolcezza, la mia esasperata voglia di esistenza, farebbero un amalgama in­credibile. Ma poi penso che non ho nessun diritto per proporti queste cose. So benissimo che tu, pur faticosa e a volte ingrata, hai la tua vita, la tua casa, le tue piccole preziose occupazioni. E so altrettanto bene che con me, in fondo in fondo, avresti meno da spartire che con le tue tante fantasiose attività.

Di sicuro sarebbe complicato, impegnativo, estremamente fati­coso cercare un equilibrio tra le nostre personalità così parti­colari; forse sarebbe inevitabile, che so, scoprire dei recipro­ci difetti che adesso non appaiono, o che non sono in questo at­timo del tutto rilevanti. Forse, continuando nel mio gioco delle ipotesi, è possibile che i nostri sentimenti si verrebbero a scontrare con la volgari­tà dell'esistenza quotidiana, con le piccole stupide cose di ogni giorno. Fatale sarebbe riscontrare, al di là del grande impegno, che un amore così forte, così grande, generoso, si piega a poco a poco sotto al peso di ovvietà, faccende stupide, monotoni pro­blemi. Non vorrò mai raggiungere quel punto; preferisco immaginarti pura, al di sopra di ogni cosa, quasi statuaria. Ed accettare questo assurdo: amarti da lontano pur avendoti continuamente qui, nei miei pensieri.

 

 

 

 

 

Settembre - Primi giorni di Ottobre

 

Da poco più di un mese ho un piccolo lavoro che mi permet­te di occupare un po' di tempo. Mi reco nello studio di un no­taio, due pomeriggi a settimana, e ne disbrigo la corrispondenza. A volte mi trattengo anche più del necessario ed approfit­to, quando il notaio non c'è, per mettermi a guardare tra i suoi libri, lo schedario, le sue pratiche. Lo studio è molto grande e si affaccia sulla strada princi­pale del paese. Certe volte osservo le persone che camminano o che parlano giù sul marciapiede, e mi perdo tra le facce, le e­spressioni, i modi di vestire. Dall'altra parte della strada c'è un palazzo: niente di speciale, colore indecifrabile, aspetto decoroso, alcune file di finestre tutte uguali. Eppure quella povertà di stile, quegli allineamenti elementari, orizzontali e verticali, hanno in sé qualcosa di curioso.

C'è una fila di finestre che rimangono regolarmente chiu­se; dietro alle altre si muovono e si affacciano persone, uomi­ni e donne, qualcuno per chiudere le persiane, altri a spalancare i vetri quando è caldo. Ci sono poi delle signore, di solito di età più che matura, che rimangono affacciate per metà del pomerig­gio e scrutano il passaggio della gente sulla strada. Delle vol­te, abbastanza raramente, salutano qualcuno che conoscono, in altri casi si mettono a parlare coi vicini.

Ma le finestre maggiormente interessanti rimangono quelle regolarmente chiuse. Soltanto una volta mi è capitato di vederne aper­ta una di quelle. Ero arrivato da poco nell'ufficio e mi sono accorto su­bito che qualcosa era diverso. Stava li, con le persiane aperte, i vetri un po' accostati. Per qualche istante sono rimasto ad osservarla, poi dovevo sbri­gare del lavoro e così mi sono concentrato sulla posta da spedire. Quando sono tornato a riguardarla era già chiusa, ed io non avevo visto proprio niente, neanche le mani della persona che era andata a manovrarla.

Allora ho cominciato a prender degli appunti su tutti i mo­vimenti delle persone del palazzo. Dapprima su foglietti che ri­piegavo nelle tasche, poi su un registro più preciso, con i fo­gli quadrettati. Sulla prima pagina scrivo l'ora e il giorno in cui avvisto le persone: alle finestre, nelle stanze che riesco a intravedere, mentre escono o entrano dal portone principale del palazzo. Nella seconda pagina riporto invece una sommaria descrizione dei vestiti, dei capelli, e tutto ciò che mi colpisce dei personaggi da osservare. In poco tempo mi sono fatto un quadro un po' più chiaro su tutti i residenti del palazzo.

C'è molta gente che si reca da qualcuno per un semplice salu­to;  ce n'è altra che va a far le pulizie. Ma tutti questi sono con facilità riconoscibili. Procedendo a tentativi riesco pian piano a ricomporre le fa­miglie, ad assegnare ad ogni persona il proprio appartamento, ad inquadrare precisi vincoli di parentela. E mi scopro estremamente interes­sato, mentre mi impegno nel redigere il mio registro, a relazio­nare tra di loro tutti i dati che raccolgo.

Sono cosciente di trovarmi sul principio di un lavoro che per dare qualche frutto deve svolgersi su un arco temporale mol­to lungo, ma questo, invece di annoiarmi, mi procura nuova carica. E poi gli scopi di un impegno come questo vengono fuori un po' per volta; mi incuriosisco enormemente a studiare le differenze di comportamento nei confronti delle fasce orarie, o in relazione ai giorni della settimana. Sarà stupendo, penso, registrare il rapporto di ogni fatto con i mesi, con il clima, con le stagioni che continuano a succedersi tra loro. Ogni volta che riprendo in mano il mio registro mi sembra sia carente di qualcosa, e allora aggiungo pagine, colonne, nuo­vi dati che mi sembrano del tutto indispensabili. E vado avanti senza fretta, senza mai stancarmi.

Sono sei giorni che ho notato le finestre. Stanno lì, ri­mangono perennemente chiuse mentre quelle degli altri appartamen­ti sono aperte. Ed io mi chiedo come mai, quale può essere il motivo. Agli altri piani del palazzo tutto appare regolare, nep­pure degno d'attenzione. E lì, dietro a quei vetri, alle persiane chiuse, sicuramente accade qualche cosa, sono sicuro. Qual­cosa che non riesco a immaginare, ma su cui rifletto di continuo.

Che siano stanze non usate è una teoria sicuramente da scar­tare. Sulla sera, quando fa scuro, si intravede della luce elet­trica all'interno. Qualcuno c'è, si muove, fa qualcosa, forse sta seduto, non lo so; eppure è lì, senz'altro, e non apre le finestre per non essere visto. Lavorando ad esclusioni con il mio registro ho quasi la cer­tezza che l'appartamento sia abitato da un signore che si nota raramente: brizzolato, cinquantenne, distinto nell'abbigliamento, nessun particolare di rilievo.  Stasera, per la prima volta, si è affacciato a una finestra. Voleva guardare qualcosa giù in stra­da, ma io non ho capito cosa. E' stato giusto un attimo. Ha scan­sato le tende quel tanto che bastava ed ha manovrato la finestra. Poi ha richiuso tutto.

Della stanza non ho visto quasi niente. Potrebbe essere un soggiorno, ma può darsi che mi sbagli. Una persona di quel tipo comunque non può vivere sola. C'è qualcuno lì con lui, e forse lui tiene nascosto quel qualcuno. Forse c'è un segreto attorno a quell'appartamento, qualcosa del quale il vicinato bisbiglia di nascosto, le signore perbene sicuramente nomineranno quell'appartamento solo di sfuggita, im­magino, facendo magari finta di arrossire. Qualcuno poi si scal­da attorno all'argomento, e dice forte: è una vergogna, trovando tutti consenzienti. Io per mio conto rimango qui ed osservo. Succederà qualco­sa, sono sicuro, sono qui che sto aspettando.

 

Oggi, a distanza di altri giorni, si è aperta nuovamente. La finestra intendo, mi sembra chiaro. E' una splendida giornata, una temperatura tiepida; c'è molta gente che cammina sulla strada e alcuni stanno semplicemente passeggiando, godendosi le ultime giornate di bel tempo prima dell'autunno vero e proprio. Io sto qui e non penso niente. Svogliatamente mando avanti il mio lavoro e pare che niente mi riguardi. Nulla mi interessa veramente, se non queste sciocchezze, quest'osservare le persone che si muovono, camminano, parlano tra loro. Sono sicuro che vor­rei essere così, come sono tutti, ma ho la coscienza che pur pro­vandoci difficilmente riuscirei a fare una replica del modello che mi sfila sotto agli occhi.

A volte mi vergogno di me stesso. Mi sento quasi un ladro. Di quel parlare, quel muoversi, quel vivere degli altri che conti­nuamente ho qui davanti; e che continuo ad osservare, con invidia, come rapito. Stendo un registro di comportamenti, come un com­pendio basilare di modi di essere a cui posso rifarmi, da cui deb­bo imparare.

Esiste un fluire della vita che non conosce sbalzi e dove tutto torna come logica conseguenza di ogni fatto precedente. Nelle mie giornate pare che avvenga proprio il contrario.  Tutto si assopisce in un grigiore diffuso, senza contorni definiti. Una omogeneità di cose, un'uguaglianza di momenti e di giornate che a volte è quasi sconcertante. Fino ad esplodere, all'improvviso, in colori accesi ed ac­cecanti, chissà perché, durante dei momenti casuali e inaspettati, e le immagini lente e accomodanti di ogni giorno cedono il pas­so a un qualcosa che va via veloce, a un martellare rapido di idee e di sensazioni incontrollabili. Avviene qualche cosa, scatta un meccanismo sempre differente a cui non posso non dar seguito.

Si è aperta, dicevo, lentamente, senza che nessuno se lo po­tesse immaginare. E si è affacciata una signora bionda di capel­li, bellissima mi è parsa, che è andata ad appoggiarsi sopra al davanzale con lentezza, come se si fosse svegliata allora da un gran sonno. Non l'avevo mai veduta, sono sicuro, dal mio registro non risulta niente, e poi me ne sarei ricordato di certo. Nel sussulto che ho provato ho scostato la tenda per vedere con più agio e son restato li, ad occhi sgranati.

Lei rimaneva appoggiata dolcemente al davanzale, osservando senza curiosità apparente qualcosa sulla strada, laggiù in fondo. Stava lì, coi suoi capelli biondi, senza interesse per la gente, per i movimenti delle persone che continuavano a parlare e a cammi­nare. Ed io ero rapito. Poi, ad un tratto, ha avuto un fremito, una sottile vibrazio­ne che ha come percorso in un solo momento quel suo sguardo indiffe­rente; e forse per uno scatto di improvvisa stizza, per uno sbal­zo d'umore fino ad allora contenuto e poi sortito fuori rapido e immediato, si è voltata di colpo verso l'interno della casa, ritirandosi in un modo quasi sgarbato, come con una rabbia ormai impossibile da soffocare appieno, ed ha richiuso la finestra sbat­tendone con forza le persiane.

Qualcosa, sopra al davanzale ormai deserto, è rimasto ancora per un po' a guardarsi attorno, come se la sua espressione ne aves­se prolungata la presenza, e poi, come un vapore uscito fuori d’improvviso da un triste vicolo buio e soffocato, è andato len­tamente sfumando d'importanza, lasciando nell'aria una strana atmo­sfera come di sfida, o forse di coraggio, di tentazioni superiori alla più impegnata volontà rinunciataria, disappetente, disinteres­sata. Una malcelata gradazione di femminilità incontaminata ha con­tinuato insomma ad aleggiare attorno alla finestra, e poi si è dileguata, lasciando nei miei occhi un'impronta di sé precisa e incontrollabile. Un vuoto tumultuoso insomma.

 

La signora bionda, bella, elegantissima, è uscita l'altro ieri, da sola, verso le ore sedici.  Sono stato veloce e prima che lei si nascondesse tra la gente o dietro a un angolo di strada poco lontano, sono riuscito ad indossare il mio soprabito e a incam­minarmi sui suoi passi. Pensavo di seguirla, non so perché, per quale stupida curio­sità, però dovevo farlo, e mentre riflettevo sui motivi ero già li, dietro di lei, in preda ad una grande agitazione. Mi senti­vo enormemente imbarazzato sul principio, come se la gente che incontravo per la strada già sapesse o leggesse sul mio viso quel comportamento cosi scorretto, vergognoso.

Si procedeva piano, con sufficiente calma, osservando qua e là qualche fermata doverosa davanti a dei negozi, ad ammirare le vetrine promettenti. Usavo continui accorgimenti per non farmi notare dalla signora, e in ogni caso mi tenevo a una distanza di parecchi metri da lei.  Qualche volta si traversava la strada pres­so un passaggio pedonale, e in alcune altre occasioni si indugia­va molto prima di decidersi per una direzione o per un'altra.

Le strade percorse erano le solite di sempre, le conoscevo bene; eppure adesso mi apparivano diverse, ed io mi sentivo uno straniero, uno che per la prima volta visita dei luoghi a lui completamente sconosciuti. E poi desideravo più di ogni altra cosa che nessuno mi notasse, e allora mi facevo piccolo, insignificante. E forse ci riuscivo, ma qualcu­no di certo mi spiava e acuiva la sua vista dietro a degli occhia­li scuri. Non sfuggivo a quegli sguardi trasversali, lo sapevo, ma adesso quasi non mi interessava ed anzi li sfidavo e forse dentro me avrei voluto fare lo spavaldo, il temerario. Mi sarebbe piaciuto ridere di tutti, ostentare sicurezza e andare avanti risoluto, però in fondo avrei comunque continuato a vergognarmi.

E poi tanti pensieri mi investivano. Era come se un impulso dentro di me, del quale non avevo mai subodorato la presenza, si fosse d'improvviso messo a funzio­nare e di colpo mi trascinasse attraverso dei circuiti mentali che riconoscevo senz'altro come miei, ma che adesso risultavano attivati in una maniera che ne stravolgeva anche le funzioni più normali, anche le attività più sedimentate. Sopraggiungevano den­tro al mio cervello delle idee particolari, delle riflessioni strane intorno al mio comportamento.

Sapevo che funzionava in me una strana e superba vo­lontà la quale si faceva ansiosa di inglobare dei particolari le­gati tra di loro in modo anomalo. Elementi che come tratto comu­ne avevano il solo fatto di scuotermi completamente, di trascinar­mi ai limiti del normale comportarsi;  ed essere comunque inevi­tabili, fatali. Non potevo fare niente, era impossibile resiste­re, la mia sensibilità era attivata e stimolata al massimo.

Agiva questa volontà superiore, questo superomismo tutto mio, privato, racchiuso dentro a un angolo di me, della mia parte di personalità più sconosciuta. E questo nucleo di risorse si ser­viva dei miei sensi per raggiungere i suoi scopi, ed anzi in me tutto appariva più scattante, più veloce, potevo contare su un incredibile potere.

Mi colse una vertigine, per qualche attimo, forse addirittura per alcune decine di minuti, e mentre non riuscivo più a collegare perfettamente la realtà con il mio turbine avvolgente di pensieri, mi sembrava di essere al centro di qualcosa, come se tutto ciò che si muoveva vicino a me ruotasse intorno a un ideale fulcro, ad un fuoco geometrico in cui tutte le linee esattamente confluissero. Poi feci forza su me stesso, riacquistai le mie capacità analitiche e mi concentrai profondamente sul mio scopo.

Adesso avevamo rallentato e ci eravamo introdotti per alcune stradine nella parte vecchia del paese, dove un pungente odore d'umido sembrava ristagnare. Ad ogni angolo, quando lei spariva alla mia vista, mi sentivo improvvisamente abbandonato, ed allora avanzavo velocemente, a volte anche di corsa, fino a superare la barriera e ritrovare quella vista confortante, le sue spalle, i suoi capelli d'oro.

Poi, non so perché, mi ritrovai quasi accanto a lei, forse addirittura troppo vicino.  Eravamo soli, solo noi due. Si era accorta di me, ne ero sicuro; ed incredibilmente io ne ero contento. Non mi importava più di niente, o di nient'altro. Che lei si accorgesse di me, solo di questo mi importava. Che girasse quel suo viso leggermente da una parte, e sorridendo desse un'occhiata a chi era interessato solo a lei. Avrebbe potuto soffermarsi un attimo a cercare qualcosa nella sua borsetta, aspettando che io la superassi, pensavo. Oppure poteva lasciar cadere a terra qualche cosa con un sapiente sorriso di piacere.

Mi voleva dietro a sé, mi voleva lì ai suoi piedi, come uno schiavo di ogni suo capriccio. Forse si fermava, e tirando len­tamente su la gonna sistemava il reggicalze appoggiando il piede su un gradino. Senza fiato, ecco; immaginando tutto questo oramai io ero senza fiato. E volevo che avesse verso di me delle attenzioni, degli atteggiamenti dolci, che mi rassi­curasse insomma. Passando carezzava lievemente uno spigolo di muro sapendo bene che io ero li, che la guardavo. Era per me, quella carezza, ne ero sicuro.

Mi sembrava di non riuscire più a procedere ed allora mi fermai, ma solo un attimo. Lungo la viuzza si aprivano alcune volte ad arco che immettevano in dei cortili interni. Nei cortili, lun­go la viuzza, in tutta quella zona le case erano vecchie, popo­lari, dai colori indecifrabili. Che cosa facevamo li, mi chiedevo, perché eravamo andati in quelle strade, non era più una passeggiata. Affondavo le mani nelle tasche, come a cercare qualche cosa. Ma non trovavo nulla, non trovavo spiegazioni, e lei andava più piano, rallentava il passo mentre il mio cuore martellava. Andava da qualcuno, forse un parente, forse un'amica: ma co­me era possibile? La stavano aspettando, mi aveva preso in gi­ro, non erano per me le sue carezze. C'era un amante là, da qual­che parte, in una casa vecchia, buia, umida. Un amante che le faceva dimenticare tutto quanto, il luogo, il letto sfatto, i pan­ni stesi fuori ad asciugare. Rifiutavo quell'idea, mi opponevo con tutte le mie for­ze, però era così, non c'era dubbio. Ad un tratto avanzai quasi di corsa e la bloccai sotto ad un arco.

Se io non l'avessi già previsto lei avrebbe gridato, sono sicuro. Così le tenevo le mani sulla gola, quella gola bianca, così ben fatta. Però aveva un modo aggressivo di guardarmi. Il suo sguardo era cattivo, non era dolce come mi ero immaginato. Forse nei suoi occhi c'era del disprezzo. Si, mi disprezzava, disprezzava la mia faccia, i miei modi, la mia espressione.  Disprezzava quello che facevo, in qualsiasi modo io l'avessi fatto. E disprezzava tutto di me, le mie mani, i miei capelli troppo lunghi o troppo corti, o pettinati male: nien­te ormai le andava bene.

Tremavo, pietrificato da quel suo disprezzo. La odiavo, però era così bella. Stringevo, la stringevo a me, sapevo che sarebbe stata mia. Forse anche lei mi voleva, si, era così, ne ero sicuro.

Stava morendo mentre le stringevo la gola, ma io non volevo che morisse, volevo soltanto una briciola della sua dolcezza, della sua comprensione. E invece lei mi disprezzava. Si dibatteva, voleva sfuggirmi, e invece soffocava, soffocava di tutto il suo disprezzo, quello stupido disprezzo verso me, che non le avevo fatto niente, che vo­levo solo essere dolce, comprensivo.

In giro non c era nessuno, e lei non si muoveva più. Allora le accarezzai i capelli, il viso, le toccai anche i fianchi e anche le cosce. Poi la possedetti. Con infinito amore però, baciandola, sussurrandole all'orecchio cose dolci. Poi fuggii.

Non so dire per quale ragione adesso scrivo queste cose, che rimarranno comunque dentro al mio cassetto. Tanto più che probabilmente è stato tutto come un sogno, una specie di vertigi­ne o visione che mi ha catturato all'improvviso e mi ha lasciato esausto, senza forze. Non ci sono spiegazioni; non ce ne possono essere.

Quelle finestre comunque, proprio di là dalla strada, sono uguali a tutte le altre, non hanno niente di particolare. Resta­no chiuse, è vero, ma io non le vedo più, ed ho anche smesso di andare nell'ufficio dell'avvocato. Comunque quelle finestre hanno perso ai miei occhi qualsiasi attrattiva, e la curiosità che suscitavano in me qualche tempo addietro si è perduta, dileguata.

 

 

 

 

 

Novembre

 

Finalmente ho un lavoro, cara Lori. Un vero lavoro in­tendo dire. Dopo essermi tormentato a lungo per la mia situazione disastrosa, il troppo tempo da dedicare a solitarie passeggiate, il continuare per la noia a cambiare di posto alla mobilia e alle po­che suppellettili dentro alla mia camera, finalmente adesso, per interessamento di un mio zio che abita lontano, e dello stesso notaio dal quale mi recavo a sbrigarne la corrispondenza, mi è stato concesso un piccolo ufficio ed una scrivania dove poter tenere un bel mazzo di matite, qualche penna, alcuni cassetti per la car­ta,  l'inchiostro, la gomma e tutto il resto.

Per adesso, visto che è da soli quindici giorni che vi lavoro, mi limito a correggere, ribattendoli alla macchina per scri­vere, certi elenchi di documenti richiesti dagli abitanti di tut­ta questa zona, ed anche se un poco lentamente riesco comunque a sbrigare, con sempre più scioltezza, tutti quei plichi di car­ta che mi vengono riversati sin dalla mattina sopra al piano del­la scrivania.

Il più delle volte, durante il turno di servizio, mi lascio completamente assorbire dal lavoro, dalle carte, dalla mia occu­pazione; ma qualche volta, quando magari mi sento un po' più stanco o in ogni caso quando un pensiero, un rumore, o un qual­siasi fattore esterno attira per un attimo la mia attenzione, ecco che inizio volentieri a pensare ad altre cose, ad assentar­mi mentalmente dall'ufficio. La mia mente entra in uno stato di estrema attività ed attua piani propri in perfetta autonomia, portandomi lontano dall'uffi­cio, dalla scrivania, dalle mie matite. Ed io mi chiedo perché mai succeda questo; come mai capita proprio a me di essere così.

Giro attorno a dei percorsi mentali che conosco a menadito; li compio e li ricompio senza mai stancarmi, immaginandomi persone da incontrare, conoscenze con le quali scambiare quattro chiac­chiere, e in questo modo mi svago e passo un po' di tempo. In­contro te, alcune volte, e assieme saliamo lentamente le mie sca­le, assaporando con dovizia il piacere di rimanercene da soli, sdraiati ad osservarci, a studiarci le espressioni. Mi svago, ecco tutto, e le cose che penso mi pare quasi siano vere.

A volte penso ad un coltello che vedo spesso di là dalla ve­trina di un negozio. Il manico è in legno scuro, quasi nero, ed è ben lucido. La lama ha il profilo dolce, con la curva accentua­ta all'estremità, ed una punta aguzza, sfuggente, sottilissima. Non so cosa mi attira in quell'oggetto, però mi torna spes­so a mente, ed allora passo dal negozio e lo riosservo. Il colore dell'acciaio è grigio, un grigio intenso, come quel­lo degli organi meccanici di estrema precisione, ben oliati, esatti, dalle misure rigorose, di dimensioni studiate con meticolosi­tà infinita. Rimane nello stesso angolo, da mesi. E neppure il negoziante ha il coraggio di spostarlo o toglierlo da lì. Ha assunto come una sua logica, una vita propria, proprie funzioni, come stimolatore di immagini e di sensi.

Non riesco a spiegarmi la ragione per cui parlo proprio a te di queste cose, ma so, e me ne accorgo ogni volta che lo osservo, che esiste come una specie di collegamento tra il ricordo che ho di te e quel coltello. No, non ridere; dentro a quello stile con il quale è stato costruito, o forse nel profilo curvilineo della lama, oppure nella maniera in cui il manico è intagliato, ci sono dei tratti che assurdamente mi ricordano i tuoi modi, le tue espres­sioni sempre esatte, calcolate. Ed io, per uno strano sortilegio che ogni tanto mi penetra la mente, ne sono irresistibilmente at­tratto, come sono attratto da te, dalla tua persona, dalle tue maniere.

Già più di una volta sono dovuto uscire appositamente per andarlo a rivedere, e sempre, in ogni occasione, ho provato irresistibil­mente la stessa ebbrezza, la stessa profonda sensazione, come di qualcosa che impaurendo affascina. Sta lì, rimane immobile die­tro alla vetrina, e si propone come fulcro di qualcosa, come sti­molatore di una fantasia senza confini. Davanti al vetro mi vengono in mente le idee più strane e stravaganti, i pensieri più illogici e scollegati che ho mai avuto, e tutto mi scorre davanti agli occhi senza affaticarmi, sen­za che io debba impegnarmi per pensare.

Vorrei acquistarlo, smetterla di passare davanti alla vetri­na; però ne ho come paura, paura di possedere un oggetto di quel genere. Certo, sarebbe bellissimo portarlo con me dentro a una tasca, toccarne la presenza ogni volta che ne ho voglia; e poi riporlo, chiuderlo nel manico o riaprirlo, provarne i contorni con un dito attento, con sensibile accortezza. Si, è vero, sa­rebbe bello, ma come le cose che appaiono migliori quando si è sofferto per il loro destino, così io attendo, aspetto con infinita calma che giunga il momento più giusto, che scatti dentro me quell'esatto meccanismo, che io mi renda conto, insomma, di non poterne fare a meno, di dover per forza togliere il coltello da quell'angolo in vetrina.

Avevo anche pensato di rubarlo, di mettere pazientemente a punto un piano il più possibile ingegnoso, scaltro, con grandi componenti di rischio attentamente calcolati, e di soffiarlo con sagacia sotto al naso dei clienti e soprattutto del negoziante. Tutto ciò si sa­rebbe dimostrata una prova inoppugnabile della mia sofferenza, del mio impegno, dei miei bisogni irrimandabili, e quindi ne sarei stato felice, finalmente libero, sfogato dentro al gesto. Ma poi mi sono reso conto che qualcosa avrebbe anche potuto andare storto, che mi sarei potuto tradire magari per un partico­lare trascurato, ed allora avrei potuto perdere irrimediabilmente l'equilibrio, quel rapporto interessante ed accurato che son riu­scito a coltivare: non avrei potuto farmi vedere ancora davanti alla vetrina; forse il negoziante avrebbe anche spostato apposta quel coltello, ed anche se in seguito fossi tornato per comprarlo niente sarebbe più stato come prima. Insomma, non posso proprio fare in questo modo.

Così, dentro a una piccola busta di carta, ho messo i soldi giusti che mi servono;  ed attendo che qualcosa si compia, che la corda sia tesa al punto giusto. La busta sta con me e i soldi che ci sono dentro è deciso che li darò a quel negoziante. Dentro al mio ufficio penso alla lama affilatissima, al manico robusto, alla potenza che racchiude, e sogno di andarmene in giro chissà dove con quella stupenda presenza in una tasca.

Io lo so già fin da adesso che tu senza ritegno riderai di me, dei miei piccoli problemi, delle mie preoccupazioni senza sen­so, e risponderai a questa lettera così, sbadatamente, trattan­domi da sciocco, non prendendomi sul serio. O forse ti concen­trerai sul mio ricordo, su ciò che si diceva allora, le poche volte che ci siamo frequentati;  penserai alla mia aria un po’ svagata, per quanto tu possa ancora ricordarla, e la raffronterai con diffidenza alla mia nuova logica, ai miei pensieri d'oggi. Probabilmente rimarrai dubbiosa, con dei giudizi indefiniti, ne­gandomi il sollievo di una tua accorata comprensione.

Io vorrei da te un maggiore sforzo, invece. E poi vorrei che qualcosa di vero e di essenziale ci legasse, qualcosa cono­sciuto solo da noi due, un piccolo grande segreto del quale non dover neanche parlare per riuscire a ricordarlo. Qualcosa radi­cato dentro noi, in mezzo a noi, all'interno del nostro stare assieme, sempre che tu accettassi di stare assieme a me. Qualcosa di essenziale e di sfuggente, di irrivelabile e as­solutamente incomprensibile a chiunque, e che soltanto a noi des­se qualcosa, un appagamento reciproco forse, oppure nient'altro che quel sottile gusto di tenere ognuno il capo di un filo senza nodi, che ci collega e che ci tiene uniti, ma che funziona solo a volte, solo quando ne abbiamo voglia tutt'e due, e che in qual­siasi momento, per noia, disaffezione, o per qualsiasi altra ot­tima ragione, possa essere neutralizzato, dimenticato all'improvviso, lasciato tranquillamente in secondo piano.

 

 

 

 

 

Gennaio

 

Una coppia di sposi, senza dubbio; venuti ad abitare in quel­la casa sfitta da almeno due o tre anni. Ho visto la luce alle finestre, di là dalle persiane chiuse, mentre camminavo per la strada; ma comunque non è stato proprio questo a darmi il senso. Ho notato, senza individuarlo,  qualche cosa che cambiava durante uno di questi giorni stanchi, pieni zeppi di monotonia, quando ogni cosa dentro alla mia stanza, tutti questi oggetti che stanno attorno ad altri oggetti, mescolati autonomamente tra di loro, praticamente ruotanti attorno a un equilibrio instabile, appaiono tutti quanti come eterni, addirittura ironici in questo loro essere, immutabili nelle loro assurde posizioni, sotto a quella polvere inconsistente e contemporaneamente incancellabile.

E poi una variazione indefinibile, una sfumatura di quelle che ci colgono tra l'estasi di un'idiozia qualsiasi, e la tristez­za monotona di sempre. Qualcosa che salta agli occhi quasi subi­to, che forse scuote i nervi di un qualsiasi sovreccitato sognato­re, e nonostante questo si capisce che è impossibile, non si lascia catturare nella stupidaggine di un fatto, di un oggetto, di un’immagine, di un senso chiaro e dettagliato. Qualcosa che sta al di là del semplice notare la presenza di qualcuno, e che rimane indifferente dal mostrare dei minuti mo­vimenti oltre le tende; sono anzi le tende, per l'appunto, for­se nuove, certo, ma chissà se c'erano anche prima, e in ogni caso adesso sono solo una conferma. E sono ben stirate, bianche, cu­rate, e si vede subito che c'è il tocco di una donna di gusto, che ci tiene.

Giorni dopo le persiane sono state ripulite, ma io non l'ho veduto fare, ho solo immaginato una mano piena d'entusiasmo che si accanisce su quelle incrostazioni, su quella polvere di anni depositata là sopra con lentezza, e inventando immediatamente così una vita tutta nuova, un'esistenza da riversare in delle forme rinnovate, alla quale ri­servare un trattamento che la innalzi, che ne sottolinei l'impor­tanza.

 

 

 

 

 

Sempre Gennaio

 

Perché mai mi accanisco a guardare sempre le finestre? Cosa immagino di riuscire a vedere continuando ancora ad osservarle?...

 

 

 

 

 

Ancora Gennaio

 

Sono uscito di casa come al solito, senza sapere dove andare. Un po' confuso ho camminato senza fretta, senza meta. Ho compiu­to i medesimi percorsi, sono andato per le strade che conosco, come sperando di trovare qualche cosa, una positiva novità. Andare, camminare, già sapendo di non trovare niente, con le persone che sono sempre le medesime, qualcuno timido, qualcuno più sicuro; nulla d'altro. La busta era nella tasca, se spostavo la mano la sentivo, era proprio lì. Ma era come se mi rifiutassi di pensarci. Ho per­corso diverse volte lo stesso marciapiede, ho girato ad un angolo per guardare una scrostatura sopra un muro che era come una ferita. I soldi erano giusti, lo sapevo, li avevo contati mille volte. Poi sono andato nel negozio. Il commesso non ha dato l'importanza che doveva, ma fa lo stesso. Io ho cercato di essere gentile, non lo so se sono riuscito nel mio intento.

Fuori, sulla strada, ho tentato di apparire il solito. Il solito di prima, voglio dire. Ma un turbine scompigliava la mia mente. Un misto di coraggio e di paura era con me, dentro di me. Sono entrato in un locale per sedermi. Di nascosto ho ti­rato fuori quel mio astuccio e l'ho aperto. Poi ho ordinato qual­che cosa al cameriere. C'era confusione nel locale, qualcuno parlava a voce alta, due o tre uomini pareva quasi litigassero. Alzavano la voce, attirava­no su di loro tutta l'attenzione. Le loro faccende sembravano futili ed io avrei voluto alzarmi dalla sedia, accostarmi a loro lenta­mente, con estrema sicurezza. E sfiorando il mio coltello con la mano imporre il silenzio nel locale. Assumevo un’espressione sorridente sul mio viso mentre lo facevo, come a mostrare sicurezza e decisione; o forse era soltanto un ghigno, o un'espres­sione indecifrabile.

Qualcuno poi non si lasciava intimidire ed avanzava verso me come osteggiando quei miei gesti, la mia personalità. Allora non potevo più tirarmi indietro e l'affrontavo. La mia birra era un po' troppo fredda e nel locale c'era fumo. Qual­cosa non andava, si respirava un'aria tesa ed io ne ero un po' scocciato. All'improvviso vibravo una tremenda coltellata. Col­pivo l'uomo nell'addome, tenendo il manico con tutte le mie forze. Un gesto inutile, cattivo, ridevo del suo sangue, dei suoi urli. Poi sono uscito dal locale.

Ma la strada tra l'asfalto e il marciapiede sembrava che fa­cesse dei capricci, e la mia testa girava, girava dentro a un vortice. Il mio coltello era ancora liscio, lucido, preciso, nessuno poteva immaginarsi niente. Lo stringevo con la mano e lo bagnavo di sudore, di tensione, e allora lo stringevo anche di più. Qualcuno mi guardava ed io fuggivo via; fuggivo da quegli oc­chi, quegli occhi indagatori che intuiscono, pare sempre che già sappiano. E poi pensavo: - come brilla la mia mano sotto gli occhi, quegli occhi freddi pungenti. Potrei colpirvi, occhi ma­ligni, sappiatelo, nessuno di voi mi sfuggirebbe solo se volessi. Vi toglierei da dentro le orbite, se soltanto me ne venisse l’idea, vi schiaccerei sotto ad un piede.-

C'era una chiesa, a un certo punto, e sono entrato. Il perché adesso non rie­sco a ricordarlo.  Però rammento bene che tremolavano le immagi­ni, e c'era poca gente, quasi nessuno, dei vecchietti sparuti e basta. I colori erano offuscati, gli odori forti, gli spazi gran­di, sgradevoli, rimbalzanti ogni più piccola movenza, ogni scric­chiolio del legno lucido e consunto. Un'atmosfera lenta, come quella delle stalattiti nelle grot­te, goccia dopo goccia, una crescenza inavvertibile, una goccia al giorno, forse due, come un’importante medicina. In un angolo una vecchia a capo chino manovrava con le mani e faceva cadere la sua goccia. Mani secche, ossute, solo struttu­ra senza altro, e una lentezza esasperante, inutile, solo rifiu­to, solo elusione della vita.

Con calma feci un frego lungo la superficie lucida dell'ingi­nocchiatoio ed usai la punta estrema, lo stupendo arrotato metal­lo che ancora stringevo nella mano. Bastava così, bastava un segno, un passaggio importante, ma non ricostruibile neppure come gesto. Una volta uscito sapevo di non potere più tenerlo. Il coltello, inten­do dire. Dentro me cresceva la tensione ed io dovevo proprio disfarmene. Nasconderlo, pensavo, in un luogo sperduto, irrintracciabile, e non andare più neanche a cercarlo, solo saperne la presenza, là, da qualche parte. Come una cosa solo mia.

Poi vidi la lama. C'era del sangue. Dovevo correre, subi­to, ricomporre una credibile maniera. Trovare qualche strada, spiegare una vicenda. Ma chi avrebbe capito? Non sarebbero stati neppure ad ascoltarmi. E la mia mano così purpurea, e anche la mia tasca e la giacca sul davanti, tutto così sporco, così chiazzato, tutto quel san­gue. Ma di chi era, com'era mai possibile, non mi ricordavo nien­te; però ero sicuro, la lama non si era mossa dalla tasca. No, era sempre stata lì, lo sapevo con certezza. Poi il dolore al­la mia mano faceva luce. C'era una ferita dentro al palmo, larga e profonda. Mi ero tagliato da solo, probabilmente per la troppa eccitazione.

Tutto questo era quasi da sorridere; potevo ritrovare una minima tranquillità, non era accaduto niente, in fondo. Potevano fermarmi per la strada e chiedermi che cosa era successo, ed io a rispondere che non era proprio niente, un semplice incidente, mi ero fatto male solo io, soltanto la mia mano. Con calma, una sera di quelle seguenti, avrei gettato il coltello dentro al lago; troppo pesante, troppo impegnativo era tenerlo. Comunque mi sentivo molto più tranquillo, adesso, e la gente non mi pareva più ostile come prima.

Andai a sedermi presso una panchina sotto agli alberi, per ripensare meglio a tutto quanto. Dovevo apparire pallido, ancora spaurito, e avere un'espressione seriamente spaventata. Indossai i miei occhiali da lettura per avere una faccia più seriosa, con più contegno. Però mi resi conto che nessuno mi guardava, nessuno mi aveva neanche notato. C'era indifferenza verso me, verso la mia persona, disinteresse per i miei dolori, i miei diversi stati d'animo. All'improvviso mi riappariva tutto negativo, la quotidiani­tà senza speranza, il solito grigiore costantemente qui presente. E poi il pensiero ai tenui fili che mi legano alla vita, ai de­sideri, alle voglie più nascoste. I miei pensieri, le mie meditazioni, riapparivano adesso le solite cose senza senso. Assurdi palliativi per digerire meglio queste ore, questi giorni, questi anni indifferenti che scorrono, che scorrono, nonostante tutto. Senza che io possa fare niente, che possa oppormi a nulla. Qualsiasi opera io compia, diventa nulla, pensavo, irrimediabilmente, anche le mie stranezze, anche i miei gesti assurdi, estremi.

Chissà se la mia vita avrebbe potuto essere diversa. Maga­ri per una stupidaggine qualsiasi, una cosa apparsa sul momento ininfluente, neppure degna d'attenzione. Chissà se da ragazzo avessi potuto scegliere il futuro, chissà che cosa avrei deciso. M’immagino un grande sforzo di volontà applicato ogni gior­no ai miei pensieri, ai miei movimenti, alle mie scelte, tutto per determinare in altro modo la mia vita, per piegarla a una di­versa impostazione che non fosse quella naturale, quella destinata. Altre particolarità, altri interessi, tutto più gioioso e interes­sante.

Potrei morire, a volte; all'improvviso, senza un grosso im­pegno, senza neanche mostrare i risultati di un'analisi precisa e minuziosa alla quale legare la mia sorte. Che invece c'è, ed ogni cosa ha pesato e misurato, con distacco, quasi scientifica­mente. E ha messo in luce la noia, la solitudine, la mia infe­licità. Potrei sparire, non fa nessuna differenza. Annullarmi in un'idea, in un progetto assurdo, dietro a una voglia inconfessa­ta che mi prenda totalmente, come un turbine; senza strascichi, senza che alcuno rivendichi qualcosa. Oppure potrei vivere, abbracciando senza remore e ripensa­menti un qualsiasi modello che la normalità più esasperata mostra ad ogni passo, lasciando che i canali classici attraverso i quali i valori della civiltà risultano trasmessi, si formino anche in me, e scorrano anche attraverso questa mia persona.

Adesso comunque non saprei davvero cosa fare.  Domani; forse, domani sarà il giorno per scegliere.

 

 

 

 

 

 

Febbraio

 

Le donne. Le donne per me sono tutto. Compendio mirabile di sensibilità e di intelligenza.

 

 

 

 

 

Marzo

 

Mi ha guardato per un lungo momento.  Era la prima volta che ci vedevamo, eppure assurdamente sembrava che ci conoscessimo da sempre. Mi ha osservato con intensità, quasi per ricordarsi be­ne in seguito il mio volto, o almeno questa è stata l'impressione che io ho avuto. I suoi occhi erano seri, concentrati, sembravano completamen­te assorti in quel guardare verso me. Il suo volto incorniciato dalla finestra spalancata era bellissimo, colto in quel momento di naturalezza, e i suoi capelli così stupendamente neri erano lunghi e sciolti, come di una dea.

Era già là quando io l'ho vista; sembrava quasi mi aspettasse. Appariva immobile, sicura di sé, dominava l’immagine completa che potevo vedere dalla finestra. Sembrava che mai neppure un dubbio fosse passato su quel viso; e adesso guardava verso me, con l'esatta sicurezza di chi, cercando una qualsiasi cosa, sa per certo di trovarla. Ed io sono rimasto lì, colto di sorpresa. Sono rimasto fer­mo, come lei, pietrificato da una profonda sensazione. Non ho potuto fare niente, né cenni di saluto, di pura cortesia, né ab­bozzare un benché minimo sorriso. Solo guardarla, ho potuto, per quell' attimo profondo.

Poi, con una certa lentezza e con la stessa serietà, si è ritratta verso l'interno della casa, e si è occupata di richiudere bene la finestra, scomparendo dietro ai vetri senza più guardarmi. E già era sufficiente, già bastava; non potevo assolutamente chie­dere altro, niente più di così tanto.

 

 

 

 

 

Ancora Marzo

 

Cara Sinni, non sono stato bene in questi ultimi giorni. Devi perdonarmi se non ti ho più scritto da parecchio tempo, ma devo confessare che con ansia ho aspettato una risposta alla mia ultima lettera. Adesso poi qualcosa ha preso a non andarmi bene e provo un senso di vertigine non appena cerco di concentrarmi su qualcosa. Il lago probabilmente è sempre bello, come quella volta, ma a me ormai appare piatto, grigio, quasi morto. Le mie giornate si risolvono in minute attività, appena sufficienti per riempire questi vuoti. Quando esco, e lo faccio ormai di rado, c'è sem­pre qualcuno che mi osserva.

E poi mi torni in mente, a volte; e forse lo so che non mi scriverai mai più, che tutto è già finito. Forse per questo dico a te queste mie cose. Sento di invecchiare e non riesco più a decidere qualcosa, a pianificare il mio futuro. Qualche tempo fa ho rivisto la tua ultima lettera; ed ho notato con terrore che sono passati già quasi due anni!

La sera mi assale sempre un senso di solitudine profonda. E quando vado fuori non riesco più a svagarmi, ad essere tranquil­lo, perdermi tra gli altri; rimango li, con la faccia stralunata, a ricordarmi di qualcosa un po' lontano. E vado in giro senza meta a volte per degli interi pomeriggi, cercando qualcuno con cui poter scambiare quattro chiacchiere, per poter parlare anche solo di sciocchezze. Spesso penso che tutto quanto sia stato proprio inutile; e allora cerco in me la forza per cambiare. Ci sono dei giorni durante i quali penso che tutto possa risultare facile da compiersi, e che in un attimo qualcosa di imprevisto possa miglio­rare anche la mia esistenza, e darle un senso di qualsiasi genere.

Ma poi mi ritrovo a percorrere le solite viuzze, i soliti sentieri. Ci sono delle mattine in cui il mio corpo si rifiuta di svegliarsi. Sono a letto, so che è giorno e non riesco ad uscire dal torpore. Ad occhi chiusi vedo la stanza attorno a me e forse riesco anche a vedermi, lì immobile, disteso, scindendo la mia mente da quelle membra statiche. Ed un muro impenetrabi­le mi divide dal risveglio. Poi, durante la giornata spesso provo un senso di oppressio­ne; e non riesco a concentrarmi, mi prende una vertigine. Però tengo un piccolo diario, come ho sempre fatto, e lì annoto pazientemente ciò che mi succede e le mie assurde sensazioni.

Qualche notte fa ho fatto un sogno veramente strano, dove io ero diviso in tre persone completamente differenti e addirit­tura in lotta tra di loro. Provavo, a turno, le sensazioni di ognuna delle tre, e non sapevo decidermi per chi era meglio parteg­giare.

 

Dapprima c'era la mia mamma che faceva finta di saperla molto lunga su di me, come se avesse scoperto i miei piccoli se­greti e ironizzasse sopra ai miei atteggiamenti; e poi ridendo, tutto a un tratto, si tirava su la gonna; ed io dicevo: copriti, ma forse lo pensavo e basta. In una di queste tre persone che dicevo mi sentivo contami­nato da radiazioni nucleari e mi accorgevo che gli altri due vo­levano sopprimermi. Dentro ad un altro poi volevo appunto sal­vare l'umanità dalle radiazioni e quindi lavoravo per togliere di mezzo quel contaminato; e dentro al terzo, che era uno scimmio­ne però molto umanizzato, provavo una assurda voglia di violenza, di strappare, di recidere, sicuramente di provocare del dolore. L'uno correndo infilava un giavellotto nelle spalle del contaminato, ma questi riprendeva forza e con il palo, roteato con violenza, staccava la testa allo scimmione che aveva continuato stupidamente ad inseguirlo; e poi, forse, con le mani, gli altri due si strangolavano tra loro.

                Sono uscito, una volta, durante la notte, proprio perché i miei sogni mi facevano star male, ed ho sentito dei richiami len­ti e profondi, qualcosa che arrivava da lontano. E ho camminato tante ore, tra terra ed acqua, sotto a un cielo troppo finito, subito sopra la mia testa, come un'ossessione. Qualche persona solita­ria persa in fondo, quasi solamente un'ombra. Proprio come me. E poi mi sono perso anch'io a mia volta e a lungo entro qualcosa, forse nel freddo sottile che continuava come a cadere da quegli alberi scheletrici.

Qualche giorno dopo ho ripensato a tutto quanto, e in pieno sole ho visto quegli stessi alberi. Adesso erano stupendi. Pe­rò erano troppi, tutti allineati, con migliaia di foglie verdi, svolazzanti, e i rami alti, flessibili nella brezza leggera, qua­si un soffio. E quello sciabordio vicino, le onde piccole del lago, ossessionanti.

Forse dovrei andarmene, ma non so prendere nessuna decisio­ne. E dove poi? A cercare qualcuno, qualcosa, a perdermi tra la gente di metropoli, su mille visi inespressivi e anche sparu­ti? Forse dovrei andare in un paese, o meglio ancora in un villag­gio, dove un forestiero è subito osservato con curiosità, dove diventi amico o conoscente di chiunque abiti in quel posto, e tutti parlano di te, e ti salutano anche, ogni volta che incontri una persona. Però lo so fin d'ora che mi annoierei a morte, e quegli occhi cu­riosi, quelle pettegole domande, mi infastidirebbero all'inverosimile.

Rimango qui allora, a vedere i villeggianti che arrivano e ripartono, a lottare con qualcosa che sta probabilmente dentro me. A volte mi sorprendo mentre accarezzo l'idea di una vita mag­giormente regolata, forse più normale. E penso che dovrò pur smet­tere, una volta o l'altra, di stringermi così', di rannicchiarmi attorno ai miei pensieri; perché lo so che a lungo andare diventa­no ossessioni.

 

 

 

 

 

Ancora Marzo

 

Lo so che è là, che si muove lentamente dietro alla finestra, dietro alle tendine. La sento e in qualche modo mi pare quasi di vederla. Continuo a vorticare dentro alla mia stanza passan­do e ripassando davanti al rettangolo magnetico di luce, gettan­do un'occhiata e un'altra ancora verso quel richiamo irresisti­bile. Non riesco assolutamente a fare niente, niente di ciò che dovrei fare, di ciò che avrei voluto; non riesco a fare altro se non guardare verso quella casa, quella finestra, quelle ombre che si muovono di là dalle tendine. Posso solo sperare di veder­la, almeno per un attimo.

Ieri sono uscito di casa, e chissà come, immaginavo di incon­trarla, magari in un luogo appartato, in un posto solitario. So­gnavo che ci saremmo fermati, all'improvviso, guardandoci negli occhi. Poi le avrei sfiorato una mano con dolcezza, l'avrei at­tratta verso me, l'avrei abbracciata, le avrei sfiorato il viso, gli occhi, le guance morbide. L'avrei guardata, da vicino, vici­nissimo, le avrei trasmesso le mie profonde sensazioni, e avrei appoggiato le mie labbra sulle sue. Nessuna parola avrebbe dovu­to rompere l'incanto; non ci sarebbe stato assolutamente bisogno di parlare, di spiegare, di dirci qualcosa di più di ciò che era già chiaro, fin troppo evidente. Ci saremmo uniti, forse, laggiù, in un prato sconosciuto, in mezzo all'erba alta, morbidissima, come qualcosa che avviene perché è giusto, e non se ne possono cercare spiegazioni.

Ho girato a lungo ieri, e tante volte ho percorso tutta questa strada. Dovrà sbloccarsi per forza questa assurda situazione. Qualcosa dovrà pur accadere. Forse dovrei far vedere ciò che provo, mostrarmi a lei in qualche maniera; ma è difficile, ho paura di sbagliare, di pormi in una falsa luce. Dovrei pensare, riflettere, ma è così difficile in queste condizioni.

 

 

 

 

 

Aprile

 

Quei pochi alberi svettanti sotto al vento, laggiù, in fon­do alla strada. Un'ironia, nient'altro che una stupida ironia. Il resto è fermo, un panorama di oggetti che è come un quadro pesantemente inchiodato a una parete spessa, fermissimo, come co­stituito di sali già decantati e ben solidi e asciutti sopra la tela, come se questa fosse un rigido insieme, un corpo ormai uni­co con il muro al di sotto.

Questa strada è ancora deserta, i miei vetri sono opachi, offuscati dal mio alito. Tutto quanto è fermo, anche il tempo. E la casa di fronte appare leggera, friabile, con pareti lisce al cui interno si annidano porosità senza fine, bolle d'aria mi­nute disperse all'interno dei muri, da tutte le parti. Un biscot­to, da prendere con la mano e spezzare; qualcosa di leggero che cede facilmente sotto a una forza pur minima, che si può frantu­mare, che si sbriciola.

Difficile scrivere un messaggio. Articolare alcune parole dotandole di un senso compiuto; girare attorno a qualcosa che as­suma via discorrendo più importanza, giocare magari su un senso o su un altro di una parola un po' ambigua, e arrivare diretti a spiegare ciò che si ha in mente, o almeno lasciarlo capire. Scivolare leg­geri sulla propria speranza annidata tra i puri pensieri e conclu­dere con un qualsiasi gesto eloquente di chiara generosità. Innestare il contatto, o almeno provarci, senza rudezze, sen­za cercare forzature; lasciare che scorra qualcosa di leggero, come una piccola vena subito sotto la pelle, azzurrina e contorta, che abbia in sé qualcosa di fresco, un senso di vita, una voglia di nuovo. Un piccolo ruscello di acqua leggera, ecco, che scenda saltellando da un picco, da una roccia riarsa, ingiallita, e an­naffi più a valle le radici di un bosco assetato.

Ecco, questo è ciò che avrebbe importanza; trovare un sistema qualsiasi, una formula di natura casuale che allacci un insieme che prima non c'era, che produca un collegamento diretto su una base completamente inventata, che assuma un valore decisamente non ignorabile, e in ogni caso abbia il senso di qualcosa che rima­ne in sospeso, con degli sviluppi del tutto imprevedibili.

Parlare di cose del tutto inventate, il più possibile eteree, senza fornire un fattore preciso che costituisca possibilità di raffronti; sorvolare su tutto, quasi come si parlasse di niente, ma tenere ben fermo il filo sottile, insinuante, dell'enorme pas­sione che giustifica il tutto, che sostiene ogni passo, qualsiasi follia. Dimostrare un poco di estro, la capacità di essere aperti, di esse­re capaci di andare anche più in là. Mostrare il proprio coraggio, senza vantarsi, solo come sortisse dalla propria natura, dalla propria porzione di noi non controllabile.

E lasciare intuire, non segnalandole, meditazioni su tutto, sui fatti importanti da cui siamo dominati, sui grandi valori ri­masti invariati dall'alba dei tempi; ed essere chiari sul saper cogliere l'attimo giusto di ogni cosa, come un dono di natura che permetta ogni volta di conoscere il momento adatto per compiere un gesto, per dire una cosa, per farsi sentire. Dietro si muovo­no esperienze inaudite, forse grandi viaggi, un filo di fascino per qualcosa che non è chiaro, come una fuga non ancora realizzata, apparsa in un sogno, in una visione improvvisa. Introspezioni decisamente particolari, personalissime, come una metà di se stessi che lotti con l'altra metà, e dimostri co­scienza, grandi intuizioni, e forse anche una certa stravaganza, ma dia anche il senso, indubbiamente, di una grande sensibilità. Traumi infantili assorbiti nel tempo con coraggio deciso, una volontà sicura; e forse grandi avventure, o voli pindarici vissuti ad occhi aperti, ad assorbirne quasi il succo, la linfa vitale.

Personaggi incredibili che sorgono a volte dall'ombra, sfu­mate conoscenze che rimangono in sfere sospese per anni lunghissi­mi, finché escono fuori improvvise, e gettano una lingua di lu­ce, un nuovo colore, una diversa maniera per guardare le cose. E poi grandi scelte, aspetti magari bizzarri che nascondono in fondo delle idee maturate nel corso di anni, come uno stesso pen­siero affrontato e risolto ogni giorno fintanto che il suo risul­tato non diventi un bisogno, un'enorme esigenza. Una voglia di nuovo, di vita diversa. Qualcosa a cui appas­sionarsi, applicarsi in maniera totale, anche senza sembianze da grande motivo, da fede abbracciata. Un interesse piccolo e stu­pido ma che interiormente sia un fiume, una forza, un evento, una grande invenzione che dia più impulso alla vita, che scavando ne scopra significati diversi, e lasci accettare anche il resto, an­che i fatti più tristi, le cose più grigie, le giornate più vuote.

Nuovi tempi, da scoprire all'interno del già collaudato, nei monotoni giorni che scorrono, nei soliti gesti, nei medesimi ogget­ti di sempre; e una fiamma all'interno che ne bruci la patina, che ne tolga quel velo impossibile, quella polvere fine e antipa­tica depositata negli anni.  Fantasmi di sensi, di idee, di im­possibili elogi neppure considerati al momento, o scartati per forza, sepolti da solenni risate; ed ora risorti da una memoria incoerente, da un gusto di antico, o usciti da dentro in un urto di vomito, impastati framezzo alle solite cose, alla noia, al di­sprezzo, ai succhi linfatici di un corpo non sano.

E poi quel "perduto" che sempre ritorna, tra il senso di im­broglio che genera il proprio cervello, tra le cose fissate, inu­tili, assurde, e i pensieri smarriti, le riflessioni importanti che una volta erano là, ne siamo sicuri, ed adesso si staccano e scemano, sfuggono, si riducono ad appunti infantili, organismi imprecisi, sacche già usate che trattengono poco, e in più perdo­no proprio quel senso importante di uso che le ha ridotte così.

Difficile scrivere un messaggio; parlare di tutto a una per­sona che sfugge, che io non conosco, che ogni parola può interpre­tare in maniera diversa, dandole un altro valore, un diverso significato, che magari risulta protesa verso qualcosa che per me è incomprensibile, o si perde dietro a luoghi comuni, a quotidia­ne tristezze. Forse i suoi sensi percepiscono cose che a me so­no sfuggite; forse i suoi occhi vedono fatti che mai, in ogni ca­so, riuscirei ad osservare. Tra me e lei sicuramente c'è un baratro, differenze incredibili, e solo con sforzi pazzeschi pos­so tentare un collegamento di qualsivoglia natura.

Forse è solo un'idea, una ricerca utopista, un tendersi e­stremo in un gioco perduto in partenza; è il credere profondamen­te in qualcosa che si sa già impossibile, ed è forse per questo che diviene più serio, ancor più impegnativo. Una battaglia sen­za nemico, nella quale annullare se stessi, il realizzarsi di un sogno a cui concedere tutto, indifferenti a qualsiasi risultato.

Quegli alberi dritti, infilzati per terra, che non chiedono nulla ed offrono ancora di meno; e inchiodano il quadro, lo ten­gono immobile, come tutto qua attorno, come la gente che passa.

 

 

 

 

 

                Ancora Aprile

 

Cara, dolcissima M.; non so per cosa ti scrivo, forse per avere un consiglio. Dico forse, perché probabilmente ti scrivo soltanto per parlarti di questi miei guai.

              

C'è qualcosa dentro di me che agisce in maniera un po' insolita. Nella mia mente i pensieri fluiscono veloci ed illogi­ci, e spesso hanno valore soltanto per come si snodano, per il loro concatenarsi l'un l'altro; ma non sono né perspicaci né uti­li, anzi, nel giro di poco me li dimentico tutti. Mi sveglio nel letto in un turbine di sogni leggeri del tut­to inconcepibili, e inizio subito a riflettere sulle cose più stu­pide: ridisegnare nella mente la disposizione della stanza, im­maginare il mio corpo disteso prendendo come punto di osservazio­ne il soffitto, cercare di ricordarmi dove ho messo alcuni piccoli oggetti che non vedo più da chissà quanti mesi.

Poi mi concentro, sulle mie mani, sui piedi, e rimanendo im­mobile come mi trovo, mi sembra quasi di non avere più gli arti, di non avere più ossa, neppure più un corpo. Mi è rimasto sol­tanto il cervello, sanguinolento e pulsante, un poco schiacciato per colpa del peso, senza neppure la scatola cranica, adagiato sopra al cuscino in una larga macchia rosata. Per quel po' di pendenza che c’è, scivola piano sulla coperta, o for­se semplicemente si muove, come una colonia di vermi, un grumo di bachi giganti bianchicci che continuano ad annodarsi tra loro, senza una pausa, come cercando qualcosa, forse in preda a uno spa­smo, a un delirio, provocando, nel nocciolo interno e profondo di quel mio cervello, pensieri impossibili, immagini assurde, sensazioni che non hanno criterio, nessuna parvenza di logica.

Sporgo lo sguardo dalla finestra e mi concentro sui sassi, sui piccoli pezzi di carta, sui mozziconi di sigaretta schiaccia­ti, giù sulla strada, tra gli spigoli dei marciapiedi. Vedo le fogne, le grate di ferro robuste che nascondono i cunicoli, le profonde raccolte di acqua melmosa, gli scarichi putridi, dove pullulano centinaia di specie di insetti, di topi voraci, gri­giastri, ognuno identico all'altro. Sopra al davanzale della finestra il cervello si sporge, come cercando qualcosa, e alla fine cade di sotto, lasciando un filo bavoso che ciondola proprio attaccato allo spigolo. Un male terribile, da tutte le parti; una botta tremenda, e tutto quanto che a pezzi risulta scagliato lontano, nel raggio di sette o otto metri.

E allora ecco che i topi e gli insetti impazziscono, rompono il ferro, fanno saltare le grate, e corrono a mordere, adden­tare con voracità ogni piccolo pezzo, ogni verme impazzito; mangiano, strappano, facendo piccoli rumori rivoltanti, lasciando dappertutto sottili fili di sangue, e accanendosi sulle parti più dure, le parti callose, più bianche e compatte, mordendo con gran­de rabbia, quasi con odio.

Di fronte alla strada una finestra si apre, qualcuno osserva la scena con sguardo impassibile, senza mostrare emozioni. Poi lei, perché è lei che mi guarda, lentamente rientra dentro alla stanza, e con gesti pacati, con mani quasi carezzevoli, richiude la finestra, i vetri, gli scuri, tira anche le tende, come a in­terrompere il flusso tra l'interno e l'esterno, a ricomporre la fida barriera, il giusto divario tra ciò che si vuole capire e ciò che minimamente ci attrae, o che pur reclamando interesse, as­solutamente non ne merita nulla.

 

Ecco, dolcissima M., quello che mi succede ogni giorno; e poi mi risveglio del tutto, distolgo qualsiasi interesse da questi pensieri, mi alzo dal letto e torno a guardarmi le mani, le dita, le piccole vene che lasciano scorrere il sangue sotto la pelle. I miei nervi si animano, i miei muscoli tornano elastici, anche gli occhi si muovono, e torno a osservare le cose, gli oggetti usuali, tutte le immagini di cui il mondo è formato, il mio pic­colo mondo di sempre.

Ed aspetto ad alzarmi, ritardo in ogni maniera tutti i miei movimenti, e ispeziono altri oggetti, concentro i miei gesti su altre piccole cose, su stupidi fatti. Ma già i miei pensieri so­no presi da altro, ed io so che cos'è, la calamita sottile mi atti­ra, richiama i miei sensi, richiede da me sempre qualcosa di più.

Osservo le tendine ferme sopra ai vetri della finestra, e so che il mio occhio sopra la strada rimane neutrale, attende soltan­to il mio cenno, i miei gesti, la mia voglia infinita, per animarsi con me, per ricevere gli impulsi, articolare i suoi slanci. Conto ancora una volta le mattonelle del pavimento, misuro i miei passi, annoto i disegni dell'impiantito, rilevo qualsiasi sporcizia, ogni pur piccola briciola che vedo là sopra.

                Poi guardo i mobili, i cassetti richiusi della mia scriva­nia, le maniglie lucenti sopra l'armadio, ed imprimo con calma quelle immagini solite dentro alla mente. Guardo le tende, ne osservo la trama, la stoffa, ne scruto i disegni, la traspa­renza che offrono. Le accarezzo con calma, e poi lievemente le scosto, le scosto, le scosto, e getto uno sguardo di là dalla strada, subito dentro alla casa, all'interno dei muri troppo ro­busti, e registro qualsiasi movenza possibile, là, dentro alle stanze.

Mi nutro delle variazioni più stupide, e immagino, immagino; immagino le sue mani in riposo, lungo i fianchi torniti, i suoi capelli sciolti, le spalle un po' nude, stupende, e il suo viso serioso, enigmatico, carico di espressioni diverse. Gira attorno ad un tavolo, per l'ennesima volta, sfiorando una sedia; si ferma un momento e va accanto alla tenda, la tocca, la sente sotto alle dita, poi si gira di fianco e torna un po' indietro, di là da quel tavolo.

Dolcissima M., io non riesco assolutamente a spiegarti, ma devi cercare di capirmi ugualmente. In lei c'è qualcosa che mi trascina lontano, un qualcosa interiore che è identico in me, e ci unisce senza neppure conoscerci, e ci spinge a capirci senza parlare, senza spiegarci, solo osservandoci dalle nostre finestre, soltanto per attimi, per frazioni di tempo, ombreggiando le nostre espressioni tra la stoffa di queste tende. Tu devi capir­mi per forza, ho bisogno della tua comprensione.

Non posso neppure recarmi a lavorare, non riesco a combinare più niente, né in casa, né fuori. Soltanto i pensieri sfasati che continuamente mi affiorano riescono ad avere la meglio, ad essere vincitori immediati. Il resto è sganciato, staccato, ormai non fa parte di me, neppure mi sfiora. Ed io resto a guardare, a pensare, a contare le dita delle mie mani, a misurare la stanza, i miei passi, in questa assurda prigione che mi sono forse inventato.

 

 

 

 

 

 

Giorno 6 Maggio

 

"Vorrei guardarti negli occhi mentre ti tengo la mano. Vorrei sfiorarti i capelli, sentirli leggeri sotto alle dita. Vorrei baciare i tuoi occhi stupendi, carezzarti le guance con dolcezza infinita, con traspor­to indicibile. Vorrei stringere la tua mano dentro la mia, camminare con te dentro alla pioggia, sentirti vi­cina. Ed amarti in silenzio, senza nessun turbamento, senza neppure parlare, confidando soltanto nella com­prensione che emana dalle nostre persone, dalle nostre espressioni, dal nostro guardarci."

In preda ad un delirio pazzesco, appena finito di scriverlo mi sono infilato questo messaggio dentro a una tasca, ho preso la giac­ca senza neppure indossarla e sono uscito di casa.  Ogni cosa mi sembrava di piombo, pronta a sprofondare nella terra, verso l'inferno. Tutto mi pareva pesante, talmente pesante da trascinare ogni cosa, anche me, dentro alle viscere di una terra spugnosa, friabile, del tutto inadatta a sostenere dei pesi. Ero sicuro che il suolo non ce l'avrebbe fatta a sorreggere tutto, si sareb­be incrinato, aperto, avrebbe inghiottito le case, gli uomini, gli alberi.

Cosi pensavo, e sentivo quel peso. Sentivo sulle spalle quel vento crudele, quell'aria addensata sopra di me. Incurvavo le spalle per sorreggermi in piedi, per cercare protezione, sfibra­vo i miei muscoli in uno sforzo continuo. E poi quelle nuvole che pareva cadessero, magari con un frastuono terribile, rompendosi tutte in infiniti pezzi di materia biancastra. Io riuscivo soltanto a girare, a vorticare attorno ai soliti luo­ghi, misuravo le strade e guardavo le case. Forse qualcuno mi vedeva, ma io non vedevo nessuno. Avanzavo, ma sapevo di dovermi calmare, di dover stare tranquillo, meno eccitato. Sudavo, forse avevo la febbre.

Continuavo a pensare a lei, al mio biglietto; questa variabile assurda e sfuggente cosi paurosamente incontrollabile. Pensavo al risultato, ai miei sforzi, a ciò che sarebbe accaduto o che sarebbe potuto accadere. Il mio biglietto era in tasca, era li, ed io non sapevo ancora che farne. Ero spossato, stremato, impotente. Impotente di fronte ad un probabile crollo. Ero consapevole che tutto, forse, si sareb­be spento in un attimo e la risoluzione dei miei giorni, dei miei anni, della mia vita intera sarebbe andata perduta. Dovevo ten­tare,  era troppo necessario, ma forse non avevo considerato qual­cosa, qualche particolare importante. Forse sbagliavo maniera, forse sbagliavo il momento. Sarei stato frainteso, trattato alla pari di chissà quale gente. Avrei dovuto trovare una forma diversa, pensavo, qualcosa più adatto alla situazione esistente. Mi sforzavo, continuavo a sforzarmi, ma la mia povera testa non riusciva a far niente.

Pensavo alla sentenza a cui la mia vita era affidata. Pen­savo all'esser deriso, isolato, preso di mira da ironie e scherzi cattivi. Pensavo a un pagliaccio, a un noioso numero da baraccone. Non dovevo farmi distogliere; non dovevo farmi prendere da paure assurde. Dovevo andare fino in fondo con convinzione e co­raggio, perseguendo il mio intento con piglio testardo. Niente in vita mia era mai stato importante come questo momento. Era come una prova, qualcosa che mostra la parte più vera di me, del­la mia persona. Dovevo essere capace di aderire a un progetto, essere convinto e deciso, a costo di qualsiasi cosa. Dopo, ne ero sicuro, la mia vita sarebbe stata diversa.  In un caso o nell'altro.

Di nuovo sono uscito di casa stasera.  Il fioco lampione giù all'angolo rischiarava la strada. Ho osservato un momento la zona deserta, poi ho attraversato la strada. Ho estratto di tasca il foglietto senza neanche guardarlo. L'ho piegato a metà, ho osservato ancora una volta la strada deserta, e poi l'ho spinto con calma sotto al battente della fine­stra già chiusa. Rientrare in casa poi è stato un momento. Un attimo solo. E mi e' tornato il respiro solo una volta chiusa la porta dietro di me. Il gusto profondo di un atto compiuto.

 

 

 

 

 

Giorno 11 Maggio

 

Cinque giorni già andati. Trascorsi cosi, tra la febbre e la smania.

 

L'altro ieri ha bussato alla porta una vicina di casa, una donna anziana perennemente davanti al portone di questo condominio a parlare con qualcuno. Mi ha detto che è molto tempo che non mi incontra più in fondo alle scale, mentre chiudo la mia porta, o sul piane­rottolo. Pensava quasi che me ne fossi andato, che fossi partito, chissà per dove poi. La sua finestra è chiusa da molti giorni, mi dice, sembra che in queste stanze non ci abiti nessuno.

Poi mi ha guardato meglio, ha abituato gli occhi alla poca luce della stanza e mi ha detto che ero pallido. Lei senz'altro non sta bene, la sua fronte è sudata, mi ha detto, forse ha la febbre.  Deve mettersi a letto, chiamare un dottore por una visita accurata. Ed io pensavo a quanto tempo era che nessuno si preoccupava per me, che si dava pena del mio stato. Mentre la signo­ra continuava a dirmi queste cose io indietreggiavo dentro alla mia stanza e mi gettavo su una sedia, sfinito.

Deve fidarsi di qualcuno, continuava a ripetermi la donna, una persona sempre sola come lei. Avrebbe potuto cercarmi, chie­dere il mio aiuto, ma adesso non importa, le preparo qualcosa di caldo, poi vado dal medico e torno assieme a lui. Mi veniva quasi da sorridere, dovevo avere un aspetto cadaverico. Negli ultimi giorni avevo dormito pochissimo, per non più di due o tre ore di seguito. Mi svegliavo di continuo in preda a una tensione enorme, e crollavo di sonno nelle ore più diverse. E poi di nuovo interrompevo ancora il mio riposo, incitato alla ve­glia da un pensiero, da un'idea, da una paura. Ed iniziavo di nuovo cosi l'attesa cosciente di qualcosa.

Avevo fatto un sogno di cui adesso, all'improvviso, ricorda­vo quasi tutto. Un sogno strano, frutto della febbre, della sma­nia. E mi trovavo in Africa, su una pista del deserto, insieme a un uomo che io non conoscevo ma di cui mi fidavo. Lui mi trat­tava come un vecchio amico, e anch'io mi comportavo come se lo conoscessi da parecchio tempo.

Con i cavalli, noi due assieme, si aggirava un gruppo di dune basse, e tutto era tranquillo, regolare, quasi monotono. Poi, dall'aria, sembrava arrivasse una minaccia, qualcosa di imminente, di pericoloso e di incomprensibile. Con poche occhiate di perfetta intesa ci distanziavamo per capire qualcosa, per vedere meglio quella realtà. Ed ecco che alla fine si intuiva che qualcuno era in agguato, che ci tendevano una stupida trappola. Senza farci prendere dal panico agivamo d'astuzia. Si spedivano i ca­valli da soli sulla pista, e noi si aggirava a piedi quelle dune. Ci si teneva al riparo strisciando sulla sabbia e alla fine si piombava di sorpresa sui due beduini che si erano appostati. E in breve avevamo la meglio su loro.

Tolte le tuniche e i cappucci in mezzo a quella concitazione, si scoprivano due donne occidentali, e ciò era veramente una grossa sorpresa. Io cercavo di ca­pire cosa volessero da noi, il motivo di quell'agguato, ma loro continuavano ad offenderci, a mostrarci odio, a disprezzarci, senza spiegarci nient’altro. Probabilmente, così almeno pensavo, ci avevano scambiato per altri viaggiatori. Tutto era molto strano, e per di più non appariva proprio possibile farle capire il loro sbaglio. Lo loro rabbia la scaricavano su di noi con incredibile energia, maledicendo le nostre persone e imprecando nei nostri confronti.

Il loro linguaggio era assolutamente insolito, ed anche se qualcosa riuscivo a comprenderla, ero sicuro di non aver mai udito parlare in quella maniera prima d'allora.  Poi, d'un tratto, per merito di alcuni discorsi estremamente duri e decisi che per altro non avevo affatto compreso, il mio amico sembrava aver ricondotto tutto quanto ad una ragione accettabile, e le due ragazze, lasciandomi estremamente perplesso, sembravano prese all'improvviso da una specie di timidezza, di indecisione, e quasi come se si rassegnassero a qualcosa, ad un destino forse.

A me oramai pareva che tutto volgesse verso una soluzione felice o qualcosa del genere, ma all'improvviso il mio amico, ri­volgendosi a me e parlando finalmente una lingua decisamente più chiara, faceva presente che adesso si presentava la necessità indiscutibi­le, secondo usanze a me ancora più oscure di tutto il resto, di dar seguito ad una specie di rito, qualcosa che aveva a che fare, non so in quale maniera e per quale ragione, con l'intera vicenda, sia per il suo svolgimento che per i suoi risultati.

In breve, usando dei particolari cordini dai colori diversi e sgargianti, dovevamo stringere il collo delle due povere donne fino al punto in cui saremmo stati sicuri dell'avvenuto strango­lamento. Non ebbi commenti da fare, mi ritrovai lo spago tra le mani e lo girai senza perplessità attorno al collo della ragazza che era accanto a me. Non pensavo a quello che facevo, e lei non si opponeva, come fosse rassegnata al suo destino. Allora guardai meglio quella donna; ne notai i lunghi capelli biondi, i particolari armoniosi del viso, la profondità e la tristezza degli occhi.  Capii in un attimo che era bellissima, ed io ero affascinato dalla sua indole decisa, da quella fierezza, quello sguardo fermo e sicuro.

La guardavo, e mi sforzavo con lo sguardo di comunicarle qualcosa. Forse avrei voluto dirle che non era mia la volon­tà che determinava quella situazione. Non era mia la colpa di ciò che stava succedendo. Anzi, io avrei voluto aiutarla, senza alcun dubbio, ma mi era impossibile. E mentre pensavo tutto questo sistemavo quello spago sul suo collo e lo facevo con lentezza, con scarsa convinzione, aumentando così, senza volerlo, tutta quella sua sofferenza.

Mi piaceva sfiorarle i capelli, sentire la sua pelle sot­to alle dita. Guardavo quel suo viso stupendo, perfetto, le guance morbide, gli occhi brillanti, ed in quel volto cercavo qua­si una briciola di comprensione. Poi, con i pugni serrati, iniziavo lentamente a tirare lo spa­go, stringendo con forza quella pelle stupenda alla base del col­lo. Continuavo a guardarla, e cercavo da lei un'espressione diversa, un cenno qualsiasi che dimostrasse un sentimento improvvi­so, una richiesta per me, per tentare con un piccolo dubbio di far vacillare la mia volontà. Mi sarei accontentato di un gesto, di un impercettibile segno. Un piccolo sguardo pietoso che chiedes­se al mio cuore la grazia; oppure un gesto qualunque che dimostras­se un coraggioso sostegno a quelle mie mani assassine, affinché magari facessero in fretta, che sistemassero tutto in un attimo.

                     Continuavo a guardarla con occhi sbarrati, e con forza tre­menda tiravo i due capi. Avrei forse voluto baciarla mentre il suo viso cambiava colore, avrei voluto parlarle, dimostrare i miei sentimenti, alleviare in qualche maniera quell'assurdo dolore. E invece stringevo con forza, quasi a staccarle la testa, rimanendo in silenzio, soffrendo con lei. La sua bellezza adesso sembrava svanire, la sua bocca era aperta, mostrava la lingua in maniera un po' oscena. E i suoi occhi erano fissi, arrossati, fuori dalle orbite quasi. Le sue mani toccavano i punti dove lo spago pareva penetrare, e la sua gola era gonfia, orribilmente stravolta con tutte le vene che ve­nivano fuori.

Neanche adesso, neanche in questo momento voleva guardarmi; continuava stupidamente ad accettare la sorte, e il suo corpo oramai stramazzante dimostrava ancora e per sempre indifferenza completa nei confronti dei miei gesti assassini, dei miei occhi cattivi, del mio fiato ansimante. Niente era intercorso tra noi, se non quello spago sottile, quell'assurdo strumento di morte dai colori sgargianti. Nella sua vita, sino alla fine, io non ero stato nessuno. Avevo perduto, di nuovo, ne avevo coscienza.

 

Questo ora il sogno che adesso, con occhi malati, rivedevo davanti, come se stessi osservando tutta quanta la scena a distan­za, quasi che quell'assassino fosse stato un altro individuo e non io. Probabilmente mi ero immedesimato in un'altra persona, avevo recitato una parte di cui avevo letto qualcosa, o che avevo sentito per caso. Senz'altro non ero io quel soggetto, bensì un personaggio inventato, un frutto della mia fantasia stimolata dal­la febbre, dalla mia mente confusa.  E poi quella storia, alla fine, pur sconvolgente e crudele, non era nient'altro che un so­gno, anche se molto realistico, un semplice sogno, magari proprio ingrandito e reso più vero da quel filo di febbre.  Adesso era l'ora di pensare a ben altro, dimenticare alla svelta quei miei stupidi affanni, scrollarmi di dosso la febbre, i pensieri, tut­ti i malesseri.

E mentre la vicina di casa era già di ritorno con certe pa­stiglie, scusandosi quasi perché il dottore era impegnato e non poteva venire, ecco che il sogno, con il suo seguito di riflessioni, era bell'e scomparso, cancellato come d'incanto da dentro alla mente. E davanti alla donna provavo d'improvviso vergogna di me e dei miei capelli in disordine, degli occhi senz'altro infossati, del sudore che sentivo sopra la fronte. Indosso portavo gli stessi ve­stiti da tre o quattro giorni, e adesso erano spor­chi, grinzosi, sciupati. Mi misi addosso la mia vecchia vestaglia e a seguito delle sue grandi insistenze seguivo la gentile vicina nel suo appartamento giusto per mangiare qualcosa.

Mi sentii subito meglio e seguendo i consigli della donna che pareva non finissero più, tornai in camera mia e mi adagiai sopra al letto prendendo sonno subito dopo.

 

Mi svegliai il giorno seguente, cioè ieri mattina, ed appena riavuta coscienza di me, della situazione in cui mi ero andato a infilare, e di tutta la storia della febbre e della vicina, mi resi subito conto che quel senso di pena per la mia condizione, quell'angoscia che mi aveva stremato e che fino al giorno passato era risultata vincente su qualsiasi mia volontà, adesso era come svanita, dispersa, semplicemente annullata dal mio sonno profondo. Addirittura sentivo la testa un po' vuota, leggera, come se dopo aver meditato lo stesso problema continuamente per giorni, il solo fatto di essermi tolto quel pensiero di mente adesso lasciasse il cervello in un ozio improvviso.

Tracciai col pensiero un programma di massima per quella gior­nata, e certo di riuscire a dar corso ai miei intenti, uscii con la voglia profonda di sgranchirmi le gambe, di godermi quel sole di maggio passeggiando tranquillo sulla riva del lago. In fretta mi spinsi in fondo al paese e poi, rallentando un po' il passo, continuai a costeggiare la riva, osservando le onde, la leggera foschia sopra l'acqua, il lieve grigiore dei monti lontani, le loro curve sinuose, quasi onde gigantesche essi stessi.

Gli steli d'erba dei prati a ridosso del lago tremolavano a tratti sotto alla brezza calda e invitante, e i ciuffi di canne, nati a gruppi dove l'acqua era bassa, continuavano a strofinarsi tra loro, con le foglie lunghe e pendenti, emettendo un fruscio sonnacchioso, come una musica triste, quasi un sospiro di pena che non trova mai pace e ritorna ogni attimo a farsi sentire, più forte o più piano, a volte appena un accenno, una malinconica idea, un veloce pensiero che sembra passato, dissolto, una volta finito quell'attimo, ma che invece ritorna, insinuante, sottile, quasi un destino che sorge di nuovo a indicare a ogni bivio la strada, proprio quella pesante, sassosa, terribilmente in salita, che a tutti i costi volevamo evitare.

                 Più avanti la presenza degli alberi in pieno rigoglio, coi rami colmi di foglie, si faceva più forte, e qualcuno di loro la­sciava che le onde del lago arrivassero fino a bagnare le proprie radici, e qualche volta arrivassero fino alla base del tronco, allungando la chioma al di sopra dell'acqua, specchiando le aeree appendici sulla superficie increspata. Sentivo, dentro di me, che una cupa tristezza stava facendosi strada per prendere il po­sto a quel vago benessere con cui ero partito da casa. Era come se l'angoscia pazzesca che mi aveva pervaso nei giorni passati, e che troppo in fretta si era dissolta, cercasse adesso di ripren­dere forza, di farsi sentire di nuovo, e che avesse mutato di for­ma adattandosi adesso alle condizioni diverse, ai miei nuovi pen­sieri.

                 Allontanando i miei passi dalle strade centrali, dalle case abitate, dall'intera cittadina che mi aveva fino adesso ospitato da più di due anni, sentivo l'indifferenza profonda e cattiva che a volte si nutre per i fatti che non ci riguardano. Niente mi le­gava a quel luogo, e d'altronde quel luogo non reclamava niente da me. Se fossi partito, così, all'improvviso, nessuno se ne sa­rebbe curato. Bastava un semplice biglietto attaccato sopra alla porta, un minuto e stringato messaggio al portalettere, con sopra il mio nuovo in­dirizzo; una qualsiasi città, un paese lontano, forse poi neanche troppo distante, e sarebbe bastato così, senza spiegare a nessuno i miei affari, i miei conti, le mie voglie improvvise. Trasfe­rito a Vattelapesca, pensavo con la mente dei miei compaesani, forse per un nuovo lavoro, forse per stare vicino a una donna, quella bionda magari, che già alcune volte e' venuta a cercarlo, a rendergli visita.

Chissà se si deve sposare, se vuole metter su casa, diceva qualcuno, un altro azzardava di avere sempre pensato che aspettasse qualcosa, un momento preciso, forse un periodo più favorevole. In fondo una bra­va persona, silenziosa e tranquilla, sempre col passo un po’ len­to, i vestiti eleganti, lo sguardo rivolto laggiù, chissà dove, a frugare addentro a quel filo lontano di nuvole, subito sopra alla striscia di terra che sfuma, che confonde la mente coi colori dell’aria e del cielo. A volte forse ne ho avuto paura, avrebbe det­to senz'altro qualcuno, come si teme le cose che non si conosce, anche quelle che ci stanno vicine, che forse ci passano accanto, e che ciò nonostante ci rimangono estranee, non appaiono mai fami­liari, si tengono lontane da ogni nostro pensiero, come un mistero insolubile di cui preferiamo non conoscere nulla.

                 Poi quel gruppetto formato da poche persone curiose, avreb­be affrontato qualche altro argomento, il tempo magari, o i tu­risti scortesi e invadenti, e una donna avrebbe detto qualcosa di quella signora, quella che abita in fondo alla strada, sempre carina e cortese, che due o tre giorni avanti aveva dato alla luce un bambino, un bel maschio robusto uguale preciso a suo padre. Una battuta simpatica, qualche risata serena, e poi ognuno sarebbe tornato alle proprie faccende. Uno o due, allontanandosi, si sa­rebbero voltati all'insù, a guardare quella finestra ben chiusa, dall'interno deserto, ma non ci sarebbe stato bisogno di dire nient'altro, come un soggetto su cui si fosse esaurito qualsiasi argomento, un capitolo chiuso, una vicenda priva ormai di qualsiasi interesse, e nessuno da allora gli avrebbe più dato importanza.

                 Mi ero fermato, ad un tratto, origliando il naturale silenzio che mi accompagnava; e mi ero voltato, a guardare il paese lontano, la parte antica sopra la rupe, alle spalle del lago, le tante ville sparse d'intorno, tra gli alberi e i giardini circon­dati da siepi, e i piccoli moli sull'acqua, con le barche ondeggianti ancorate con cura. Il lago verdino mi lanciava un profon­do richiamo, e come se il senso di un benessere estremo e prezio­so fosse contenuto là dentro, sembrava invitarmi a provare, a cercare da solo la quiete raggiunta dagli alberi con le radici affon­date nell'acqua; soltanto pensare al tranquillo, perpetuo ondeg­giare dell'erba nata sul fondo fangoso, con gli steli affidati ai liquidi moti, lenti e continui, ridava ai miei sensi offusca­ti una freschezza perduta, sollevando di un poco la mente dall'an­goscia profonda e insistente che aveva ripreso il suo pieno potere.

                 Mi ero appoggiato ad un albero, e continuavo a guardare le onde. Con il corpo avvertivo la dura superficie del tronco, e con gli occhi fissavo quell'acqua suadente, leggera, cedevole. Non mi accorsi neppure che le mie scarpe si stavano bagnando men­tre lentamente mi scostavo dall'albero. Quel senso di fresco pro­fondo mi ridava a poco a poco la pace, e continuavo con intensa emozione e con grande fermezza ad addentrarmi nel lago, come inebriato dalla soluzione immediata per tutti i miei mali. Con i piedi avvertivo il fondo fangoso, le erbe invischianti, e in un attimo l'acqua era già all'altezza del petto. Le mie mani sembra­vano volersi salvare, galleggiando lontane dal corpo, ma le gambe avanzavano ormai risolute.

                     Mi detti una spinta in avanti, e subito persi il contatto col fondo. Immergendo la testa nel lago sentii all'improvviso il gusto sgra­devole dell'acqua che entra, che penetra, che avvolge le cose, la natura, la terra, che affonda le barche, che rompe le dighe, che spazza le coste con una furia insensata. Mi parve di diventare una vittima, burlato da uno stupido gioco, come se all'improvviso, perduta la mia volontà, fossi rimasto in balia di una forza più grande di me. Trascorsero lunghi momenti, sentivo i miei arti pesanti, ri­succhiati dalla forza dell'acqua, e il lago monotono che rimaneva impassibile, come se tutto lo strazio che portavo con me non avesse valore, non importasse di nulla a nessuno. Solo a un tratto ca­pii che ero ridicolo.

         Nuotando alla meglio con gli abiti fradici fortunatamente già estivi, raggiunsi la riva. Mi sedetti sul prato e aspettai per un po' che il sole asciugasse i vestiti e il mio corpo; quin­di, evitando di farmi vedere, tornai verso casa. Un gran mal di testa mi pulsava alle tempie , ma avevo voglia di vivere. Salii un attimo in casa, giusto il tempo per cambiare il mio abito, poi uscii di nuovo. Sedetti ad un tavolino all'aperto di un chiosco di bibite ed ordinai qualche cosa. Poi, casualmente, voltai gli occhi verso la strada e la vidi. Come fosse la cosa più normale del mondo continuai ad osser­varla quasi senza emozione, guardando il suo corpo, i suoi passi, le sue vesti attillate. L'accompagnai con lo sguardo finché non scomparve girando ad un angolo; poi, sorseggiando lentamente la bibita, restai ancora a lungo seduto, senza pensare più a nulla.

 

Oggi sono andato da lei. Lì, davanti alla porta, titubante, incosciente, trattenevo perfino il respiro. E ho bussato, ma leg­germente, sperando non rispondesse nessuno. Mi ha aperto lei, sicuramente sorpresa, o forse io speravo lo fosse, poi mi ha guardato. Ero io, quello del messaggio, volevo scusarmi, le ho detto. Ha risposto si accomodi, poi ha chiu­so la porta. Mi sono seduto e ho parlato. Ho detto dove abitavo, cosa facevo, del lago, della mia solitudine. Il suo viso, là alla finestra, come un lampo di luce dentro a questo grigiore. E quindi le altre cose confuse, senza alcun ordine. Mi guardava e sembrava sorridesse senza darlo a vedere. Ed io non riuscivo a seguire alcun filo, a dirle qualcosa che vales­se la pena. Lei voleva che dicessi qualcosa, ma io non riuscivo a capire che cosa. Così, a tratti, rimanevo in silenzio.

         Poi lei si è scusata mi ha offerto del vino o del liquore, non so. E' andata via un attimo, è tornata, mi ha detto qualcosa di gentile. Io ho guardato la casa, mobili, oggetti, tappezzeria. Lei appariva a suo agio, io no. Mi ha parlato delle sue vecchie abitudini, degli amici lasciati in città. Un posto magnifico questo, mi ha detto, il lago mi incanta, mi affascina, però mi sento un po' triste, un po’ sola. Mio marito vi aveva già abitato avanti che noi ci conoscessimo, ha aggiunto, così mi sono fatta convincere.

         E allora anch'io ho detto delle mie difficoltà ad essere ac­cettato in paese, e poi della calma perenne che regna e che a vol­te mi pesa, e dei turisti che invadono tutto con la stagione più buona, e altre cose del genere. Poi ho cambiato argomento, ero agitato, e ho ripescato la faccenda degli sguardi alla finestra, e l'importanza del momento, dell'attimo che fugge, e in fondo per questo, ho aggiunto, ho scrit­to quel biglietto, per sottolineare quanto io fossi rimasto colpito, e quanta importanza io dia a queste cose. Quella sua presenza, quella sua persona, quell'immagine di lei così importante. Tutto questo lo dicevo con voce accorata e monotona, come se avessi imparato a mente quelle frasi e non riuscissi a dimo­strarmi diverso. A tratti mi pareva di riferire una lezione a voce alta, davanti ad uno specchio, da solo, tra me e l'immagine riflessa. Al mio interno la tensione era altissima, ma in nessun caso, ne ero certo, potevo fare a meno di quella spiegazione. Poi sarei fuggito, pensavo, non avrei più avuto il coraggio di guardarla, ma adesso dovevo dire quelle cose, e francamente mi pareva anche più facile di quanto mi sarei mai aspettato.

 

Lei, mentre ancora parlavo del messaggio sotto alla finestra, si era seduta sul bracciolo della mia poltrona e sul suo viso si era disegnata una lieve sfumatura di sorriso. Con lentezza mi ha messo un dito sulle labbra, come a pregarmi di non parlare più; poi, guardandomi negli occhi, si e' avvicinata ancora verso di me, con un fare deciso, sorridendo senz'altro. Allora, in un interminabile momento, mi ha baciato su una guancia, sfiorando appena il mio viso con le sue labbra. Mi ha guarda­to ancora per un attimo, assumendo un'espressione indecifrabile, e poi, all'improvviso, mi ha pregato di andar via perché da un attimo all’altro poteva tornare il marito.

                 Ho barcollato leggermente tirandomi su in piedi.  Ero stordito, e non riuscivo a fare niente per riprendermi. Sono andato avanti assieme a lei verso la porta ed ho pensato che dovevo pur dire qualcosa, prendere una qualsiasi iniziativa. Allora ho fatto fin­ta di cercare qualche cosa in una tasca, poi mi sono girato in faccia a lei e l'ho guardata dritta in fondo agli occhi.

Lei, aprendomi la porta, ha sorriso nuovamente, e nuovamente mi ha sorpreso baciandomi all'improvviso sulla bocca, socchiuden­do gli occhi. Ho mormorato arrivederci e in un attimo mi sono trovato fuori, lungo la strada. Ero sconvolto; non avrei mai immaginato che tutto si sarebbe svolto in quel modo, e non riuscivo neppure a capire se ne ero contento oppure no. Allora sono andato diretto a casa mia e per tutto il giorno non ne sono più uscito.

 

 

 

 

 

Giorno 14 Maggio

 

Ieri ho ricevuto una lettera di Sinni; mi dice alcune cose alquanto sciocche. Sinceramente non ho voglia di risponderle. Dall'ufficio mi concedono ancora un altro mese per la cura di que­sta depressione, come dicono loro, dopo di che se non torno a la­vorare dovranno licenziarmi.

Un altro biglietto sotto alla finestra, stavolta firmato col mio nome. Non conosco ancora il suo, lei non me lo ha detto ed io non gliel'ho chiesto. Semplicemente la prego di affacciarsi alla finestra, mi basterebbe anche che rimanesse dietro ai vetri. Vorrei vederla insomma, anche solo per un attimo. Mi piacerebbe anche tornare a casa sua, almeno un'altra vol­ta, ma qualcosa mi trattiene. Mi sconvolge, mi intimidisce quella donna, ne ho quasi paura; però ne sono attratto. Domani, comunque, nel primo pomeriggio, ho deciso che passerò ancora davanti a quella finestra, più di una volta, senza mai smettere, prima di averla veduta.

 

 

 

 

 

Giorno 15 Maggio

 

L'ho veduta; sono felice.

 

 

 

 

 

Giorno 17 Maggio

 

 

Ci amiamo, ne sono certo. Ma in un modo che gli altri non potrebbero capire. E' proprio un qualcosa al di là di qualsiasi immaginazione. Trovo tutto in quella donna, tutto quello di cui ho bisogno. Il resto sono stupidaggini, morale corrente, nient'altro.

 

 

 

 

 

Giorno 20 Maggio

 

Oggi sono tornato a casa sua.  Lei mi aspettava, eravamo già d'accordo.

Sono entrato e l'ho baciata, con irruenza, senza pensare, trascinato dalla mia passione folle. Lei, con un cenno della mano mi ha chiesto di aspettare. Si e' guardata attorno e mi ha fatto capire di far piano, di non parlare, e poi, lentamente, qua­si in punta di piedi, mi ha introdotto in camera sua. Si è seduta sul letto e sorridendo si è tirata su la gonna, ma lentamente, guardandomi e continuando a sorridere. Poi si è spogliata, sempre lentamente, mostrandomi il suo corpo, ogni parte del suo corpo. E abbiamo fatto l'amore, meravigliosamente, senza dirci nulla, neanche una parola.  Avrei voluto interrompere la mia vita in quel momento, tanto ero felice.

 

 

 

 

 

 

Giorno 26 Maggio

 

E' solo la quarta volta che vado a casa sua, e tutto quanto in lei sembra diventata una abitudine qualunque. Spesso mantiene la sua espressione indecifrabile, e poi, all'improvviso, si conce­de con slancio a tutti i miei capricci. Facciamo l'amore in salotto, sopra al divano. Lei lascia la porta d'entrata semichiusa all'ora stabilita. Appena entro mi fa sedere ed usa delle cerimonie come se io fossi un estraneo. Se le chiedo qualcosa mi fa segno di non parlare, come per non rompere un incanto che anch'io d'altronde provo in qualche modo.

Poi sorride, mi passa accanto vicinissima, sfiorandomi con il suo corpo, con il suo profumo. E tira su la sua gonna, ed è già nuda sotto. Mi mostra tutto quanto, e sorridendo aspetta che io non riesca più a resistere e la prenda. Quando finiamo lei comincia a dire che sta per tornare suo marito, e poi che c'è qualcosa che non va, oppure deve uscire. Io sono quasi contento quando lei mi spinge ad andarmene da li, ma poi me ne dispiace, ripiombo nella mia perenne solitudine e sono triste, terribilmente.

 

 

 

 

 

Giorno 27 Maggio

 

Cerco di fare il sostenuto. Non la cerco, ma ho bisogno di lei, in tutti i modi.

 

 

 

 

 

Giorno 28 Maggio

 

Di nuovo.  Da capo, tutto quanto. E' una donna bellissima ed io sono come geloso anche dell'aria che la sfiora. Lei non mi fa neppure parlare. Non permette che le dica mai niente. Sorride e si mostra subito a me sempre nuda.

Non ho mai visto suo marito. In principio me lo immaginavo come una persona qualsiasi. Poi ho cominciato a figurarmelo come un tipo burbero, forse volgare, forse un po' violento. E lei è sicuramente soggiogata da questa figura cosi odiosa, ne ha quasi paura, sono sicuro.  Se penso a lei e a lui assieme mi sembra di impazzire. Mi pare impossibile che le sue mani possano sfiorarla, possano toccarla. Bisogna che mi svaghi, che pensi a qualcos'altro, non posso continuare a questo modo.

 

 

 

 

 

Giorno 30 Maggio

 

Oggi sono salito sul piccolo battello che fa il giro del lago. Non c'era molta gente, alcune coppie di giovani, qualche famiglia coi bambini, nessun altro. Volevo assaporare il sole, il lago, la giornata splendida, e non pensare a niente, solo svagarmi. La superficie dell'acqua era soltanto appena un po' incre­spata, ed il battello scivolava via tranquillo. Tutto era perfetto ed io riuscivo quasi ad esserne contento. Mi sono fermato per la colazione a un ristorante molto noto in questa zona, e tutto mi è parso delizioso. Poi, dopo una breve passeggiata, ho preso di nuovo posto sul battello ed ho riattraversato il lago, verso casa. All'attracco siamo scesi tutti ed al caffè del molo c'era lei.

Parlava, rideva, era a suo agio. Dei due uomini con lei si­curamente uno è suo marito, ma io non ho saputo capire quale fosse. Mi sono soffermato un attimo fingendo di consultare l'orario dei battelli e lei mi ha visto, sono sicuro. E ha continuato a ridere e a parlare come prima, come se nulla fosse diverso. Io sono rimasto ancora lì a guardarmi attorno come uno stupi­do, evitando di volgere lo sguardo verso il caffè. Poi sono ri­masto solo, disperatamente.

 

 

 

 

 

Giugno

 

Ho deciso di tornare a lavorare. Un paio di giorni fa mi sono presentato al capo ufficio e gli ho chiesto se potevo farlo. Lui mi ha detto di si; poi mi ha chiesto come andava la mia salute, e infine: si presenti lune­di, ha sentenziato. Perfetto, ho pensato, devo essere deciso in ciò che intendo fare.

 

 

 

 

 

Ancora Giugno

 

Impazzisco. Dieci giorni già passati senza vederla, senza cercar­la, forse per orgoglio, non lo so. Bisogna che le parli, che le chieda cosa pensa, cosa fa, se guarda fuori dalla sua finestra, se mi cerca sulla strada di sfuggita, oppure in altro modo. Non dovrei dir questo, ma ho bisogno di lei, anche così com'è, come si comporta. Sono innamorato dei suoi occhi, dei suoi modi, del suo corpo, del suo fare. Non importa nulla che si arrabbi o che mi cacci via. Bisogna che io vada da lei, non posso più aspettare.

Sogno di andare via da qui, con lei magari, a cercare qualche cosa che non sappiamo neanche noi, ma che ci manca, di cui soffriamo. Devo vederla, debbo spiegare a lei questi miei pensieri, questi miei sentimenti.

 

 

 

 

 

 

Giorno 14 Giugno

 

Un altro giorno ancora, di delirio, senza fare niente. Solo aspettare. Ed è impossibile così. Ho messo un biglietto alla sua finestra. E non è successo niente. Sono stato ad ascoltare ogni possibile rumore, ogni passo, ogni più assurdo movimento di qualcosa, di persone, di oggetti, del tempo che va via, che sfugge, senza sosta. Niente, solo niente. Andrò da lei domani. A tutti i costi. Devo farlo.

 

 

 

 

 

Giorno 15 Giugno

 

Sulla porta mi sono soffermato un attimo a pensare, come trafitto da un pensiero indecifrabile. Mi sono voltato ad osservare la mia camera, il mio letto, la mobilia, forse a cercare con lo sguardo qualche cosa che stavo dimenticandomi di prendere con me.

Poi mi è sembrato che tutto fosse così uguale, così identico, sempre allo stesso modo.  La mobilia così disposta, gli oggetti piccoli appoggiati nei medesimi scomparti e sugli stessi piani d'appoggio di sempre. In giro, anche guardando attentamente, non c’era niente che potevo scoprire come nuovo, o come diverso. Era tutto identico, fin da quando ero venuto ad abitare in questa casa. Non avevo mai spostato niente, non avevo cambiato nulla, e questo era terribile, me ne rendevo conto all'improvviso. E solo all'improvviso un senso profondo di monotonia infelice sembrava che là dentro aleggiasse dappertutto. Quel luogo non mi apparte­neva, ed io non ne facevo parte.

Ma adesso sarei andato da lei, pensavo, e le avrei spiegato tutto quanto, la mia decisione di cambiare, di andar via, di can­cellare dalla memoria questi luoghi. forse ci sarebbe voluto un po' di tempo, forse sarebbe stata necessaria un poco più di calma, di tranquillità, me ne rendevo conto.  Ma lei avrebbe capito tutto, pensavo ancora, e mi avrebbe aiutato in ogni modo. E saremmo an­dati via assieme, lontano, questa era la cosa più importante. O forse mi avrebbe raggiunto in un secondo tempo, anche questa poteva essere una buona soluzione.

Poi ho chiuso la porta e ho sceso le scale. Ho fatto il gi­ro attorno all'isolato e sono arrivato davanti al suo portone, mi sono guardato attorno, come sempre, per vedere se qualcuno mi stesse osservando. Poi ho suonato il campanello. Se non fosse stata sola le avrei chiesto un appuntamento e sarei andato via, altrimenti avrei potuto anche parlarle subito. Sarei stato gentile, dolce, le avrei spiegato tutto: la sua importanza per me, le idee che andavo maturando, tutto quanto. Partendo dall’inizio le avrei parlato anche di me, della mia infanzia, forse di mia madre, della mia vita, le avrei raccontato tutta la mia storia. Le avrei detto qualcosa su questo mio carattere, la mia indole, i miei gusti. Le avrei spiegato le mie difficoltà, i miei proble­mi, la ragione per la quale sono capitato in questo posto, insomma tutto ciò che è più importante.

E le avrei chiesto di sé, della sua vita, di quel suo strano matrimonio. E poi del suo passato, dei suoi giorni più importanti, e le sue voglie, i suoi bisogni, tutte quante le sue aspirazioni. Lei avrebbe sorriso delle mie domande così disordinate, ma comprendendo la mia gioia, la mia emozione forte. Forse mi avreb­be baciato sopra la punta del naso, come a dirmi sciocco, non preoccuparti più di nulla; sono qui, tutto è risolto, sarà bellissimo. ­Forse, pensavo, mi avrebbe accarezzato a lungo, facendo così svanire tutta la tensione. Mi avrebbe detto che ero ben vestito, che le piacevano i miei gusti. Magari avrebbe aggiunto che pen­sava spesso a me, ai miei modi, al mio sorriso.

Poi ci saremmo guardati a lungo in fondo agli occhi e avrem­mo confessato il nostro amore, solo così, senza parlare. Ci sa­remmo strinti forte allora, e poi l'avrei baciata. Il senso for­te di un amore profondo che passa da uno spirito ad un altro, che si trasmette, che si comunica al di sopra e al di là di quei mezzi. E che fa tremare forte, come l'ultima emozione che val la pena vivere. Questo ciò che avremmo provato.

Non era in casa, non c'era nessuno. Ho suonato il campanel­lo più di una volta, poi lentamente sono ritornato sulla strada. Sono risalito in casa mia mentre pareva che attorno a me tutto stesse per sgretolarsi. Poi mi sono seduto alla mia scrivania per scriverle un biglietto, forse una lettera, non so. Mi tremava un po' la mano mentre cercavo le parole giuste, provavo un'angoscia che non riuscivo a decifrare. Alcune volte avevo già stracciato il foglio appena scribacchiato, senza riusci­re a dire quello che volevo. Allora ho guardato nella scrivania, per vedere se c'erano altri fogli.

Aprendo con un certo impeto dal fondo del cassetto è ro­tolato fuori all'improvviso il mio coltello, nascosto lì chissà da quanto tempo, con la lama ben chiusa nel suo manico. L'ho osservato per un attimo, come una presenza di cui non ricordassi il senso, e poi l'ho preso. L'ho soppesato tra le mani, l'ho aperto e guardato attentamente. Poi, con calma, l'ho richiuso e me lo sono infilato dentro una tasca.

Nel foglio avevo scritto che volevo soltanto salutarla, solo guardarla un momento. Con quello sguardo per me sarebbe stato co­me sfiorarla leggermente, darle un dolce bacio, una tenera carez­za. Era tutto quanto ciò di cui avevo bisogno. Solo con quell'attimo avrei fissato dentro me tutta la forza che mi era necessaria. Avrei sentito volar via la solitudine, avrei avuto coscienza delle mia capacità. Fiducia, ecco ciò di cui avevo un bisogno disperato, e lei poteva darmene o negarmela con un semplice gesto di una mano. Pensavo che leggendo queste cose avrebbe sorriso con dolcezza. Avrebbe ripensato alla nostra conoscenza, alla finestra che aveva permesso di incontrarci. E si sarebbe resa conto di quanto sentimento c'è in queste cose semplici, immediate.

Sono uscito di nuovo e ho passeggiato senza fretta attorno all'isolato. Poi da lontano ho visto che rientrava a casa. Era sola e mi ha notato; si è soffermata un attimo come salutandomi, poi, entrando nel portone, ha guardato ancora verso me. Ho aggirato la casa, con calma, e poi ho deciso che era il momento. Nell'andito faceva fresco e permaneva una penombra sonnac­chiosa. La porta era socchiusa e cosi senza chiedermi nient'al­tro sono entrato. Lei era in piedi accanto al muro e mi aspettava. Ho richiuso la porta alle mie spalle, ed allora le ho detto con un soffio che sarei rimasto là soltanto un attimo. Poi, con­vulsamente, mi sono guardato attorno. Mi pareva di notare un cambiamento, ma in nessun modo mi riusciva di capire cosa fosse. Forse tutto stava nella sua strana espressione. O forse nell'ar­redamento della stanza.

Allora l'ho baciata, sul collo, sulle guance. Lei rimaneva ferma e mi guardava fisso, con quel suo viso strano, gli occhi immobili, appuntati su di me. Con il polso, facendo una piccola pressione, ho avvertito dentro alla mia tasca lo spessore del coltello ripiegato, e mi sono subito sentito più sicuro, più tranquillo. Ho messo le mani sopra alle sue spalle, e lei ha lasciato fare, come fosse indifferente a tutto. Poi le ho girato le dita attorno al collo e lei mi ha detto qualche cosa, ma in maniera strana, incomprensibile. Ed io non ho capito, o forse non mi sono neppure preoccupato di capire.

Ho stretto bene le mie mani ed ho guardato la sua espressio­ne che pian piano andava trasformandosi. Si è divincolata, mi ha colpito con i pugni e con i piedi, poi si e' gettata all'indie­tro sul divano. In un attimo le sono andato sopra, su di lei, e ho ripreso con più forza e con più impeto a stringerle la gola. Poi, dopo alcuni ultimi convulsi movimenti, è rimasta immo­bile del tutto. Allora le ho messo la mia guancia sopra la sua ed ho ascoltato l'ultimo calore del suo corpo. Avrei voluto piangere, ma non sapevo bene se per farlo avessi una ragione. Avrei voluto possederla, ma non l'ho fatto. Mi sono guardato attorno, ho gi­rato un po' dentro alla stanza, poi sono uscito dalla casa, lentamente, senza richiudere la porta. Una grande tristezza mi è penetrata dentro, e sapevo che oramai non ne sarebbe uscita più.

                 Tutto adesso era fermo. Lentamente sono salito in casa e ho preso i soldi, i documenti, tutto ciò che mi serviva. Poi ho atteso con calma la corriera. Ho preso posto e mi sono rilassato guardando il panorama dal finestrino. Quando sono arrivato in città mi é sem­brato di essere un altro. La stazione ferroviaria brulicava di persone e le biglietterie ­parevano prese d'assalto. Ho comperato il biglietto e sono andato al mio binario. Poi sono salito sul vagone passeggeri. Abbiamo fischiato forte e a lungo, e alla fine ci siamo mossi.

       Ho dormito molto con le città e le campagne che volavano laggiù. La mattina seguente abbiamo passato la frontiera. Poi, quando il treno finalmente è arrivato, mi sono sentito stanchissimo. L'albergo mi era estraneo, ma il letto risultava conforte­vole. Con le lingue straniere non sono mai andato troppo bene, ma il mio scarso vocabolario era sufficiente per le mie necessità.

 

Oggi ho girato in lungo e in largo la città. Mi sono perduto varie volte, poi, sfinito, sono rientrato nel mio albergo. C'è una piazzetta vicino ad un museo. E li, poco distante, c'è la fermata della metropolitana. Mi piace stare in quella piazza. Rimango li seduto su di una panchina, senza fare niente. Credo che ci tornerò, più di una volta, forse.

Ogni luogo dove vado mi risulta estraneo. E non mi sento interessato a nulla. A volte mi pare di essere inseguito, ma è evidente che è una sensazione, nient’altro. A volte mi muovo in fretta. Non capisco perché, cosa io vo­glia raggiungere. La sensazione è che qualcosa stia sfuggendomi. Quando poi rifletto sorrido e subito mi calmo.

Stasera sono andato in un locale molto bello. C'era molta gente, mi sono seduto ad un enorme tavolo con altri ed ho ordinato una birra. Quando sono andato via nessuno se n’è accorto.

Mi perdo in questa enorme città. Non penso a nulla, non cerco nessuno né nessun luogo in particolare. Vado in giro e svogliatamente osservo tutto.

Sono tornato nella piazzetta del museo. Devo dire che fuori da ogni dubbio è molto bella ed io mi sento bene a star seduto li. Guar­do la gente, il movimento normale di persone.  Con me porto sempre il mio diario, e qui seduto riesco ancora a scrivere qualcosa.

Sono andato ad un enorme mercato all'aperto. Prima l'ho vi­sitato tutto e poi sono entrato in qualche negozio vicino. Mi sono comperato scarpe, camicie, una giacca e dei calzoni.  Poi sono tornato indietro.

Ho voglia di perdermi, perdere me stesso, trasfigurarmi in un’altra persona. E a volte col pensiero ci riesco. Qualcuno ogni tanto mi concede uno sguardo di sfuggita. Nessuno mi conosce e questa è la cosa più importante.

Quando mi persi nei sotterranei della Chiesa di S. Dominique non avevo la più pallida idea di ciò che mi sarebbe accaduto. E quindi avevo una paura folle. Era pomeriggio, e quando uscii di nuovo all'aria aperta era già sera.

Vagai per delle strade sconosciute. Era un quartiere estre­mamente malfamato quello dove mi trovavo, e gli ubriachi e le put­tane si gettavano continuamente addosso a me parlando incompren­sibilmente. Ed io avevo il mio bel daffare a tenere tutti quanti lontani dai miei genitori che adesso erano con me.

Mia madre con se aveva una borsetta e sembrava che tutti vo­lessero strappargliela di dosso. Mio padre era impaurito e non riusciva a fare niente, neanche a parlare. Ed io facevo finta di conoscere la zona, e andavo avanti dicendo a voce alta le strade da percorrere. A volte urlavo, contro qualcosa, contro qualcuno, non saprei dirlo. Cercavo di trasmettere fiducia anche se ciò era impossibile.

                 A volte poi cadevo a terra. Mi rialzavo, ma mi sentivo spor­co, sempre più sporco. Forse pioveva, e il fango della strada ormai imbrattava i miei vestiti.

Persi i miei genitori, non so bene di preciso quando accadde, e poi mi ritrovai alla porta del convegno. Bussai con tutte le mie forze e mi fecero entrare. Eravamo molti e ci fecero sce­gliere dei libri. C'era anche il mio diario sopra allo scaffale, ma io scelsi un’altra cosa, un libro di racconti, credo, ma di cui non conoscevo niente, neanche l'autore.

Mi persi a parlare di me con tutti quanti, poi mi ritrovai da solo, di notte. Così rientrai in albergo.

Sono stato tutto il giorno nella piazzetta del museo. Mi sono anche addormentato sopra una panchina credo, e sono stato male solo quando sono andato via.

Un tempo lo sfogliavo spesso questo mio diario. Adesso non lo faccio più. Lo porto sempre con me, ma come un qualsiasi oggetto e basta. Forse dovrei disfarmene.

 

Sono tornato nella piazzetta del museo e ci sono stato tanto tempo.

 

Son qui di nuovo, in questa piazzetta tanto bella.  Stasera lascio qui questo diario.

 

Non so più neanche cosa c'è scritto in tutte queste pagine. Forse la mia vita, perciò sono contento se lo getteranno via, in mezzo ai rifiuti.

 

Mi sono perso e forse non c'è proprio più niente che valga la pena di essere fatto. Non vale più niente la mia vita, o que­sto mio diario.

 

Lo lascio qui, sopra questa panchina, in questa piazzetta tanto dolce. E indietro non ritornerò per riprenderlo.

 

 

Bruno Magnolfi